Cagli, 3. Disegni e grafiche, sculture e ceramiche, arazzi e costumi, al Palazzo Cipolla

di Romano Maria Levante

Si conclude, dopo l’inquadramento critico e la galleria dei dipinti, la nostra narrazione della mostra “Corrado Cagli. Folgorazioni e mutazioni”,  aperta  dall’8 novembre 2019 al 6  gennaio 2010, un’esposizione  di 200 opere che agli 80 dipinti già commentati unisce 100 disegni e grafiche, sculture e ceramiche, arazzi, scenografie e costumi teatrali, espressioni  della sua arte poliedrica cui è dedicata questa rassegna finale. La Fondazione Terzo Pilastro Internazionale ha promosso la mostra, ideata dal suo presidente,  Emmanuele F. M. Emanuele,  l’organizzazione è di Poema S.p.A. con il supporto di Comediarting, è curata da Bruno Corà, insieme al catalogo della Silvana Editoriale, in collaborazione con l’Archivio Cagli.

Costume per Apollo”, 1969

In precedenza, nel ripercorrere le diverse fasi con le marcate  innovazioni stilistiche della pittura di Cagli  abbiamo  citato la sua continua presenza nel mondo artistico con partecipazione a concorsi e rassegne e un’intensa attività espositiva  in Italia e iniziative anche all’estero. Soprattutto negli anni ’50 e ’60  non solo quasi ogni anno ci sono state sue presenze in mostre personali e collettive, ma questo è avvenuto  spesso in gran parte dei mesi nei singoli anni, a Roma per lunghi periodi mostre annuali e ripetute nel corso dei mesi. Cagli era sempre presente, e questo è proseguito anche negli anni successivi, a Roma fino al 1999, poi un vuoto finalmente colmato con questa mostra. Che ha anche il merito di dare un’idea completa della sua arte perchè sono presenti i diversi generi artistici da lui coltivati, quale manifestazione, con l’arte pittorica, della sua multiforme versatilità espressiva che, come per Picasso e de Chirico, arriva fino al teatro.

Disegni e grafiche, dal mito alla cronaca

L’importanza che dava al disegno non riguarda soltanto il lato artistico, ma anche il contenuto, tanto che nell’ultima fase della vita ebbe a dire “disegnare vuol dire appunto capire e giudicare” e usò la grafica per le opere ispirate a quanto premeva in lui sul piano civile, sociale e umano. Detto questo, un aspetto delle opere grafiche che va rimarcato è la tecnica usata in alcune serie, il “disegno a olio su carta”: dopo aver appoggiato il foglio della composizione su un altro foglio preparato con olio,  impregnava  soltanto il tracciato che segnava con una punta o, negli ultimi disegni, premendo sul foglio per l’ombreggiatura. E’ una tecnica che ricorda il procedimento calcografico a cera e l’incisione, con cui ha in comune la circostanza che non poteva vedere il risultato fino a quando non rovesciava il foglio,  elemento significativo perchè “mette in evidenza l’esigenza di creare un distacco, quasi una ‘mediazione’ alla sua esuberante creatività”.

“Orfeo incanta le belve”, 1938

Sono parole di Antonella Renzitti  la quale approfondisce l’aspetto tecnico, anche in relazione ad opere  che vengono considerate –  come si è fatto in precedenza  – tra i dipinti ma utilizzano la carta tanto da essere definite “Carte”,  con delle  interessanti peculiarità.  Cita “Oregon” e “Scacciapensieri” del 1950, “Bagatto” e “Arlecchino come bagatto” del 1952 e 1956, realizzati “impregnando di colore delle strutture primarie e e imprimendole poi sulla carta intelata secondo una precisa volontà compositiva  fatta anche di sovrapposizioni di materia cromatica”. Esecuzione senza pennello nella pittura veramente anticipatrice.

Questa precisazione per evidenziare come la poliedricità e l’eclettismo di Cagli oltre che nella cifra stilistica sia presente anche nella parte prettamente tecnica e nei contenuti. In particolare, l’arte grafica è  stata da lui praticata largamente come congeniale alle sue esigenze creative di spirito libero, insofferente delle convenzioni, e attento osservatore della realtà. “Il disegno e la grafica infatti – osserva la Renzitti – gli hanno consentito  di  sperimentare liberamente modalità espressive inconsuete, soprattutto perché attraverso il disegno è riuscito a far emergere il lato più intimo della sua sensibilità artistica”; con le opere su carta “ha comunicato la sua partecipazione alle sofferenze e alle aspirazioni dell’umanità”.  Ma  non solo questo, la sua ricerca del mito nel senso classico che abbiamo visto emergere dai dipinti, la troviamo nei disegni della prima fase, soprattutto degli anni ’30, con dei ritorni anche quando seguiva impulsi provenienti dalla realtà.

Elogio della pazzia”, 1964

Lo vediamo in una serie di disegni  del periodo iniziale, 1932-33, per lo più su temi mitologici e dell’antichità,  come “La maga Circe” e  il trittico “Morte di Icaro”- “L’uomo in cielo”- “Il volo degli uccelli”, “Viaggio a Paestum” e “II ex tempore”, “Allegoria” e “L’uomo e il leone”, “Maratoneti” e Dannati”,   il segno è sottile, le figure sono ben delineate, è il primo approccio con il mito che per lui è una fonte primaria di ispirazione.

Ma già nel 1933, con “Penelope”,  il segno diventa più marcato, poi  dal 1934 subentra un tratteggio che crea chiaroscuri e figure abbozzate, in “Falconieri”  e ”Gladiatori”, seguiti negli anni successivi da “Il pittore e la modella” e “La chiromante” nel 1935, “Davide con la testa di Golia” , composizione con molte figure e ombreggiature, e Orfeo incanta le belve” nel 1938, preparatorio dell’affresco, non conservato,  creato per la rotonda della Biennale di Venezia secondo l’immagine che ne dà Ovidio, canto ammaliante ma triste destino, qui presentimento della guerra. Intanto Cagli lascia l’Italia per sfuggire alla persecuzione degli ebrei per la Francia, presto andrà negli Stati Uniti.  Nel 1939 abbiamo  “Pellegrino”, forse autobiografico, senza segno né tratteggio, un’ombreggiatura leggera sul rosa con un nudo seduto a terra e il diversissimo “La morte di maggio”, due figure umane contrapposte con una scritta leonardesca.   

Del 1940 su temi mitici due “Davide  e Golia”, nel primo il segno è sottile con ombreggiature, nel secondo  il tratteggio marcato dà a Davide un vigore michelangiolesco; vigore che, questa volta con il segno sottile, riscontriamo nei corpi chini dei  “Pellegrini” e “Neofiti”. E’ anche l’anno della serie “Allegorie”, né tratteggio né segno sottile, ma linea più marcata e nervosa: così in “Allegoria del trionfo” e “Allegoria della semina”, “Allegoria veneziana” e “Allegoria del pesce che vola”, “Allegoria del  massimo tronco” e “Allegoria della fontana sbagliata”, composizioni movimentate, nelle ultime tre ritroviamo il vigore michelangiolesco.  

“Capobanda” con “Gente a Partinico”, 1975

L’inquietudine pervade tre opere successive, “Manovre e memorie” 1941,   con tante  figure appena delineate per lo più a terra disperse su un paesaggio lunare,”Solo per cello” 1942,  dove il tratteggio crea un’immagine scomposta  da incubo,  anche in “Trinacria”  la figura è scomposta.  Nel 1944 l’incubo si materializza nella guerra  e Cagli, arruolatosi nell’esercito americano nel 1941, come abbiamo ricordato, partecipa da combattente allo sbarco in Normandia e poi alla battaglia delle Ardenne. Ce n’è  un’eco, forse ancora di tono autobiografico, in “L’attesa” , con una mamma ansiosa seduta alla finestra, mentre ritorna il soldato appoggiato a un bastone, e “Allegoria”  in cui è delineata nervosamente con segno sottile una lotta armata, una figura è a terra.

E’ allegorica perché ci sono armi da guerrieri antichi come simbolo della guerra cui ha partecipato.  Ma  nessun simbolo bensì cruda realtà nella serie “Buchenwald”, sul campo di sterminio da lui visitato come militare nel 1945 trovandosi nella vicina Lipsia al termine della campagna d’Europa. Ritrae nello stesso anno l’orrore dei cadaveri distesi a terra, con il primo piano del viso stravolto dalla morte o il campo lungo dei corpi con le membra contorte e scheletriti, anche ammucchiati, mentre incombono i reticolati e le torri di controllo delle sentinelle.

“Portella della Ginestra” con “Sulla pietra di Barbato”, 1975

Il contatto con le “sofferenze e le aspirazioni dell’umanità” di cui parla la Renzitti gli fa manifestare in queste visioni tragiche la straordinaria forza espressiva di un dramma sconvolgente.  La ritroviamo nella serie di 18 disegni a olio “La pietra di Barbato”, del 1967,  il masso di Portella delle Ginestre dal quale i sindacalisti  arringavano i lavoratori accorsi nel pianoro  per celebrare con le famiglie la festa del lavoro  del 1° maggio  1947 quando il fuoco della banda Giuliano uccise 11 persone,  tra cui 2 bambini, fu un eccidio. Nelle 4 grafiche esposte vediamo ritratti i giovani che sventolano bandiere, altri cadono a terra, si è voluta annientare la vitalità per cancellare anche la speranza;  le aspirazioni si erano tramutate in sofferenze soltanto due anni dopo la fine del conflitto quando si cercava di risorgere dalle rovine con il lavoro, e averne reso il clima con tale intensità  mostra come fosse ancora sentito quel tragico evento pur essendo  trascorsi venti anni; nel retro dei fogli trascrisse i versi di Danilo Dolci,  e di Li Causi, il primo fautore della “non violenza”, messaggio pacifista contro la violenza belluina della strage. Completano il quadro ambientale “Capobanda” e “Gente a Partinico”  il primo con le figure proterve dei banditi, il secondo con i siciliani costretti a subire i soprusi nella paura e nell’omertà.  

Del  1976  la sua partecipazione a un altro dramma collettivo, non dimenticato dopo un quarto di secolo, l’alluvione del Polesine del 1951, in una serie di grafiche, ne vediamo 6, fortemente tratteggiate e ombreggiate a differenza delle precedenti. E’ “La rotta del Po” , immagini eloquenti dell’acqua che esonda con violenza, trascina via gli animali, con le persone rifugiate sui tetti e le barche che portano aiuto.

“La rotta del Po”, animali travolti con persone sui tetti, 1976

Nello stesso 1976 vengono tradotte in serigrafia le grafiche ben diverse nella forma visiva e nel contenuto, create nel 1964, “Elogio della pazzia”,  sono esposte le 16   tavole originarie, disegnate su carta riso con inchiostri colorati, a differenza delle grafiche fin qui commentate. Si tratta della sua interpretazione del pensiero di Erasmo da Rotterdam, il filosofo olandese che era contro ogni forma di intolleranza e dogmatismo e faceva appello alla follia  come fonte di sapienza.  Così la Renzitti: “I meandri della ragione sono rappresentati da Cagli con spazi labirintici, alcuni particolari sono resi con segni concentrici o elementi grafici ripetitivi, gli spazi dell’inconscio sono rappresentati da strutture intrecciate o da poligoni irregolari sovrapposti, stratificati. In alcuni casi riconosciamo nell’intreccio segnico i cosiddetti ‘nidi di rose’”. Riconosciamo Mosè con le tavole della legge, dei cardinali con alle spalle il Crocifisso, e anche il Papa; oltre agli intrecci segnici ci sono tratti paralleli incurvati che ricordano le isobare e le linee di livello altimetrico. Del 1976 anche “Il mio segno”,  un giovane dall’espressione vivace cammina con appoggiato alla spalla destra un ramo cui è attaccato un pesce, un altro pesce lo tiene appeso alla sua mano sinistra, il titolo è eloquente, era nato il 23 febbraio sotto la costellazione dei Pesci.

E’ figurativo, come lo sono “Ungaretti”, 1969, omaggio al grande poeta a lui tanto vicino – lo aveva accompagnato al treno nel suo espatrio a fine 1938 – e “Cecilia” 1962: Invece “Capitano di ventura” 1961, è un volto riconoscibile, delineato da tratteggi più o meno fitti, come quelli, nello stesso anno,  di “Composizione” ; e “Diogene” , che risale al 1949,  è una sorta di intelaiatura grafica in cui si riconosce la vaga forma della persona con la lanterna. Infine in “Girasoli”  l’elegante intreccio di linee  dà un senso al titolo, come avviene in “Labirinto”,   linee di livello addensate  in modo inestricabile. Sono entrambi del 1967,  ma questo non indica una rarefazione finale, dato che sia pure nel tratteggio incrociato e non in questa stessa leggerezza l’abbiamo trovata compresente già nel 1961.

“La rotta del Po”, soccorritori con due barche, 1976

Sculture e ceramiche

Il primo riferimento va fatto a “Diogene” 1968 che ha colpito l’immaginazione dell’artista al punto da raffigurarlo in pittura, disegno e scultura sempre con la stessa forma espressiva, un intrico di linee che dai segni molto marcati su fondo giallo del dipinto diventano intelaiatura vuota nel disegno tradotta in un reticolo metallico nella scultura, ed è facile capire il perché di questo interesse, Cagli è andato alla ricerca dell’uomo  con la lanterna della sua arte; non si differenzia molto nell’apparenza  esteriore La gabbia” 1969, in un collegamento temporale che invita a una interpretazione congiunta. Nei due anni si sono avuti la contestazione giovanile e l’autunno caldo, con la rivendicazione di trovare e instaurare nuovi rapporti civili e sociali espressa nelle tumultuose proteste degli studenti e dei lavoratori, pur senza la pazienza della ricerca di Diogene; e questo rompendo la gabbia oppressiva delle convenzioni e dello sfruttamento.

Ma a parte questi contenuti, indubbiamente profondi, ci interessa la peculiarità di un tipo di scultura fatto di fili di ferro  incastellati in una architettura compositiva evidenziata nei disegni, non basata sull’elemento materico, ma su quello dimensionale. Nel senso che viene evocata la “quarta dimensione” nell’ambito della  “geometria proiettiva” di Donchian,  che abbiamo già ricordato in precedenza avendo dato l’avvio a un ciclo pittorico dal quale il passaggio alla scultura è stato naturale: il pittore, infatti, operando su un piano bidimensionale può aspirare solo alla terza dimensione, per la quarta occorre il rilievo della scultura  che occupa lo spazio tridimensionale, una scultura aerea senza il peso della materia di tipo tradizionale.

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Diogene”, 1968

L’artista , osserva Marco Tonelli, con i suoi reticoli di fili di ferro – a differenza di Picasso e Calder che li hanno utilizzati anche loro –  “non vuole realizzare sculture nello  spazio, ma vuole rappresentare lo spazio, il che è ben diverso”Ed ecco come questo viene spiegato: “Per Cagli  la scultura dunque non riguarda la materia, la tecnica, i materiali, ma la sostanza di cui si compone lo spazio  in senso matematico-geometrico, di ‘quarta dimensione’ cioè, e se non possiamo ancora parlare di forze, di certo si tratta di struttura interna allo spazio stesso”. Avrebbe anticipato la recente teoria quantistica dei “campi granulari”  composti di particelle elementari e “quanti di gravità” che, secondo il fisico Carlo Rovelli, “non vivono immersi nello spazio; formano essi stessi lo spazio. Meglio, la spazialità del mondo è la rete delle loro interazioni”.   

Il “Progetto del memoriale ‘la notte dei cristalli’” 1970, si basa su questi concetti, e abbiamo già ricordato in precedenza l’occasione in cui gli fu commissionato, la sua realizzazione e collocazione nel luogo fatidico a Gottinga: “Un elemento triangolare sviluppato  secondo una rigida progressione ascendente di calibratissime  proporzioni matematiche, culmine di un discorso sullo spazio iniziato ventiquattro anni prima  e sperimentato attraverso cicli di sculture filiformi, a nastro e a rilievo, che hanno avuto come contropartita disegnativa   iconografie cellulari e mutazioni modulari e cellulari”.

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“Pescatore”,1930

Ed è logico questo riferimento, avendo in mente che il Vasari diceva: “Scultura e pittura sono sorelle nate d’un padre  che è il disegno”,  mentre Tonelli ne precisa il significato  definendolo “una sorta di sostanza originaria, fondamentale e universale che preesiste all’architettura, alla pittura stessa e alla scultura: non un semplice abbozzo, schizzo o progetto, ma  qualcosa di ancor più originario. Il che  equivale a dire di conseguenza che la ricerca dello spazio  in Cagli non fosse solo questione di scultura, ma di un principio che è a livello di pensabilità e di attuazione della forma, di qualsiasi forma”.

Abbiamo visto le sculture filiformi nei reticoli dei già citati  “Diogene” e “La gabbia”; per le sculture a nastro, “A Ganesh” 1967 precede di tre anni il progetto del “memoriale”  appena descritto anticipandone  la forma piramidale e la forza ascensionale, data da strati di nastri sovrapposti;  laddove nel “memoriale” abbiamo  barre orizzontali che si incontrano in diverse nervature per comporre  un suggestivo poliedro a base triangolare evocativo e celebrativo del sacrificio di tante vittime nella tragica notte del 1938. Molto più indietro nel tempo “Cicute” 1955, una successione di simil bambù  di varia lunghezza uniti anch’essi con tendenza ascensionale.

Questa  coerente ed elaborata impostazione spaziale viene dopo la folgorazione americana delle “geometria proiettiva” di Donchian, mentre in precedenza e soprattutto nei primi anni le sue sculture sono figurative partendo dalla ceramica che è stata la sua iniziale attività formativa: entra nella fabbrica di ceramiche d’arte Rometti di Umbertide nel 1929 seguendo l’artista Dante Baldelli che aveva conosciuto nell’Accademia delle Belle Arti di Roma, e ne viene  nominato direttore artistico nel 1930. 

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Da sin., “Susanna” 1931 e “Il cielo” 1930, “Santone”1928-29 e “Icaro” 1929, nella parete i dipinti,  da sin. “Fiori” 1936, “La romana”  1934, “La tromba e il calice” 1935

Sono esposte le prime opere, “Santone” e “Icaro”  del 1929, veramente totemici nel “nero fratta” lucido che qualificherà la ceramica Rometti. Subito passa a uno stile da “Art Déco”, come in “La dea Venere” , dello stesso anno, un delicato profilo bidimensionale nero con delicati contorni gialli, cui si possono assimilare nella forma compositiva i due piatti del 1930,  “Mietitrice” e “Pescatore”. Molto diversi“I quattro venti” , nella quadripartizione in una retinatura ocra, e “Il cielo”, un triangolo evocativo al culmine di un cono; mentre “Serena” 1931 è una testa dall’espressione severa in cui si sente l’eco della statuaria classica. Deve lasciare la fabbrica e l’attività che vi svolge nel 1933 perchè non tollera certe sostanze della produzione ceramica, comunque è già impegnato nella pittura cui ora può dedicarsi totalmente.

Arazzi e teatro, con scenografie e costumi

Gli Arazzi ci consentono di passare dai  generi artistici finora considerati – disegno e grafica, scultura e ceramica,   oltre alla pittura di cui abbiamo parlato in precedenza – alla attività per il Teatro che è stata particolarmente intensa. Vediamo gli arazzi come tramite perché, pur se riferiti alla pittura e al disegno, con le loro dimensioni assumono una spettacolarità di tipo teatrale; preparò oltre 50 appositi cartoni pittorici per l’arazzeria Scassa, la quale li tradusse in arazzi anche di grandi dimensioni, fino a 6 metri per 3, come “Apollo e Dafne” con un impegno nella tessitura di 500 ore per metro quadro. La felice collaborazione tra l’artista e l’arazzeria ebbe inizio con 16 arazzi per il salone delle feste della turbonave “Leonardo da Vinci”.

In  “Enigma del gallo” 1962, e “La ruota della fortuna” 1969, vediamo fedelmente tradotti nel grande tessuto i due dipinti omonimi del 1958 e 1959, mentre in “Tripudio” 1973 riconosciamo gli intrecci cromatici dei dipinti “Demoni”  e “Minotauro” del 1966-67,  pur nella diversa disposizione compositiva, non più strisce ma forme geometriche quadrate o circolari come in “Chiocciole”.

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“Enigma del gallo”, 1962

Tancredi”  1977  richiama nell’ambientazione naturale e nella composizione il dipinto di vent’anni prima, “Apollo e Dafne”, cui dedicò un arazzo apposito di grandi dimensioni, e come nella leggenda ovidiana tradotta in uno dei pochi figurativi degli anni ’50, l’eroe cavalleresco è immerso nella natura, questa volta tra ombre e sagome misteriose; ma non c’è questo solo rimando, per l’opera lirica “Tancredi”  curò scene e costumi  nel 1952,  unendo elementi figurativi ed elementi  astratti  su uno sfondo pastorale.

Entrati così nel campo delle  scenografie e dei costumi per il Teatro dell’artista, premettiamo che si è definito “pittore per il teatro e non scenografo”,  riaffermando il legame stretto con la sua arte pittorica, e lo abbiamo appena visto negli arazzi; inoltre,  soprattutto per i balletti, il legame con la musica per la quale aveva una vera predilezione.

Così Rita Olivieri interpreta questo legame: “Fra la pittura e il teatro vi è, dunque, un rapporto di reciprocità, di intense stimolanti sollecitazioni e di problematiche, talvolta, comuni; in questa relazione vivissima di dare e avere, la scena non è mai un’opera da cavalletto ingigantita a fondale, né le strutture sceniche possono considerarsi sculture trasferite in palcoscenico; bensì entrambe, pittura e scultura si reinventano nei vari contesti sia mutuando la poetica passata, e già completamente esplicitata, sia anticipando modalità espressive  inedite, che andranno anch’esse a costituire il linguaggio dell’artista”.

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“La ruota della fortuna”, 1969

Si è visto per Picasso e de Chirico, lo vediamo ora per Cagli il quale compie, nelle parole di Crispolti, un percorso, che lo impegna e lo appassiona, “di sperimentazioni visive e di fenomenologia figurale”, nella ricerca dei materiali e delle formule espressive, figurative e anche astratte, in grado di rappresentare la sintesi di scena e azione, parola e musica, luce e costumi.

Inizia negli Stati Uniti nell’immediato dopoguerra, collaborando alla “Ballet Society” fondata nel 1946 da alcuni promotori tra cui  il coreografo Balanchine,  con cui entra in uno stretto rapporto, rafforzato dalla propria passione per la musica; al riguardo collabora anche con il “Ballet Russe de Montecarlo”, vediamo esposti due bozzetti del 1946-47, “Cover design” e “Grand jeté”.  Seguono, nel 1948, quelli dei costumi  per “Il trionfo di Bacco e Arianna”,  in  “Bacco”  e “Arianna”  gli abiti sono succinti per far risaltare le fronde che incorniciano le teste, mentre è  molto colorato il bozzetto del costume di “Re Mida”,  e per “I Satiri”   e “Sileno”   annotazioni al margine che confermano il suo interesse per l’intero spettacolo teatrale. Negli anni ’50 e ’60 l’impegno nel teatro continua. Ricordiamo, oltre al già citato “Tancredi” del 1952 al Maggio musicale fiorentino,  “Bacco e Arianna” del 1957 al Teatro dell’Opera di Roma, “Il misantropo” del 1959  al Teatro Olimpico di Vicenza,  “Macbeth”  del 1960 al Teatro alla Scala di Milano; per  questo sommo teatro  nel  1962  realizza i  bozzetti per “Semiramide”, non andata in scena, e nel 1965-66 per “Le miniere di zolfo”, regista John Huston dopo la regia di Luigi Squarzina nel “Macbeth”.

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“Tancredi”, 1977

L’anno successivo, il 1967, prepara i bozzetti per fondali, quinte e costumi di “Jeux”  al Teatro dell’Opera di Roma; poi, nel 1968, per “Estri” rappresentato al Teatro Caio Melisso di Spoleto, nella scenografia una struttura metallica con un gigantesco “P greco”, nei lavori  per il teatro a seconda dei periodi applica le proprie tecniche artistiche del momento, qui la “quarta dimensione”  di “Diogene” e “La gabbia”, nelle altre  le “Carte”, con le “impronte dirette e indirette” e le “metamorfosi”. Con il 1969  il balletto drammatico “Marsia”, nel quale con pastelli cerosi a olio interpreta nei bozzetti dei costumi  il mito ovidiano sulla sfida musicale del suonatore di flauto alla divinità e la sua vendetta, vediamo il bozzetto del “Costume per Apollo” e “per Marsia”“per le ninfe” e “per gli Sciiti”, spettacolari nel loro  intenso rilievo cromatico.

Il 1970 segna il ritorno al Maggio musicale fiorentino con “Persephone”, di cui vediamo esposti un bozzetto del “Costume per Persephone”  e uno su “Eumolpo e Persephone” con raffinati motivi floreali;  vi resta nel 1971 con “Fantasia indiana”, che viene replicata alla Staatsoper di Vienna  nel 1972,  sono esposti i “Costumi per lo sposo” e “per la sposa”, “per gli 8 uomini della tribù” e “per il capotribù”,   ben diversi da quelli citati  finora, sono geometrici e richiamano  i motivi di “Demoni” e “Minotauro”.

Lo ritroviamo a Firenze nel 1974 con “Agnese di Hoenstaufen”, regista Franco Enriquez, direttore Riccardo Muti  il quale apprezzava la sua costante presenza alle prove, “discutendone dopo e aprendo talvolta orizzonti  che potevano gettare nuova luce sull’ intero risultato artistico”; il “Costume per Agnese” , “per Enrico VI” e “per il duca di Borgogna”  sono a loro volta l’opposto dei precedenti, ma nella classicità vediamo i cerchietti di “Buglione” e Pale”.

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“Grand jeté”,1947

Nel 1975, scene e costumi per il “Filotette” al Teatro comunale dell’Aquila,  regia di Glauco Mauri, rappresentata l’8 marzo e replicata al Teatro Argentina di Roma il 2 aprile: citiamo per la prima volta i giorni perché tra le due date, il 28 marzo, muore all’improvviso nella sua casa a Roma. In quell’inizio di anno di intensa attività teatrale aveva progettato scene e costumi per  la “Missa brevis” di Igor Stravinski, che verrà portata sulla scena il 29 ottobre. Divenne così una messa virtualmente alla sua memoria.

Vogliamo coronare la carrellata sull’opera di questo grande artista con le parole di Angelo Calabrese, il quale nel ricostruire il suo intenso rapporto con la poesia e i poeti, primo tra tutti Ungaretti, lo definisce così: “Genio  dell’arte del Novecento, proiettato in una storia dell’umanità totalmente altra. Corrado Cagli intuiva e ragionava in termini d’energia metamorfica e viaggiava verso l’ignoto, contemplandosi e interrogandosi su tutti i possibili sentieri da tentare verso gli spazi cosmici, sperimentando temporanee mete in successione, dove la sapienza degli uomini umani distilla  dalla scienza delle poesia”.  Per concludere: “Uomo di libertà, era convinto che il meglio a venire, poteva solo derivare da un atto coscienziale… dalla sapienza cum scientia coniuncta , cioè dall’arte, che è poesia, che ha vita dentro di noi e che crea doni  come testimonianze di conquiste sempre progressive, le quali sono comunque un passo verso l’incommensurabilità cosmica”. 

E’ un insegnamento di cui si ha molto bisogno per risollevarsi dalla crisi di valori dei nostri tempi.

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“Costume per Enrico VI”, 1974;

Info

Palazzo Cipolla, Via del Corso 320,  Roma.  Da martedì a domenica, lunedì chiuso, ore 10,00-20.00 (la biglietteria chiude alle 19). Ingresso:  intero euro 7, ridotto euro 5 under 26, over 65 e particolari categorie, gratuito under 6 e disabili con accompagnatore. fondazione@fondazioneterzopilastrointernazionale.it, tel. 06.97625591. Catalogo “Corrado Cagli. Folgorazioni e mutazioni”, a cura di Bruno Corà, Silvana Editoriale,  ottobre 2019, pp. 368, formato 24 x 28;  dal Catalogo sono state tratte le citazioni del testo. I due primi  articoli sono usciti in questo sito il 5  e 7 dicembre 2019. Per gli artisti citati,  cfr. i nostri articoli in www.arteculturaoggi.com: su  De Chirico, nel  2019 il  3, 5, 7, 9, 11, 13, 15, 18, 20, 22, 25, 27, 29 settembre, 22, 24, 26 novembre, nel 2016 il 17, 21 dicembre, nel 2015 il 1° marzo, nel 2013 il 20, 26 giugno, 1° luglio; Calabria 31 dicembre 2018, 4, 10 gennaio 2019; Ovidio 1, 6, 11 gennaio 2019; Guttuso, nel 2018 il 14, 26, 30 luglio, nel 2017 il 16 ottobre, nel 2016 il 27 settembre, 2, 4 ottobre, nel 2013 il 25, 30 gennaio; Picasso 5, 25 dicembre  2017, 6 gennaio 2018, inoltre il 4 febbraio 2009 anche in cultura.inabruzzo.it (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante a Palazzo Cipolla alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Sono inserite, a parte l’apertura, nell’ordine in cui sono trattati i diversi generi nel testo, dove sono commentate, disegno e grafica, scultura e ceramica, arazzi e teatro. In apertura, “Costume per Apollo” 1969 ; seguono:  disegni e grafiche, “Orfeo incanta le belve” 1938, ed “Elogio della pazzia” 1964,  poi, “Capobanda” con “Gente a Partinico” e “Portella della Ginestra” con “Sulla pietra di Barbato” , 1975,  quindi, “La rotta del Po” animali travolti con persone sui tetti, e “La rotta del Po” soccorritori su due barche, 1976; inoltre, scultura “Diogene” 1968, e ceramiche: “Pescatore” 1930; ancora, vetrina con, da sin., “Susanna” 1931 e “Il cielo” 1930, “Santone”1928-29 e “Icaro” 1929, nella parete i dipinti,  da sin. “Fiori” 1936, “La romana”  1934, “La tromba e il calice” 1935;  e arazzi, “Enigma del gallo” 1962; continua, “La ruota della fortuna” 1969, e “Tancredi” 1977; infine, scene e costumi per il teatro, “Grand jeté” 1947, e “Costume per Enrico VI” 1974; in chiusura, “Tripudio, 1973, l’ultimo arazzo dal titolo espressivo, con il presidente Emanuele nel commiato dalla mostra.

“Tripudio”, 1973, l’ultimo arazzo dal titolo espressivo, con il presidente Emanuele nel commiato dalla mostra.

