De Chirico, trilogia I – 5. Classicismo mediterraneo, con archeologi e gladiatori

di Romano Maria Levante

“Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, di Fabio Benzi continua a dipanarsi come un “Film” che ricostruisce una vicenda artistica e umana appassionante, dando sempre una risposta precisa ai mille interrogativi che pongono espressioni pittoriche quanto mai geniali e sorprendenti nella loro singolarità. Nelle 4 puntate precedenti della nostra “fiction” quanto mai vera e reale, la vita  è stata movimentata, nei trasferimenti dalla Grecia a Monaco, da Milano  a Parigi, da Roma a Torino e Firenze, poi di nuovo a Parigi; l’arte,  dalla Metafisica in evoluzione con la variante “ferrarese”, al classicismo, poi al “romanticismo” delle ville romane e al surrealismo, fino alla rottura con Breton, passato dall’esaltazione ammirata alla più spudorata denigrazione basata su falsità. La risposta di de Chirico nella vita è stata evocata, ora quella nell’arte, e il seguito è ancora una volta imprevedibile.

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“Le consolateur” , 1929

La risposta a Breton, l’arroccamento nel Museo in chiave moderna

De Chirico, ferito nella propria dignità di uomo e di artista dalla gratuita diffamazione di Breton – che lo ha accusato di spacciare copie di opere della prima Metafisica anche retrodatate, dopo aver esaltato la sua arte e averlo accolto nel Surrealismo – reagisce nella vita, e lo abbiamo ricordato, ma anche nell’espressione e collocazione artistica. Si arrocca nel “Museo”, la cittadella sempre più sottoposta agli assalti dei suoi precedenti alleati surrealisti nella loro furia iconoclasta contro la tradizione; che invece ha alimentato non solo l’arte ma anche la vita di de Chirico con la sua nascita nella Grecia delle antichità classiche, nel Museo raccolte e custodite. E si sono impresse nella sua psiche risultando in lui la matrice che nei surrealisti invece è la loro negazione, il loro rifiuto; ed esprimendosi nella sua arte, anche nella forma metafisica imbevuta di retaggi classicisti, poi portati sempre più alla luce.

La sua ispirazione alla base della Metafisica, oltre ai ricordati Nietzsche e Apollinaire con Guillaume, nasceva dalle opere di Salomon Reinach sulla religione, la storia antica e soprattutto l’archeologia, cosa sfuggita all’ “incomprensibile ignoranza dei surrealisti” che invece volevano farne piazza pulita all’insegna dell’automatismo onirico senza radici, tanto meno nel passato; e non capivano – osserva Benzi –  “il vero senso della pittura dechirichiana, anche quella metafisica che essi stessi esaltavano”. Per cui la risposta è stata “la calcolata enfatizzazione di de Chirico di un’antichità archeologica attualizzata, peraltro in perfetta sintonia con gli spiriti classicisti che percorrevano l’intera Europa negli anni venti”, come rilevato da JeamCocteau che ha saputo cogliere con lucidità il rapporto tra la Metafisica, l’antichità greca e il Rinascimento italiano. Non tutti i surrealisti seguirono Breton nei suoi attacchi, molti lo lasciarono beccandosi insulti come quelli da lui scagliati su de Chirico; altri come Duchamp, Picabia ed Ernst mantennero i rapporti con il pittore metafisico, i suoi mercanti Rosemberg e Guillaume li rafforzarono, e così Paulhaun e Cocteau.  

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“La famille du peintre”, 1926

Dopo le feroci quanto penose diatribe di Breton basate sulla voluta falsificazione della realtà da parte del mercante surrealista e non sulla presunta quanto inesistente duplicazione in falsi d’artista da parte di de Chirico, semmai da parte dello stesso Breton, ci si eleva nei cieli non solo del Mediterraneo, ma della storia umana, della civiltà antica e della cultura classica,  sempre l’alimento e l’ispirazione del grande artista greco, divenuto cosmopolita e approdato in Italia da preclaro cittadino.