Cagli, 2. Dipinti mitici e orfici, motivi cellulari e modulari, al Palazzo Cipolla

di Romano Maria Levante

Prosegue la narrazione della mostra “Corrado Cagli. Folgorazioni e mutazioni”,  che espone dall’8 novembre 2019 al 6  gennaio 2010, circa 200 opere tra dipinti e altre forme, in una antologica di quarant’anni di intensa produzione artistica. La  mostra è promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro Internazionale, e ideata dal suo presidente Emmanuele F. M. Emanuele,  realizzata  da Poema S.p.A. con il supporto di Comediarting, a cura di  Bruno Corà, che ha curato anche il catalogo della Silvana Editoriale, in collaborazione con l’Archivio Cagli.

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La nascita”, 1947

Dopo aver ricordato i capisaldi  dai quali è partito l’itinerario dell’artista  passiamo in rassegna le opere esposte nelle diverse sezioni evdenziandone i motivi ispiratori e le poliedriche forme espressive  in collegamento con la sua presenza attiva in un  mondo artistico in continua evoluzione.

 L’inizio è negli anni ’30, in cui è stato molto attivo tra i fondatori e i maggiori esponenti della Scuola Romana,  con i “Nuovi miti”, negli anni ’40  la “Quarta dimensione” e i “Motivi cellulari”, negli anni ’50 le “Impronte”, “Metamorfosi” e “Variazioni orfiche”, negli anni ’60 e oltre le “Mutazioni modulari”,  modalità diverse  spesso coesistenti, frutto di una ricerca incessante che si è avvalsa anche degli apporti di altre discipline, fino alla musica, innestati sulla solida base iniziale.

Gli anni ’30,  valori primordiali e tonalismo nei dipinti esposti

Iniziamo la  nostra rassegna dalla prima parte degli anni ’30, l’artista nato nel 1910 ha superato da poco i vent’anni, ha già realizzato dei ”murali”  ed è stato nominato direttore artistico di una fabbrica di ceramica d’arte, sono esposte le sue prime opere in questo materiale del 1929-30. 

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Teatro tragico”, 1947

A 22 anni la personale alla Galleria di Roma con Pier Maria Bardi, la sua tecnica viene definita “da pittura parietale”, seguono altre mostre sempre nel 1932, a Roma nella stessa galleria  con 10 pittori – 5  romani e 5 milanesi – con lui Capogrossi e Cavalli, Paladini e Pirandello, e alla Galleria d’Arte con i primi due citati – e l’aggiunta della Michelucci – a Milano all’inizio del 1933 nella Galleria il Milione. Il 1933 è l’anno della V Triennale di Milano, vi partecipa con una pittura murale di 30 metri quadrati. Nel mese di ottobre esce il “Manifesto del Primordialismo plastico”, ha partecipato alla stesura con Capogrossi e Cavalli sottolineando il tema prediletto della mitologia moderna,  ma non lo firma insieme a loro, forse in dissenso per l’inserimento di Melli. A dicembre mostra a Parigi con i soliti Capogrossi e Cavalli e l’aggiunta di Sclavi, tornerà nella capitale francese in un’altra galleria nel maggio 1934 con 5 artisti francesi e lo scultore Fazzini.

Nel 1935 è tra i protagonisti della II Quadriennale d’arte nazionale di Roma, dove a febbraio espone 4 pannelli murali alti quattro metri nella rotonda centrale,  ad aprile la prima personale sui disegni inaugurando la nuova galleria La Cometa a Roma, a maggio partecipa alla mostra di Parigi  sull’”Arte italiana del XX e XX  secolo”  e a quella di Bari con una sala sugli artisti romani; è l’anno anche dei dipinti murali per la Casa dei Cesari di cui si è già ricordata la condanna alla distruzione e il provvidenziale salvataggio. Ancora personali a Roma nel 1936  e partecipazione con un  grande murale alla VI Triennale di Milano, in uno stile  del quale Margherita Sarfatti scrisse che “ha del prodigioso”. 

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La chanson d’outrée”, 1947

Nel 1937, oltre a una nuova mostra di disegni a La Cometa a gennaio,  partecipa ad aprile a varie  esposizioni artistiche del Sindacato Fascista Belle Arti, come aveva fatto  anche nel 193.4.  e a maggio, novembre e dicembre a mostre a Parigi e a New York, a Parigi anche una personale. Questo periodo si chiude nel 1938 con l’espatrio nell’ultima parte dell’anno dopo le leggi razziali,  nei primi mesi c’era stata una sua personale a Firenze a maggio e la partecipazione alla XXI Biennale di Venezia a giugno.

E’ stato un periodo fecondo e proficuo, vissuto da protagonista con la Scuola Romana fondata con i trentenni  Cavalli e Capogrossi, e il quasi cinquantenne Melli. L’impostazione de gruppo è contro il Novecentismo,  il carattere dominante il ”tonalismo” e, come detto in precedenza, per Cagli il ritorno al “primordio” e “l’apparizione di nuovi miti”  teorizzata da Enrico Bontempelli.

La Quadriennale del 1931, alla quale Cagli ventunenne non partecipa, gli ha offerto un panorama di 1300 opere di 500 artisti, tra i quali il diciottenne Guttuso, assente de Chirico; e le mostre già citate del 1932 con artisti a lui vicini sono state la premessa per la costituzione del gruppo. Il “primitivismo”  con  suggestioni mitiche  lo verifica in qualche modo a Paestum , invitato dalla Commissione archeologica di Salerno.

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La veglia e il sonno”, 1947

Nella Scuola romana Cagli divenne protagonista, e Guttuso – qualche anno dopo la contestazione del 1947 da parte del gruppo di”Forma”  dovuta più che ai pretesi pregressi fascisti al suo ritorno in scena dopo la parentesi americana –  scrisse  che “Cagli svegliò i morti in quegli anni (dal 1932 al 1938 all’incirca”). E  aggiunse, con una ammissione di carattere personale al termine: “Non ci furono giovani di qualche talento in Italia che, in qualche modo, non si unissero a lui: da Capogrossi ad Afro, a Purificato, a Lencillo, a Mirko, a Ziveri, a De Libero, ad Antonello  Trombadori, a Franchina, a Birolli, a Tomea, a me stesso”. Precisa che “ciascuno per la sua strada poi hanno fatto il loro cammino”, il suo in un realismo, per di più connotato politicamente come pittura di denuncia sociale; e riguardo alla Scuola romana  – in cui vedeva due orientamenti, uno “romantico-lirico” l’altro “tonale” – aveva scritto nel 1940 che, “dentro questa ‘architettura’ ogni concetto realistico veniva sacrificato ad un amore quasi astratto dello spazio tonale”.

“Valori primordiali e tonalismo  restano comunque le parole chiave” – osserva Claudio Spadoni nella sua  ricostruzione di questo periodo  – Almeno per i protagonisti dell’’Ecole de Rome’  e i loro più prossimi, per quanto di diversa interpretazione nelle trasposizioni pittoriche. Anche se  i riferimenti siano molteplici, dall’antico al contemporaneo, come del resto era nel clima culturale di quella stagione”.

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“Lanterna” 1949

Ai  dipinti  di questo periodo ben si attaglia il giudizio di Cecchi del 1935, anno della Quadriennale:  “Cagli aspira a una pittura tra narrativa,  decorativa e allegorica, improntata  a uno spirito leggendario; nella quale i significati dei miti e le forme dei corpi e i colori architettonicamente s’atteggino in una luce  a un tempo vera  e intellettiva…  Lo vediamo nelle opere esposte, la maggior parte con figure umane modellate da ombre con una luce diffusa, non certo caravaggesca.

 Nel 1933 con  “Edipo a Tebe” e “Sirena”, ma soprattutto “La nave di Ulisse “ e “Navigatori”  forme scarne e allungate,  con “Il neofita” e “Il pittore Gregorio Prieto” forme più solide,  come i nuovi  “Neofita” e “Romolo” del 1934. Quest’ultimo inserito nella natura, come “La caccia”, “Passaggio del Mar Rosso”, e “Suonatore di flauto”, mentre con “Mirko”  1936, “Bacchino” e “Pescatore” 1938, le figure umane sono dominanti, la natura è nel grappolo d’uva e nella preda della caccia, e  soggetto del dipinto in  “Fiori” 1936, e “Pesci” 1937.  Altri temi, del 1934-35  “I vasi”, “La romana”, “La tromba e il calice”, con qualche eco morandiano, del 1936-37 due “Vedute di Roma”  e un “Senza titolo”, due figure mitiche in volo sulla città con tromba e croce.

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“Diogene”, 1949

Negli anni ’40 e ’50 nuove dimensioni metafisiche e cellulari

Abbiamo seguito l’attività artistica ed espositiva dell’artista fino al termine del 1938, allorché ha lasciato il Paese dopo le leggi razziali  raggiungendo Parigi dove nel 1939 presenta una mostra personale, prima di lasciare la capitale francese imbarcandosi per New York dove nel 1940 tiene una personale, seguita nel 1941 da  personali a  Los Angeles  e San Francisco, dove espone anche nel 1942,  anno del quale partecipa anche  a una collettiva a New York  e perfino a Varsavia; personali nel 1943 a Tacoma e Oakland.

Nel  marzo 1941 si è arruolato nell’esercito americano, è caporale artigliere; nel 1943 si trova in Gran Bretagna, nel 1944  partecipa da militare combattente allo sbarco in Normandia con le campagne di Francia, Belgio, Germania, in particolare alla battaglia delle Ardenne, realizza un ciclo di disegni sul tema della guerra; nonostante tutto, in un anno così turbolento,  una mostra con i suoi disegni a Londra e poi partecipazione a Roma alla collettiva “L’arte contro la barbarie. Artisti romani contro l’oppressione nazi-fascista” organizzata dall’’Unità’”. Nel 1945 la guerra finisce, torna a vivere a New York e, nel gennaio dell’anno successivo, presenta nella metropoli americana i suoi disegni di guerra. Nel 1946 tiene  altre personali a Chicago, San Francisco e Santa Barbara, e partecipa alla fondazione della “Ballet Society” insieme al coreografo Balanchine, per il quale nella stagione 1946-47 realizza  scene e costumi per il “Trionfo di Bacco e Arianna”  e li progetta per un balletto su Mozart.

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Bagatto”, 1952

Dopo una personale di disegni a New York nel marzo 1947, a novembre, tornato in Italia, espone  a Roma suscitando la reazione polemica del gruppo  “Forma”, i cui giovani astrattisti lo attaccarono mentre fu difeso da Guttuso. Le mostre continuano nel 1948 alla Quadriennale di Roma e alla Biennale di Venezia, alla galleria L’Obelisco di Roma e a Bologna, con la polemica di Palmiro Togliatti sotto lo pseudonimo di Rodrigo di Castiglia, nelle gallerie Camino  e Il Milione di Milano, a Firenze e a Genova, entra in polemica con de Chirico; di nuovo espone a New York. Nel 1949  è di nuovo negli Stati Uniti,  al MoMA di New York, partecipa a mostre a Chicago e Washington;  e in Italia  a Milano e Genova, Firenze e Roma,  presenza che prosegue nel 1950, a New York, dove espone con Guttuso,  a Vienna e Milano,  ad Asti e in diverse gallerie a Roma.

Le opere di questo periodo esposte nella mostra, a parte l’“Autoritratto dei tempi difficili”  del 1943, ben diverso anche stilisticamente dall’“Autoritratto” del 1932, segnano una notevole svolta, entra in azione  la seconda “logica” oltre quella figurativa, che non è quella astratta, ma ha richiami ben visibili, come quelli del cubismo in  “Il cranio e la candela”  e “Concertino” , del 1940, poco dopo l’espatrio, e della metafisica ferrarese con “il quadro nel quadro” in un interno in “L’atelier di Francoise”.

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“Babel”, 1955

Nuove tendenze anch’esse ben individuabili, che sembrerebbero richiamare la metafisica dei manichini e delle maschere di de Chirico –  con il quale, tra l’altro, nel 1948 apre una polemica sull’arte contemporanea – derivano invece dalla scoperta della “pluridimensione”  nel soggiorno americano. Dopo l’interesse per la concezione spaziale di Futurismo e Cubismo oltre che della Metafisica,  per le teorie  matematiche e psicanalitiche,  e le suggestioni musicale e dello spettacolo nella commistione e contaminazione a lui propria, lo affascina la conoscenza della geometria non euclidea e della “geometria proiettiva” di Paul Samuel Donchian, che frequenta personalmente, fondata sulla compenetrazione degli spazi in una quarta dimensione; nello stesso tempo l’impegno diretto in campo musicale con i balletti di Balanchine:

“Questo lo porta a rielaborare le speculazioni sul ‘primordio’ riattualizzandolo in una visione dimensionale archetipa”, osserva Aldo Iori, “ e  ad  “elaborare ulteriormente la possibilità di esprimersi con più logiche per raggiungere quella ‘concorde armonia’ a cui aspirano le arti e a pensare lo spazio lo spazio come possibilità di più visioni sincroniche”. Alla svolta concorre la lontananza dall’Italia e l’esperienza militare a contatto con altre culture, per cui torna nel nostro paese con espressioni artistiche molto rinnovate.

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“Approdo Arunta”, 1957

“L’idea del classico, del mito e della forma, come del precedente ‘primordio’- è sempre Iori – si inserisce ora in una visione dell’arte ampia, libera nella scelta del linguaggio, non più necessariamente coerente secondo le impostazioni dell’idealismo anteguerra, e aperta a ventagli di ipotesi e di nuove possibilità espressive”.  Quali?   Dopo “Chimera” 1946, in cui si intersecano piani sovrapposti e compressi, lo vediamo evocare  la cavità e il vuoto  in “La veglia e il sonno” 1947, e la dimensione metafisica in “La nascita” e “Teatro tragico” , del 1947, mentre  “La chanson d’outrée” viene presentata in due versioni, del 1946 e 1947, con l’equilibrio in bianco-nero delle mascherine nella  prima e gli “inganni geometrici” colorati nella seconda.  Nel 1949 con  “Quarta dimensione” , nel corso del dibattito tra il figurativo e l’astratto,  trasferisce in un intrico grafico le costruzioni solide di Donchian, che poi approfondisce nel groviglio di segni molto marcati  in “L’angoscia”  e “Diogene”,  tradotti molti anni dopo anche in sculture reticolari aeree e filiformi. Nello stesso anno i  segni marcati si intrecciano  in una geometria a sfondo cromatico alla Mondrian con “Lanterna”,  mentre “Dal libro di Ester”  emergono linee spezzate  su un fondo decorato, e “Partenze”  è un affresco rosso pompeiano da pitture parietali, un ritorno all’antico.  

I “reticoli modulari” e i “motivi cellulari” instaurano “un serrato colloquio con la tradizione dei maestri dell’astrattismo, elaborando delle volumetrie complesse determinate dal segno e dal colore, in cui la scatola prospettica post-rinascimentale  è disintegrata ed esplosa dimensionalmente  ed è indipendente da ogni gerarchia segnica e cromatica”, questa l’interpretazione di  Iori.

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“Apollo” , 1958

Con “Il pescatore e la luna”, evocata da colpi di luce su un fondo tenebroso, “Oregon” e “Lo scacciapensieri”, composizioni invece variegate  e luminose, del 1950, si entra nel nuovo decennio  in cui “accanto a opere dal marcato aspetto figurativo tra il mimetico  e il testimoniale, nascono e si intersecano tra loro una molteplicità di opere che mantengono accesa l’attenzione alla questione della pluridimensionalità”.

Ne vediamo esposte una quindicina in diverse espressioni stilistiche  compositive. “Due mondi in uno”, e “Bagatto”, del 1951-52 , presentano  in modi diversi, il primo con tagli rettilinei, il secondo curvilinei, quella che Marchiori  ha chiamato “sovrapposizione e sottrazione che genera  una plurima moltiplicazione di volumi e interessanti ‘inganni geometrici’”; con “Belfagor” e “Bebel”, del 1954-55, sono evidenti i “motivi cellulari” nella parcellizzazione delle forme, che diventano  ricomposizioni geometriche di taglio scultoreo in “Arlecchino come Bagatto” 1956, e “Lo scolaro” , quest’ultimo del 1963.  Di “Arlecchino” così scrive la Bucarelli: “Cava da questa sua materia la forma come farebbe uno scultore  della pietra. Da quell’’ordito multicolore e  e luminoso fino alla fosforescenza, già in sé simbolico di Arlecchino, il personaggio si forma e vive prima ancora di essere rivelato”.   Cambia tutto con le “variazioni orfiche” del 1957, che vediamo in “Inferi”,  “Approdo Arunta” ed “Eden”, su fondi di tonalità quasi cangiante strisce dorate per i primi due e argentate per il terzo quasi ad evocare forme totemiche; ma è dello stesso 1957 “Apollo e Dafne”, la leggenda ovidiana evocata in un figurativo con  il ritorno alle figure umane degli anni ’30, in uno scenario naturale nel quale al paesaggio boscoso sulla sinistra si contrappongono forme indistinte sulla destra sotto un cielo tempestoso.

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“Le mura di Gerico”, 1958

Ugualmente figurativo ”Apollo” , del 1958,  cui viene associato “A Rembrandt”, del 1969, che sembra contemporaneo  per l’uguale fattura, a parte lo sfondo rosso invece che ocra –  sono le “Metamorfosi” con le figure contornate da un manto vegetale –  mentre nello stesso anno con “Enigma del gallo”  e “Le mura di Gerico”,  e soprattutto con  “Tornasole” , “Strumenti e utensili” e “Il crociato”  si prende una nuova strada, che  vediamo anche in “Carnevalito”  dell’anno successivo:  una serie di “carte”  che nella superficie monocromatica con modulazioni e pieghettature esprimono il salto in avanti verso una nuova dimensione, così furono descritte da Migliorini: “Carte segnate dall’ emergere di un ‘senso di figura’, ‘oggetto fantasma’ che preme sulla materia pellicolare imprimendo nelle pieghe i segni del suo affiorare. In queste opere la materia perde il suo carattere di assolutezza, caro alla corrente informale, divenendo parte di un insieme, materia che presenta la sua natura organica nelle pieghe, che rispettano e segnano misteriosamente, casualmente, le fibre del tessuto come le leggi di una deteriore cristallizzazione”; non è solo materia “naturale”, c’è il gesto dell’uomo perchè le pieghe le fanno sembrare accartocciate dalla sua mano. Di Piazza: “ le definisce “di incredibile ambiguità visiva di trompe-l’oeil astratto, in cui tra inganno ottico e illusionismo materico si crea un complesso gioco di rimandi visivi  e valori tattili”.

Già negli anni ’50, reinseritosi con i problemi cui si è già accennato nel mondo artistico italiano dopo la parentesi americana, è presente ogni anno con mostre in diverse città, e anche all’estero. Andando a ritroso nel tempo, nel 1961 lo troviamo a Firenze,  nel 1960  a Milano, nel 1959 alla VIII Quadriennale romana, alla V Biennale di San Paolo e nelle personali a Torino e Milano, nel 1958  in Francia e Germania, a Roma e a Milano, nel 1957 a Roma e Firenze, Monaco e Cannes, nel 1956  a Roma, Palermo, Sydney, nel 1955 a Roma,  Firenze e L’Aquila,  a  Barcellona,  Madrid e nel Minnesota, nel 1954 a Roma, Milano, Firenze e  alla Biennale di Venezia, nel 1953 a Roma, Milano, Torino, nel 1952  a Roma, Fermo,  La Spezia, nel 1951 a Roma e Asti, Firenze  e Torino, Parigi e San Paolo del Brasile. A Roma anche in più gallerie nello stesso anno, lo sottolineiamo in questo excursus che può sembrare pedante ma intende valorizzare doverosamente il merito di Emanuele e della Fondazione Terzo Pilastro Internazionale nel colmare il vuoto ventennale nella capitale. Ha esposto più volte con Guttuso, che parla di lui in termini positivi in vari saggi critici; inoltre riceve riconoscimenti in una serie di concorsi artistici cui partecipa.

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“Tornasole”, 1958

Anni ’60 le “carte” e  “mutazioni modulari”, anni ’70 il “Memorial”  di Gottinga

Intanto, nei  primi anni ’60, con “Demone di zolfo” e “L’angelo”, del 1963-54, continuano le “carte”  con le pieghe, quasi accartocciate, nella presenza subliminale della figura e della mano dell’uomo.

Con  “Memorie a Castelmola” 1963, le “carte” prendono colore,  invece del virtuale accartocciarsi con pieghe e ombre, sono segnate da strisce colorate, ne nasce una sorta di profilo di animale  al quale accostiamo, con una nostra libera e ardita associazione, la “Testa di animale misterioso” di de Chirico del 1975. Un colore che in “Chiocciole” 1966, dà luce a formazioni circolari le quali sembrano galleggiare sul fondo nero come le “Ninfee” di Monet; e in “Demoni” e “Minotauro”, dello stesso 1966, dà luogo, a sua volta, alla sovrapposizione di contrasti cromatici nell’alternanza geometrica di strisce evocative anche se apparentemente decorative. Al colore subentra una tonalità neutra in “La ruota della fortuna” –  che ritroveremo in un arazzo con lo stesso disegno misterioso, quasi in filigrana –  è del 1959 e conclude il decennio.  Una tonalità analoga nel fondo di “Albert du Bouillon”   sul quale si staglia un profilo araldico a cellule bianco-nere; le stesse di “Pale” , in cui il profilo araldico è meno evidente ma percepibile, e di “Buglione” che sembra una pianta in rigogliosa fioritura, siamo nel triennio 1971-74, vicini all’epilogo.

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“Demoni”, 1966

Così li descrive Antonella Renzitti: “Si riallacciano alla  dimensione magico-divinatoria evocando figure fantastiche,  condottieri medievali. Creati dalla combinazione modulata di cerchi bianchi, di diverso diametro, più o meno concentrici, richiamano  le armature medievali, ma anche motivi floreali sui generis”. Lo  abbiamo visto nelle opere esposte e concludiamo  così la carrellata sui dipinti dell’artista dall’inizio degli anni ’30 ai primi anni ’70.

E la sua presenza  nel mondo artistico con mostre e altri interventi?   Continua ad essere  sempre  protagonista, ancora più attivo che negli anni ’50  di cui abbiamo riportato la sequenza serrata  di mostre.  Negli anni ’60 le  mostre a Roma sono state praticamente ininterrotte, personali o collettive, ma  anche Firenze è stata una sede frequentemente praticata, presenta di volta in volta pitture, disegni e sculture, si impegna nelle scenografie teatrali.

Troviamo più volte sue mostre anche a Venezia e Torino, Napoli e Palermo, e  lo vediamo presentare le sue opere in tante città, Trieste e Genova, Siena e Bari, Spoleto e  Terni, L’Aquila e Pescara, Arezzo e Rieti,  Jesi e Taormina, Varese e Ostiglia;  in alcune collettive del 1965 e 1967, 1970 e 1974  ancora  insieme a Guttuso e ad altri artisti.  All’estero  espone ad Atene nel 1961 e ad Amburgo nel 1962, a Parigi e Liverpool nel 1964, a Buenos Aires nel 1965 e a Teheran nel 1966, a Sidney e Losanna nel 1967,   a New York nel 1968 all’Esat Hartford in Usa e a Gottinga nel 1970. Nel 1975 risulta presente in 10 mostre,  a Roma in 4 gallerie,  a Rieti, La Spezia,  Ostiglia, Teramo, Rovigo e Taormina; nel 1976, l’anno in cui muore l’8 marzo, in 5 mostre, a Roma e Palermo, Matera, la Spezia e Pienza.

“Chiocciole”, 1966

Ci piace ricordare, a questo punto, per il suo alto valore simbolico oltre che artistico, il “memorial” per celebrare le vittime della persecuzione razziale nazista della “notte dei cristalli” che la città di Gottinga, su iniziativa della Società per la cooperazione cristiano-giudaica, gli affidò in occasione della mostra del 1970, dando uno schiaffo in faccia ai detrattori che in passato gli avevano rinfacciato la sua attività artistica sotto il fascismo, peraltro mai connivente con il regime; anzi, come abbiamo ricordato, spesso fu aspramente contestato e censurato fino alla distruzione delle sue opere.  Nel 1973 il monumento da lui progettato è stato collocato dov’era la sinagoga distrutta nella tremenda notte tra l’8 e il 9 novembre 1938 nella quale subirono la stessa sorte in Europa 1400 sinagoghe e negozi degli ebrei. Adachiara Zevi   fa un’accurata ricostruzione delle diverse fasi della progettazione e realizzazione collegate anche all’assetto urbanistico della piazza. “L’opera è l’ostinazione amara di una interrogazione errante”, ha scritto Benincasa,  e la Zevi,  dopo aver ricordato le “Sculture spaziali” di due artisti tedeschi, “la cui tridimensionalità è ottenuta attraverso vettori in movimento”, aggiunge che “altro aspetto fondamentale del memoriale  è il movimento ascensionale, l’avvitamento dinamico verso l’alto che ci conduce direttamente e inevitabilmente alla  scultura barocca”;  per Bruno Zevi, nei confronti della scultura barocca l’immagine che dà Cagli  è “più ricca e polisemica,  ruota ed oscilla, esige il moto, e un impulso partecipativo”. Inaugurato il 9 novembre 1973, è alto 6 metri con 86 triangoli compenetrati in una rotazione che evoca la stella di Davide.

Possiamo così, con questa “ouverture”, passare alla scultura di Cagli e alle altre sue forme espressive, dopo la pittura che abbiamo commentato finora: disegno e grafica, ceramica e arazzi, fino alle scenografie e ai costumi teatrali.  Eclettismo nei generi oltre che nello stile,  nel senso di un artista poliedrico, non oscillante. Descriveremo prossimamente le sue opere in questi campi e il loro significato.

“Minotauro” 1967

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Palazzo Cipolla, Via del Corso 320,  Roma.  Da martedì a domenica, lunedì chiuso, ore 10,00-20.00 (la biglietteria chiude alle 19). Ingresso:  intero euro 7, ridotto euro 5 under 26, over 65 e particolari categorie, gratuito under 6 e disabili con accompagnatore.  fondazione@fondazioneterzopilastrointernazionale.it., tel. 06.97625591. Catalogo “Corrado Cagli. Folgorazioni e mutazioni”, a cura di Bruno Corà, Silvana Editoriale,  ottobre 2019, pp. 368, formato 24 x 28;  dal Catalogo sono state tratte le citazioni del testo. Il primo articolo è uscito in questo sito il 5 dicembre, il terzo e ultimo uscirà il 9 dicembre 2019. Per gli artisti citati,  cfr. i nostri articoli in www.arteculturaoggi.com: su  De Chirico, nel  2019 il  3, 5, 7, 9, 11, 13, 15, 18, 20, 22, 25, 27, 29 settembre, 22,24, 26 novembre, nel 2016 il 17,  21 dicembre, nel 2015 il 1° marzo, nel 2013 il 20, 26 giugno, 1° luglio; Guttuso, nel 2018 il 14, 26, 30 luglio, nel 2017 il 16 ottobre, nel 2016 il 27 settembre, 2, 4 ottobre, nel 2013 il 25, 30 gennaio; Futuristi 7 marzo 2018; Picasso 5, 25 dicembre  2017, 6 gennaio 2018; Impressionisti 12, 18, 27 gennaio, 5 febbraio 2016; Cubisti 16 maggio 2013; Mondrian 13, 18 novembre 2012. In cultura.inabruzzo.it,  Inpressionisti 27, 29 giugno 2010,  Futuristi 30 aprile, 1° settembre, 2  dicembre 2009, Picasso 4 febbraio 2009 (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito). 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante a Palazzo Cipolla alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Sono in ordine cronologico e commentate in questo articolo, come quelle degli anni precedenti riportate nel primo articolo del 5 dicembre. In apertura, “La nascita” 1947; seguono, “Teatro tragico” e “La chanson d’outrée” , 1947; poi, “La veglia e il sonno” 1947, e “Lanterna” 1949; quindi, “Diogene” 1949 e “Bagatto” 1952; inoltre, “Babel” 1955, e “Approdo Arunta” 1957; ancora, “Apollo” e “Le mura di Gerico” , 1958; continua, “Tornasole” 1958, e “Demoni” 1966; infine, “Chiocciole” 1966, e “Minotauro” 1967; in chiusura, “Pale” 1973.

Pale” 1973

Cagli, 1. Folgorazioni e mutazioni di un artista poliedrico, al Palazzo Cipolla

di Romano Maria Levante

E’ un evento la mostra “Corrado Cagli. Folgorazioni e mutazioni”, aperta  al Palazzo Cipolla  dall’8 novembre 2019 al 6  gennaio 2020, che presenta circa 200 opere tra dipinti e altri generi come disegni e grafiche, sculture e ceramiche, scene e costumi teatrali, raggruppate in una serie di sezioni che segnano un percorso artistico in continua evoluzione con fecondi contatti interdisciplinari. La mostra, ideata da Emmanuele F.M. Emanuele, presidente della Fondazione Terzo Pilastro Internazionale che l’ha promossa, è stata organizzata  da Poema S.p.A. in collaborazione con Comediarting, ed è a cura, come il Catalogo della Silvana Editoriale, di Bruno Corà, in collaborazione con l’Archivio Cagli.

Il presidente della Fondazione Terzo Pilastro Internazionale, Emmanuele F. M. Emanuele, alla presentazione della mostra, dietro di lui la parte dx dell’arazzo “Tancredi”,1977

Dopo il tempo dell’essere di Ennio Calabria, lo spazio pluridimensionale di Corrado Cagli: continua il  meritorio impegno di Emmanuele F. M. Emanuele nel riproporre grandi artisti del ‘900 troppo trascurati: per Calabria  l’ultima antologica a Roma trent’anni prima, per Cagli venti anni fa all’Archivio Farnese.   

Cagli, inoltre, si era tentato di oscurarlo durante la sua ascesa artistica, nel secondo dopoguerra, per la sua attività pittorica nelle iniziative di regime.   Una “damnatio memoriae”, velleitaria e alimentata da altri motivi, oltre tutto paradossale, dato che per sfuggire alla persecuzione fascista degli ebrei  era stato costretto a espatriare  nel 1938 subito dopo le leggi razziali a Ginevra, Parigi e nell’ottobre 1939 negli Stati Uniti; si schierò contro la guerra fascista arruolandosi nel marzo 1941 nelle forze armate americane, come artigliere partecipò allo barco in Normandia, alle battaglie in Belgio e alle Ardenne, alla conquista di Parigi, arrivando a Lipsia  Fino a che punto si può spingere il pregiudizio fanatico contro l’evidenza della realtà! 

Autoritratto”, 1932

Ripensiamo alla lunga “damnatio memoriae” di Gabriele d’Annunzio, sebbene dopo l’iniziale sintonia nazionalistica – con il fascismo che si appropriò dei suoi slogan e dei suoi simboli – fosse stato relegato  nella “gabbia d’oro” del Vittoriale da Mussolini che lo temeva e al quale D’Annunzio diede il suo appoggio solo per la guerra coloniale rientrante nelle proprie concezioni; e ricordiamo la mostra dedicata nel 2001 al “Comandante” da Emanuele al Museo del Corso, “D’Annunzio, l’uomo l’eroe il poeta”.  “Damnatio memoriae” alla fine rientrata anche per Mario Sironi, di cui pur in ritardo è stata riscoperta la grandezza.  

A Cagli nel dopoguerra veniva rinfacciata la partecipazione alle manifestazioni indette dal regime, in particolare la Quadriennale nella quale  gli si commissionavano opere considerate elogiative, mentre rispondevano alla sua concezione di pittura della realtà aperta al popolo, come teorizzato nei suoi scritti sulla “pittura murale” che precedettero le posizioni di Sironi su questa forma d’arte anticipatrice dei “murales”. La sua non era acquiescenza alla mistica del regime, neppure su opere commissionategli, ma esprimeva la sua visione  umana con profonde basi filosofiche. Tanto è vero che  addirittura Gsleazzo Ciano, esprimendo la volontà di Mussolini, ordinò la distruzione dei “Cesari” da lui realizzati per l’Esposizione Universale del 1935,  dando l’avvio al duro attacco della stampa fascista che non gli diede tregua; e il ministro dell’Educazione nazionale Renato Ricci ordinò a sua volta la distruzione della grande tempera “Corsa dei berberi”  che Cagli aveva eseguito su commissione per il Castello dei Cesari a Roma. Fortunosamente tali opere si salvarono, la prima si pensò ad  “imbiancarla”, la seconda per la geniale idea dell’artista di sovrapporvi una  falsa parete, poi rimossa nel 1945 dopo la Liberazione.

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“Sirena”, 1933

Altre opere, invece, furono distrutte senza possibilità di recuperarle perché  contrastavano con la retorica del regime, come gli affreschi realizzati  a Castel di Guido per l’Opera Nazionale Balilla nella primavera del  1935, lo stesso anno della condanna alla distruzione dei dipinti per l’Esposizione Universale, come si è ricordato, sebbene fosse un artista molto affermato, aveva partecipato alla Quadriennale di Roma del 1934 con una presenza importante.  Del resto, le opere che conosciamo  sono tutt’altro che propagandistiche, e se tra loro c’è la celebrazione della bonifica pontina, ne aveva ben donde, nel breve giro di tre anni fu realizzato un intervento epocale con la creazione di tre “new towns” in una vera mobilitazione nazionale: ciononostante la vede come espressione di “un’antichità fuori dal tempo”.

Ma furono accuse  strumentali, quello che non veniva accettato, in particolare nella contestazione del gruppo “Forma” alla mostra alla galleria romana “La Palma” del 1947, era il suo ritorno nel mondo artistico romano dopo l’espatrio del 1938 con una pittura, rinnovata negli anni americani dalla metafisica “proiettiva”, che da loro veniva considerata espressione di “decadenza borghese” e falso astrattismo, mentre il loro astrattismo voleva conciliare marxismo e formalismo, in opposizione al realismo. Invece di questo vero motivo fu messa in atto una vistosa protesta contro quanto scritto da Trombadori nel catalogo, che “la pittura di Cagli è stata immune dalla retorica fascista”, con un manifesto peraltro strappato dagli artisti vicini a Cagli, tra cui Guttuso, in uno scontro anche fisico con gli artisti di “Forma”.

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“La nave di Ulisse” , 1933

La lontananza della sua visione dalla mistica del regime lo differenzia da Aleksandr Deineka, non rispetto alle conquiste del lavoro, ma all’ esaltazione dell’ “uomo nuovo” , non considerato da Cagli, mentre la visione dell’artista russo era la stessa del regime comunista che lo proclamava nato dalla rivoluzione di ottobre per eccellere in ogni campo, dall’esuberanza fisica allo sport, fino al sogno del volo.  Anche Deineka e i “Realismi socialisti” li ha portati alla ribalta romana Emanuele con il suggestivo affresco storico-artistico delle grandi mostre del 2011 al Palazzo Esposizioni, dopo aver presentato nel 2010 un campione dell’altro versante, Edward Hopper, il pittore della vita nella provincia americana, come con “Gli irresistibili anni ‘60”  sempre nel 2011 ha celebrato un periodo magico  della nostra vita.

Abbiamo ricordato questi fatti eloquenti come doverosa introduzione a una figura  complessa e multiforme, che Emanuele definisce così: “Con Cagli  si ha effettivamente l’impressione di essere di fronte a un universo in costante evoluzione, a un susseguirsi incessante di idee e di stili, ma condotto sempre con padronanza e cognizione di causa, mai in maniera superficiale e approssimativa”.  Il tutto facendo ricorso con risultati di eccellenza alle varie forme espressive, quali pittura, disegno e grafica, scultura e ceramica, arazzi e costumi, in una multidisciplinarietà e contaminazione non solo con il teatro, di cui fu scenografo e costumista, ma con la musica, la scienza e la filosofia. Un en plein!

Cerchiamo, quindi,  di entrare in questo mondo, multiforme e poliedrico, evidenziandone  alcuni elementi  essenziali, poi  ripercorrendone l’ itinerario artistico inquadrandolo nel percorso di vita.

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“Il neofita”, 1933

L’”apparente eclettismo”  incompreso e gli interventi critici riparatori

Il primo aspetto che viene sottolineato, la molteplicità delle sue espressioni artistiche sia nei generi, sia soprattutto nelle manifestazioni stilistiche, riporta al chiaro  concetto da lui teorizzato sulle diverse “logiche” che distinguono gli artisti, per cui non vi sono regole codificate sull’arte: “Ci sono pittori e scultori apparentemente illogici nel loro manifestarsi. La realtà è che in arte una sola logica è dannosa; perciò pittori e scultori, che siano grandi, hanno una seconda logica della quale non fanno mai a meno senza per questo fare a meno della prima”. E descrive come “l’eclettismo apparente del pittore moderno dipende dall’aver scoperto la natura dei ‘generi pittorici’”. Che sembrerebbe la scoperta dell’acqua calda, mentre è stato meritorio affermarlo con tanta chiarezza.

“Ogni arte ha i suoi generi, quella poetica la lirica, l’epica, l’idillica, quella pittorica ha i suoi che non sono paesaggio, figura e natura morta, ma sono l’astratto e il formale. Superato il dissidio tra i due generi (si può fare epica e lirica senza mutare anima) si riscatta l’astrattismo dalla polemica per trasportarlo nell’arte”: lo scrisse su “Il Quadrante” nel  1933, aveva 23 anni. Del resto, in Picasso c’è stata la compresenza negli stessi periodi di cubismo e neoclassicismo, in de Chirico di metafisica e classicismo, ma passarono più di  trent’anni prima che la critica lo riconoscesse a Cagli.  Bruno Corà, nella sua accurata e, diremmo,  appassionata ricostruzione del mondo di Cagli di cui fu amico e sodale, riporta  interventi critici riparatori delle incomprensioni  del suo “apparente eclettismo”. Crispolti nel 1969  cita due motivi: “Primo, il carattere di asensibilismo, di rigorosa volontà di  controllo concettuale che presiede e interamente conchiude il processo formativo di Cagli per il quale l’intervento figurale  è leonardescamente cosa mentale …  secondo, l’inesauribilità e varietà della sua facoltà immaginativa, cioè il ricambio continuo (eppure straordinariamente coerente secondo filoni tematici  formativi, negli anni, nei decenni) dei modi del suo processo formativo”.  

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“I vasi”, 1934

Più di dieci anni prima Palma Bucarelli,  il 4 giugno 1958, riferendosi alle due mostre romane contemporanee –  “figurativa” alla Galleria Schneider e “astratta” alla Galleria San Marco – aveva definito Cagli “il multiforme”, con questa motivazione: “Quei quadri ‘figurativi’  non sono meno astratti di quelli che usiamo chiamare astratti… Ragione per cui, allora, io preferisco, tra le diverse maniere dell’artista,  quelle in cui la sua immaginazione spazia nei mondi  della pura magia delle forme alle quali le sue straordinarie, e qualche volta misteriose,  danno un valore che è solo suo, inconfondibile, di preziosa perfezione”.  

Alla morte di Cagli, nel 1976, Lorenza Trucchi aveva motivato così il titolo del suo ricordo,  “Adesso l’arte è molto più povera” : “Cagli resta  dunque un caso a parte, unico ed inclassificabile nel panorama della nostra pittura (non dimentichiamo che fu, oltre che pittore e scultore anche un dotatissimo  scenografo). Certo, la sua versatilità creativa lo ha fatto, talora, scambiare per un seguace di formule e di forme; ma, ora ce ne accorgiamo sempre più, era una interpretazione molto crociana, estetica, assai consona, del resto, a una cultura e a un gusto, quali i nostri, ancora legati alle categorie del bello e del brutto”. Viene giustamente rilevata in lui la “tensione verso quel processo storico unificante le differenti culture appartenenti a più epoche e continenti, nel solco tracciato da artisti come Cézanne e Picasso, Mondrian, Klee ed altri”.  

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“Romolo”, 1934-35

Ma questo non è stato compreso, e  Corà, sulla “difficoltà e disagio” della critica verso Cagli  conclude  con l’esigenza di riconsiderare l’opera di questo “outsider dell’arte italiana e internazionale” , e la mostra ha anche questa finalità, dopo tante “incomprensioni, pregiudizi e distrazioni”: “Ci si deve, insomma, una volta di più interrogare su numerosi aspetti riguardanti le precoci logiche ideative linguistiche di Cagli, la situazione della realtà e degli ambienti culturali italiani, gli eventi politici e sociali degli anni precedenti e successivi al secondo conflitto mondiale in Italia e in Europa, e negli Usa, le contraddizioni  ideologiche e i loro mutamenti, infine le evoluzioni e trasformazioni del mercato attuale dell’arte, del collezionismo e delle strutture preposte alla conservazione e alla promozione di essa  nelle società occidentali  e orientali”.

Rispetto a questo vasto programma, ci limiteremo a considerare quelli che sembrano  caposaldi della sua visione artistica e a ripercorrerne  l’itinerario attraverso le sue opere e le maggiori vicende della sua vita.

Il “primordio”, le diverse modalità linguistiche  e i “nuovi miti”

Un motivo ispiratore della sua opera è il “primordio”, dall’inizio del variegato percorso artistico, e si basa su un concetto esplicitato da Enrico Bontempelli, zio di Cagli, e ripreso dallo Scuola Romana: possiamo considerarlo quindi un caposaldo. Al recupero dell’arte antica e della tradizione degli artisti del “Novecento”, si contrappone lo scavo in profondità a livello interiore per interpretare il presente. Nasce “L’ecole de Rome” nella mostra parigina del 1933, con Capogrossi e Cavalli oltre a Cagli, e il sostegno del critico Waldemar George, che aveva appoggiato anche de Chirico con gli “Italiens de Paris”.

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“La caccia”, 1935

Lo ricorda Corà citando Crispolti il quale, nel commento “I percorsi di Cagli” alla mostra di Castel dell’Ovo, ha scritto nel 1982: “Il tema del primordio, verso il quale fissa sin dall’inizio la sua attenzione non ha pretese di restaurazione storicistica, neppure nei mitizzati termini appunto dell’arcaismo novecentesco… Mira invece a  una condizione orfica. Mira a realizzare un primordio di natura interiore, una nuova nascita, un nuovo e quasi impregiudicato modo di porsi di fronte alla realtà del proprio tempo”. Ed ecco come: “Nel primordio al quale Cagli aspira c’è invece una volontà oggettiva, c’è come l’illuminazione  intuitiva di nuove strutture dell’uomo contemporaneo. C’è una ben precisa volontà di aprirsi all’esperienza della contemporaneità, percependone tuttavia appunto un carattere di rinnovazione, di originarietà, un carattere appunto orfico”. Con questo risultato: “Se il primordio è scandaglio dell’interiorità attuale, è dimensione più vera per un’immagine del presente”.  Parole che riecheggiano  Bontempelli  il quale aggiungeva che “la storia varrà nella sua lezione soltanto se utile, concretamente – che è come dire allora, anche strumentalmente – per il presente”,  e concludeva: “Ecco dunque la necessità di una logica almeno ‘duplice’, come suggeriva Cagli nel ’33 stesso; rifiuto degli esiti monologici, certezze che sfociano in routine’”.

Sono le due “logiche” prima citate per le quali l’anima astratta può coesistere con quella figurativa, e lo sottolinea Benzi nel presentare la mostra curata ad Ancona nel  2006: “Intorno al primordio si articola tutta la produzione  di Cagli nel dopoguerra: nelle esperienze astratte, con ogni evidenza, ma annidandosi perfino nelle divagazioni apparentemente barocche del figurativo, attraverso temi squisitamente mitologici o attraverso contaminazioni con le strutture ‘primordiali’ del mondo botanico”.

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“Passaggio del Mar Rosso”, 1935

Questa impostazione, tra l’altro, ha dato vita anche se precaria al gruppo “Origine”, con Burri e Capogrossi,  che nasce nel gennaio 1951 dopo lo scritto di Cagli del novembre ’50 con quel titolo e questa affermazione: “Origine  perciò come punto di partenza del principio interiore, come bisogno di attingere alla più ingenua, primordiale natura”.

Il sigillo del “primordio”, però, è associato all’ “apertura di modalità linguistiche”  che – come spiega sempre Corà – gli hanno attirato “anziché considerazione e apprezzamento, la discutibile imputazione di eclettismo“ da parte di denigratori che non hanno saputo “cogliere le relazioni con esperienze non solo nei confronti della pittura antica, ma anche di quella di un passato prossimo alla modernità  e tanto meno dell’avvenire”. E cita gli studi dell’artista “sulla forma, sul cromatismo, sull’impiego tecnologico e sull’investimento della scienza e delle matematiche nell’arte, sul pensiero analitico, sull’estetica surrealista, sulla semiologia, sulla biologia vegetale e sulla fisica” .

E’ un’elenco di temi oltremodo eloquente, alla quale segue l’indicazione altrettanto ampia degli sviluppi artistici che sono seguiti e vanno riferiti in qualche modo a tali contenuti: dal “muralismo”  alla “modularità o interazione di segni e forme”, dalle “mascherine per ricavarne forme  e figure”  al “gettare coriandoli sulla tela appena dipinta”, dalla “pittura ad aerofago”  all’uso dei “pixel per formare un’immagine”; fino alla citazione degli artisti che ne sono stati protagonisti, Clemente e Nunzio, Festa e Schifano, Boetti, Pintaldi e Gormley, i quali “hanno saputo raccogliere ed elaborare la frontiera avanzata della sperimentazione che è già stata di Cagli e da loro portata a nuove soluzioni linguistiche”.

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“Mirko”, 1935

Un altro caposaldo, anch’esso manifestato sin dall’inizio, nel mondo artistico di Cagli, è l’apparizione di “nuovi miti”, accuratamente analizzata da Federica Pirani che osserva: “Se l’arte è la religione del mistero, come affiorava di recente negli scritti di Bontempelli, per Cagli compito dell’artista è la costruzione di nuovi miti, favole moderne  che racchiudono tutte le storie antiche”.

 Cagli stesso lo spiega così nel 1935: “Al di là delle comuni ricerche di un linguaggio  tonale, di una dignità delle tecniche e delle materie,  di una osservazione delle leggi metafisiche che pervadono la pittura, vi è una foce di fronte alla quale tutte queste fatiche non sono che fiumi: la creazione di nuovi miti. A questo è tesa, io credo, ogni vocazione del tempo”. Ed ecco come va considerato: “Ravvisando, secondo la mia vocazione, il mito nei sensi eroico e religioso delle più gravi imprese, rivendico ai creatori il compito di giudicare il tempo e  celebrarlo. Tempo non già a noi concavo, ma convesso”.

La Pirani lo collega al primo caposaldo: “Il richiamo alla poetica del primordio, alle origini come nuova nascita, gli dà la libertà di spaziare nella tradizione artistica sia occidentale che orientale, dal Medioevo a Piero della Francesca, da Paolo Uccello alla pittura pompeiana, assorbendo e facendo proprie mitologie classiche ed ebraiche  storia romana e risorgimentale trasfigurati in miti senza tempo trasposti nell’attualità”. 

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“Suonatore di flauto” , 1935

Una visione che  non poteva non interessarlo alla metafisica di de Chirico, pur senza aderirvi, mentre lo allontanava dalle suggestioni futuriste e del novecentismo. Al punto da ritenere l’arte murale come unica valida espressione di modernità, “al  neoformalismo classicheggiante, e arcaico, contrapponendo il primordiale. Nella necessità del ciclo, nella movenza di primordio, sono  visibili i segni di un superamento delle tendenze di ripiego, tra le quali è da considerare tipica la scuola del novecento milanese”.

Giudizi d’epoca, su un artista “fortemente e incredibilmente contemporaneo”

Scriveva la sua contrapposizione al neoformalismo nel “Quadrante” sin dal maggio 1933, e nel mese di luglio entrava nella polemica suscitata dalla “Triennale di Milano” –  nella quale Sironi aveva commissionato a 30 artisti tra cui Cagli le pitture murali  per lo scalone e gli spazi adiacenti – sostenendo il diverso spirito con cui l’artista affronta opere destinate a restare ed opere effimere per il solo periodo della esposizione: nelle seconde “l’artista è portato a dare spettacolo della propria arte anziché il monumento”.  E quando dopo la Quadriennale di Roma del 1935 sorsero nuove polemiche, suscitate da Pier Mara Bardi che attaccò l’organizzatore Oppo per l’assenza della pittura murale nella pur dichiarata rassegna di tutte le forze artistiche nazionali in un confronto tra tendenze e generazioni, fu facile contrapporgli i  tre  grandi pannelli di Cagli sulla bonifica delle Paludi Pontine esposti  nella manifestazione come esemplari di decorazione murale di vasta apertura sociale.   Sono considerati una sorta di pietra miliare per interpretare un cammino che presenterà continui sviluppi e notevoli mutamenti, però sempre su una base culturale-filosofica legata ai miti.

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“Veduta di Roma”, 1936-37

Lo aveva capito sin dall’inizio del suo percorso,  Spaini, “Il Quirite”,  un cronista avveduto che il 25  dicembre 1932  scrisse, sulla mostra nella Galleria d’Arte di Roma con Cavalli e Capogrossi: “E’ un temperamento fantastico, che grazie alla sua straordinaria abilità può abbandonarsi  a tutti i capricci ed a tutte le aspirazioni. Dal più ornato disegno classicheggiante, fatto di linee che sembrano sospiri, passa alla caotica  composizione satirica, che nella  esiguità del segno ricorda i negri, gli arcaici, gli artisti delle caverne; e dalle solide composizioni illustrative, dai ritratti pieni di impegno pittorico e psicologico, passa ad astrazioni misteriose e suggestive, vere trappole dell’invenzione”. Ed erano di là da venire la “quarta dimensione” e i “motivi cellulari”, le “impronte dirette e indirette” e le “metamorfosi”, le “variazioni orfiche” e le “modulazioni modulari” dei decenni successivi, presenti nelle opere esposte in mostra! 

Ma nella fase iniziale non erano mancate le critiche, soprattutto in occasione della Quadriennale citata. Così Ojetti  il 5 febbraio 1935: “Il groviglio di allegoria e realtà è indecifrabile. Lo scopo dell’artista è stato – lo scrive egli stesso – la creazione di nuovi miti; ma i miti non si creano così, a giorno fisso, per volontà dei pittori. Li creano il popolo, la religione, i poeti; e i poeti li illustrano, li ordinano, li chiarificano”.  E Marchiori il 15 maggio:  “Il pittore si vale di troppi schemi noti  ma non sa neppure ordinarli secondo una disposizione accettabile… Cagli deve abbandonare  l’arido intellettualismo e trovare il coraggio di essere se stesso, libero finalmente da ogni proposito di stupire con lo strano e il diverso”. Giudizio di confusione contrastato da Cecchi nella stessa circostanza:  “ Tutta la pittura di Cagli è ragionata, misurata. E’ un’artistica matematica superiore… dà l’idea esatta  di un cervello organizzato, di un’arte cosciente che appassiona il pittore”.

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” Senza titolo” , 1936-37

Marchiori pone dei dubbi: “La volontà di far grande’, di creare ‘nuovi miti’ è sorretta da un pari potere inventivo? La fantasia compositiva si adegua alle noblilissime intenzioni? E i valori ‘strettamente pittorici’  tengono in piedi le raffinate composizioni compositive?”. Ma se lo chiede dopo aver premesso che “Cagli appartiene alla categoria dei pittori colti: quelli che hanno letto e meditato sui problemi estetici e che  scrivono senza errori di grammatica o d’ortografia…  Nei pannelli  si passano in rivista illustri ricordi, si sfogliano intere pagine di storia dell’arte”. E conclude così: ”Ad  ogni modo tanto il Cagli, quanto il Cavalli, il Capogrossi, lo Ziveri restano  le uniche segnalazioni, se non rivelazioni, della grande mostra di Roma”.  

E’  incondizionatamente positivo il giudizio di Callari che vede “la fantasia sposata con la realtà… la contingenza dei fatti è trascesa, l’uomo è a contatto con la natura per una rigenerazione primordia purificato e spiritualizzato”; e il giudizio di De Libero che ne loda la visione “per aver percorso a ritroso le grandi epoche dell’arte, sollecitato da urgenze spirituali, da una congiuntura che è insieme della ragione e del sentimento”.  Melli, infine, il 23  febbraio 1936,  gli attribuisce “un’avidità frenetica di impossessarsi,  vivisezionare, anatomizzare il contenuto, nutrirsi dei processi e dell’anima delle espressioni artistiche, dagli antichi tempi fino ai più recenti”.  

Tali considerazioni  suscitate dalla Quadriennale del 1935 le abbiamo riportate per sottolineare come a  23 anni fossero già chiari i capisaldi della sua arte  che si alimenterà poi delle feconde contaminazioni interdisciplinari cui abbiamo accennato in un processo di incessante crescita e cambiamento di stili ed espressioni a artistiche,  appunto le “folgorazioni e mutazioni” evocate dalla mostra  Ma dopo i giudizi dei critici vogliamo citare anche quelli di due grandi artisti, in due  fasi molto lontane del suo itinerario.  

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“Concertino”, 1940

Gerardo Dottori nel 1932, al suo esordio alla Galleria di Roma,  gli riconosce “una autorità che in un giovanissimo è prodigiosa ma anche pericolosa”, e parla di “sincerità, freschezza, audacia di primitivo”. E Renato Guttuso un quarto di secolo dopo, nel 1958, sulla mostra  “Le Metamorfosi” alla galleria Schneider di Roma, nel citare “ i personaggi dei miti cari ad Ovidio”, scrive: “E’ entrato in un mondo a cui la pittura non guarda più, a miti che l’età romantica e l’avanguardia sembrava  avesse confinato per sempre nel regno del passato”. E  si segnala “sulla possibilità di esprimere  accenti di oggi, di ‘esser moderni’  anche affrontando miti antichi, senza mascherarli con un linguaggio modernista , ma estraendo un sentimento moderno pur accettando  canoni che apparentemente appartengono all’arte classica o rinascimentale”.

Perciò Emanuele lo considera “un artista fortemente e incredibilmente contemporaneo”,  e ha promosso la mostra, con la sua Fondazione, per riportarlo sulla scena artistica romana “condividendo in tal modo, con le nuove generazioni, l’eccezionale modernità della lezione di questo  indiscusso e prolifico artista del XX secolo che per oltre quarant’anni è stato protagonista di primo piano  della vita culturale di Roma”. 

Seguiremo l’itinerario della sua arte  che si snoda tra dipinti, disegni e grafiche, sculture e ceramiche, scene e costumi teatrali, percorrendo le sezioni della mostra in cui le sue opere ne danno chiara testimonianza.

“L’atelier de Francois”, 1946

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Palazzo Cipolla, Via del Corso 320,  Roma.  Da martedì a domenica, lunedì chiuso, ore 10,00-20.00 (la biglietteria chiude alle 19). Ingresso:  intero euro 7, ridotto euro 5 under 26, over 65 e particolari categorie, gratuito under 6 e disabili con accompagnatore.   fondazione@fondazioneterzopilastrointernazionale.it, Tel. 06.97625591.  Catalogo “Corrado Cagli. Folgorazioni e mutazioni”, a cura di Bruno Corà, Silvana Editoriale,  ottobre 2019, pp. 368, formato 24 x 28;  dal Catalogo sono state tratte le citazioni del testo. I prossimi due articoli sulla mostra usciranno in questo sito il 7 e 9 dicembre 2019. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli in www.arteculturaoggi.com: su Calabria, 31 dicembre 2018, 4, 10 gennaio 2019, De Chirico: 2019: il  3, 5, 7, 9, 11, 13, 15, 18, 20, 22, 25, 27, 29 settembre, 22, 24, 26 novembre, 2016:  il 17,  21 dicembre, 2015: il 1° marzo, 2013: il 20, 26 giugno, 1° luglio,  Ovidio 1, 6, 11 gennaio 2019, Futuristi 7 marzo 2018,  Picasso 5, 25 dicembre  2017, 6 gennaio 2018, Sironi 1, 14, 29  dicembre 2014, Dottori 2 marzo 2014, Cézanne 24, 31 dicembre 2013, D’Annunzio 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013, Klee 1, 5 gennaio 2013,  Deineka 26 novembre, 1, 16 dicembre 2012, Mondrian 13, 18 novembre 2012, Astrattisti 5, 6 novembre 2012; in cultura.inabruzzo.it, Realismi socialisti 3 articoli il 31 dicembre 2011, Irripetibili anni ‘60” 3 articoli il 28 luglio 2011, Sironi 26 gennaio 2009, Picasso 4 febbraio 2009; in fotografia.guidaconsumatore.it, nel 2011  Irripetibili anni ‘60” 30 luglio e Schifano 15 maggio  (i due ultimi siti appena citati, cultura.inabruzzo.it, e fotografia.guidaconsumatore.it  non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante a Palazzo Cipolla alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta; sono in ordine cronologico e saranno commentate in modo specifico nel prossimo articolo del 7 dicembre In apertura,  il presidente della Fondazione Terzo Pilastro Internazionale, Emmanuele F. M. Emanuele, alla presentazione della mostra, dietro di lui la parte dx dell’arazzo “Tancredi” 1977; seguono, “Autoritratto” 1932 e “Sirena” 1933; poi, “La nave di Ulisse” e “Il neofita” ,1933; quindi, “I vasi” 1934, e “Romolo” 1934-35; inoltre, “La caccia” e “Passaggio del Mar Rosso” 1935; ancora, “Mirko” e “Suonatore di flauto” , 1935; continua, “Veduta di Roma” e ” Senza titolo” , 1936-37; infine, “Concertino” 1940, e “L’atelier de Francois” 1946; in chiusura, “Chimera” 1946.

“Chimera”, 1946

De Chirico, IV. 3. I giocattoli, l’enigma e gli artifici della pittura, al Palazzo Reale di Milano

di Romano Maria Levante

Si conclude la narrazione della  mostra “De Chirico” al Palazzo Reale di Milano  – organizzata in collaborazione con la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, presidente Paolo Picozza, e curata da Luca Massimo Barbero, insieme al ponderoso Catalogo Electa.-   nel  quarantennale della scomparsa  e nel centenario della svolta classicista e  dopo cinquant’anni dalla grande antologica del 1970. Esposte  oltre 100 opere raggruppate in 8 sezioni tematiche, di cui abbiamo illustrato in precedenza le prime 5. E’ la volta delle ultime 3 sezioni, con le “stanze impossibili”, l’enigma dei gladiatori  e gli artifici della pittura, un finale tutto da scoprire di una mostra che ripercorre l’itinerario artistico del Maestro, mentre nel Catalogo Electa la ricostruzione di Barbero ha segnato un’altra pietra miliare insieme a quella di poco precedente di Benzi.

“Autoritratto nel parco”, 1959

Terminavamo la seconda parte della nostra narrazione preannunciando “le sorprese finali” di un percorso iniziato con la “mitologia familiare”,  proseguito con l’enigma metafisico nei misteri di Parigi, tradotto poi nell’innovativa metafisica “ferrarese” fino alla svolta classicista degli anni ’20 nei quali c’è stato anche un ritorno metafisico, con manichini e archeologi dalle linee arrotondate.

Ma gli anni ’20 ci danno ulteriori sorprese, quelle che ci piace chiamare “stanze impossibili” perché gli interni domestici sono popolati di alberi, templi e rocce; mentre nella serie dei “Mobili nella valle”, non rappresentata in mostra, avviene l’inverso, l’esterno  è popolato degli arredi domestici, in un intrigante rovesciamento di situazioni in ambedue le serie, di cui viene fornita un’interpretazione suggestiva.

Alberi, templi e cavalli  come giocattoli negli  interni domestici

La metafisica “ritornante” nella seconda metà degli anni ’20 si presenta dunque  senza il carico di sospensione e di ansia di quella delle origini, mentre le memorie autobiografiche tornano a permeare la visione dell’artista. Per questo  i “Mobili nella valle” sono ispirati da esperienze personali, il ricordo d’infanzia del terremoto allorché la sua famiglia fu costretta a traslocare portando i mobili in strada e, più in generale, i traslochi cui aveva assistito dei quali gli era rimasta impressa l’attesa dei protagonisti fissata nella sua memoria dai mobili posti nel luogo meno appropriato, l’esterno.

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“Tempio in una stanza”, 1926

Anche per la situazione speculare degli alberi, templi e rocce nel luogo ancora meno appropriato, la stanza, c’è una spiegazione, ma prima vogliamo descrivere le 3 opere realizzate in stretta successione  temporale, dal 1926 al 1928. In “Tempio in una stanza” , l’oggetto del titolo è posto su un promontorio roccioso confinante con un tappeto a strisce bianche  e blu che ricorda il mare, il “suo” mare, su un pavimento a piastrelle, della stanza si vede solo un parete di legno; “Ma chambre dans le midi”   invece mostra la stanza nella sua ampiezza, non più claustrofobica come la precedente, non solo il tappeto viola con linee bianche  su un vasto pavimento, anche lo scorcio del suo  letto disfatto e una porta alla destra, e al centro un gruppo di alberi dai tronchi altissimi, nonché due edifici, uno dalle pareti rosa con persiane verdi, l’altro dalla facciata gialla. Nel “Tempio greco”  un’altra variante, della stanza solo i contorni oltre al tempio, di dimensioni ridotte  rispetto alla prima opera citata, quasi una  cappellina, una colonna appoggiata alla parete, un corso d’acqua, un promontorio che  prosegue con costruzioni sulla cima.