In questa visione superiore, proprio Cocteau “colloca nitidamente de Chirico sul palcoscenico parigino – sono parole dell’autore – come l’alter ego, a lui complementare, di Picasso: i due giganti solitari del secolo”, le cui espressioni artistiche pur molto diverse avevano radici comuni, e da questa implicita intesa di fondo nasceva una reciproca, profonda considerazione. Ma prendiamo, fior da fiore, alcune espressioni di Cocteau su questo parallelismo: “De Chirico è un pittore del mistero. Picasso è un pittore misterioso… L’opera di Picasso appare travestita e mascherata e come tale intrigante e misteriosa. De Chirico è invece pittore di misteri. Egli sostituisce alla rappresentazione dei miracoli con cui i primitivi riescono a stupirci, i miracoli che vengono da lui solo”. Con questa diversità: “Le collere di Picasso contro la pittura innalzano autentiche crocifissioni. Opere terribili, fatte di chiodi, di lenzuoli, di strappi, di lego, di sangue. De Chirico non monta mai in collera. La calma della sua opera è quella degli arcieri che nelle tele dei primitivi, assistono al supplizio e guardano fuori del quadro”. E così via, con riferimento, per de Chirico,  non solo alla pittura metafisica ma anche, e forse di più,  ai temi  recenti.

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L’enfant prodigue” 1926

Anche de Chirico valorizzava la propria arte come moderna scrivendo: “Non c’è in Italia alcun movimento d’arte moderna…. La pittura italiana moderna non esiste. Ci siamo Modigliani e io, ma noi siamo quasi francesi. Io amo le cose più avanzate e più nuove”. E questo vale non solo per i contenuti, ma anche per la tecnica pittorica, che dopo la lentezza del ritorno alla “tempera” classica, si è velocizzata con nuovi materiali al punto che il mercante Rosenberg, dinanzi a quadri basati “su tinte piatte e non lavorate” – quelle dei pittori francesi di allora – lo sollecitava “a terminarli il più possibile, poiché piace ormai ovunque la pittura molto rifinita”.

Ma lui stesso, nel “Piccolo trattato di tecnica pittorica” del 1928,  considera superato il ritorno alla pittura “all’antica” del 1919-22 – dopo l’abiura alla metafisica per la classicità – e scrive: “Il sospirare eternamente davanti alle perfezioni degli antichi non mi sembra cosa degna di un pittore moderno. Ebbi anch’io il mio periodo antico e me ne vanto… ma però non ho mai dimenticato che anche la nostra epoca ha in arte le sue perfezioni, i suoi tours de force, per nulla inferiori a quelli degli Antichi”. E’ sua  la maiuscola di Antichi con cui conclude, ecco cosa aveva premesso: “Ogni epoca ha il suo spirito, il suo genere, la sua atmosfera speciale in cui vive e respira, direi quasi la sua morale artistica”.

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“La maison aux volets verts” , 1926

Cocteau individua la fonte della continuità tra la prima Metafisica e il “richiamo all’ordine” del classicismo degli anni ‘20 in “una verità dell’anima che esclude ogni elemento pittoresco, assieme al retroterra in cui trova alimento”. E dopo un’appassionata rassegna delle tante immagini dei quadri dechirichiani conclude: “Talvolta l’unione di prospettiva italiana e  e di miracolo greco mi ha parlato, in de Chirico, quando ormai niente mi parlava più”.  E Duchamp porta la sua continuità almeno fino al 1926, con l’arroccamento nel Museo in funzione antisurrealista e il passaggio, che può sembrare  contraddittorio, a una pittura più moderna e imprevedibile, fino ad affermare: “I suoi ammiratori potrebbero non seguirlo e decidere che il de Chirico della seconda maniera abbia perso la fiamma della prima. Ma la posterità potrebbe avere qualcosa da dire”.

Mobili all’esterno, interni con alberi e case, più altri contenuti della svolta artistica

I contenuti della nuova svolta sono anch’essi spiegati, come sempre, da Benzi, anche quelli del tutto  incomprensibili ai più, come gli interni con piante ed edifici, i mobili all’aperto e altro ancora.    

“Meubles dans une vallée” si intitolano due quadri del 1927,  fuori dall’abitazione letto e poltrona,  specchio e comò, con ruderi e, in uno di essi, il cielo mediterraneo con le sue tipiche nuvolette orizzontali. La spiegazione: in parte retaggio dei ricordi d’infanzia, quando nei terremoti i mobili venivano portati nelle strade; ma soprattutto, in chiave attuale, “i mobili trascinati in strada dai traslochi creano uno spaesamento che li riveste ‘di una strana solitudine’, formano un’isola esotica che li rende come circondati da oceani ostili, personaggi che mostrano tra loro strane intimità, de Chirico li vede anche ‘in una piana della Grecia deserta e coperta di rovine’”. In “La nuit de Périclès”, del 1926, appaiono esposti in una grande apertura verso il buio con vaghi contorni di templi, non mobili ma grosse scatole disegnate.

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“Nus antiques” , 1926

Se i mobili escono dalle abitazioni, vi entrano altrettanto incomprensibilmente edifici, alberi e quant’altro, dopo che negli “interni metafisici” del 1924-25 c’era tutt’altro, oggetti, righe e squadre da disegno, “quadri nel quadro” pur essi improbabili ma non impossibili come avviene ora. La spiegazione di Benzi: “Non c’è dubbio che i templi nella stanza nascano  dai ricordi giovanili, dalla strana presenza classica del Palazzo Reale di Atene (ripreso in diverse opere) o dalle case neoclassiche elleniche, dalla straziante singolarità dell’ara di Pergamo chiusa nella sala eterna di un Museo berlinese”; visione che pone “il Museo, appunto, come raccoglitore di frammenti di vite passate, di culture poliformi, di ricordi infantili e di strane interiorità”. E’ il Museo in cui si è arroccato, come detto all’inizio, per attingere agli elementi vitali impressi in lui dall’infanzia dopo la tempesta-Breton. De Chirico, dopo aver premesso di essersi ispirato, nel creare gli interni, all’“atmosfera metafisica dell’arte greca”, e della natura, da cui nasce “questa familiarità tra gli dei e gli uomini”, aggiunge: “Questa intrusione, che ho tentato di suggerire, della natura all’interno delle abitazioni ricorda quest’alleanza conclusa tra gli dei e gli uomini che impregna tutta l’arte greca”.

Nel triennio 1926-28 vediamo 4 opere sorprendenti che sarebbero incomprensibili senza la chiave interpretativa anzidetta. In ordine cronologico, la “Maison aux volets verts” “ospita”, nelle due stanze collegate da una porta, non una ma due  case con finestre e tetti, dietro una di esse una rupe, dietro l’altra un albero alto come la casa, tutto in un interno; l’“Intérieur forestier (Equinoxe)” è occupato da un gruppo compatto di tronchi d’albero e da un velo di acque  con onde dalla schiuma bianca, e “Paysage dans une chambre” mostra un intero paesaggio nella stanza, un monte con il grande Palazzo Reale e altri edifici; chiude ”Temple et forét dans la chambre”, dalla casa al tempio, dall’albero alla foresta.

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Meubles dans une vallée”, 1927

Ma non è soltanto inanimato il nuovo mondo dechirichiano, anche se l’ “anima” si sente pure nelle immagini senza figure umane, perché nascono dalla spinta dei suoi sentimenti. Cocteau trova in questo mondo “il fascino imperturbabile delle civiltà che si mescolano. Un Buddha dal torso e dai riccioli greci. Le figure di Antinoe, volti romani che sanno tenere gli occhi spalancati sulla morte, come le figure egiziane e i tuffatori nel mare… figure tombali e dormienti ci affascinano nei musei anche quando la stanchezza arriva a fiaccarci… De Chirico, nato in Grecia, non ha più bisogno di dipingere Pegaso. Un cavallo davanti al mare, per via del colore, degli occhi, della bocca acquista l’importanza del mito”.

E’ una descrizione poetica delle opere tra il 1926 e il 1927, riconosciamo i volti e le figure di “Nos antiques” e “L’esprit de domination”, nudi  in interni con il “sigillo” archeologico appena accennato, dalle rotondità mediterranee con riflessi picassiani; con la “figura tombale” di “L’enfant prodigue”, la statua che nell’interno diventa persona a fianco di quella reale seduta. Ma lo spirito mediterraneo dell’artista ha bisogno di correre negli spazi aperti della sua marina. Ed ecco “il cavallo davanti al mare” evocato da Cocteau, anzi i cavalli, in coppia e scalpitanti, in “Chavaux sur une  plage” con un tempio in lontananza, e “Les reproches tardifs” in cui oltre al tempio lontano sul promontorio c’è la colonna spezzata vicina a terra, “La joie soudaine” con più mare e roccia e, del 1929, “Cheval et zebre”, dove non manca il rudere sul fondo e la colonna spezzata vicina.