La chiave interpretativa di  questo nuovo enigma l’ha data lo stesso de Chirico anni prima, profeticamente quando, nel 1920, sul “Classicismo pittorico” della svolta incipiente scrive: “Il tempio greco è a portata di mano, sembra che lo si possa pigliare  e portare via come un giocattolo posato sopra un tavolo”.

Così la 6^ Sezione della mostra è intitolata “La stanza dei giocattoli”, che non si limitano a quelli indicati. Vi sono anche i cavalli sin dall’inizio, è del 1926 “Cheveaux dans une chambre” due nobili destrieri rampanti scalpitano in un interno ristretto con un’ampia finestra su un cielo celeste dalle vaghe striature bianche; è un tema nietschiano, la pazzia del filosofo iniziò con l’abbraccio a un cavallo, e  rimandano al leggendario  Pegaso, sono simboli del lato dionisiaco da domare e richiamano quelli del fregio del Partenone, a lui molto familiari.  

Genealogie d’un réve”, 1927-28

Nello stesso anno  quei cavalli in una posizione statuaria simile, quasi teatrale e non certo realistica,  li rappresenta in “Chevaux  au bord de la mer”  sulla spiaggia con dei templi lontani su un promontorio; mentre, sempre nel 1926,  in “Le rive della Tessaglia” raffigura  plasticamente come il cavallo sia legato alle sue origini, la Tessaglia dov’è il paese natale Davos, con i volti senza occhi del cavallo bianco, in posa di riposo,  e del guerriero nudo al suo fianco;  per  Fagiolo dell’Arco ”Achille pascola il suo cavallo … tra schegge metafisiche, come il piedistallo il portico, il faro”.

In   Cavalli e rovine in riva al mare”, 1927, tornano i cavalli scalpitanti,  non più rampanti ma  quasi congelati in un biancore raggelante fra tronconi di colonne con un tempio in cima a un promontorio in lontananza.  Barbero osserva che “i due puledri stanno subendo un vero processo di gessificazione”, Sergio Solmi nel 1931 li ha definiti “bianchi cavalli pietrificati  in riva al mare sbiadito e riccioluto di spume d’una Grecia di fantasia”, e per Gadda nel 1938  “i bianchi cavalli… assistono con occhi stupefatti alla marina, dove non è che memoria, ancora memoria”.

 Jean Cocteau l’anno successivo aggiungerà elementi rivelatori alla chiave  interpretativa: “C’è niente di più realistico che dipingere la cosa immaginata nella stanza in cui la immaginiamo?” Non si può che concordare, si tratta evidentemente di una visione onirica e, se “i sogni son desideri”, come nella nota canzone, lo sono quelli  dell’artista che rivive le sensazioni dell’infanzia nella sua terra, con il suo mare, i suoi alberi e i suoi templi, i suoi cavalli. Il poeta aggiunge: “Quel che stupisce è che la fattura del dipinto  non mostra alcuna differenza fra   la stanza e l’immaginazione”, e cita espressamente “gli alberi che spuntano dal pavimento”.

“Chevaux dans une chambre” , 1926

Li abbiamo visti in “Ma chambre dans le midi”, li rivediamo in Généalogie  d’un réve”, 1927-28,  incorporati, con un edificio dietro di loro, nel torace di un tipico  manichino seduto, con le  lunghe braccia e le  gambe corte, ristretto nell’angolo di una stanza , la “sua” stanza,  il letto  a destra, tappeti,  piastrelle e parquet del pavimento, una porta. In “Naissanse d’un mannequin” de Chirico scriverà nel 1938-39: “E’ molto consolante che al posto di una clamide il pino sul suo tronco si erga a piramide . Egli porta sul suo tronco il suo destino subcosciente”. Si tratta, in questi interni, del pino marittimo della sua terra, ben diverso dagli alberi dalle chiome folte delle “Ville romane” di cinque anni prima, nel sogno ora opera il “subcosciente”.

Ma non basta, nei pirotecnici anni ’20 di nuovo de Chirico cambia tutto, lo vediamo in “Due figure mitologiche (Nus antiques, composizione mitologica)”  del 1927, l’anno dei diversissimi  alberi con i templi , e il  manichino in una stanza, e dei cavalli in riva al mare, più assonanti nelle loro rotondità con le massicce figure quasi compresse nell’interno molto ristretto. Ne dipinse 5, nel suo ritorno all’antico nella forma pittorica oltre che nella costante ispirazione,  sono stati avvicinati al neoclassicismo di Picasso, ma non è una derivazione, bensì hanno una matrice comune. “Sembrano due dee in un tempio claustrofobico – commenta Barbero – con un’unica via di fuga: la piccola finestra, piuttosto una fessura, dalla quale si scopre uno scampolo di cielo turchino”. E conclude: “De Chirico si sta avviando a quelle forzature che caratterizzeranno il ciclo dei Gladiatori, quegli eroi immensi ma dai corpi dinoccolati, quasi snodabili”.

Sono l’oggetto della 7^ Sezione, in cui si passa dai manichini alle figure  umane, del tutto nuove, i “ Gladiatori” e gli ineffabili soggetti che popolano i “Bagni misteriosi”.

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“Due figure mitologiche (Nus antiques, Composizione mitologica)”, 1927

L’enigma nell’umano, dai “Gladiatori” ai “Bagni misteriosi”

Ci introduce ai “Gladiatori”, con cui si apre la 7^ Sezione, “Un viaggio nell’enigma” ,  la citazione che Barbero fa di Ebdòmero, il protagonista del romanzo di de Chirico del 1929, il quale,  proprio mentre l’artista li dipingeva nella casa del suo mercante  Rosenberg, li presenta così: “…In una sala vasta e alta di soffitto, ornata secondo la moda del 1880. Completamente vuota di mobili,  in un angolo due gladiatori dalle maschere di scafandro si esercitavano senza convinzione … Gladiatori! ‘Questa parola contiene un enigma’”. Nel 1939 Gadda li definirà “eroi [che] vorrebbero inveire contro gli antagonisti eroi, e schinieri, usberghi, scudi lance  e criniti cimieri passano pronti alla rissa”. De Chirico  nel 1920, sul “Ratto delle Sabine” di Poussin visto al Louvre aveva scritto che  “simili a statue,  s’incastrano e… malgrado il movimento della lotta, i corpi hanno quel divino senso di stabilità e immobilità senza il quale un’opera non giunge mai alla grande arte”. Per cui, quando li dipingerà anche lui, otto anni dopo, si atterrà a questo suo giudizio preventivo.

Vediamo intanto il dipinto più anomalo, sia perché non sono gladiatori ma aurighi – ma li anticipa fedelmente con i corpi nudi  non più manichini – sia per la sua forma molto allungata,   “Corsa di cavalli nella stanza (Corsa di quadrighe)”, 1928. Si dipana  la corsa con gli aurighi nudi  in posa statuaria, alla guida dei carri che si scontrano, anche in lotta tra loro, come in un fregio antico, in una serie di  scene successive, come fotogrammi; un  termine che non abbiamo usato a caso perché Fagiolo dell’Arco ne riconduce l’atmosfera, piuttosto che  all’epica del Ben Hur del 1880, alla spettacolarizzazione cinematografica e alla relativa promozione, affermando che “agiscono senza convinzione, sono degli attori pietrificati che smettono di credere davvero ai ruoli che interpretano”.

“”La scuola dei gladiatori: il combattimento“, 1928

Gli altri dipinti, tutti del 1928-29 –  a parte  “Throphée”, con le armi ridotte ad orpelli ornamentali, fu posseduto per qualche tempo da Picabia –  raffigurano  i guerrieri  veri  e propri, armati  come li ha descritti Gadda.  In  “Gladiateurs (Gladiatori)” del 1928,  sono soltanto due che si fronteggiano, uno con maschera, l’altro senza, dinanzi a una figura che sembra una statua con la testa a uovo, l’unico residuo metafisico; la stessa figura che si intravede anche in “Les gladiateurs” del 1929, con davanti il numero di gladiatori raddoppiato, altri si vedono dietro due finestre; vi sono anche i “Gladiatori in  riposo”, 1928-29, con le teste ricciolute e i corpi nudi scolpiti da forti ombreggiature. Dalle singole tenzoni, e dal  riposo dei guerrieri, alla battaglia, o se si vuole alla “rissa” evocata da Gadda: la vediamo in “La scuola dei gladiatori (Il combattimento)”, 1938, e in  “Combattimento (Gladiatori)”, 1928-29, in entrambi un groviglio inestricabile di corpi nudi, soprattutto in piedi ma anche a terra, che cercano di colpirsi, nel primo ci sono  dei cavalli stretti tra i combattenti.

Viene rievocato da Giovanni Casini, a proposito di  “De Chirico e il corpo maschile”, il suo interesse per “I lottatori” di Courbet – inserì la riproduzione dell’opera nella nota sull’artista pubblicata nei “Valori Plastici” nel 1925, prima che vi si cimentasse lui stesso – le cui opere definisce  “delle narrazioni, dei passaggi di un romanzo dove i personaggi non appaiono  nel loro aspetto corrente  (verismo) ma nel loro aspetto poetico e fantomatico (realismo)”.  Più che guerrieri antichi sono muscolosi lottatori contemporanei  di lotta greco-romana, mentre quelli di de Chirico hanno la carne  flaccida  e, pur riportando l’incarnato umano dopo i manichini ortopedici, non hanno nulla di eroico, il suo “gladiatore”  si avvicina piuttosto al “lottatore” di Honoré Daumier, per nulla statuario.   Casini li ricollega allo stretto rapporto di dc Chirico con il mercante  a lui vicino  Rosenberg, considerato “un esemplare dell’uomo moderno del dopoguerra: sportività, attività e fede nel macchinismo”, schermidore e pugile, per cui i “gladiatori” evocherebbero gli sportivi in allenamento e in gara,  a cui il protagonista autobiografico del suo romanzo, Ebdòmero, attribuisce “pose  piene di stile e di nobiltà”. Ed ecco come li descrive: ”A parte qualche scena di lotta più simile a un’ammucchiata  o a un blocco policromo e immobile che a un  effettivo combattimento, i gladiatori sembrano privi di volontà di agire”; e su de Chirico aggiunge che “opera nei suoi gladiatori un rovesciamento parodistico di un ideale di virilità e di corpo maschile che verso la fine degli anni venti e  soprattutto  negli anni trenta sarebbe stato strumentalizzato tragicamente dai regimi totalitari”.

“Gladiateurs au repos”, 1928-29

Per Barbero, “l’incarnato dei corpi ha un tono artificiale, le forme  allungate stirano  i  muscoli fino a fargli perdere ogni  connotato di virilità… l’ironia è talmente palpabile  in quella pittura molle…  che quegli uomini di gomma allontanano  ogni possibile visione neoclassica o, peggio ancora, retorica o reazionaria…” Poi, richiamando il dipinto di Renoir con i soldatini, conclude così: “Anche se i gladiatori  dechirichiani non sono infatti veri combattenti  e, dunque,  reali figure umane, l’artista  sta cominciando a volgere l’attenzione verso una nuova evoluzione che caratterizzerà proprio gli  anni trenta con un’attenta riflessione sulla pittura del maestro impressionista, già cominciata fin dal 1920”.

Vi sono stati i  nudi e le figure arrotondate alla Renoir, nella produzione del periodo, ma questa citazione introduce gli altri protagonisti della sezione, i “Bagni misteriosi”, l’ulteriore “invenzione” di de Chirico nella prima metà degli anni ’30, che racchiude in sé l’ennesimo enigma. Anche in questo caso, come per i  “Gladiatori”, troviamo una sua anticipazione quasi 15 anni prima, in uno scritto su Klinger del 1920,  dove parla dei ricordi di infanzia che gli davano “un gran senso di sgomento”, e cita al riguardo  “una scaletta di legno simile a quelle delle cabine  negli stabilimenti balneari, e di cui si vedono i primi gradini che scendono nell’acqua… mi sembrava dovessero scendere… fino nel cuore delle tenebre oceaniche”. L’occasione di esprimerlo nell’arte la ebbe quasi dieci anni dopo  nell’illustrare, con 66 litografie,  i “Calligrammi” dell’amico poeta Apollinaire, fu un primo assaggio;  troviamo i “Bagni misteriosi” nell’espressione più compiuta nelle 10 litografie create per illustrare l’opera di Jean Cocteau, “Mythologie”.

Les gladiateurs” , 1929

A parte il ricordo d’infanzia, l’idea, come lui stesso scrive, gli venne alla vista di una persona che camminava su un pavimento lucidissimo, tirato a cera, e sembrava  che potesse “affondare in quel pavimento, come in una piscina”.  Di qui l’illuminazione:  “Così immaginai delle strane piscine con uomini  immersi in quella specie di acqua-parquet, che stavano fermi, e si muovevano, ed a volte si fermavano per conversare con altri uomini che stavano fuori della piscina-pavimento”.  Ha detto tutto, basta aggiungere la differenza tra gli uomini fuori piscina, vestiti, che sembrano dominanti, e quelli nell’acqua, inermi, anche a questo riguardo era così che li vedeva quando si recava nelle piscine; e va considerato il significato  metafisico delle cabine, “ogni cabina contiene un fantasma” ebbe a scrivere. Mentre Calvesi fa risalire alla pittura egizia l’andamento a zig zag dell’acqua-parquet.

Il mistero è anche nei titoli. Questi per le litografie, tutte del 1934: “L’ospite misterioso” e “L’apparizione del cigno”, “La figura inspiegabile” e “Il bagnante solitario”, “Il centauro misterioso” e “L’idolo nei bagni misteriosi”,  “Sotto la cabina misteriosa” e “Nella piscina inquietante”, “Conversazione misteriosa” e  “Raduno inspiegabile”. E per i dipinti del 1935:  “La visita ai bagni misteriosi” – con le cabine “occhiute” e il confronto visivo uomini nudi-uomini vestiti – e “La barca dei bagni misteriosi”, surreale come quella di Ulisse-Ebdòmero. Del 936 “Bagni misteriosi a Manhattan”, con la cortina di grattacieli, a testimonianza del fortunato viaggio negli Stati Uniti, che accolsero i “Bagni misteriosi” con straordinario favore, mentre nella “Quadriennale di Roma” del 1935 erano stati accolti male dalla critica, del resto prevenuta.

“I Bagni misteriosi” , 1934-35

Ma non solo i “Bagni”, a New York  espone 26 opere in una mostra con Surrealisti e Dada al MoMA, inoltre  decora, con Picasso e Matisse, una sala alla Decorators Picture Gallery, e da solo una parete dell’istituto di bellezza di Helena Rubinstein, realizza un grande murale su soggetto mitologico per la sartoria Scheiners. E’ entusiasta della metropoli americana, vi trova un senso metafisico negli edifici, per l’architettura, con “l’omogeneità e la monumentalità armonica, formata da elementi disparati ed eterogenei”, e  con  l’assenza di persiane “così spesso di notte gli appartamenti, le camere rischiarate sembrano, viste dalla strada, grandi vetrine di negozi e di bazars”. Vorrebbe fermarsi a lungo, ma  nel 1937 alla morte della madre  torna subito in Italia sul transatlantico Rex.

Nel 1973 realizza per la Triennale di Milano la fontana dei “Bagni misteriosi” per il giardino di Parco Sempione, in mostra è esposta la “maquette” , ci sono  un cigno e un pallone variopinti nella piscina-parquet con due cabine. E, innovazione nell’innovazione, un sole ardente  e un sole spento, che ci introducono nell’ultima sezione della mostra, in cui ritroveremo questo tema.

Gli “artifici della pittura”, le repliche e gli autoritratti, con  la gioiosa Neometafisica

E’ un tema, quello del sole acceso e spento con i fili elettrici, che  appartiene alla nuova stagione metafisica degli anni ’60 e ’70,  in chiusura della mostra, ci torneremo tra poco. Intanto, entrando nell’8^ e ultima Sezione,   “Gli artifici della pittura”, siamo ancora nell’anno dei “Bagni misteriosi” ma  con tutt’altra espressione pittorica, nella ben nota compresenza multiforme.

“Bagni misteriosi II (La visita ai bagni misteriosi)” , 1935

Si tratta di composizioni classiciste del 1934, come “I dioscuri con rovine e architetture”, con le figure maschili in piedi nude che ricordano quelle in “Il saluto degli argonauti partenti” del 1920, alla svolta dopo la prima metafisica; e  “Bagnanti sopra una spiaggia”, con il nudo femminile alla Renoir mollemente disteso in primo piano e altri nudi in secondo piano. La peculiarità di queste opere è che ne richiamano molto da vicino altre, sia pure con numerose varianti:   la prima richiama “Castore e Polluce” del 1930,  simili ma non uguali le figure maschili, di cui una regge lo stesso drappo anche se cambia il braccio  e i cavalli di cui muta il colore; la seconda la ritroviamo replicata nel 1945 con il titolo “Bagnanti (con drappo rosso nel paesaggi)” , invece il drappo nell’opera precedente era celeste, e il paesaggio è una campagna con alberi dove prima c’era la spiaggia e il mare, i nudi di sfondo da 4 sono diventati 2, non è invecchiata la protagonista, la moglie Isa,  che ha fatto  dire a Vittorio Sgarbi: “Il nudo di Isabella entra di diritto tra i classici italiani, tra la Venere di Urbino e la Paolina Borghese di Antonio Canova. Gli dei, e le dee, sono tornati”. Invece non ci sono varianti  visibili tra “Vita silente” e “Natura morta con calco antico e cacciagione” , la prima del 1928 e la seconda del 1930 con un diverso titolo che sorprende dato che rifiutava di chiamare “natura morta”  fiori e frutti che per lui erano “vita silente”.  

Naturalmente,  non sono questi i dipinti che hanno posto il problema delle repliche e delle datazioni, ma le opere della cosiddetta “Neometafisica”, con le quali l’artista è tornato massicciamente sui temi del passato metafisico, però con tinte più calde e con una visione disincantata e serena che ha sostituito la sospensione ansiosa e spesso angosciosa, tanto che è stata chiamata, nella mostra di Campobasso del 2015,  “gioiosa Neometafisica”. Così la definisce  Barbero: ’De Chirico si libera totalmente del peso della stretta datazione e si reimpossessa lucidamente e in modo straordinario non del suo passato, ma della sua visionarietà. La neometafisica è un mondo nuovo che presenta  una delle facce del cristallo sfaccettato delle invenzioni dechirichiane ma in una chiave completamente libera, con una pittura, altrettanto scarna, forte di un disegno  nero, quasi de Chirico ritornasse  sognante alle grandi invenzioni metafisiche e ai suoi giochi più illuminati”.

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“La barca dei bagni misteriosi”, 1935

Si impegna in una “produzione serrata” tornando sui temi  che hanno avuto maggiore presa nel passato, “che reinterpreta liberamente in una sorta di d’aprés, e che ne escono ancora più lucidi, più brillanti e cristallini, appunto come un sogno fatto ad occhi aperti”, sogno e non più incubo. Sono esposte addirittura tre repliche di  “Le Muse inquietanti”, datate 1925,  1950 e fine anni ’50, praticamente identiche alla prima del giugno 1918, quella da lui duplicata allora per accontentare Breton che poi ne approfittò per attacchi forsennati  che tanto pesarono sulla critica, largamente fuorviata se non strumentalizzata, e sulla vita stessa del Maestro ingiustamente calunniato e perseguitato.

Molte polemiche su questo aspetto della multiforme genialità di de Chirico, che lo portava anche a provocazioni, fino a retrodatare talune opere o, di converso, a negare l’autenticità di altre per rivalsa su Breton e i suoi accoliti. Le  reiterazioni, del resto, rientrano  nel concetto di arte da lui espresso con queste parol:. “La mia idea è una mia idea, e l’anno in cui la rieseguo non importa”, oltre che nel suo concetto di tempo con l’“eterno ritorno”. Colpì talmente Andy Warhol, il capofila della Pop Art, che alle “Muse inquietanti” dedicò uno dei suoi celebri multipli, “Disquieting Muses (After de Chirico, Muse inquietanti)”, del 1982, anno in cui in una doppia pagina del catalogo della mostra “De Chirico, New York”  c’erano riprodotte diciotto versioni di tale opera, sembra una moltiplicazione da”apprendista stregone” . Warhol disse ad Achille Bonitoliva in occasione di  tale mostra: “Ho sempre ammirato de Chirico. Ha ispirato molti pittori… Mi piace la sua arte  e poi quell’idea di ripetere sempre e sempre gli stessi dipinti. Mi piace molto quest’idea e ho pensato che sarebbe stato magnifico farlo”.  Furono fotografati da Gianfranco Gorgoni insieme a New York, immagine  eloquente con Warhol allucinato e scomposto, de Chirico statuario e tranquillo, quasi il Maestro a fianco all’allievo che appare sconvolto da tale vicinanza.

“Vita silente”, 1928

Gli anni ’40  e ’50 sono anche quelli degli “Autoritratti”, nella proiezione teatrale – tale è anche lo spettacolare “Canal Grande a Venezia”, 1952 – che  lo ha accompagnato nel suo lungo itinerario artistico con le tende che spesso marcano la scena. In  questa forma espressiva molto personale esplode in modo anche provocatorio, tanto da suscitare molte critiche. Lo vediamo nell’”Autoritratto in costume da torero” nel 1941-42, “in costume nero” nel  1948, “nel parco” nel  1959,  pose  statuarie e vesti sgargianti in ambientazione di tipo teatrale, risponde alla stessa logica “Corazze con cavaliere” del 1940. Mentre l’”Autoritratto nudo”, 1943, è definito da Barbero “di una sfrontatezza senza precedenti… un’opera spregiudicata perché è, sì, Narciso, ma è anche istigazione ironica…” e dallo stesso de Chirico, “forse la pittura più completa che io abbia eseguito finora”, in origine tutto nudo, poi per l’esposizione aggiunse un asciugamano annodato, anche se seduto  non era inverecondo.  Luigi Ontani lo ha ripetuto con sé stesso due volte a distanza di 33 anni, la prima volta con un asciugamano analogo, la seconda in slip, e Giulio Paolini ne ha fatto l’approdo di un intrigante avvicinamento nella mostra del 2010, “L’enigma dell’ora”. Savinio ne parla così. “Il ritratto è una rivelazione. E’ la rivelazione del personaggio. E’ ‘lui’ in condizioni di iperlucidità. E’ ‘lui’ come egli stesso non riuscirà mai a vedersi nello specchio, come non riusciranno mai a vederlo familiari, i conoscenti, gli amici, coloro che lo incontrano per strada”.  Nel 1940-43 “Autoritratto”, un primissimo piano del volto con uno sfondo lontano, alcuni anni prima il celebre “Autoritratto nello studio di Parigi” del 1934, in piedi a figura intera con tavolozza e pennello davanti al cavalletto, con una testa di statua a terra che  lo guarda  in modo interrogativo, creando un enigma nel luogo meno misterioso, il suo atelier; lo presentò alla “Quadriennale” di Roma del 1935, con altri dipinti in tono dimesso che suscitarono molte critiche, erano gli anni della monumentalità di Sironi, nella mistica di regime. 

Il cavalletto lo ritroviamo tra squadre da disegno “ferraresi” in “Interno metafisico con sole spento”, 1971,  quarant’anni dopo averlo evocato nei “Calliogrames” per Apollinaire del 1930,  ispirandosi a un ventilatore Marelli; i due soli, dardeggiante e spento li vediamo anche in “Spettacolo misterioso” dello stesso anno.

E’ un “inno al sole”  in ambienti non claustrofobici, con ampie finestre sull’esterno, che segue di due anni il “Ritorno al castello” dove il cavaliere sul ponte levatoio – come quelli che combattono ammucchiati in “Battaglia sul ponte” –  è fatto di ombra, con una dentellatura che richiama quella del “sole spento”. Un altro  enigma dei tanti diffusi dell’artista?

“Interno metafisico con sole spento”, 1971,

Nell’anno intermedio, 1970, abbiamo “Orfeo, trovatore stanco” che chiude la mostra. “Il trovatore” è uno dei maggiori capolavori, con il manichino sempre in piedi nelle creazioni del 1917 e 1924, 1935 e 1948;  ora invece è seduto ai margini di una “Piazza d’Italia”, si appoggia alle squadre “ferraresi”, una sintesi della “sua” metafisica, e getta ai propri piedi la lira, lo strumento del mestiere che corrisponde a pennello e tavolozza del pittore.  Secondo Barbero, l’opera “conferma la  consueta ironia dechirichiana”, e noi notiamo una tenda sulla destra, quasi  abbia voluto lasciare il segnale che si tratta di una mera rappresentazione teatrale, non di un proprio stato d’animo di stanchezza; tanto meno di una resa.

Di dieci anni prima, del 1960,  il “Trovatore stanco”, disteso e non seduto come Orfeo, ma de Chirico  ha proseguito l’itinerario artistico, e anche nel 1970  non si ferma di certo:  nel 1971 oltre al citato’Interno metafisico con sole spento” ricordiamo “Spettacolo misterioso” e Termopili”, “Il meditatore” e “Il tempio del sole”,  fino a “Il grande gioco (Piazza d’Italia)”, nel 1973 “Muse della lirica”, “Il mistero di Manhattan” e “Gli arredatori veneziani”, nel 1974 “Mistero di una stanza di albergo a Venezia”, nel 1975 “Testa di animale misterioso”.   

E’ inesauribile, e  Barbero lo conferma concludendo con le seguenti parole: “I dipinti di questo ultimo periodo mostrano un’infaticabile volontà di de Chirico di giocare con le proprie invenzioni, di aggiornarle con le nuove fonti di cui si nutre: essi riuniscono, in un canto altissimo, tutta l’invenzione e il mistero di uno dei più grandi pittori del XX secolo”. 

Ci sembra possa essere la migliore conclusione del quarto petalo del nostro “quadrifoglio” dechirichiano,  a celebrazione del quarantennale della scomparsa del Maestro, nel quale la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico ha calato il “poker d’assi” in suo onore. Oltre al “Film” della sua vita e della sua opera di Fabio Benzi, le tre mostre di Genova, Torino e Milano con il nuovo “Film” di Luca Massimo Barbero: quello che era il “triangolo industriale” è diventato  così il “triangolo artistico” del grande Giorgio de Chirico. 

“Autoritratto nello studio di Parigi”, 1934

Info

Milano, Palazzo Reale,  Piazza del Duomo, 12. Tutti i giorni apertura ore 9,30, chiusura lunedì  ore 14,30, martedì, mercoledì, venerdì, domenica ore 19,30, giovedì, sabato ore 22,30, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura. Biglietti, intero euro  14, ridotto 12, ridotto speciale  6, famiglie 1, 2 adulti euro 10, da 6 a 14 anni euro 6, gruppi euro 10, scuole euro 6. Info e prenotazioni tel. 02.92897740. Catalogo “De Chirico” a cura di Luca Massimo Barbero, Editore Marsilio/ Electa , settembre 2019,  formato 23 x 32; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Si tratta della quarta  parte, sulla mostra di Milano, dopo le tre della “trilogia” su de Chirico nel quarantennale della scomparsa e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità: i 2 articoli precedenti sono usciti in questo sito il 22 e 24  novembre scorso, con questo articolo si conclude il  nostro “quadrifoglio” dechirichiano in 16 articoli.  Per la “trilogia” cfr. i nostri articoli, tutti del settembre 2019, usciti rispettivamente, per la  terza parte sulla mostra di Torino il 25, 27, 29, per  la seconda parte sulla mostra di Genova, ,il 18, 20, 22, per la prima parte sul  libro di Fabio Benzi  il 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15, 25, 27 settembre 2019. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del primo articolo sulla mostra, del 22 novembre. Sugli artisti citati nel testo, cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com,  Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018,  Sironi 2 novembre 2015, 1, 14, 29 dicembre 2014, Matisse 23, 26 maggio 2015, Renoir e impressionisti 5 febbraio, 12, 18, 27 gennaio 2015, Warhol  15, 22 settembre 2014;  in cultura.inabruzzo.it, nel 2010, Teatro del sogno 7 novembre, 1° dicembre, Renoir e impressionisti 27, 29 giugno, Dada e surrealisti 6, 7 febbraio; nel 2009,  Picasso 4 febbraio (questo sito  non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini delle opere di de Chirico, che riguardano le ultime 3  sezioni della mostra commentate nel testo,  sono state riprese dal Catalogo tutte meno 6 (perché in doppia pagina), si ringrazia  l’Editore, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta. Le 6 immagini non riprese dal Catalogo  sono tratte dai siti di seguito indicati, di cui si ringraziano i titolari per l’opportunità offerta con la loro disponibilità “on line”, pronti a rimuoverle su semplice loro richiesta: la n. 2 è tratta da pinterest.cl e la n. 5 da artribune.com, la n. 6 da phillips.com e la n. 7 da lavocedinewyork.com, la n. 11 da artnet.it e la n. 15 da artesky.it. Tutte le immagini sono diverse da quelle inserite negli altri 13 articoli della “trilogia de  Chirico”, 15 ogni articolo,  alle quali si rinvia per una visione più completa del “Film” della vita e dell’opera del grande Maestro.  In apertura, “Autoritratto nel parco” 1959; seguono, “Tempio in una stanza” 1926, e “Genealogie d’un réve” 1927-28; poi, “Chevaux dans une chambre” 1926, e “Due figure mitologiche (Nus antiques, Composizione mitologica)” 1927; quindi, “”La scuola dei gladiatori: il combattimento” 1928,“Gladiateurs au repos” 1928-29 e “Les gladiateurs” 1929; inoltre, “I Bagni misteriosi” 1934-35, “Bagni misteriosi II (La visita ai bagni misteriosi)” e “La barca dei bagni misteriosi”, 1935; ancora, “Vita silente” 1928, e “Interno metafisico con sole spento” 1971; infine, “Autoritratto nello studio di Parigi” 1934 e, in chiusura, “Autoritratto” 1940-45.