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“Chevaux sur une plage”, 1927

Queste opere sono il frutto “di una scelta di classicismo ellenico contrapposto al surrealismo”, che ebbe successo, ed è così spiegata dal Maestro: “E io penso ancora all’enigma del cavallo nel senso del dio marino: io mi immaginavo una volta nell’oscurità di un tempio che si erge sulla riva del mare il destriero parlante e vaticinatore che il dio glauco diede al re di Argo”. La matrice classica, con presenze archeologiche è comprovata dai disegni di cavalli inseriti nel “Repertoire de la statuaire greque et romaine” pubblicato a Parigi nel 1909 da Reinach, l’archeologo, e non solo, di cui de Chirico conosceva molto bene le opere e ne traeva  ispirazione.

Gli archeologi e i gladiatori

In questo campo a lui molto caro, l’artista non si è limitato ai templi lontani e alle colonne a terra vicine, vediamo in coppia “Les archéologues”, sempre del 1927, e singolarmente “L’archeologo”, del 1928, in cui celebra questi protagonisti delle ricerche dei resti di antiche civiltà che portano alla luce, li raffigura come se avessero interiorizzato i tanti ruderi nel loro stesso corpo, in una incorporazione chiaramente simbolica.  Lui scrive che si ispirano a “certi personaggi delle sculture gotiche che ci sono nelle cattedrali e che quando sono seduti hanno l’aria molto maestosa perché hanno il corpo grande e le gambe piccole” e sembra non debbano mai alzarsi; i suoi “archeologi” li ha creati così “perché ciò conferisce una sorta di grandezza ai personaggi stessi”.

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“Les archéologues”, 1927

Benzi osserva che, in realtà, “i ‘manichini archeologi’ nascevano anche e soprattutto dalla temperie metafisica (dai manichini delle Muse inquietanti, ad esempio)” e, aggiungiamo noi, precisamente dai manichini seduti con solidi incorporati quali i già citati “Les Jeux terribiles” e “Le peintre” del 1925;  de Chirico si riferisce alle statue medioevali per dare più  rilievo classicista “rifondandone il significato di creature più umanizzate” con i ruderi della memoria che anche lui sentiva dentro di sé.  L’umanizzazione è massima nel più tardo “Le consolateur”, del 1929, in cui il manichino tiene per mano e appoggia la mano sulla spalla di quello alla sua sinistra, non hanno incorporati ruderi ma piccoli elementi ornamentali, il manichino triste addirittura uno spicchio di cielo azzurro con le nuvolette orizzontali, sarà il segno della nostalgia? Vi si identificherà de Chirico? Un precedente significativo in “Le poète triste consolé par sa muse”, antesignano nel 1925  del “Le consolateur”,  quello che viene consolato è accasciato sulla poltrona, il corpo interamente coperto da una tunica.

Dagli archeologi ai gladiatori cambia tutto. A nostro avviso spariscono totalmente i manichini sebbene fosse stato facile e quasi naturale l’adattamento, altro segno che  l’inquietudine del Maestro non lo faceva riposare sugli allori, era sempre alla ricerca dell’innovazione. Benzi, da parte sua, vi vede la “trasposizione del manichino ferrarese attualizzato nel profondo classicismo ‘tardo-antico’”, derivazione metafisica attestata, a suo dire, da riprese iconografiche datate; la derivazione non la discutiamo, solo ci sembrano molto lontani i manichini. E ci è difficile vedere in loro “l’espressione svuotata da ogni psicologia, che ne fa il perfetto parallelo del manichino metafisico, ma calato in una mediterraneità sempre più esplicita e impostata”, forse in questo c’è la differenza della nostra percezione, ci sembra prevalga la mediterraneità che anima i gladiatori. Le loro figure sono umane, non solo antropomorfe,   in folti gruppi con lance e scudi o singole, sempre nude, siamo nel 1927. E il disegno del 1927 con “Testa di gladiatore (Ritratto di Apollinaire)” citato dall’autore, se prova giustamente la derivazione metafisica, ci sembra possa contraddire il riferimento ai manichini con “l’espressione svuotata da ogni psicologia”, era tutt’altro “il grande e indimenticato amico”.    