“Autoritratto”, 1940-45

De Chirico, IV. 2. Ferrara, la svolta classicista e il “ritorno” metafisico, al Palazzo Reale di Milano

di Romano Maria Levante

Prosegue la narrazione della mostra “De Chirico” al Palazzo Reale di Milano  –  nel  quarantennale della scomparsa  e nel centenario della svolta classicista e  dopo cinquant’anni dalla grande antologica del 1970 – con oltre 100 opere del  Maestro, organizzata in collaborazione con la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, presidente Paolo Picozza, a cura di Luca Massimo Barbero che ha curato anche l’imponente Catalogo Electa.  Dopo aver illustrato le prime 2  sezioni, passiamo alle 3 successive, che riguardano l’evoluzione “ferrarese” della metafisica, seguita dalla svolta classicista del 1919 e dal ritorno metafisico negli anni ’20, tappe intermedie di un percorso ricco di sorprese.

Il pomeriggio soave”, 1916

Il passaggio da Parigi a Ferrara non è di poco conto, fu la guerra a determinarlo, con la risposta dei fratelli de Chirico al richiamo alle armi. Sembra che non fosse doverosa, come per Apollinaire che si arruolò, sebbene fosse francese, essendo nato a Roma, così per i de Chirico nati in Grecia, ma da italiani, quindi si sentivano tali e lo ritenevano, come l’artista ha scritto, “il  nostro dovere”. Rientra nella riaffermazione di identità di chi nelle molte peregrinazioni vuol sentirsi radicato in una terra.

 La metafisica “ferrarese”, tra biscotti e manichini

“Ferrara, l’officina delle meraviglie” – nell’invitante richiamo della 3^ Sezione della mostra – fu  creata  dagli Estensi in un territorio paludoso lungo assi ortogonali, de Chirico la definisce  “città quanto mai metafisica”, perché la trova “solitaria e di geometrica bellezza”, come le sue “Piazze d’Italia”  immerse nella solitudine con la geometria degli edifici, le arcate e le ombre.  Ma non sono gli aspetti urbanistici  peculiari e assonanti con la prima Metafisica,  a  caratterizzare la nuova metafisica, bensì caratteristiche altrettanto peculiari, ma più “interne”, si direbbe connaturate alla comunità locale. Nei negozietti soprattutto del quartiere ebraico – all’ebraismo de Chirico aveva rivolto molta attenzione  a livello teorico – le povere vetrine con la loro   “disposizione delle cose”  evocavano quelle “associazioni spaesanti e inattese degli oggetti” che abbiamo già visto nella fase immediatamente precedente.

Lo riscontriamo  in “”Il pomeriggio soave”, 1916, con i biscotti cosiddetti “crumiri” – che evocano alla rovescia le lotte dei lavoratori – ce ne sono  5 fissati su un riquadro blu dietro cui si apre una piazza ben diversa dalle  “Piazze d’Italia” perché senza reale prospettiva,  profondità  e dimensioni,  dai contorni scuri senza vere ombre che fanno sentire maggiormente  il senso di isolamento. Il biscotto come simbolo della “terribile solitudine delle cose” che rende misteriosa la vita, lo farà capire  scrivendo, nel  1919, “un biscotto, l’angolo formato da due pareti un disegno evocante un che della natura del mondo scimunito e insensato che ci accompagna in questa vita tenebrosa”. 

“Il saluto dell’amico lontano”, 1916

Nello stesso 1916 un solo biscotto “crumiro”, anche qui su fondo blu, con un pezzo della tipica “coppia” del pane ferrarese su fondo rosso, circondano, per così dire, il gigantesco “occhio” su fondo bianco nel “Saluto all’amico lontano” che viene identificato nell’amico mercante Paul Guillaume, al quale darà il mandato di vendita dei propri quadri dopo la rottura con Breton, che anche per questo fatto che lo danneggiava sul piano professionale ed economico diventerà un nemico ancora più irriducibile, ma su questo torneremo in seguito. Dopo aver spiegato l’enigma dei biscotti si cerca  una spiegazione all’enigma dell’occhio e la si trova nella concezione del Maestro  che, seguendo le credenze degli “antichissimi cretesi”,  gli attribuiva il potere di tenere lontane  le energie negative, in quanto “allo stadio primo”  ogni feto è “tutto un occhio. Bisogna scoprire il dèmone in ogni cosa”. E questo in una visione claustrofobica, senza neppure la falsa prospettiva di una piazza appena accennata, in cui  viene avvertita l’inquietudine della guerra. Anche se, a differenza di tanti volontari,  de Chirico non andò al fronte ma fu destinato a un  ufficio nelle retrovie, e per questo riuscì a non interrompere del tutto la pittura nemmeno in quel periodo.

Abbiamo anche dei disegni in cui  si nota come sia mutevole il senso claustrofobico dell’addensamento in una stanza ristretta. Mentre in  “La sposa fedele” al mezzo manichino di spalle si apre la prospettiva di un corridoio con in fondo una finestra da cui si vede un alto palazzo con molte finestre e due ciminiere  svettanti, in “L’apparizione”  tanto il manichino seduto con la testa a uovo canonica che la figura eretta  a lui apparsa sono compressi in uno spazio di cui si avverte la ristrettezza  pur nei contorni sfumati; sono entrambi del 1917. Nel  1918 “La casa del poeta” e Consolazioni metafisiche”  presentano un assemblaggio di elementi, come gli immancabili biscotti “crumiri”,   in spazi limitati  e senza l’umanità, sia pure metafisica, dei manichini; ma in entrambi il vano di una finestra apre la vista sugli edifici all’esterno.

“Interno metafisico con faro” , 1918

In questi disegni vi è sempre “un incastro di squadre”  da disegno – altra peculiarità della metafisica “ferrarese” –  delle quali il Maestro pochi anni dopo, nel 1919, all’atto di operare una prima svolta radicale, scrive che le vedeva “sempre spuntare come astri misteriosi dietro ogni mia raffigurazione pittorica”. Sono parte integrante della struttura portante del celebre “Trovatore” , opera del 1917 in cui il manichino acquisisce solidità e  forza espressiva, con una  nobiltà che ritroveremo in molte varianti, da ”Ettore ed Andromaca” al “Figliol prodigo” e così via.  Inoltre si libera delle ristrettezze claustrofobiche,  è in uno spazio aperto, anche se quasi addossato alle arcate nell’ombra,  come in  “Les Printeps de l’ingégneur”, ma alle spalle ha uno scorcio di “Piazza d’Italia”  con la costruzione   conica  sulla destra.   

Spazio aperto anche in “Interno metafisico con faro”, ancora del 1918,  dato dal “quadro nel quadro” con l’immagine di un mare tempestoso e di un cielo con grossi nembi ispirata ad una cartolina, è il faro di Genova, omaggio alla città natale della madre; l’oppressione claustrofobica si avverte nella chiusura definita “asfissiante” in una stanza, ciò che piacque molto ai dadaisti, il tutto tra incastellature lignee e squadre da disegno. Saranno queste le architetture compositive di tanti altri “Interni metafisici”, il “quadro nel quadro” ospiterà ville e officine di varia natura e dimensione, ed anche carte geografiche in particolare delle zone irredente, c’è sempre la guerra in atto e de Chirico ne segue le vicende da molto vicino. Anche i suoi interessi artistici sono quanto mai vivi, al punto che Carrà, anch’egli sotto le armi, si fece trasferire appositamente a Ferrara per avvicinarsi a lui, affascinato dalla pittura metafisica di cui diventerà per breve tempo esponente, al punto che i detrattori di de Chirico strumentalmente tentarono di dargli un’inesistente primogenitura. Con loro De Pisis, oltre al fratello di Giorgio, che si farà chiamare Alberto Savinio.

“Malinconia ermetica”, 1918-19

In  “Malinconia ermetica”,  1918-19, una scena classica, la testa riccioluta di Mercurio abbacinante nel  bianco del  marmo sembra affacciarsi  dall’esterno, con dietro un ”cielo appiattito nel tono intenso di lavagna” – sono le parole usate da  Carrà in “Valori Plastici” –  in un interno con una scatola, un biscotto e un giocattolo, per una “natura morta”  di cui il dio potrebbe essere visto sia come componente sia come osservatore, perché guarda gli oggetti dall’esterno.

Chiude la sezione “”Ritratto dell’artista con la madre”, 1919, con il significato di emancipazione dalla “centauressa”, lui raffigurato alla Nietsche come nell’”Autoritratto” del 1911. Sono trascorsi otto anni, lei ha l’espressione decisa come l’altra era mansueta. Barbero commenta: “Riprendendo un proprio dipinto, de Chirico mette già in atto un atteggiamento che caratterizzerà la sua produzione futura, quando replica negli anni venti le nature morte, negli anni quaranta la moglie stesa su una spiaggia e, dagli anni sessanta, reitera questi stessi anni ferraresi, epurati però, dal peso dell’enigma”. Ecco come questo avviene: “Ancora una volta de Chirico ritorna a sé, alla sua famiglia, per elaborare un cambiamento di rotta, già nell’aria sul limitare degli anni ferraresi  e che trova la sua ufficialità nella personale romana del 1919 con la mostra alla casa d’Arte Bragaglia, aprendo una nuova stagione di vita e di pittura tra l’Italia e Parigi”.

“Ritratto dell’artista con la madre”, 1919

Gli anni ’20, la svolta classicista

Questo “cambiamento di rotta” , che riflette il  “ritorno all’ordine” del dopoguerra,  è evidenziato nelle opere della  4^ Sezione della mostra, “Gli anni venti”, e ha inizio con un dipinto di  stampo classicista,  nel contenuto e nella forma pittorica, che rivoluziona radicalmente la forma metafisica in direzione inattesa. Riportandoci a quel 1919 potremmo dire che nell’arte di de Chirico “c’è qualcosa di nuovo”, anzi molto di nuovo rispetto al recente passato, aggiungendo però “anzi d’antico”. Sia perché l’“illuminazione” l’ha avuta a Roma davanti a un dipinto di Tiziano – come quella metafisica la ebbe a Firenze in piazza Santa Croce davanti alla statua di Dante –  entrambe le volte in preda a un malessere fisico; sia, e soprattutto,  perché il “ritorno all’antico” fu totale, al punto di effettuare copie  e “d’aprés” dagli antichi Maestri direttamente   nelle Gallerie espositive, come “La vergine del tempo” e “Diana”, La donna gravida”  da Raffaello-,  e “Ritratto d’uomo” dal “Ritratto di gentiluomo” di Lorenzo Lotto. 

In questo contesto si inserisce “Il ritorno del figliol prodigo” del 1919, che apre la svolta  classicista  con le due figure che si abbracciano ispirate  a Carpaccio, della Metafisica restano soltanto piccoli scorci di edifici sullo sfondo;  ma il “ritorno”  su questo soggetto non è definitivo, nel 1922 un manichino metafisico abbraccerà una figura pietrificata nel bianco statuario. A parte quest’evoluzione, la svolta è anche nella tecnica pittorica, con il ritorno ai materiali antichi, per questo utilizza la tempera, il tutto teorizzato anche nei suoi scritti, oltre che messo in pratica  nella sua nuova linea artistica di stampo neoclassico.

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“La sala d’Apollo (Violon)”, 1920

Le prime due opere dell’inizio degli anni ’20  esposte in mostra  “La sala d’Apollo (Violon)”, 1920, e ”L’aragosta (Natura morta con aragosta e calco”, 1922,  presentate  insieme a Parigi nel 1925, hanno molte analogie: in entrambe c’è una testa classica scolpita, Apollo nel primo,  Niobe nel secondo,  sono poste su un’ampia superficie, nel primo un interno non certo claustrofobico per la sua ampiezza e per le due finestre rettangolari che fanno vedere il cielo, nel secondo una distesa aperta fino all’orizzonte con una barca in secondo piano e un bel cielo azzurro. Inoltre, nel primo davanti alle due teste scolpite un grande violino con lo spartito, a destra e a sinistra delle statue, mentre nel secondo  dei grandi pesci e una aragosta rossa, in una serenità veramente “olimpica”.

Nell’accostamento di oggetti non abbiamo più – osserva Barbero –  il non sense dell’abbinamento  torso-banane dell’ “Incertezza del poeta”, né il senso attribuito è incerto come l’allusione erotica che  abbiamo ipotizzato. Per il primo basta ricordare che Apollo era il dio della musica, in più il richiamo familiare oltre che classico della vocazione del fratello,  la sala potrebbe essere un tempio, le statue tra cui quella di Athena fanno sentire la Grecia di origine; riguardo al secondo l’abbinamento mare e barca con i pesci in primo piano è del tutto conseguente, la vela greca è anch’essa un ritorno alle origini, si sente aleggiare il mito dell’Odissea.

“L’aragosta (Natura morta con aragosta e calco)”,1922

Del resto, è del 1912-22 Ulisse”, ripetuto con la variante di una tenda sulla sinistra nel 1924, ci sono delle assonanze con  “Odisseo sulla riva del mare” di Blocklin, 1869, nella figura barbuta e nella posizione seduta,  a parte le braccia collocate molto diversamente. E’ una figura primitiva, quasi primordiale,  che Sergio Solmi ha definito “corpo contorto e faunesco, addossato a un cupo lauro, da fiori ardenti”.  Un autoritratto ideale, che precede l’identificazione nel viaggio sulla barchetta di Ulisse-Ebdòmero nella propria camera,  molti anni più tardi? Di certo il Maestro scriverà, vent’anni dopo,  a proposito del nudo in pittura – e “Ulisse” è un nudo – “che l’uomo conosce meglio d’ ogni altra cosa  il proprio corpo; egli lo conosce così bene perché  è il suo corpo è quello che gli è più vicino e più caro”, si vedrà anche nel suo celebre “Autoritratto nudo” del 1943, oltre che in quelli così numerosi e spettacolari in costume teatrale.

A proposito di “Autoritratto”, quello del 1924-25  che si trova in questa sezione si differenzia radicalmente da quelli precedenti e da quelli successivi, per il busto raggelato quasi in una statua di sale, le mani innaturali, addirittura Barbero vede nella destra “vagamente la forma di un Prigione  in contorsione, mentre la sinistra sembra un guanto appoggiato su una tavola”; e sappiamo come i guanti abbiano un ruolo peculiare tra i tanti oggetti che popolano le sue visioni pittoriche, come nell”enigmatico “Chant d’amour”. E’ un ”Autoritratto”  importante perché con esso “si toglie il busto ortopedico” della metafisica, secondo Cocteau, tanto che Barbero lo definisce “un punto di approdo  rispetto  a un percorso di radicale stacco dalla metafisica iniziato in quel decisivo 1919”, spiegato così: “Esaurisce insomma il tema dello spazio metafisico ed entra nella grande pittura, folgorato dai maestri antichi, da quel  Ritorno al mestiere auspicato nella pagine di Valori Plastici fin dal 1919 con una profonda attenzione alla tecnica pittorica…”. Un svolta impegnativa, descritta così: “Tornare al mestiere! Non sarà cosa facile. Ci vorrà tempo e fatica”, e in questo lavoro “i nostri pittori dovranno stare oltremodo attenti al perfezionamento dei mezzi: tele, colori, pennelli, oli, vernici, dovranno essere scelti tra quelli di migliore qualità”, cosa che fece lui stesso. 

Le altre opere della svolta classicista esposte sono due  composizioni su figure mitiche dell’antichità e  tre rappresentazioni di ville romane in cui l’elemento mitico e leggendario è sempre presente.

“Ulisse”, 1921-22

“Lucrezia”, 1922, e ”Oreste ed Elettra”, 1923, sono espressive del ritorno all’antico e al classico, nel contenuto e nella forma pittorica, con la  mitologia romana che si aggiunge  a quella greca, e non in modo reiterativo, bensì creativo, come “inventore dei temi eterni della pittura”. “La Lucrezia dechirichiana –  è ancora Barbero – è una scultura vivente, tutta  tornita intorno alla smorfia che ha impressa sul volto, al piccolo stiletto anodino, ai piedi quasi animali e ridicoli, e a quello sguardo vivo,  teatrale e annoiato che la rende interprete  di un dramma contemporaneo”, evoca “la crudezza eburnea macchiata di carne delle più secche eroine di Lucas Cranach”, viene paragonata anche a Niobe. Oreste ed Elettra  segue “modalità teatrali” nelle due figure in forte contrasto cromatico, con lei consolatrice solida come una statua, lui disperato nella sua nuda fragilità,  viene definito “quadro sintomatico ed esplosivo quanto carico di rimandi alle radici della pittura italiana”.

Ancora più espressive, in termini di  adesione al classicismo, le  Ville romane con le chiome folte degli alberi, l’opposto rispetto alla geometrica essenzialità delle”Piazze d’Italia”  con le linee precise  e le ombre nette, lo spazio spoglio e le minuscole figure umane nella sospensione metafisica; ora ammira, e lo scrive,  come avveniva per i pittori antichi, “la bellezza eccezionale degli alberi, specie dei lecci, delle querce e dei pini marittimi, l’aspetto suggestivo ed evocatore dei ruderi, dei resti d’una vita che fu, sparsi tra la natura”. Uno  scenario naturale  reso favoloso dai  cavalieri, con i loro destrieri, ancora nel segno del viaggio, questa volta via terra in chiave cavalleresca-medioevale e non via mare come in “Ulisse” e negli Argonauti.  

“Oreste ed Elettra”, 1923

Barbero cita il suo giudizio sulle interpretazioni della natura di Courbet, che “rivelano l’aspetto fantastico e lirico del mondo”, e  gli attribuisce “un lirismo elegiaco che ricorda  molto da vicino i brani paesistici di Poussin e Lorrain, e prima ancora dei Carracci”, in particolare Annibale Carracci nella  natura rigogliosa  c’è la presenza delle opere dell’uomo.  Ciò che domina è la maestosità degli alberi e  degli edifici: in “Villa romana” e in “La partenza del cavaliere errante (Paesaggio romano)” , del 1913, le fronde rigogliose nascondono quasi totalmente l’architettura, che invece domina in “Ottobrata”, del 1914, dove –  sono parole del Maestro – “l’aspetto architettonico ha un senso romantico e avventuroso”-  Raffaele Carrieri la definirà molti anni dopo “pittura felice e tranquilla, ma che serba in sé un’inquietudine come nave giunta  al porto sereno d’un paese  solatio e ridente dopo aver vagato per mari tenebrosi o aver attraversato zone battute da venti contrari”; e, nello specifico, rileva che  “figure e  cose appaiono come lavate  e purificate e risplendenti d’una luce interna”, concludendo con questa definizione: “Fenomeno di bellezza metafisica che ha qualcosa di primaverile e di autunnale nel tempo stesso”.  Quasi un ossimoro parlare di “bellezza metafisica” per  un’opera classicista nel contenuto e nella forma pittorica, ma non lo è se si pone a mente alla “metafisica continua” di de Chirico, celebrata nella mostra di Genova, cui ci siamo sentiti di aggiungere  “classicità continua” per la compresenza delle due visioni ideali e artistiche.

Negli stessi anni ’20, il ritorno della Metafisica

Non solo elementi classici nelle opere metafisiche  ed elementi metafisici nelle opere classiciste, anche  compresenza, negli stessi anni ’20, delle due espressioni pittoriche così divergenti; come del resto in Picasso, tra cubismo e neoclassicismo. Nonostante la svolta del 1919,  la produzione metafisica non si è arrestata, nella concezione di Nietsche secondo cui  “il passato  e il presente sono sempre la stessa identica cosa, cioè tipicamente uguali in ogni varietà, e costituiscono … una struttura immobile  e di significato diversamente uguale”.

“La partenza del cavaliere errante (Paesaggio romano)”, 1923

Anzi, dopo l’esplosione classicista troviamo sin dai primi anni ’20 ma soprattutto dalla metà in poi, una nuova ondata  metafisica, anche se limitata ai  manichini e in forme spesso  più morbide e arrotondate. Carrieri,  nel 1942, scrive: “Il manichino di de Chirico più che un vero  e proprio personaggio è un veicolo plastico. La sua struttura complessa ed elementare. E’ una macchina, ma è anche un essere soprannaturale, uno scheletro ragionato, una specie di androgino matematico composto di squadre, con una testa ovale senza lineamenti e con un profilo proiettato”. Dopo questa descrizione commenta: “Ha qualche cosa di solenne e di conturbante. Un’idea fissa. L’involucro di un eroe antico  o futuro non ancora identificato”.

Lo vediamo in “Il figliol prodigo”, 1922, in cui ricompaiono alcune arcate delle “piazze” ma con uno sfondo collinare quattrocentesco, il figlio è un classico manichino dalla struttura fragile rispetto al padre solido come una statua di marmo nel suo biancore. E in due versioni di  “Ettore ed Andromaca”, in quella del 1923 c’è minore metafisica, la figura di lei, con la veste che avvolge il corpo rotondo e statuario,  nasconde  in parte lui, manichino appena accennato armato di lancia; mentre la versione del 1924 ha tono teatrale, nell’abbraccio plateale tra lei, questa volta in un’ampia veste svolazzante, più classica che metafisica,  e lui, perfetto manichino geometrico, con dei cavalli di sfondo sulla sinistra,  le mura di Troia con una torre metafisica sulla destra.

Dall’evocazione dei personaggi più amati dell’Iliade  al loro creatore con “Homére”, che segna la boa del 1925, una sorta di statua votiva  spicca in un interno tenebroso,  seduto  con i libri nel torace – forse l’unico segno metafisico —  e  il corpo raggelato nella pietrificazione che abbiamo già notata  nell’”Autoritratto” del 1924-25.

“Ettore e Andromaca”, 1923

In questo periodo, tra il 1921 e il 1924, si logora il rapporto con Breton, il “guru” dei surrealisti che aveva inneggiato alla Metafisica di de Chirico come surrealista per eccellenza e aveva rilevato nel 1921 a un prezzo irrisorio – svolgeva anche attività di mercante – il gruppo di opere incompiute che Ungaretti, per conto dell’amico rientrato in Italia per il servizio militare, aveva depositato presso Paulhan. In seguito, le insistenti richieste di Breton di avere un quadro metafisico a un prezzo inferiore a quello richiestogli dai collezionisti che ne disponevano, indussero de Chirico a preparare per lui a un prezzo modico una copia di “Le Muse inquietanti” e dei “Pesci sacri”; non solo si fece autorizzare dal proprietario Castelfranco, ma dichiarò  che le copie “non avranno altro difetto che quello di essere eseguite con una materia più bella e tecnica più sapiente”, cioè una nuova versione. Paradossalmente ciò segnò dopo poco tempo la fine del loro rapporto, forse perché Breton  temette di essere soppiantato, come esclusivista di de Chirico, dal  mercante Léonce Rosenberg che appena  presentatogli proprio da lui, gli aveva organizzato  una mostra  a Parigi nel maggio 1925, oltre che da Guillaume, come del resto avvenne.  L’accusa infamante di aver  falsificato “Le Muse inquietanti” – forse da Breton venduto come originale e sconfessato dall’esposizione in mostra proprio dell’originale – fu l’inizio della fine, lo scontro fu molto aspro, de Chirico certamente non porse l’altra guancia, Fabio Benzi ne ha documentato con cura tutte le fasi.

Torniamo all’arte, nella seconda parte del decennio – sempre più inserito a Parigi dove è tornato al termine del servizio militare – protagonisti sono ancora i manichini, ma in posizione seduta, sembrandogli quelli in piedi assimilabili alle marionette, in un assetto desunto dalle sculture dei santi nelle cattedrali medioevali per accrescerne l’autorevolezza. Così i “Manichini in riva al mare” , 1926, nel torace un addensarsi di scatole come ex voto, due figure separate su una passerella. In questi dipinti, ma ancor di più nei successivi, spiccano i caratteri da lui descritti nel 1938 in “La nascita del manichino”: “Le gambe molto corte coperte dalle pieghe dell’abito…   le braccia naturalmente s’allungano in proporzione al tronco”. 

“Homére”, 1925

Lo vediamo nel trittico “The philosopher”, 1927,soprattutto nella sezione centrale dove gli arti sono ben visibili, nel torace incorporati libri, maschere, pergamene e non solo; nelle due sezioni laterali, con analoghi accumuli di libri e altro nel torace, notiamo linee arrotondate a anche vaporose di  richiamo classico, il ritorno  metafisico deve fare i conti con la forte spinta classicista.  “L’archeologo”, dello stesso anno,  rafforza questa constatazione, addirittura Barbero lo definisce “un capolavoro di classicismo evocato sia dalla posa del manichino sia dalla presenza  delle rovine incastonate nel suo ventre”; e aggiunge che “de Chirico ne stravolge la posizione, lo adagia, facendogli prendere dunque le distanze  dalla legnosità della marionetta  per assumere l’aria pacata e imperturbabile dello sposo nel sarcofago etrusco”.

Invece nell’anno precedente, 1926, due opere con tutt’altro segno- In “Manichini guerrieri (due archeologi)” , non solo  non ricorrono le rotondità del “Philosopher” e dell’”Archeologo” dell’anno successivo, ma non c’è neppure la secchezza geometrica del manichino metafisico, sono due figure spettrali come percorse da una scarica elettrica in uno spazio claustrofobico, definito dal Maestro poco più di dieci anni dopo  “un fenomeno del più alto interesse metafisico”; nei loro corpi scomposti  è stato visto un collegamento con il cubismo di Braque,  non amato da de Chirico, a differenza di Picasso. 

Nello stesso 1926 ci sono anche gli  “Archeologi misteriosi”,  due forme speculari, una nera e l’altra bianca, che si contrappongono come fantasmi dall’effetto  inquietante, in un interno dai contorni evanescenti come l’orizzonte che si apre: “Le figure danno l’idea di sculture di pietra – ha scritto Ternovetz nel 1928 – esse sono come inchiodate alla terra, crescono dentro la terra…”.

E’ l’anno dei “trofei”, in primis il “Trofeo”  per antonomasia, di cui de Chiricosottolinea, per bocca di Ebdòomero,  “l’omogeneità e la monumentalità armonica formata da elementi disparati ed eterogenei” culminanti in “una cittadella, con i suoi cortili interni e i suoi giardini oblunghi e geometrici, che assumevano la forma severa di baluardi”; Barbero rileva che “scimmiottano le panoplie di trofei romani gli elementi impilati nel ‘Trofeo’” e osserva che “la prospettiva, quasi aerea, confonde la vista su una vallata popolata di colonne  e templi”.

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“The philosopher”, 1925

Anche “La notte di Pericle”. dello stesso 1916,  è assimilata a un trofeo, formato da una catasta di scatole con in cima un piccolo tempio, su uno sfondo nero,  mentre dell’eroe ateniese si vedono appena i contorni del corpo in una figurina evanescente  incorniciata sopra il cumulo. Forse perché nell’anno precedente, con “Pericle”, 1925, abbiamo la sua figura  con un elmo corinzio, l’aspetto statuario è attenuato dalla testa reclinata, quasi si sentisse abbattuto,  e  soprattutto da quella che Barbero definisce “una sorta di vestaglietta a fantasia variopinta che risalta ulteriormente nel contrasto con l’incarnato di pietra”.  In tal modo “de Chirico tiene viva quella nota dissacrante  e ironica che adotterà a breve anche per i propri autoritratti in costume”. In Facitori di trofei”, 1925-28, invece, le tre figure in piedi  che hanno costruito l’assemblaggio trionfale di scatole e oggetti non hanno “l’incarnato di pietra”, e dei  manichini c’è solo la testa a uovo, per il resto colori,  calore della carne e  forma umana  anticipano i successivi “gladiatori”, sono quasi degli infiltrati in una composizione ancora metafisica.

Come avviene per  l’ “Interno metafisico con testa di filosofo”, 1926, dove non vediamo né la verticalità dei trofei, e neppure il non sense della distribuzione “ferrarese”, anche perché non sono oggetti da vetrina ma colonne, vassoi,  quadri e scatole, fino a un tempietto,  per Barbero “l’impianto è fuori controllo e l’equilibrio compositivo tocca un picco d’instabilità”.  La testa di filosofo in primo piano, nonché i quadri addirittura riferibili a Max Erst e la sagoma nera ad Apollinaire, insieme con i reperti archeologici e il tempio che evocano la Grecia rimandano alla memoria  che, secondo Fossati, “è condizione dell’agire,  permea la volontà, le fornisce forza e direzione” e viene precisata così da Barbero: “Memoria di quei lontani templi greci che ne hanno popolato l’infanzia, un ricordo rinverdito dalla Magna Grecia, che con i suoi resti ha rappresentato una fonte costante e un rassicurante legame alle sue duplici radici”. 

Torna così la “mitologia familiare” da cui siamo partiti, ma il nostro viaggio nel mondo di de Chirico continua, prossimamente le scoperte finali.

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“Manichini in riva al mare”, 1925

Info

Milano, Palazzo Reale,  Piazza del Duomo, 12. Tutti i giorni apertura ore 9,30, chiusura lunedì  ore 14,30, martedì, mercoledì, venerdì, domenica ore 19,30, giovedì, sabato ore 22,30, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura. Biglietti, intero euro  14, ridotto 12, ridotto speciale  6, famiglie 1, 2 adulti euro 10, da 6 a 14 anni euro 6, gruppi euro 10, scuole euro 6. Info e prenotazioni tel. 02.92897740. Catalogo “De Chirico” a cura di Luca Massimo Barbero. Editore Marsilio/ Electa , settembre 2019,  formato 23 x 32; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Si tratta della quarta  parte, sulla mostra di Milano, dopo le tre della “ trilogia” su de Chirico nel quarantennale della scomparsa e nel centenario del “Ritorno all’ordine” della classicità: l’articolo precedente è uscito in questo sito il 22  novembre scorso, il 3°  e  ultimo uscirà il 26 novembre, a conclusione del  nostro “quadrifoglio” dechirichiano in 16 articoli.  Per la “trilogia” cfr. i nostri articoli, tutti del settembre 2019, usciti rispettivamente, per la  terza parte sulla mostra di Torino il 25, 27, 29, per  la seconda parte sulla mostra di Genova, il 18, 20, 22, per la prima parte sul  libro di Fabio Benzi  il 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15 25, 27 settembre 2019. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del primo articolo sulla mostra, del 22 novembre. Sugli artisti citati nel testo, cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com,  Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Cubisti 16 maggio 2013, Carracci 5, 7, 9 febbraio 2013;  in cultura.inabruzzo.it, Cranach 10, 11 gennaio 2011, Dada e surrealisti 6, 7 febbraio 2010,  Picasso 4 febbraio 2009  (questo sito  non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini delle opere di de Chirico, che riguardano le 3  sezioni intermedie della mostra commentate nel testo,  sono state riprese dal Catalogo, tutte tranne una  (perché in doppia pagina), si ringraziano  l’Editore, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta, e il titolare del sito dal quale è stata presa l’immagine n. 7, ilnotiziariodicortina.com, per la sua disponibilità “on line”, pronti a rimuoverla su semplice richiesta. Tutte  le immagini sono diverse da quelle inserite negli altri 13 articoli della “trilogia de  Chirico”, 15 ogni articolo,  alle quali si rinvia per una visione più completa del “Film” della vita e dell’opera del grande Maestro.  In apertura, “Il pomeriggio soave” 1916; seguono, “Il saluto dell’amico lontano” 1916, e “Interno metafisico con faro” 1918; poi, “Malinconia ermetica” 1918-19, e “Ritratto dell’artista con la madre” 1919; quindi, “La sala d’Apollo (Violon)” 1920, e “L’aragosta (Natura morta con aragosta e calco)” 1922; inoltre, “Ulisse” 1921-22, e “Oreste ed Elettra” 1923; ancora, “La partenza del cavaliere errante (Paesaggio romano)” ed “Ettore e Andromaca”, 1923; continua, “Homére” e “The philosopher” , 1925; infine, “Manichini in riva al mare” e, in chiusura, “Archeologi misteriosi” , 1926.