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“Paysage dans une chambre”, 1927

Le figure in gruppo le vediamo in “Le triomphe”, 1928-29, la testa con criniera e le gambe di un cavallo scalpitante sembrano trascinare nel trionfo una quindicina di armigeri dalle chiome antiche. Le figure singole sono riprese nella lotta, come in “Fin de combat”  e “Léons et gladiateurs”, del 1927, composizioni altamente drammatiche; mentre “Combat”, del 1928, sembra un gruppo araldico, sebbene la figura in piedi e quella a cavallo lottino con i pugnali. Nello stesso anno i “Guerrieri”, immagine diversa da tutte le altre con tre figure centrali in evidenza ed altre due appiattite su di loro in modo inusitato, ma sempre molto “umane”, immerse nei pensieri.

E’ questa una manifestazione di “un’arte mentale, antimaterialista” – in un articolo di Waldemar George su de Chirico, al  quale riservò anche una monografia –  che “ne fa un idioma dello spirito” e vi scopre “il principio generatore di un ordine, di un tipo di civilizzazione che trasformerà il mondo”, cambiandolo dall’interno in quanto “capovolge trasfigura la sua anima”. Per concludere con un riconoscimento di valore straordinario: “Ecco perché credo fermamente che la rivoluzione realizzata da Giorgio de Chirico è più essenziale, più profonda, più attiva della spinta cubista”.

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“Fin de combat”, 1927

Gli “Italiens de Paris”, de Chirico non è più solo

Waldemar George  divenne il capofila degli “Italiens de Paris”, un gruppo di artisti vicino al “Movimento italiano” di Margherita Sarfatti, – tra cui Savinio e Giacometti, de Pisis e Campigli – i quali, guidati da Mario Tozzi, si strinsero intorno a de Chirico e Severini, sostenuti dal mercante Rosenberg, che fece decorare le singole stanze della sua nuova casa vicino al Trocadero affidandone ciascuna ad un artista della sua scuderia, Picabia e Metzinger, Léger ed Herbin, Severini e de Chirico il quale dipinse battaglie di Gladiatori.

Questi artisti italiani che vivevano a Parigi hanno un’identità nazionale e internazionale al contempo, e sono aperti ai linguaggi delle avanguardie, come il Cubismo, con il quale condividono l’avversione verso il pur italianissimo Futurismo; rispetto al  Surrealismo prendono le distanze considerandolo  “la rappresentazione dell’informe, ossia di quello che ancora non ha preso forma, è l’espressione dell’incosciente, ossia di quello che la coscienza non ha ancora organizzato”. Mentre il vero Surrealismo “è esattamente il contrario… perché non si contenta di rappresentare l’informe e di esprimere l’incosciente, ma vuole dar forma all’informe e coscienza all’incosciente”.

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“Lion et gladiateurs“, 1927

Sono parole di Savinio, che descrive così le forme di classicismo originario predilette dal gruppo italiano: “Non è ritorno a forme antecedenti, prestabilite e consacrate da un’epoca trascorsa, ma raggiungimento della forma più adatta alla realizzazione di un pensiero e di una volontà artistica”. Questa forma è la “mediterraneità” di cui parla George, intesa come “un sottile trait d’union tra lo spirito del Mediterraneo e lo spirito europeo tout court… questa arte segna la rivincita della tradizione latina e della sua straordinaria facoltà di astrazione”.

E definisce “reame in sconquasso” “lo stile giudeo romantico dei Soutine e il surrealismo” contro cui schiera idealmente “le legioni gallo romane, composte di elettissimi guerrieri”. Sarebbero i componenti  del gruppo degli “Italiens in Paris”, sempre più conosciuti all’estero, che si pone come alternativa ai surrealisti “giocando simultaneamente – osserva Benzi – le carte della classicità (tutta italiana) e della tradizione metafisica (il cui straordinario primato era peraltro riconosciuto dagli stessi  avversari)”.