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“Archeologi misteriosi”, 1926

De Chirico, IV. 1. Dalla Grecia a Parigi, nasce la Metafisica, al Palazzo Reale di Milano

 di Romano Maria Levante

La  mostra “De Chirico” espone al Palazzo Reale di Milano  –  nel  quarantennale della scomparsa  e nel centenario della svolta classicista e  dopo cinquant’anni dalla grande antologica del 1970 –  più di 100 opere provenienti da ben 59 musei e collezioni private, numero di prestatori che dà un’idea dell’imponente impegno organizzativo in collaborazione con la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, presidente Paolo Picozza,  e con l’appoggio di numerose gallerie d’arte  e studiosi, curatore Luca Massimo Barbero.  Otto sezioni tematiche raggruppano le opere in un itinerario riprodotto  nel ponderoso Catalogo Electa, a cura dello stesso  Barbero, arricchito  dalla sua accurata ricostruzione, con saggi specifici per ogni sezione, delle  diverse fasi  dell’”opera e della vita” del grande Maestro. come culmine della celebrazione del 2019.

Autoritratto”,1912-13

La  nostra” trilogia” de Chirico  si è dipanata nelle ricorrenze della scomparsa e della svolta,  attraverso la documentata  ricostruzione da parte di Fabio Benzi della “Vita e l’opera”  del  Maestro, seguita dalla mostra di Genova sulla “Metafisica continua” e dalla mostra di Torino sul “Ritorno al futuro” dell’arte contemporanea, con gli epigoni di de Chirico.

Il ciclo celebrativo sembrava concluso quando, alla fine dell’ultimo trimestre dell’anno,  il colpo di teatro, la mostra di Milano intitolata semplicemente “De Chirico”, il botto finale dei fuochi d’artificio artistici dechirichiani che hanno illuminato l’intero 2019.  Per cui alla trilogia si aggiunge un’ultima componente, il quarto petalo del “quadrifoglio”,  l’asso finale nel “poker d’assi” giocato dalla Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, il cui presidente, Paolo Picozza,  la definisce  “esposizione ambiziosa” dove  “il presente e il passato coincidono nel racconto espositivo dell’opera e della vita di Giorgio de Chirico”.

L’”opera  e la vita”, dunque,   come “la vita e l’opera”  nella ricostruzione di Fabio  Benzi.  Qui è il curatore della mostra Luca Massimo  Barbero ad operare una ricostruzione parallela, nelle 8 sezioni della mostra, ciascuna introdotta nel sontuoso Catalogo da una sua dotta e documentata analisi, frutto di una ricerca altrettanto approfondita che rivela altri aspetti di un protagonista del ‘900 fonte di continue scoperte e sorprese sulla sua proteiforme espressione artistica.

Avevamo detto che de Chirico avrebbe definito  la  ricostruzione di Benzi  “Il film della mia vita” perché  l’itinerario esistenziale e artistico è accompagnato dalle illustrazioni con i dipinti che ne scandiscono i tanti momenti; ebbene, nella mostra è come se quel film venisse proiettato, con un diverso autore e regista ma con lo stesso protagonista  assoluto del XX secolo dove – sono parole di Barbero – “solo due grandi gladiatori si sono contesi l’invenzione di un nuovo mondo: la realtà smisurata di Pablo Picasso e l’universo inventato e demoniaco di Giorgio de Chirico”, nei modi diversi ma convergenti definiti così da Ester Coen: “Picasso smonta per riassemblare,  de Chirico assembla per smontare”, cioè, aggiunge Barbero, “de Chirico è in grado di trasporre in emblema, in immagine, tutta la recente tradizione”.  E questo trattandosi di “un antesignano e un anticipatore”: parte da Giotto e crea le premesse per il surrealismo, mentre la sua pittura è “popolata  di archeologi, manichini, cavalli al galoppo su spiagge di gesso e interni colmi di oggetti. Il mondo di de Chirico è abitato da gladiatori, impegnati in combattimenti farsa, dai corpi deformati come gomma fusa, colli ipertrofici, giochi tra animali preistorici e abitanti di Marte che si aggomitolano e s’imbrogliano l’uno l’altro”.

“Les plaisirs du poète”, 1912

Una visione cinematografica della  galleria di opere, questa di Barbero, che apre il “Film della mia opera”, direbbe il maestro, dopo la definizione del  libro di Benzi  “Il Film della mia vita”.  Vita  e opera, del resto,  strettamente connesse, di cui Barbero ci dà una nuova, intrigante visione.

Partiamo dalle immagini delle opere esposte nelle 8 sezioni per risalire alla vita,  seguendo l’approfondimento di Barbero, come siamo partiti dalla vita per commentare le opere seguendo la ricostruzione di Benzi nella prima parte della trilogia.  Iniziamo  dalle prime 2  Sezioni, per far seguire poi una visione d’insieme delle altre 6 sezioni, con una carrellata di un’opera a sezione, per delineare le successive tappe di un itinerario tanto movimentato nell’arte e nella vita.

Tra la mitologia e l’autobiografia,  fino all’illuminazione  metafisica

Le prime due opere della 1^  sezione“La nascita di una mitologia familiare”, sono  la “Lotta di centauri”,  e il  “Centauro morente”, del 1909,  espressive dell’avvio del  suo itinerario artistico ed esistenziale,  tra Monaco dove,  dopo la morte del padre,  era approdato insieme alla madre e al fratello ma poi rimase solo, e Milano, dove i suoi due familiari si trasferirono perché in Italia c’erano migliori prospettive nel campo musicale nel quale cercava di affermarsi il fratello. Fu una fase con un forte influsso tedesco, che inizia già in Grecia dove nel suo apprendimento  accademico fu fortemente influenzato da docenti formatisi in Germania, nelle Accademie d’Arte. 

A Monaco trovò una nuova patria, legata al passato in senso classico ma radicata nel presente in senso romantico.  Poté approfondire, nella loro terra, il pensiero filosofico di Nietsche e Schopenauer,  la Germania era anche la  nazione  in cui  nel 1892 c’era stata  la “Secessione” nell’arte, imperava il simbolismo al quale Blocklin, cui si ispirò visibilmente, aveva dato un’ impronta, non più letteraria, ma riferita alla mitologia rivissuta in chiave contemporanea con una intensa  drammaticità espressa  nel linguaggio pittorico oltre che nel contenuto. Anche Klinger fu un suo ispiratore, specie per i due dipinti citati, scossi da  una violenza ancestrale:  lo scontro belluino nel primo, tra figure protese in una fisicità esasperata,  il corpo quasi dissolto  nel secondo sulla terra dove giace riverso in uno scenario che oggi definiremmo lunare nella sua asprezza e solitudine, c’è anche il riflesso autobiografico della morte del padre, ed è quasi un’anticipazione del terzo dipinto.  

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L’enigma di una giornata” , 1914

Quindi non vanno visti soltanto in chiave artistica, bensì anche in chiave personale. La lotta dei centauri richiama quella mitica tra loro e i guerrieri lapiti nella Tessaglia, la terra del suo luogo natale,  Davos, il centauro morente ricorda il padre,  per cui, osserva Barbero, “il tema mitologico sviluppa dunque anche una dimensione psichica  che rende ogni dipinto un tassello della variegata vicenda biografica dell’artista”.  Al  mondo “olimpico” della  patria di origine si sovrappone l’ideale romantico della terra di adozione, e non c’è cesura tra le due visioni, derivando anche la seconda dalla terra di Grecia culla della civiltà.

Il mondo primigenio, in una chiara trasposizione autobiografica, è in chiara evidenza nella terza opera, dello stesso 1909, La partenza degli Argonauti”, dipinta all’arrivo a Milano.  Dal cupo dramma dei centauri, ambientato negli stessi luoghi con il monte Polio a lui familiare, con il centauro morente, evocativo della grave perdita sofferta,  a un’immagine che ne è quasi la conseguenza. La partenza ormai indifferibile dei fratelli, impersonati negli Argonauti – venendo meno i motivi della permanenza in Grecia rispetto ai richiami di altre terre per il loro futuro – “cela un’apparente quiete, incarna il senso del tempo dechirichiano, che è idillio e al contempo presagio del principio di una grande avventura”. E’ quella di Giasone alla conquista del vello d’oro, cui si  richiama quella  dei fratelli de Chirico, “esploratori pronti per nuove partenze”,  nelle parole di  Giorgio  del 1918. “Il viaggio degli eroi verso l’ignoto diventava la metafora  dell’avventura intellettuale dei due fratelli per terre straniere”, commenta Barbero. E ricorda la figura di  Medea,  protettrice di Giasone, interpretata dalla Callas nel celebre  film di Pasolini, in cui il “presagio della tragedia, nel cinema come nella pittura dechirichiana, è dato  da una dimensione meta-antica”.

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L’enigma del cavallo”, 1914, particolare

Non solo nella tragedia, anche nei temi familiari torna la dimensione meta-antica, come nel “Ritratto del fratello Andrea”, 1909-10, l’intera figura è vista di profilo davanti a una finestra in atteggiamento teatrale, mentre sullo sfondo  si intravede un piccolo centauro, quasi un “memento”. Il legame con il fratello è stato forte, soprattutto nella prima parte della vita con le comuni peregrinazioni nei trasferimenti da una città all’altra, da una nazione all’altra, e anche nell’arte con le anticipazioni del fratello nei suoi scritti di temi e motivi da lui sviluppati nelle sue opere. Si raffigurerà  con lui nel 1924 in “Autoritratto con il fratello Andrea ‘I due Dioscuri’)”.  

L’”Autoritratto  (‘Et quid amabo nisi quod aenigma est’?)”, del 1911 , ci fa entrare ancora di più nella sua compenetrazione con il mondo tedesco, questa volta nel versante filosofico di Nietsche, la testa di profilo  appoggiata alla mano come in una celebre immagine del filosofo,  il profilo è dalla parte opposta, con la scritta sull’enigma che accentua l’identificazione. “Il dipinto – per Barbero – segna l’evidente superamento di una dimensione simbolica per un primo passo verso l’eterno enigma della metafisica, muovendo però dalla grande stagione della pittura rinascimentale”. Nello stesso anno Ritratto della madre”, “a sancire la granitica presenza della centauressa anche in questi anni parigini”, che sono solo agli inizi, ma già entra in  contatto con il poeta Apollinaire che avrà su di lui grande influenza,  aggiungendosi a quella tedesca, da Nietsche a Shopenauer. 

Mentre in un altro “Autoritratto”, del 1912-13, è di profilo come Nietsche, ma senza appoggiare la teta alla mano, forse perché il richiamo non serve più, al margine posteriore si staglia visibile per metà una  grande torre  conica da “Piazza d’Italia”: entriamo così  nella dimensione metafisica.

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Le matinée angoissante”, 1912

E’ Torino, “la città che gli si apre come un teatro”,  a impressionarlo fortemente, nella sosta di due giorni che vi fece nel 1911 in viaggio da Milano a Parigi, visitando l’Esposizione per il cinquantenario dell’Unità d’Italia; pur nel clima patriottico della celebrazione si fa fotografare sotto la statua di Nietsche che, come ebbe a scrivere, “fu il primo a sentire l’infinita poesia che si sprigiona  da questa città tranquilla ed ordinata, costruita su una pianura adorna di dolci colline, di parchi romantici, di castelli e di palazzi solenni… E’ stato Nietsche che per primo indovinò l’enigma di quelle vie dritte, affiancate da case rette da portici”.

 Questo  mistero irrompe nei dipinti del 1912,  “Les plaisirs du poete”,. e  “La matinèe angoissante”, e del 1914, “L’enigma di una giornata” e  “L’enigma del cavallo”, è l’esplosione  della pittura metafisica con le  “Piazze d’Italia” , dopo la “rivelazione” nella Piazza di Santa Croce a Firenze davanti alla statua di Dante evocata in “L’enigma di un pomeriggio d’autunno” dell’ottobre-novembre 1910, non presente in mostra. Nelle opere esposte ci sono tutte o in parte e in vario modo le ombre nette e  le arcate profonde, le minuscole figure umane disperse nel deserto assolato, il treno sbuffante;  al centro  una figura statuaria o  una fontana: c’è la sua Metafisica.

Apollinare scriverà nel 1913 quella che sembra una descrizione fedele dei quadri creati  l’anno precedente: “Sono stazioni ornate da un orologio,  delle torri, delle statue, delle grandi piazze deserte; all’orizzonte passano dei treni ferroviari”. L’artista ha voluto rendere “il senso profondo delle cose, che Briganti nel 1979  identifica “nel fantasma letterario della malinconia e della meditazione, in nostalgiche scenografie di sfuggenti  spazi deserti, nel vuoto di favole e mitologie senza tempo, nell’assenza di vita e nel silenzio, nel fascino immaginato di un clima sentimentale che non ha riscontro nella realtà ma solo nella memoria”.

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La surprise”, 1912

Gli “enigmi” della metafisica, tra malinconia e ansia dell’ignoto     

A “Parigi la concretizzazione dei misteri”, il titolo della 2^ Sezione è misterioso esso stesso, trattandosi di un ossimoro, i misteri sono per loro stessa natura astratti e imperscrutabili, ma proprio per questo rende alla perfezione l’ “enigma” della metafisica, l’immaginario calato nella realtà.

La malinconia evocata da Briganti si trova negli scritti poetici di de Chirico, quando parla di “pensate d’amore e di malinconia/ la mia anima si trascina / come una gatta ferita/… Bellezza delle  alte ciminiere rosse./ Fumo solido./ Un treno fischia. Il muro”; e pervade le sue opere di quegli anni. Alta ciminiera rossa,  fumo, treno che fischia e muro in “La surprise”, 1913, con in più mezza statua e un cannone,  che evoca ricordi familiari essendo l’unica arma citata dal padre anche perché era a difesa  delle città sul mare dalle invasioni,  e insieme memorie di una storia partecipata, la guerra greco-turca;  due minuscole figure umane dalle lunghe ombre rendono la solitudine e l’abbandono, in una composizione di taglio verticale.

E’ una  malinconia velata di nostalgia:  giunge a Parigi il 14 luglio 1911, nel giorno della grande festa nazionale dei francesi, dopo la Grecia, la Germania e l’Italia, che hanno lasciato un segno dentro di lui, e anche se ha conosciuto attraverso Soffici  la pittura di “Rousseau” il Doganiere, è un mondo nuovo nel quale è deciso a inserirsi esponendo i suoi quadri e frequentando gli ambienti artistici. Non si lascia influenzare – come invece avviene per la gran parte degli artisti approdati in Francia – né dai grandi del momento né dalle avanguardie, e questo viene apprezzato da Apollinaire che nel 1913 scrive di lui: “Non viene né da Matisse né da Picasso, e non deriva dagli impressionisti. Questa originalità è talmente nuova che merita di essere segnalata”.  

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“L’incertezza del poeta”, 1913

Frequenta  la sua casa e riceve in anteprima per una lettura privilegiata le sue  poesie, tra cui il poema simbolico e autobiografico “Le poete assassinè” nel quale l’autore  è impersonato nel protagonista, “il divinatore del tempo”, e ispira nel 1914 il “Portrait de Guillaume Apollinaire” in cui de Chirico lo raffigura  con un bersaglio sulla tempia,  punto in cui poi fu  ferito in guerra;  non fu premonizione, l’immagine era nel poema,  Apollinaire la definì “opera singolare e profonda”.  Alla sua morte, nel 1818, de Chirico scrisse di lui: “…un uomo macerato nel bagno caldo della malinconia universale. Di malinconie ne conosceva più di una; anzitutto quella del senzapatria”, da lui esule condivisa,  con “le spirali della sua cronica malinconia di poeta dal destino triste”.  

Allontaniamo la malinconia con l’arte, sottolineando come sia originale il posto della scultura nei  dipinti di de Chirico. La  scultura nella pittura  in diverse modalità compositive, a partire dalla statua monumentale, è utilizzata in termini  quanto mai innovativi, sebbene possa sembrare un residuo passatista, e proprio per questo è più intrigante. Cristina Beltrami   osserva che, dopo la prima fase di  “mitologia familiare”, “negli anni di elaborazione della pittura metafisica il monumento diviene l’elemento imprescindibile  che connota le sue piazze assolate come italiane, e tocca dunque la nodale questione dell’appartenenza nazionale”. E aggiunge: “La scultura diviene poi il dispositivo visivo che crea i cortocircuiti logici degli anni ferraresi e muta in una presenza ironica, enigmatica certo, ma soprattutto beffarda, a partire dagli anni venti; momento in cui egli stesso si ritrae in un processo di pietrificazione”.

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“Le printemps de l’ingénieur”, 1914

Tornando alle opere,  c’è  una torre conica bianca, come quella visibile  a metà nell’“Autoritratto” prima  citato invece della ciminiera rossa, ma sono presenti gli altri elementi con una fuga di arcate nell’ombra,  in  “Ariadne”, 1913. La malinconia si incarna nella statua di  Arianna addormentata, distesa al centro con la testa reclinata e il braccio che la circonda, intorpidita dal dolore  per l’abbandono da parte di Teseo che aveva aiutato a uscire dal labirinto,  dopo l’uccisione del Minotauro: “Sonno e sogno – ha scritto Paolo Fossati –  sono condizioni di malinconia, di nostalgia per una inafferrabilità…”.  Arianna torna spesso nelle “Piazze d’Italia”,  anche in atteggiamenti meno remissivi, del resto fu risvegliata da Bacco, e la coppia Bacco e Arianna è entrata nella leggenda superando l’abbandono di Teseo,  ancora il mito, dunque, sull’onda dei versi immortali di Ovidio.

Scenario analogo, arcate sulla destra, muro nello sfondo con il treno sbuffante e in più una vela bianca, in “L’incertezza del poeta”, sempre del 1913, ma alla malinconia di Arianna abbandonata si sostituisce l’enigma  del busto di statua femminile mutila di testa ed arti affiancata da banane, si distinguono tre caschi e una banana isolata.  Barbero si  richiama alla “disposizione delle cose” –  altro motivo saliente della sua poetica artistica – che “grazie alle associazioni spaesanti e inattese degli oggetti, tocca le corde  della psiche più profonda e rivela quel demone celato dietro l’apparenza delle cose sulla quale si reggerà l’impalcatura, visiva e teorica, della metafisica”. Lo stesso de Chirico, in uno scritto tra il 1911 e il 1913, aiuta a capire ciò che in apparenza è incomprensibile: “Sentimento africano. L’arco è là da sempre. Ombra da destra, a sinistra… Una vela; naviglio dolce dai fianchi così teneri. Treno che passa: enigma. Felicità del banano; voluttà di frutti maturi, dorati,  dolci”.

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L’inquietudine de l’amie ou l’astronome”,1915

In aggiunta a questa precisa  descrizione, aiuta ad interpretare questo e altri dipinti sulla stessa linea compositiva quanto scriverà nel 1943  nel “Discorso sul Meccanismo del pensiero”: “Le immagini che passano nella nostra mente prendono la forma di immagini visive, tattili, uditive, olfattive e del senso del sapore… Cerchiamo ora di analizzare le immagini esistenti nel nostro spirito e raffiguranti dei concetti, dei sentimenti o delle idee metafisiche. La visualità cerebrale è molto più sviluppata delle visualità dei nostri occhi. La fantasia ci aiuta a creare queste immagini, o visioni, che a volte sono strane e poco assomigliano alla realtà. Sono immagini che piuttosto somigliano a un sogno e la loro chiarezza e la loro precisione variano come nei sogni”. Forse la “voluttà di frutti maturi, dorati e dolci”, come le banane, si associa a un sogno erotico, il busto femminile, sia pure statuario, ci ricorda un’antica vignetta della nostra adolescenza, con un analogo busto femminile mutilo e la scritta allusiva “parto ma ti lascio la parte  migliore di me”.

L’anno successivo, in “Le  printeps de l’ingénieur”, 2014, le arcate nell’ombra,  bene in vista nei due dipinti del 2013 appena citati, pur se in primo piano e non sulla destra ma frontali, quasi “una quinta occlusiva”,  scompaiono nel “senso nascosto delle cose” evocato da Fagiolo dell’Arco; perché irrompe il “quadro nel quadro” –  che diventerà abituale in questo periodo – con un’immagine  luminosa, definita “presenza fantasmica”, che evoca “una Grecia perduta, una primavera della vita e dell’esistenza incarnata da una dea, quando l’ingegnere – il padre – era ancora presente”.  Resta la “mitologia familiare” al centro, fatta di leggende ancestrali e di memorie personali, ma in questo caso si aggiunge un senso claustrofobico, per il momento scacciato dalla luce della dea, ma che torneerà in modo sempre più pressante.

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“Il Trovatore” ,1917

Barbero lo definisce “un dipinto rivelatore, grazie al quale si comprende la regia che sottenderà le prospettive metafisiche ferraresi, con un punto di vista infinitamente più prossimo all’osservatore”. E  ne descrive  gli elementi innovativi: “Non c’è più l’allungamento e lo spaesamento creato dall’ombra, l’inquietudine data dallo spazio aperto e silenzioso, ma sarà una contrazione di oggetti nello spazio concluso, dei contenitori che lasciano al massimo intuire una porzione di esterno ma senza alcun riferimento naturalistico”. Con questo risultato: “Tutto è inquietante presenza fantasmatica  dalla quale i surrealisti attingeranno  a piene mani”, con la particolarità  che mentre “la metafisica è distaccata dalla vita, il surrealismo invece resta ancorato all’idea del sogno”, e in tal modo, secondo Fossati, “compie un passo indietro, torna a pasticciare fra arte  e vita, a confondere modi e fini, mezzi e significati”.

Passa ancora un anno, ed ecco il dipinto che ebbe il potere di  “folgorare” i surrealisti, “L’inquietudine de l’amie ou l’astronome”, 1915, mentre per de Chirico è l’ultima apertura all’esterno  prima dell’incombente chiusura claustrofobica, e che apertura! La finestra degli “Autoritratti” e del “Ritratto della madre”,  puro sfondo monocromatico, si accende del cielo azzurro con le nuvolette bianche orizzontali, mentre un edificio bianco a sinistra illumina maggiormente la scena. Questo, però, accentua ancora di più la ristrettezza dell’interno in cui ci sono una lavagna nera e un manichino diverso dai celebri “Trovatore”  e simili, con una fenditura della testa a uovo nella parte della bocca che ritroviamo nel disegno dello stesso 2015 “Il poeta  e il filosofo” e dell’anno successivo, “Il filosofo e il poeta” del 2016.  L’“inquietudine”, resa visivamente da questo contrasto,  sembra riferirsi all’”amico” al quale nel  1914 aveva dedicato il “Ritratto di Guillaume Apollinaire” e agli altri che sentiva vicini, arruolati e mandati al fronte; per “l’astronomo” l’apprensione che anche Ebdòmero – il personaggio altamente simbolico del suo romanzo del 1929 – proverà nel guardare la profondità del cielo, che attraverso la grande finestra entra con forza nel quadro.

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“Ottobrata”, 1924

La “Grande guerra” irrompe poco dopo  nella vita di de Chirico, che lascia Parigi alla fine del 1915  per arruolarsi a Ferrara dove, destinato a un ufficio e non al fronte,  troverà ispirazione per una nuova Metafisica, nella quale la “disposizione degli oggetti” e il senso claustrofobico degli interni chiusi e ristretti si aggiungerà a motivi contingenti, ispirati dal luogo e dai riferimenti alle rivendicazioni territoriali.  Parleremo prossimamente della metafisica “ferrarese”, oggetto della 3^ Sezione della mostra, cui ne seguiranno altre 5, ora diamo una visione a volo d’uccello delle altre 6 Sezioni con un’opera-campione per ciascuna, per fornire un quadro preliminare d’insieme dell’itinerario artistico che intendiamo ripercorrere.

In sei  opere presentiamo le prossime sei  tappe dell’itinerario artistico

La 3^ tappa sarà dunque “Ferrara, l’officina delle meraviglie”,  lo colpisce quella città “metafisica” con i negozietti soprattutto nel quartiere ebraico, che esponevano pane dalla forma speciale,  biscotti anch’essi di tipo particolare e tanti oggetti. Nasce così la metafisica “ferrarese” in cui, oltre a quanto ora indicato,  nelle composizioni si trovano anche squadre da disegno  e listelli, fino  a rappresentare strutture a sostegno del soggetto della composizione; entrano in scena i manichini, e i “quadri nel quadro”,  che raffigurano officine, ville, carte geografiche  evocative delle rivendicazioni territoriali, con incastellature lignee. Come “campione” di questo momento artistico presentiamo “Il Trovatore”  del 1917, non esprime i contenuti “ferraresi”, ma è una vera pietra miliare replicata più volte, spesso con varianti nei decenni successivi.

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“L’archeologo”, 1927

 Dopo Ferrara,  nella 4^ tappa,  gli “Anni venti”, con la svolta classicista  delle Ville romane  e non solo, dopo i manichini tornano le figure umane in carne e ossa,  come “Ulisse “ e “Lucrezia,  e l’artista si immerge nella rivisitazione dei Maestri antichi, anche con copie e “d’aprés”, utilizzando persino la tecnica d’epoca a tempera per una completa identificazione; anche nelle “nature morte” compaiono busti classici nei quali continua a esprimersi la nostalgia per la sua terra natale, culla della classicità. Il “campione” che presentiamo di questa fase è “Ottobrata”  del 1924.

“La metafisica come ‘ritornante’” , è la 5^ tappa  di un percorso, umano e artistico, in cui c’è “l’eterno ritorno”  di un’ispirazione che non è mai svanita e accompagna la svolta classicista negli stessi anni, del resto anche in Picasso c’era una compresenza di cubismo e classicismo nello stesso periodo.  Imperversano i manichini nelle varie personificazioni,  dal “Figliol prodigo” ad “Ettore ed Andromaca” fino agli “Archeologi” e ai  “Filosofi” con l’invenzione del torace imbottito di ruderi o libri, in una compenetrazione materica a simboleggiare quella intellettiva es esistenziale. Come “campione” abbiamo “”L’archeologo” del 1927, disteso mollemente con le colonne incorporate.

Nella 6^ tappa, “Le stanze dei giocattoli”, le altre “invenzioni”  del “Tempio in una stanza” con anche  rocce e  alberi all’interno,  speculare rispetto ai “Mobili nella valle” o nella spiaggia,  composizioni che appaiono stravaganti ma alle quali ci sono spiegazioni chiare e rivelatrici. Siamo sempre negli anni ’20,  c’è la compresenza nella stesso periodo dei cavalli rampanti e anche di figure umane  con rotondità renoiriane, di certo è un decennio di straordinaria fecondità creativa. Abbiamo scelto come “campione”  “Ma chambre  dans le midi” del 1927, quanto mai eloquente.

Ma chambre  dans le midi”, 1927

“Un viaggio nell’enigma” è la 7^ tappa, anche se l’enigma ci accompagna nell’intero itinerario dechirichiano: però lui stesso, nei suoi copiosi scritti, fornisce elementi ai quali  l’approfondimento critico di Benzi, nel suo “De Chirico. La vita  e l’opera”, e di Barbero, nei propri saggi illustrativi nel Catalogo  della mostra definibili “De Chirico. L’opera e la vita”  aggiungono chiare chiavi interpretative. In questa penultima tappa del viaggio incontriamo nuovi protagonisti enigmatici, i”Gladiatori” e i “Bagni misteriosi”, il nostro “campione” è proprio l’opera “Gladiateurs (Gladiatori)” del 1928, tutto è di nuoco cambiato e siamo  ancora negli anni ’20!

L’8^ e  ultima tappa, “Gli artifici della pittura”  ci porta alla “vexata quaestio” delle repliche delle opere metafisiche della prima ora, viene data una spiegazione legata alle sue concezioni dell’”eterno ritorno”, va alla ribalta  la  “Neometafisica”  con toni brillanti e un’atmosfera “gioiosa” al posto della sospensione ansiosa della prima Metafisica. Inoltre, nell’immancabile compresenza di temi e di stili, la teatralizzazione degli “Autoritratti in costume” e non solo. L’ultimo ”campione” sono “Le Muse inquietanti”, che diede inizio a duplicazioni e repliche, dalla prima del  1919 per Breton, alle  tante riproposizioni, quella che presentiamo è della fine degli anni ’50.

Nell’accingerci a compiere queste tappe nelle sei sezioni che seguono le prime due già commentate, rivolgiamo ai lettori il saluto con cui  Barbero conclude la  sua presentazione della mostra: “Benvenuti dunque nel palazzo incantato immaginato da de Chirico”.  Il curatore si riferisce alla definizione data da  Maurizio Calvesi nel 1992, dieci anni dopo la grande mostra di de Chirico a New York: “L’artista che meglio di ogni altro ha compreso e impersonato la condizione culturale del nostro secolo, portiere di notte di uno splendido palazzo i cui inquilini si sono ritirati a dormire”. Siamo già entrati in questo palazzo, vi  troveremo  ancora tante  intriganti sorprese. 