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“Combat”, 1928

De Chirico nei suoi “retaggi classici” fa riferimento “a un’Ellade primigenia, i templi quasi sempre in rovina, le statue in frammenti. Non c’è più un luogo riconoscibile, se non quello che li raccoglie e individua tutti, cioè il Museo”, nel quale, come abbiamo visto all’inizio, si è arroccato. 

Ma la capitale francese è talmente aperta agli incontri che il più volte ricordato Rosenberg, “pubblicava (sulla sua bella rivista Bulletin de l’Effort Moderne, che portava lo stesso nome della galleria), esponeva  e vendeva senza preconcetti dipinti  cubisti, surrealisti e italiani classico- surreali”. Del resto queste correnti, se si possono chiamare così, “erano parti attive di un dibattito in fieri, allora considerato alla pari, dove però gli italiani svolgevano un ruolo che a molti sembrava vincente”. Intanto, dopo la rottura con Breton, proprio a Rosenberg, come si è già accennato,  de Chirico diede l’esclusiva di vendita delle proprie opere.

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“Guerrieri”, 1928

Fu una piccola rivincita, come il sostegno di una comunità artistica così qualificata quale quella degli “Italiens de Paris”,  a riparazione dei torti subiti. Come lo fu la pubblicazione nel 1928 di tre monografie su di lui, di Cocteau e George prima citati in Francia, e di Ternoverz in Italia; cui va aggiunta quella dell’anno precedente di Roger Vitrac, surrealista ma che si era staccato con Araud dal movimento che tanto male aveva fatto a de Chirico.

Gli anni ’20 terminano così in bellezza, con gli anni ’30 “una nuova idea di classicismo moderno”, poi la “pittura della realtà” e  “un’arte teatrale”, “la metafisica del mondo nuovo”, i “presagi” e “il periodo della guerra”. Sono altrettanti capitoli del libro di Benzi, ne parleremo prossimamente, prima del gran finale con “la ripresa delle opere metafisiche” e   “il definitivo ritorno della pittura antica” con “il nuovo classicismo”, “la nuova stagione metafisica e l’eterno ritorno”.  Quando si ferma il pendolo metafisica-classicismo.

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“L’archeologo” , 1928

Info

Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, La nave di Teseo, maggio 2019, pp. 560; dal libro sono tratte le citazioni del testo. I successivi articoli sulle tre parti della trilogia usciranno in questo sito tutti nel mese di settembre 2019: i 2 articoli restanti sul libro di Benzi dopo l’attuale e quelli dei giorni 3, 5, 7, 9 – la I parte della trilogia – nei giorni 13, 15; i 3 articoli sulla mostra di Genova – la II parte della trilogia – il 18, 20, 22 ; i 3 articoli sulla mostra di Torino – la III parte della trilogia – il 25, 27, 29 settembre. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del primo articolo del 3 settembre. Sugli artisti citati nel testo, cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com, per Futuristi 7 marzo 2018, Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Modigliani e Soutine 22 febbraio, 5, 7 marzo 2014, Duchamp 16 gennaio 2014, Cubisti 16 maggio 2013; in cultura.inabruzzo.it, per Dada e Surrealisti 6, 7 febbraio 2010, Futuristi 30 aprile, 1° settembre, 2 dicembre 2009, Picasso 4 febbraio 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini delle opere di de Chirico riguardano il periodo considerato nel testo e sono riportate in ordine cronologico, a parte l’apertura; sono state riprese dal libro di Fabio Benzi, si ringraziano l’Autore con l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Le consolateur” 1929; seguono, “La famille du peintre” e “L’enfant prodigue” 1926; poi, “La maison aux volets verts” e “Nus antiques” 1926; quindi, “Meubles dans une vallée” e “Chevaux sur une plage” 1927; inoltre “Les archéologues” e “Paysage dans une chambre” 1927; ancora, “Fin de combat” e “Lion et gladiateurs” 1927; continua, “Combat” e “Guerrieri” ” 1928; infine, “L’archeologo” 1928 e, in chiusura, “Le triomphe” 1928-29.

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Le triomphe”, 1928-29

11 risposte su “De Chirico, trilogia I – 5. Classicismo mediterraneo, con archeologi e gladiatori”

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