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Gladiateurs (Gladiatori)” , 1928

Info

Milano, Palazzo Reale,  Piazza del Duomo, 12. Tutti i giorni apertura ore 9,30, chiusura lunedì  ore 14,30, martedì, mercoledì, venerdì, domenica ore 19,30, giovedì, sabato ore 22,30, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura.. Biglietti, intero euro  14, ridotto 12, ridotto speciale  6, famiglie 1, 2 adulti euro 10, da 6 a 14 anni euro 6, gruppi euro 10, scuole euro 6. Info e prenotazioni tel. 02.92897740. Catalogo “De Chirico” a cura di Luca Massimo Barbero, Editore Marsilio/ Electa , settembre 2019,  formato 23 x 32; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Questa  narrazione della mostra di Milano è la  quarta parte della rievocazione di  de Chirico nel quarantennale della scomparsa, dopo la trilogia costituita dal  libro di Fabio Benzi sulla “Vita  e l’opera” e dalle mostre di Genova sul “Volto della metafisica” e di  Torino sul “Ritorno al futuro” degli epigoni; a questo primo articolo sulla mostra di Milano ne seguiranno 2 che usciranno il 24 e il 26 novembre 2019  e concluderanno la celebrazione. Per le parti precedenti i nostri articoli sono usciti, sempre in questo sito, tutti nel settembre 2019 alle seguenti date: per la terza parte della trilogia, sulla mostra di Torino,  il 25,  27,  29;  per la seconda parte, sulla mostra di Genova, il 18, 20, 22; per la prima parte della trilogia, sulla ricerca di Fabio Benzi, il 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15, sempre  nel settembre 2019. Cfr. i nostri articoli precedenti su de Chirico: in www.arteculturaoggi.com, nel 2016, “De Chirico, tra arte e filosofia nel trentennale della Fondazione” 17 dicembre; “De Chirico, e la Fondazione, la realtà profanata tra filosofia e pittura” 21 dicembre; sulle mostre: nel 2015, “De Chirico, a Campobasso la gioiosa Metafisica”  1° marzo,  nel 2013 a Montepulciano, “L’enigma del ritratto” 20 giugno, “I Ritratti classici” 26 giugno, “I Ritratti fantastici” 1° luglio; in “cultura.inabruzzo.it: nel 2009 sulle mostre a Roma “I disegni di de Chirico e la magia della linea”  27 agosto, a Teramo “De Chirico e altri grandi artisti del ‘900 italiano” 23 settembre, a Roma “De Chirico e il Museo”  22 dicembre; nel 2010   a Roma “De Chirico e la natura”, tre articoli l’8, il 10 e l’11 luglio, e la mostra parallela, “L”Enigma dell’ora’ di Paolini, con de Chirico al Palazzo Esposizioni” 10 luglio  (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito, comunque forniti a richiesta); in “Metafisica”, “Quaderni della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico”, n. 11/13 del 2013,  a stampa “De Chirico e la natura. O l’esistenza? Palazzo Esposizioni di Roma 2010”, pp. 403-418,  anche  nell’edizione inglese dei “Quaderni”, “Metaphysical Art”, n. 11-13 del 2013, “De Chirico and Nature.Or Existence? The Exhibition at Palazzo Esposizioni Rome 2010”,  pp. 371-386. Sugli artisti citati nel testo, cfr. i nostri articoli: in www.arteculturaoggi.com Ovidio 1, 6, 11 gennaio 2019,   Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Impressionisti 5 febbraio, 12, 18, 27 gennaio 2016, Matisse 23 maggio 2015, Secessione 21 gennaio 2015, Pasolini 27 maggio, 15 giugno 2014, 11, 16 novembre 2012;  in cultura.inabruzzo.it, nel 2010: Teatro del sogno 7 novembre e 1° dicembre, Paolini 10 luglio, Impressionisti 27, 29 giugno, Dada e surrealisti 6, 7 febbraio; nel 2009, Picasso 4 febbraio; fotografia.guidaconsumatore, Pasolini maggio 2011 (gli ultimi due siti  non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini delle opere di de Chirico sono state riprese dal Catalogo, tutte meno 4 (perché in doppia pagina), si ringrazia  l’Editore, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta. Le 4 immagini non riprese dal Catalogo  sono tratte dai siti di seguito indicati, di cui si ringraziano i titolari per l’opportunità offerta con la loro disponibilità “on line”, pronti a rimuoverle su semplice loro richiesta: la n. 2 è tratta dal sito qkg.images.co.uk, la n. 3 da taorminainforma.it, la n. 12 da arte.it, la n. 13 da pinterest.cl. Le prime 9 immagini sono per le due sezioni iniziali della mostra, commentate nel presente articolo; le altre 6 immagini per ciascuna delle sei sezioni successive, commentate nei prossimi due rticoli.  Tutte immagini diverse da quelle inserite negli altri 13 articoli della “trilogia de  Chirico”, 15 ogni articolo,  alle quali si rinvia per una visione più completa del “Film” della vita e dell’opera del grande Maestro.  In apertura, “Autoritratto” 1912-13; seguono, “Les plaisirs du poète” 1912, e “L’enigma di una giornata” 1914; poi, “L’enigma del cavallo” 1914, particolare, e Le matinée angoissante” 1912; quindi, “La surprise” e “L’incertezza del poeta” , 1913; inoltre, “Le printemps de l’ingénieur” 1914, e L’inquietudine de l’amie ou l’astronome”, 1915; ancora, – da qui le 6 immagini “campione” delle sei sezioni restanti – “Il Trovatore” 1917, e “Ottobrata” 1924; continua, “L’archeologo” e “Ma chambre  dans le midi” , 1927; infine, “Gladiateurs (Gladiatori)” 1928 e, in chiusura, “Le Muse inquietanti” fine anni ’50.

Le Muse inquietanti”, fine anni ’50

Giardini, dall’ “Appuntamento” alle “Armonie” e “Meraviglie” di due mostre d’arte a Roma

di Romano Maria Levante

Giardini, “Appuntamento” in 200 Parchi e Giardini in un’eccezionale apertura al pubblico l’1 e 2 giugno 2019, e due mostre d’arte a Roma, promosse da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita Culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali con i Servizi museali di Zètema Progetto Cultura:  “Verdi Armonie. I Giardini di Roma all’acquerello”, al Museo Pietro Canonica di Villa Borghese, 60 acquerelli di 7 artisti dal 10 maggio al 20 giugno 2019,  a cura di Stefania Severi;  “Il Giardino delle Meraviglie”, alla Casina delle Civette,  50 dipinti con cornici artistiche di Garth Speight  dal12 ottobre 2019 al 19 gennaio 2020, a cura di Maria Grazia Massafra e Stefano Nissirio, Catalogo Edizioni Athena Parthenos.

“Verdi armonie” n. 1

Un’esplosione di interesse per i giardini con l’”Appuntamento” e con  le due mostre successive, a sottolineare il valore non solo paesaggistico ma anche culturale di quest’eccellenza del nostro paese, in cui vi è anche  l’opera dell’uomo, cui si aggiunge l’arte ispirata dalla natura floreale e arborea. I due primi eventi si sono svolti nel mese di giugno, l’ultimo si svolge dal 12  ottobre 2019 al 19 gennaio 2020.

L’ “Appuntamento” con 200 Giardini e Parchi d’Italia

E’ stata una manifestazione  promossa dall’Associazione Parchi e Giardini d’Italia (APGI) , che l’ha ideata, e patrocinata dal Ministero per i beni e le Attività Culturali (MiBAC) , con il sostegno della società “in house” Ales S.p.A,, e dall’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASVIS). L’hanno  presentata, nella sede del Ministero, Giovanni Panebianco, Segretario generale del MiBAC,  Mario De Simoni, Presidente e A.D. di Ales S.p.A., Ludovico Ortona e Alberta Campitelli, Presidente e Vicepresidente APGI, con l’intervento di esponenti dell’ASVIS, del FAI dell’Associazione Dimore Storiche Italiane e di due Parchi, di Capodimonte e Montepulciano.

“Verdi armonie” n. 2

L’iniziativa, alla seconda edizione,  ha registrato un aumento del 60% delle adesioni estese a quasi tutte le regioni, quindi è stato generale l’invito al pubblico a scoprire la ricchezza dei nostri giardini e parchi, sul piano storico e artistico, oltre che botanico e naturalistico. Un’offerta allettante,  dato che per la gran parte non sono aperti al pubblico. Dei 200 aderenti citiamo alcuni siti UNESCO,  Villa d’Este e la Reggia di Caserta, i giardini delle Ville Medicee; poi gli Orti botanici, da Palermo e Catania a Torino, da Roma e Genova ai giardini botanici alpini. Giardini di eccellenza in Dimore storiche private, da Villa Tiepolo Passi in Veneto a Villa Reale  di Marlia in Lucchesia, da Villa Imperiale nelle Marche, al giardino della Minerva a Salerno, fino al giardino Portoghesi a Calcata con la visita guidata dallo stesso architetto Paolo Portoghesi.

A latere, iniziative sul tema della sostenibilità ambientale, con lezioni e conversazioni, dato che le visite si sono svolte nella Settimana Europea dello Sviluppo Sostenibile, dal 30 maggio al 5 giugno 2019, e hanno fatto  parte del programma del Festival dello Sviluppo Sostenibile di ASVIS,  intervenuta alla presentazione. I giardini, del resto, sono il luogo ideale per sensibilizzare  sull’ambiente e la sostenibilità, trattandosi di piccoli ecosistemi che fungono da “sensori” dei mutamenti ambientali.

“Verdi armonie” n. 3

Non solo tutto questo, alle visite guidate si sono aggiunte moltissime attività speciali, dai momenti musicali, come il concerto d’archi al castello Galli della Loggia in Piemonte, ai “percorsi sensoriali”, come quello a Villa Carlotta sul Lago di Como, alle visite serali straordinarie, come quella con “lucciolata” nella Villa Annoni a Cuggiono e nella Casa del Bosco, e quella  notturna all’Orto Pellegrini Ansaldo delle Alpi Apuane per scoprire le orchidee spontanee. E laboratori, degustazioni e yoga, fino alla novità del “contest” fotografico “Il Giardino racconta: immagini di un universo verde”,  hashtag “#appuntmentoingirdino”, aperto su Instagram, a chi ha voluto  raccontare per immagini le due giornate, con al centro i giardini e la gente coinvolta nelle manifestazioni.

I “Giardini di Roma all’acquerello”  di 7 artisti al  Museo Canonica

Dall’”Appuntamento” alla mostra “Verdi Armonie. I Giardini di Roma all’acquerello” il passo è breve, dalla visita diretta alla visione attraverso l’interpretazione artistica. La mostra  è stata ideata e realizzata dalla Cooperativa Sociale Apriti Sesamo secondo l’intento della curatrice Stefania Severi di creare un giardino fantasioso in un luogo molto particolare e prestigiosoo, il Museo Pietro Canonica all’interno di Villa Borghese, di cui un tempo era il “gallinaro”, prima di essere ceduto all’artista per il suo museo. E’ come far entrare l’esterno all’interno, de Chirico dipingeva  gli alberi all’interno delle stanze, in questo museo tra le grandi sculture che riempiono le sale sono state create delle “enclave” di acquerelli  che portano il verde della natura tra i marmi dello scultore.

E’ indescrivibile la sensazione che si prova per questo accostamento tra l’imponenza delle grandi sculture monumentali e la leggerezza degli acquerelli, con i piccoli bassorilievi e le sculture di minori dimensioni ad accostare e  collegare idealmente due mondi agli antipodi. L’occasione è imperdibile per visitare, nel passare da una “enclave” di acquerelli all’altra,  anche  il Museo Pietro Canonica, veramente spettacolare, fino al suo atelier con gli strumenti e le opere “in fieri”.

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“Verdi armonie n. 4

Per le “Verdi Armonie” dei Giardini di Roma, i  7  artisti espositori  hanno usato l’acquerello nella tradizione del “Grand Tour”, come i  visitatori  di oltralpe che adottavano questa  tecnica per i piccoli quadri-ricordo in cui fissavano le loro impressioni, il pensiero va a Goethe che nel suo viaggio in Italia ne realizzò molti. La Severi la definisce “una tecnica ‘fresca’, ricca di trasparenze e per questo particolarmente adatta a cogliere le peculiarità dei giardini, le trasparenze delle acque delle fontane, la vibrazione riverberante tra cielo e fronde”.  Ed è proprio questa “vibrazione” che accomuna le opere esposte, pur nelle evidenti differenze nello stile e nel contenuto.

“Verdi armonie” n. 5

Le “vibrazioni” dei giardini che si sentono  nelle “enclave” di acquerelli riguardano  Villa Borghese e Villa Sciarra, Villa Doria Panphili e Villa Carpegna, tutte  ville romane, il polmone verde della Capitale, patrimonio naturale di grande valore. Villa Borghese è la maggiore ispiratrice degli artisti espositori, e questo accresce l’interesse per i suoi conoscitori,  perché sono  portati a  riconoscere gli angoli raffigurati, per poi individuarli in una passeggiata alla scoperta del motivo ispiratore. “Sarà una vera  e propria ‘caccia al tesoro’ — è sempre la Severi – perché le architetture, le statue, le fontane  e il verde di Villa Borghese, così come degli altri giardini di Roma, costituiscono un ‘unicum’ di grande fascino e bellezza”. Tutto questo viene rappresentato e fatto rivivere, non solo la vegetazione, ma anche gli insediamenti monumentali, negli scorci presentati  dagli artisti con una  notevole varietà di scelta. E non si pensi a riproduzioni meramente figurative di tipo fotografico, tutt’altro: gli scorci sono spesso arditi, in una trasfigurazione della realtà pur nella fedeltà all’ispirazione, sorprendente quanto intrigante. Sono visioni per lo più sfumate, come si addice all’acquerello, raggruppate in multipli nei quali risalta l’armonia cromatica e compositiva, sono tutte delle mirabili, coinvolgenti “Verdi armonie”.

I 7 artisti sono romani,  come Raffaele Arringoli e Sergio Mattioli,  Emanuela Chiavoni, Fausta d’Ubaldo; altri dal Nord  trasferiti   a Roma,  Gabriella  Morbin da Vicenza, Luisa Saraceni da Padova, Silvano Tacus da Bolzano. Tutti appassionati della pittura ad  acquerello e impegnati direttamente, Arringoli e la Saraceni ne sono  diventati docenti, la D’Ubaldo è stata allieva del Maestro Pedro Cano, Macchioli autodidatta  attirato dalle trasparenze di questa forma pittorica, la Morbin da “industrial designer” ad insegnante e artista, Tacus progettista di Musei.

“Verdi armonie” n. 6

Diverse interpretazioni di un tema comune: per il parco dove ha sede il Museo Canonica, tra le opere intitolate  “Villa Borghese”  citiamo  il piccolo acquerello 20 x 20 con il sottotitolo  “Viale Canonica”, il bianco dei plinti con sopra i vasi spicca sul verde scuro dello sfondo, come per l’acquerello sottotitolato  “Fontana dei cavalli” di Silvano Tacus, 51 x 32, mentre Sergio Macchioli con “Merridiana” , 39 x 51, ci dà un primo piano dello spaccato a metà di una trabeazione e  Luisa Saraceni, con “Villa Borghese”, 35 x 25, senza sottotitoli  presenta una statua imponente e insieme coinvolgente, con l’alto fusto di un albero a fare da contraltare naturale all’opera dell’uomo.

Citiamo degli altri tre artisti espositori due opere intitolate “Villa Pamphilij”, Emanuela Chiavoni sottotitola “Il vuoto”, 30 x 72, un suggestivo “negativo”di due grandi alberi, che diventano i fantasmi di sé stessi, e Gabriella Morbin, senza sottotitolo, con il suo “Villa Panphilij” 57 x 115, abbina allo scorcio sfumato di un edificio due alberi uniti, con un effetto suggestivo. Di Raffaele Annigoni, il viale dove si trova il museo.

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Per “Villa Celimontana” , con il sottotitolo L’obelisco”, 37 x 56, Fausta D’Ubaldo presenta il monolite svettante su uno sfondo di alberi stilizzati, in un contrasto di forme e di luci-ombre.

E’ solo un’opera per ognuno degli artisti che ne espone una serie, un campione che intanto  fa conoscere la loro personale visione della villa prescelta. Loro stessi, fatto straordinario e meritorio,  si sono avvicendati nei mesi di maggio e giugno come docenti nei “corsi di acquerello per adulti”,  che si sono svolti nei luoghi di Villa Borghese scelti di volta per i partecipanti,  20 per volta, cui veniva chiesto di prenotarsi allo 060608 e presentarsi con scatola di colori e fogli per acquerello, pennelli e matita con il supporto per dipingere all’aperto, più contenitore e bottiglia per l’acqua. Visita alla mostra e poi all’opera gli acquerellisti in erba… è il caso di dire. Il tutto completamente gratuito, è stata un‘occasione eccezionale e imperdibile.

“Verdi armonie” n. 8

“Il Giardino delle Meraviglie”  di Garth Speigh, alla Casina delle Civette

Dai giardini romani interpretati dai 7 acquarellisti italiani alla visione della natura nella sua essenza pittoresca e suggestiva, nella mostra organizzata dall’Associazione Culturale Athena Parthemos con il patrocinio dell’Ambasciata del Canada, fiori, boschi e uccelli interpretati dall’artista canadese Garth Speigh, in modo molto personale.

Non riproduce la realtà, ma la trasfigura innestando sulla visione ispirata dalla natura del suo verde paese gli stimoli ricevuti dalla vista dei mosaici e delle vetrate, delle ceramiche  e dei tessuti, delle pale d’altare e delle dorature  nei suoi viaggi in Europa e soprattutto in Italia “alla ricerca  della ‘sua’ bellezza”, commenta la curatrice Stefania Severi,   “quasi un viaggiatore del Grand Tour”. E aggiunge: “Guardiamo dunque le opere di questo artista per ritrovare in esse una concezione di natura bella ed eternamente presente che non subisce i colpi né del tempo storico né del tempo naturale, ma che è lì per noi, per farsi ammirare come, parafrasando D’Annunzio, favola bella che ieri illuse ed oggi continua a illudere”.

Garth Speight, Ninfee”, 2008

E’ lo stesso senso di eternità dell’ideatore e, ai suoi tempi, abitante della Casina delle Civette, Giovanni Torlonia, un accostamento che risulta evidente guardando, osserva la Severi,  “la vetrata degli ospiti della Casina per ritrovare gli stessi fiori e gli stessi uccelli dipinti dall’artista e, raffrontando dipinti e vetrate, constatare l’identità del blu”. Vediamo tre opere che ha creato in occasione della mostra, ispirandosi a questo luogo speciale, in un certo senso fatato. Nella prima, “Villa Torlonia. Casina delle Civette”, l’accostamento è diretto tra l’albero con il tronco diviso in due, svettante in alto nel superare in altezza la cuspide della Casina, e il  suo caratteristico corpo sporgente  con le sei grandi finestre, quasi una  sfida tra l’opera dell’uomo e quella della natura. 

Mentre  è un’immagine di fiaba in “Casina delle Civette”  l’edificio con le sue finestre e i suoi  tetti  con le guglie e trabeazioni, che appare come in una magia dietro una cortina di bambù, in una straordinaria compenetrazione nella natura. C’è anche “Il boschetto di bambù di Villa Torlonia”, quasi evanescente come in un ritorno onirico, con “Bambù”,  un primo piano, quasi un “blow up”. Nello “Scorcio di Villa Torlonia”, dalla cortina di bambù si passa alla cortina alberata che copre con il folto delle chiome i piani superiori, tra i bagliori rossi mescolati alle fronde  nell’incendio di un tramonto altamente spettacolare.  

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Garth Speight, “Scorcio di Villa Torlonia”, 2019

Siamo nel 2019, queste visioni d’incanto testimoniano l’ispirazione quanto mai intensa e la creatività dell’artista  nel nuovo viaggio in Italia. In “Magia del  Palatino di notte”   si intravedono i contorni monumentali dietro una fila  di alberi stilizzati  che lasciano ampi spazi al blu cobalto del cielo notturno, è del 2007, precede le magie di Villa Torlonia di 12 anni, creando un’atmosfera altrettanto suggestiva. L’altro curatore, Cesare Nissirio, afferma che l’artista “da sempre abituato ai paesaggi verdi delle sue terre di origine, il Canada  e la Scozia”, è riuscito a “materializzare lo spirito della Casina delle Civette”,  con  “la mirabile sintesi delle due anime, la sua e quella  romana di Villa Torlonia. La luce romana e quella nordica si affrontano con risultati eclatanti”.

E, più in generale, si può convenire con la Severi che “osservando i suoi dipinti emerge con evidenza che la sua pittura riflette tutte quelle forme di bellezza che, trasfigurando l’elemento naturale, si pongono alla ricerca della perfezione sottesa”, in una visione “meno naturale  e più simbolica” rispetto al  “naturalismo idealizzante” del mondo classico.

Garth Speight, “Iris bianchi”, 2011 (sopra) con
“Fiori selvatici con farfalla”, 2018 (sotto)

C’è di più, “l’artista non propone solo i dipinti – osserva Nissirio – ma anche ciò che li  racchiude, le cornici che lui crea ad hoc  per ogni quadro del quale divengono un tutt’uno”. E sulle cornici Maria Grazia Massafra  ci regala il consueto approfondimento colto, cominciando col definirle “soglie per accedere alla dimensione dell’immaginario”.   E lo spiega citando Josè Ortega y Gasset dalla “Meditazione sulla cornice”: “L’opera d’arte è un’isola immaginaria che fluttua, circondata dalla realtà da ogni parte”. Un’isola, quindi, che  deve essere difesa da ogni sconfinamento. Perciò “la cornice può essere considerata una sorta di finestra, che media il passaggio dal mondo ideale del dipinto a quello reale dell’ambiente che lo circonda”, e in quanto tale ”essa racchiude in sé lo spazio ideale creato dall’artista nel dipinto, separando l’universo statico della pittura da quello reale in continuo movimento”, che quindi non deve invadere il primo. “E’ una sorta di finestra multiforme dalla quale lo spettatore guarda la natura o il mondo soprannaturale creato dall’artista”.

In tal modo le cornici fanno concentrare l’attenzione sulla creazione dell’artista, e dovendo essere coerente  con la raffigurazione al suo interno, la sensibilità e la cura certosina di Garth Speigh per il suo lavoro lo porta a realizzarle  appositamente e personalmente per ciascuna opera sull’onda della  medesima spinta ispiratrice. Con questo intento, sottolineato dalla Massafra: “Le sue cornici, oltre a racchiudere, proteggere e adornare l’immagine raffigurata, svolgono principalmente la funzione di ‘passaggio’ dalla realtà della Natura che ci circonda al mondo immaginario dell’artista, contaminato da sentimenti, emozioni, percezioni”.  Ed ecco il risultato: “Il ‘corpo estetico’, attraverso la cornice, viene isolato e circoscritto in modo che l’irreale dell’artista venga separato dalla realtà.  Il quadro acquista bellezza e suggestione proprio perché viene isolato dal mondo esterno; esso diviene una apertura di ‘irrealtà’ che magicamente, attraverso la cornice, entra  in comunicazione con lo spettatore”.

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Garth Speight “Iris blu”, 2011

Ma come sono queste cornici “uniche”?  Recano intagliati elementi stilizzati in carattere con il dipinto che “decorano”, per lo più in stile “liberty” che meglio si addice alle composizioni floreali, spesso impreziosite dalle foglie d’oro e d’argento  i cui riflessi attirano l’’osservatore;  un “confine” che separa dall’esterno, e nel contempo una calamita che concentra l’attenzione sulla composizione. Lo sguardo è tutto preso dal dipinto, racchiuso in un recinto ornamentale prezioso, la bellezza figurativa viene esaltata ancora di più. Una visione opposta a quella del collezionista Poletti – la cui raccolta è in mostra quasi in contemporanea nelle Gallerie Nazionali d’Arte Antica a Palazzo Corsini” – collezionista che esponeva nella propria quadreria le “nature morte” addirittura senza cornici, come scelta motivata dal desiderio di non sviare lo sguardo dal mare di fiori, frutta e quant’altro spesso su fondo nero che lo fa risaltare.

Di Garth Speight vediamo esposte una diecina di composizioni floreali e altrettante con rappresentati i tronchi d’alto fusto dei boschi, spesso molto fitti e sottili,  piante acquatiche  e uccelli, oltre  alle visioni di Villa Torlonia che abbiamo già commentato.

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Garth Speight, “Iris”, 2018

Cominciamo dai fiori, carnosi come gli “Iris bianchi”, e sfolgoranti come “Iris blu”, entrambi 2011, risplendenti sul fondo dorato come “Iris” 2018, veri fuochi d’artificio come  i “Fiori di Agapanthus”,  2019, esplosivi come i “Fiori di fantasia”, 2018, delicati  come i Fiori di campo”   e i  “Fiori di notte” 2019, questi ultimi anche in una versione intensa con le sole corolle,  misteriosi come i “Fiori selvatici”, nelle versioni con o senza farfalla, 2018; i “Gerani d’inverno”, del 1989, sono gli apripista di straordinaria intensità, con la loro immagine discreta e raccolta.

Nissirio descrive così questa “botanica onirica”  che trasfigura la realtà in un magico artificio: “Foglie stilizzate, longilinee, serpeggiano fra i ‘suoi’ fiori, alcuni veri, ‘rubati’ alla natura, altri, frutto della sua sbrigliata fantasia, costituiscono la maggior parte delle sue creature fantastiche, inventate, ideate, provocatorie, illusorie. Foglie ampie, dilatate, fluttuanti nell’aria o nell’acqua, scompigliano la superficie dei suoi quadri, apparendo come sfondo ad animali idealizzati”, come per i fiori selvatici  e la farfalla.

Le foglie fluttuanti nell’acqua  sono nelle spettacolari composizioni delle due “Ninfee” del 2007,  che la Severi cita a riprova del fatto che “l’idea di eternità serpeggia tra i fiori di Garth”, a differenza di Monet, “che coglie l’attimo di quel riflesso di luce in quell’ora su quella superficie vibrante dello stagno”, un “tempo brevissimo”, mentre “fermo e immoto è lo stagno di Garth in una concezione di tempo infinito e assoluto”.

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Garth Speight, “Fiori di fantasia“, 2018

Poi i boschi, c’è il “Bosco di betulle”  quasi in dissolvenza nella litografia del   2005, visto al tramonto nel dipinto del 2018, l’infittirsi dei tronchi evoca la celebre carrellata del vecchio film russo “Quando volano le cicogne” . Eppoi, “Bosco in primavera”, e “Bosco autunnale” , anch’essi del 2018 in tinte delicate, il primo sul verde incipiente, il secondo sulla ruggine appena accennata delle foglie caduche, seguiti da “Alberi su pendice rocciosa” 2019, quasi in dissolvenza ma con i tronchi ben in evidenza, mentre “Sui grandi laghi canadesi” 2017, il verde intenso delle foglie prevale sui radi fusti dei tronchi. in un terreno cosparso di massi. Nel “Bosco rosso” 2009, invece, i tronchi sono senza vere foglie, ridotte  ai grossi punti gialli in cui si sono trasformati  i grumi di foglie verde-giallo del “Bosco dellle Vestali” 2005, sconfinando nell’astrazione. D’altra parte, come rileva Nissirio, “la sua arte non è riproduzione, ma interpretazione, è un prodotto della mente, della memoria, della sua sbrigliata creatività”.  

E  gli animali?  Vediamo “Uccello” , “Uccelli acquatici” e “Uccelli in uno stagno”, del 2017, “Coppia di uccelli” 2018, stemmi araldici incastonati nel verde nella loro fissità  esternatrice come l’acqua dello stagno.

Ciò che si imprime maggiormente nella memoria del visitatore è il verde brillante delle sue “Ninfee” in gara di intensità con il blu del “lago immoto”;  mentre il giallo dei fiori e dei boschi con gli altri cromatismi delicati fino al rosa antico, il “cipria” e il celeste  definito da Nassirio  “carezzevole”, con il trittico coloristico verde-blu-bianco degli splendidi uccelli, restano come sfondo altrettanto indimenticabile.

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Garth Speight, “Bosco delle Vestali “, 2005

Info

“Appuntamento in giardino”, presentazione alla “Sala Spadolini” del MiBAC, via del Collegio Romano, 27, Roma. Mostra “Verdi Armonie . I giardini di Roma all’acquerello”, Museo Pietro Canonica, viale Pietro Canonica (piazza di Siena) 2, Villa Borghese, Roma, mese di maggio, martedì-domenica ore 10,00-16,00, mese di giugno ore 13,00-19,00, ingresso e corsi gratuiti. Mostra “Il Giardino delle Meraviglie. Opere dell’artista Garth Speight”,   Casina delle Civette, Musei di Villa Torlonia, via Nomentana, 70, Roma, da martedì a domenica ore 9,00-19,00, lunedì chiuso, la biglietteria chiude 45’ prima, ingresso euro 6, ridotto 5, per i residenti in Roma un euro in meno, Catalogo “Il Giardino delle Meraviglie. Opere dell’artista Garth Speight”, Edizioni Athena Parthenos, ottobre 2019, pp. 50, formato 21,5 x 21,5; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli: su De Chirico, in questo sito: 2019, settembre 3, 5, 7, 9, 11, 13. 15, 18, 20, 22, 25, 27, 29;  in www.arteculturaoggi.com: 2016, 17 e 21 dicembre, 2015, 1° marzo,  2013, 20, 26 giugno e 1° luglio; in  “cultura.inabruzzo.it:  2010,  ‘8, 10, 11 luglio, 2009,  27 agosto, 23 settembre,  22 dicembre; a stampa in “Metafisica” e “Metaphysical Art”  n. 11-13 del 2013. Su Monet e gli impressionisti,  in www.arteculturaoggi.com, 2016, 5 febbraio, 12, 18, 27 gennaio; in cultura.inabruzzo.it, 2010, 27, 29 giugno (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al museo Pietro Canonica e alla Casina delle Civette alla presentazione delle due mostre, si ringraziano le rispettive organizzazioni, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Dalla mostra “Verdi Armonie. I Giardini di Roma all’acquerello”, 8 immagini  corali delle opere degli artisti esposte tra le sculture imponenti di Pietro Canonica, che abbiamo definito “Verdi Armonie”: in apertura “Verdi Armonie” n. 1; seguono, “Verdi Armonie” n. 2″ e “Verdi Armonie” n. 3; poi, “Verdi Armonie” n. 4 e “Verdi Armonie” n. 5; quindi, “Verdi Armonie” n. 6, “Verdi Armonie ” n. 7 e “Verdi Armonie” n. 8; inoltre, dalla mostra “Il Giardino delle Meraviglie. Opere dell’artista Garth Speight”, 8 suoi dipinti con le cornici artistiche: “Ninfee” 2008, e “Scorcio di Villa Torlonia” 2019; ancora, Iris bianchi” 2011 (sopra) con “Fiori selvatici con farfalla” 2018 (sotto), e “Iris blu” 2011; continua, “Iris” e “Fiori di fantasia” 2018; infine, “Bosco delle Vestali “ 2005 e, in chiusura,Uccelli acquatici” 2017.

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Garth Speight, Uccelli acquatici“, 2017

Cortina di ferro, il viaggio della memoria di Monteleone, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Per celebrare nel nostro sito il trentennale della caduta del Muro di Berlino, oltre all’articolo “Berlino, il Muro infranto, a trent’anni dalla sua caduta, alla Sala da Feltre” pubblicato oggi nella data fatidica del 9 novembre, ripubblichiamo, sempre oggi in questo  sito, il presente  articolo uscito nel ventennale, il 12 gennaio 2010 , e il seguito, “Berlino, il culmine del viaggio della memoria di Monteleone, al Palazzo Esposizioni” , del 14 gennaio 2010, nonché l’altro nostro articolo del 9 novembre 2009, “Berlino, la caduta del Muro, rievocata nel ventennale, al Palazzo Incontro”. Questi 3 articoli furono pubblicati alle date indicate del 2009 e 2010 in “cultura.inabruzzo.it” (non più raggiungibile).

Germania, Ovest – 51° 34’43.04″ N – 10° 28’39.62″ E

cultura.inabruzzo.it, 12 gennaio 2010 – Postato in: Eventi

La mostra “La linea inesistente” espone a Roma, al Palazzo delle Esposizioni dal 12 dicembre al 24 gennaio 2010, 70 fotografie di Davide Monteleone, scattate lungo il confine di un tempo tra Est e Ovest dov’era calata la Cortina di ferro. Una divisione oggi scomparsa, ma quella linea virtuale al posto del filo spinato del tempo della guerra fredda che schierava i paesi dell’Est del Patto di Varsavia contro quelli dell’Ovest della Nato. ha suggerito a Monteleone foto comparative dell’Est e dell’Ovest, con la natura, gli insediamenti, la vita insomma: un modo per celebrare la pace dove c’era la minaccia delle guerra. La mostra è promossa dalla “Fondazione italianieuropei” con “Contrasto”, cui si deve anche il Catalogo.

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Italia, Ovest – 45° 39′ 1. 63″ N – 13° 46′ 2 84 E

Avevamo considerato con interesse la mostra, fotografica e non solo, sulla “linea inesistente” come seguito ideale di quella sul Muro di Berlino, organizzata dalla Provincia di Roma nel ventesimo anniversario della caduta di quel pezzo di “Cortina di ferro” all’interno della città. Era un’occasione per un approfondimento, connotato per noi irrinunciabile di una rivista culturale, anche se “on line”, anzi soprattutto perchè tale: il tempo non la consuma come fa con certa carta stampata e neppure lo spazio, è raggiungibile da ogni punto del “web” che non ha confini. Quindi persistenza ed accessibilità in ogni momento, come la memoria.

Le ragioni contingenti e quelle sottostanti di un evento epocale

Ma è stata proprio la memoria a spostare la nostra attenzione dall’approfondimento culturale alla partecipazione emotiva, dal desiderio di documentare all’ansia di rivivere. Di questo dobbiamo dare merito alla “Fondazione italianieuropei” che l’ha promossa e a “Contrasto” che l’ha organizzata. Per la prima c’è un merito speciale, con il sottoporsi a una sorta di “catarsi” immergendosi nella tragedia che è stata la divisione dell’Europa in due con metà di essa sotto il tallone della dittatura comunista – per alcuni “album di famiglia” – quando oltre alla perdita delle libertà civili sono svanite le prospettive di benessere e di sviluppo

Una “catarsi” alla quale partecipa meritoriamente anche l’Istituto Gramsci, depositario di una documentazione sterminata su quello che fu il comunismo visto dall’interno, “ex ore suo” si potrebbe dire. Citiamo ancora una volta questa espressione e qui vogliamo rivelarne l’origine, fa parte della nostra vicenda professionale: la trovavamo negli anni ’60 nelle rassegne stampa che faceva preparare l’Avv. Guiglia in Confindustria, dedicate alle notizie dirette dai paesi comunisti, dalle quali emergeva già l’abisso in cui quelle popolazioni venivano sprofondando sempre più.

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Italia, Est – Trieste

La nostra memoria è stata sollecitata subito dalla ricostruzione di Silvio Pons, direttore dell’Istituto Gramsci, che parte dalle ragioni contingenti del dissolvimento del sistema sovietico, ponendo in rilievo le grandi personalità che hanno dato la spinta decisiva o non si sono opposte: “Animati da mentalità e obiettivi diversi, Lech Walesa, Giovanni Paolo II, Gorbaciov ci appaiono ancora oggi gli eroi e i protagonisti della rappresentazione, non diversamente da come apparvero ai contemporanei”. Per precisare: “Ciascuno di quei personaggi presentò un’innegabile statura carismatica e ciascuno di essi contribuì ad una soluzione pacifica, interpretando a suo modo aspirazioni e speranze che intersecavano la vecchia cortina di ferro”

Ma Pons non si ferma a questa constatazione, guarda alle ragioni sottostanti: “E tuttavia, il ruolo delle personalità non può bastare per capire la nostra storia. La profondità delle forze all’opera va cercata altrove. La crisi del comunismo aveva radici intrecciate nell’economia, nella società, nella cultura e nell’ambiente internazionale”.

Come mai è esplosa, anzi implosa nel momento storico vissuto venti anni fa? “La guerra fredda non era la stessa di trent’anni prima e non aveva più la centralità posseduta in passato, anzitutto per le generazioni più giovani. E lo stesso si può dire per il comunismo. Anche l’Europa era cambiata attraverso processi di integrazione e politiche di distensione che avevano consolidato il suo nucleo prospero e democratico, promuovendo nel contempo forme di collaborazione economica che erodevano silenziosamente i confini tra i due blocchi”.

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Ungheria, Ovest – 47° 6′ 51 85′ N – 16° 36′ 47. 95″ E

C’è un altro riconoscimento che ci piace sottolineare e del quale va pieno merito a Pons e alla Fondazione promotrice della mostra: “In un rapporto non sempre facile con le logiche della distensione, la questione dei diritti umani aveva assunto un peso e una centralità nella cultura europea, anzitutto grazie al coraggio dei dissidenti dell’Est, creando a sua volta un linguaggio volto a negare l’eredità della divisione del continente e a delegittimare i regimi comunisti”

Abbiamo voluto fare un’ampia citazione testuale perché meglio di così non si poteva spiegare una rivoluzione epocale, sulla quale torneremo più avanti precisandone ulteriormente i termini; e che documenteremo alla fine del viaggio riportando preziose testimonianze provenienti dal “National Security Archive” di Washington che fanno rivivere l’ ansia soprattutto dei governanti, dato che i popoli erano ebbri di entusiasmo da una parte all’altra della Cortina di ferro: il timore del bagno di sangue che ha sempre macchiato rivolgimenti simili, dalla Rivoluzione francese del 1789 al Risorgimento italiano del 1848, alla Rivoluzione russa del 1917, date anch’esse ricordate da Pons.

Le immagini di Monteleone dov’era la Cortina di ferro

Il viaggio del giovane, già esperto fotografo, è anche un viaggio nella propria fresca memoria, è nato nel 1974 a Potenza “in un mondo già diviso”, e ha utilizzato un Atlante del 1976 per tracciare “un percorso automobilistico il più vicino possibile alle frontiere che dividevano due mondi: l’Est e l’Ovest”. Il programma: “Ho il desiderio di attraversare l’Europa, da Trieste a Stettino, per percorrere quei confini un tempo invalicabili”. Riecheggia, nel suo programma, il suono della dichiarazione che fece Winston Churchill a Fulton, il 5 marzo 1946: “Da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico, una cortina di ferro è scesa attraverso il continente. Dietro quella linea giacciono tutte le capitali dei vecchi Stati dell’Europa Centrale ed Orientale”.

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Ungheria, Est – Gancspati

Ora le due città non sono più i terminali di una barriera, ma di un viaggio che, nelle parole di Andrea Péruzy, Segretario generale di Italianieuropei e di Roberto Koch, direttore di “Contrasto”, “è fatto di sguardi, annotazioni, evidenze, letture e studi, conferme e scoperte. Soprattutto, è fatto di tappe”. Le percorreremo anche noi sulla scorta delle immagini, con ogni tappa “segnata da un dittico, due scatti che guardano uno a Ovest e uno a Est, per scoprire come sono oggi i paesaggi ‘oltre’ e ‘al di qua’ della Cortina, chi abita quelle terre, quale innovazione o involuzione sociale possa essere avvenuta nei luoghi un tempo sorvegliati e inaccessibili”

Si è trattato per l’autore, e lo sarà anche per noi, di “un viaggio nello spazio, certo, ma anche nel tempo per cercare di ritrovare le tracce e i segni di un storia che a volte sembra essere stata cancellata troppo in fretta, come un intoppo della coscienza che è necessario rimuovere per procedere oltre”.

Ed è questo il maggior pregio dell’iniziativa – dire mostra ci sembra limitativo – perché, oltre al ben documentato Catalogo, resta nello spazio e nel tempo per chi compirà il viaggio con le immagini che evocano ricordi, sottraendosi alla rimozione che Italianieuropei meritoriamente respinge.

La prima parte inizia nel novembre 2008, il programma è semplice: “Circa un mese di viaggio fermandomi ogni 100 chilometri per guardare, idealmente, da questa linea immaginaria ormai scomparsa, una volta a Est e una a Ovest”. Il proposito: “Scrutare differenze, similitudini, cambiamenti; volgere lo sguardo verso i desideri e verso i nemici di un tempo”. Il risultato: “Due sole immagini per rappresentare i confini che cadono, le assurde divisioni, i paesaggi immutati”. Ogni dittico di immagini reca l’indicazione delle coordinate geografiche, latitudine e longitudine.

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Rep. Ceca, Ovest – 48° 46′ 25. 84″ N – 16° 53′ 10, 14″E

In effetti, la galleria fotografica offre campi lunghi e pochi primi piani, con un denominatore comune all’Est e all’Ovet, la desolazione e la solitudine: ed è bene che oggi sia così, non lo è stato ieri quando in queste terre di confine c’erano reticolati, barriere, sorveglianza armata.

Il viaggio inizia in Italia aTrieste, citata da Churchill come inizio della Cortina di ferro nella sua celebre allocuzione. due campi lunghi con il mare, i lampioni e le persone in lontananza, appare l’assurdità della separazione. Per il resto non c’è ricerca di effetti particolari, cioè simboli di costrizione negli scatti dell’Est rispetto a quelli dell’Ovest, tutto è immediato, spontaneo, anzi in qualche caso i simboli sono rovesciati.

Come nella due località di Gencsapati in Ungheria e Cizov nella Repubblica Ceca dove le immagini dell’Ovest sono reti e filo spinato, mentre all’Est una sfera sospesa in alto e tenuta da cavi come una mongolfiera nel primo, un bel tronco d’albero nella seconda. A Chely , sempre nella Repubblica Ceca, ad Est una strada oscura che sarebbe inquietante se non ci fosse un festone in alto con la scritta “Love story”, mentre a Ovest delle statue rassicuranti, questa volta religiose, Cristo, la Madonna e gli angeli. A Nuova Bystrice le finestre di due edifici gemelli, cambia solo il colore delle fasce di muro che dividono i vari piani.Così nelle immagini da Trstenik. Due scatti pittoreschi a Breclav, le T-shirt esposte a Ovest e le sfere allineate all’aperto a Est in una grande pallottoliere variopinto nel riposante ambiente montano.

In Slovenia, all’Ovest abbiamo una grande curva di una strada deserta sotto un cielo limaccioso, mentre a Est, a Strstenik, un’immagine fiabesca, la statua seducente di una ninfa tra nanetti e altre fontane e arredi da giardino, in un clima festoso.

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Repubblica Ceca, Est – Breclav

$e  proprio si vogliono ricercare dei simboli possiamo vederli nelle immagini dall’Austria: a Pamhagen una cabina a Est, ricordo delle postazioni poliziesche cui si contrappone una strada diritta a Ovest; e soprattutto a Jennersdorf il bosco cupo e ingiallito segno di oscurità e stagione finita rispetto al controluce dell’arbusto in fiore che si staglia nel cielo simbolo di crescita e di vita. A Retz un’immagine dell’Est con una donna seduta in una sconsolata solitudine, il viso incorniciato da un cappellino rosso sotto un cartello con un’effige di bionda vaporosa e la scritta “L’amour” di un improbabile “night club”, mentre per l’Ovest un panorama boscoso sotto un cielo nuvoloso che si schiarisce all’orizzonte.

Sono solo impressioni personali dalle immagini che riguardano l’Est non tedesco. La Germania è l’approdo dopo i 4.200 chilometri dell’ex Cortina di ferro. Anche qui ci colpiscono subito immagini alla rovescia: reti di sbarramento all’Ovest a Nordhalben e Eschwege, laddove a Est c’è un bosco ridente e una strada che sembra una pittura. Invece a Modlareuth reti di sbarramento da entrambe le parti.

Un rovesciamento dei ruoli senza barriere, tutt’altro, a Meiningen, dove il Mc Donald e la baita di montagna sono a Est mentre a Ovest troviamo la baracca, sia pure con deliziose tendine, e addirittura una Trabant, la bistrattata auto utilitaria dell’Est, su una specie di piedistallo di pietre ricoperte di frasche.

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Slovenia, Ovest – 46° 37′ 42. 72″ N – 15° 54′ 21 38″ E

Per il resto, omologazione assoluta che l’autore ha voluto sottolineare con gli scatti paralleli in molti casi uguali. Così a Schwiegershausen i tralicci in cemento a forma di A, a Weilrod un bosco di cui muta solo il colore del sottobosco, tornano le foglie secche a Est, erba verde a Ovest, a Tanger una strada tra gli alberi, con assoluta identità nella pavimentazione e nei tronchi che la delimitano

Finora non abbiamo parlato di figure umane, perché non ce ne sono, con due eccezioni. A Lubmin a Est un primo piano di signora impellicciata e sorridente, a Ovest un’immagine molto diversa di bagnanti in costume che escono dall’acqua; e l’altra figura umana già citata fotografata a Retz in Austria.

Sono veri ritratti quelli che spiccano in due cartelli, rispettivamente a Est e a Ovest, mezzi busti in divisa con tanto di berretto militare. Guardiamo dove ci troviamo: Checkpoint Charlie: siamo a Berlino, già queste immagini evocano un clima, stiamo per entrare nella Bernauer Strasse, dove iniziò la costruzione del Muro. Di qui le immagini diventano una vera galleria di volti e atmosfere.

Ma Monteleone si ferma, questa parte del suo viaggio è finita, darà un rapido sguardo, come questo al Checkpoint, poi ripartirà per tornare nell’imminenza del ventennale della caduta del Muro, nella città che è stata l’epicentro del grande rivolgimento nell’Europa orientale. Abbiamo modo così di riepilogare le vicende seguendo ancora la lucida ricostruzione del direttore dell’Istituto Gramsci.

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Slovenia, Est – Trstenik

Le vicende che hanno preceduto la caduta del Muro nello storico 1989

Volgendo lo sguardo all’indietro, venti anni non sono tanti neppure nella vita di una persona, figurarsi nel respiro della storia, ci si può sorprendere di aver vissuto un momento epocale quasi senza rendersene conto, pur se la partecipazione al tripudio è stata unanime e immediata.

Non ci si è resi conto del pericolo corso, dinanzi agli esiti sanguinosi di rivolgimenti anche meno profondi ed estesi di quello che ha sconvolto l’intera Europa orientale; e neppure si è valutato fino in fondo l’eccezionale significato che assume un rovesciamento così repentino, quando processi di questa natura si sviluppano progressivamente e, se precipitano, ripetiamo, ciò avviene nel sangue.

Il nuovo corso di Gorbaciov era promettente ma la sua cautela non gli aveva fatto rinnegare la “dottrina Breznev” della sovranità limitata dei paesi del blocco sovietico, che aveva soffocato in spietate repressioni i movimenti di liberazione in Polonia e Ungheria nel 1956, in Cecoslovacchia nel 1968 con la tragica Primavera di Praga, conclusa addirittura con esecuzioni capitali, sinistro monito per tutti; oltre che in Polonia nel 1981 e, trent’anni prima, nella Germania Est nel 1953.

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Austria, Ovest, 7° 41′ 6. 22″ N – 16° 54′ 44. 83 E

Quindi le stesse notizie sulle dissidenze sempre più attive in quei paesi, anche se aprivano alla speranza, non facevano prevedere nulla di cosi radicale e insieme rapido. Ma il 1989 è un anno diverso dagli altri, molteplici sono le tessere del mosaico, le componenti del domino della libertà.

L’accelerazione del processo viene dalla Polonia, non per altro vi è la forte influenza delle due personalità citate da Pons oltre a Gorbaciov: Lech Walesa e papa Karol Wojtila. Si inizia tra marzo e aprile con un inedito negoziato tra sindacato e governo, apparentemente innocuo ma è l’inizio della valanga: l’opposizione viene legalizzata e si presenta alle elezioni, le vince, capo del governo il suo Mazowieski, primo leader non comunista. Cautela e ancora cautela ci si aspettava, anche Dubcek con la Primavera di Praga ci aveva provato ed era finita male, chissà quanto tempo sarebbe trascorso per fare nuovi passi in avanti e tanto più per trasmettere i fermenti agli altri paesi dell’Est.

Ma il 1989 è un anno speciale, abbiamo detto. Ebbene, a settembre l’Ungheria apre i suoi confini con la Repubblica Federale Tedesca, cadono i reticolati e il filo spinato, in centinaia di migliaia cercano la libertà; manifestazioni spontanee si susseguono. A quel punto, scrive Pons, “l’ennesima crisi dell’Est europeo si trovò dinanzi a un bivio drammatico. Come era accaduto in passato, la soluzione passava necessariamente per Mosca. Ma questa volta il risultato venne rovesciato”.

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Austria, Est – Pamhagen

Non ci fu l’intervento diretto sovietico come in passato e neppure un sostegno indiretto ai regimi entrati in una crisi profonda anche per la spinta popolare che acquistava sempre più forza e consapevolezza. Cadute le frontiere ci fu anche la caduta del Muro preceduta di pochi giorni da un tentativo in extremis di concedere il “diritto di viaggio” all’estero senza particolari motivazioni.

Nessun intervento da nessuna parte, né a Est né a Ovest, “il cambiamento dall’alto e la spinta dal basso si combinarono in un circolo virtuoso”, sono parole di Pons, che prosegue: “In poche settimane, tutti i regimi comunisti implosero e gli europei orientali se ne liberarono in una successione di ‘rivoluzioni di velluto’ (la celebre formula fatta propria da Vaclav Havel) a Budapest, Praga, Sofia e, infine, nell’unico avvenimento cruento, a Bucarest”: con l’esecuzione, è il caso di ricordare, di Ceausescu e signora dopo un processo- lampo segreto senza alcuna garanzia.

In Cina, invece, erano proseguite le repressioni del passato, venivano soffocati nel sangue i movimenti studenteschi nella piazza di Tiananmen, ne resterà sempre il simbolo nella figura inerme con un sacchetto di plastica in mano che affronta impavido la colonna di carri armati riuscendo per un momento ad arrestarla; ascritta nell’olimpo dei grandi eroismi di tutti i tempi.

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Austria, Ovest – 48° 51′ 21.99′ N – 16° 2′ 7 55″ E

Si era in giugno sempre del 1989, il cattivo esempio non fu seguito in nessun paese dell’Est europeo: “Tiananmen, osserva il direttore dell’Istituto Gramsci, divenne un monito anziché un’opzione. L’idea di usare la forza venne certamente accarezzata da alcuni leader politici e militari nel blocco comunista e il rischio di un eccidio fu probabilmente sfiorato nella Germania Orientale. Ma lo scenario di un bagno di sangue non si ripeté, malgrado i tristi precedenti del passato, o proprio in ragione di essi. Il movimento non violento europeo e il suo impulso libertario non vennero arrestati. Così l’’89 portò alla riunificazione della Germania in meno di un anno. Così preparò il crollo dell’Unione Sovietica e la dissoluzione della sua compagine imperiale, anch’esso avvenuto pacificamente due anni dopo”.

Il sonno della ragione genera mostri

Per dimostrare che tutto questo era ben lungi dal doversi ritenere scontato bastano le parole di Erich Honecker, il capo della Repubblica democratica tedesca, pronunciate solennemente a Berlino nel gennaio dello stesso 1989: “Il Muro esisterà ancora fra cinquanta e anche fra cento anni , fino a quando le ragioni della sua esistenza non saranno venute meno”.

E’ un convincimento così radicato che persisterà, pur nelle mutate condizioni, davanti al tribunale di Berlino tre anni dopo. Da quasi un anno era stata approvata la legge che rendeva pubblici e visibili da parte dei perseguitati i documenti della Stasi, la spietata polizia segreta, e i verbali degli interrogatori, per cui la pentola era stata scoperchiata.

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Austria, Est – Retz

Eppure ecco un passaggio oltremodo significativo dell’autodifesa di Honecker: “Giunto alla fine della mia vita, ho la certezza che la Rdt non è stata costituita invano… Un numero sempre maggiore di persone dell’Est si renderà conto che le condizioni di vita nella Rdt li avevano deformati assai meno di quanto la gente dell’Ovest non sia deformata dal capitalismo e che nelle scuole i bambini della Rdt crescevano più spensierati, più felici, più istruiti, più liberi dei bambini delle strade della Repubblica federale. I malati si renderanno conto che nel sistema sanitario della Rdt, nonostante le arretratezze tecniche, erano dei pazienti e non oggetti commerciali del marketing di medici. Gli artisti comprenderanno che la censura, vera o presunta, della Rdt non poteva recare all’arte i danni prodotti dalla censura del mercato… Gli operai e i contadini si renderanno conto che la Rft è lo Stato degli imprenditori e che non a caso la Rdt si chiamava ‘Stato degli operai e dei contadini’… Molti capiranno che anche la libertà di scegliere tra Cdu, Spd, Fdt è solo una libertà apparente”.

L’abbiamo riportato integralmente perché, assemblando tutti i luoghi comuni anticapitalisti e occultando maldestramente gli orrori del suo regime, mostra come il sonno della ragione genera mostri. E ci prepara al seguito e alla conclusione del viaggio nella memoria: l’ingresso a Berlino nel ventennale della caduta del Muro. Ci faranno da guida le fotografie di Monteleone e i brani del suo Diario che lo fanno diventare un viaggio nell’anima: sua e, per quanto ci riguarda, anche nostra.

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Germania, Ovest – 50″ 34′ 41. 64″ N – 10″ 24′ 47. 38″ E

Info

Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, Roma. Catalogo: Davide Monteleone, “La linea inesistente. Viaggio lungo la ex Cortina di ferro”, con un saggio di Silvio Pons e una selezione di documenti del National Security Archive di Washington D.C., Italianieuropei-Contrasto, novembre 2009, pp. 152, formato 20 x 30,5; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo e ultimo articolo sulla mostra uscirà in questo sito il 14 gennaio 2010. Cfr. anche il nostro articolo, sempre in questo sito, “Berlino, la caduta del Muro, rievocata nel ventennale, al Palazzo Incontro” 9 novembre 2009.

Foto

Le immagini sono tratte dal Catalogo, si ringrazia l’Editore con i titolari dei diritti, in particolare l’Autore, per l’opportunità offerta; a parte l’apertura, sono inserite nell’ordine di citazione nel testo. In apertura, Germania, Ovest – 51° 34’43.04″ N – 10° 28’39.62″ E; seguono, Italia, Ovest – 45° 39′ 1. 63″ N – 13° 46′ 2 84 E, e Est – Trieste; poi, Ungheria, Ovest – 47° 6′ 51 85′ N – 16° 36′ 47. 95″ E, e Est – Gancspati; quindi, Repubblica Ceca, Ovest – 48° 46′ 25. 84″ N – 16° 53′ 10, 14″E, e Est – Breclav; inoltre, Slovenia, Ovest – 46° 37′ 42. 72″ N – 15° 54′ 21 38″ E, e Est – Trstenik; ancora,Austria, Ovest, 7° 41′ 6. 22″ N – 16° 54′ 44. 83 E, e Est – Pamhagen; continua, Austria, Ovest – 48° 51′ 21.99′ N – 16° 2′ 7 55″ E, e Est – Retz; infine, Germania, Ovest – 50″ 34′ 41. 64″ N – 10″ 24′ 47. 38″ E, e, in chiusura, Est – Meiningen.

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Germania, Est – Meiningen.

Berlino, la caduta del Muro, rievocata nel ventennale, al Palazzo Incontro

di Romano Maria Levante

Per celebrare nel nostro sito il trentennale della caduta del Muro di Berlino, oltre all’articolo “Berlino, il Muro infranto, a trent’anni dalla sua caduta, alla Sala da Feltre” pubblicato oggi nella data del 9 novembre, ripubblichiamo sempre oggi in questo sito, il presente articolo uscito nel ventennale, il 9 novembre 2009, e gli altri due nostri articoli del 12 e 14 gennaio 2010, “Cortina di ferro, il viaggio della memoria di Monteleone, al Palazzo Esposizioni”, e “Berlino, il culmine del viaggio della memoria di Monteleone, al Palazzo Esposizioni” . Questi 3 articoli furono pubblicati in “cultura.inabruzzo.it (non più raggiungibile).

Klaus Lehnartz, “‘Bernauer Strasse” , Berlino-Berlin 06/1975

cultura.inabruzzo.it – 9 novembre 2009 – Postato in: Rubriche

La mostra “Il Muro di Berlino, The Berlin Wall, Die Berliner Mauer 1989-2009” espone a Roma, al Palazzo Incontro , dal 7 novembre 2009 al 6 gennaio 2010, 75 fotografie, la maggior parte in bianco e nero, sul Muro nelle varie fasi, costruzione, tentativi di superarlo e festoso abbattimento, con il colore che nella parte finale illumina la scena. La mostra, promossa dalla Provincia di Roma nell’ambito del progetto ABC Arte Bellezza Cultura e organizzata da Civita, è a cura di Reinhard Schultz, che ha curato anche il Catalogo trilingue italiano-inglese-tedesco edito da Galerie Bilderwilt.

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Will McBride, “Bernauer Strasse”, Berlino-Berlin 1961

Nel ventennale della caduta del Muro  di Berlino che ricorre il 9 novembre 2009, la mostra è stata promossa  dalla Provincia di Roma e organizzata  Palazzo Incontro, la propria sede espositiva  “per cercare di capire cosa ha rappresentato per la città”, ha detto Paolo Gentiloni delegato alla “Storia e memoria” nella provincia, mentre il presidente Nicola Zingaretti e il sottosegretario ai beni culturali Francesco Maria Giro ne hanno inquadrato il significato epocale.

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Klaus Lehnartz, “‘Bernauer Strasse” , Berlino-Berlin 08/19761

Il Muro di Berlino, dalla nascita alla caduta  

Per quasi tre decenni il Muro di Berlino è stato emblematico del confronto tra i due sistemi, quello comunista all’Est e quello democratico all’Ovest, dopo la divisione in due blocchi dell’Europa sancita dagli accordi di Yalta, e la divisione di Berlino in zone che riproducevano i due blocchi nella città. La parte Ovest, una “enclave” entro la Germania Est, con la sua libertà e il suo benessere non solo rappresentava un termine di confronto insostenibile per il regime comunista, ma diventava una calamita irresistibile che attirava un numero sempre maggiore di persone in un flusso crescente dall’Ovest all’Est.

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Gardi, “Leipziger Platz”, Berlino-Berlin 1964

Di qui la vergognosa chiusura con il Muro che divideva famiglie, amici e comunità e la sanguinosa repressione dei tentativi di superarlo in tutti i modi possibili, dal buttarsi dall’alto degli edifici confinanti – che produsse la muratura delle finestre – allo scavalcamento, dallo scavo di tunnel ai doppi fondi dei veicoli, fino alle mongolfiere, 130 sono state le vittime dei “vopos” posti in 300 torrette di vigilanza, e dotati anche di cani, la terra di nessuno creata con un raddoppio della barriera divenne una “striscia di sangue”.

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Abisag Tullmann, “Kreuzberg”, Berlino-Berlin 1977

Trascorrono 28 anni con questo incubo, finché l”avvento di Gorbaciov al vertice dell’Unione Sovietica creò nuove condizioni di distensione tra Est e Ovest dopo le asprezze della “guerra fredda” e segni di liberalizzazione e di apertura – all’insegna della “perestrojka” e della “gladnost” – colti prontamente dalle popolazioni dei paesi dell’Europa Orientale, in testa la Polonia di Solidarnos con il sostegno di papa Wojtila, e l’Ungheria, fino all’abbattimento delle recinzioni di filo spinato ai confini con Austria e Germania Ovest, che resero insostenibile la chiusura della Germania Est di cui il Muro di Berlino rappresentava l’aspetto più vistoso.

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Klaus Lehnartz, “‘Neukolln”, Berlino-Berlin 08/1981

Dopo manifestazioni popolari sempre più pressanti – le ultime a Danzica e a Lipsia con folle oceaniche che sfidarono  i divieti del regime – una circostanza occasionale rese l’apertura repentina e non graduale, come era nell’intento del nuovo vertice succeduto all’intransigente Honecker dimessosi 20 giorni prima; si intendeva facilitare i permessi per l’Ovest ma sottoponendoli comunque ad autorizzazioni preventive. Si è trattato dell’errore di comunicazione del portavoce delle autorità dell’Est nel rispondere alla precisa domanda di un giornalista italiano che l’apertura sarebbe stata immediata.

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Manfred Uhlenhut, “Muro – Wall – Mauer”, Berlino-Berlin 11.11.1989

La conferenza stampa era trasmessa per televisione per dare conto della riunione decisiva cui il portavoce, peraltro, non aveva partecipato, quindi seguita da tutta la popolazione. Si scatenò all’istante la pressione della gente che si accalcava agli accessi e spingeva per passare, si cercava di creare aperture nel Muro e i giovani vi si arrampicavano per scavalcarlo,  mentre  le guardie di confine non osarono reprimere nel sangue un moto così spontaneo e unanime.  Così la caduta del Muro ancora solo simbolica divenne una festa di libertà.

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Dietmar Katz,”Muro – Wall – Mauer”, Berlino-Berlin 17.11.1989

Per meglio comprendere l’eccezionalità e anche la gravità dell’evento basti pensare che fu seguito direttamente dai sommi vertici degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, i presidenti Bush e Gorbaciov, in contatto telefonico tra loro e con il capo del governo della Germania Ovest Kohl, il quale rassicurò il capo del Cremlino che non ci sarebbe stata alcuna destabilizzazione perchè il flusso inarrestabile da Berlino Est a Berlino Ovest non era uno svuotamento ma alla visita liberatrice seguiva il rientro nelle proprie abitazioni all’Est per la consapevolezza che l’apertura era definitiva. Dopo questa accelerazione, la ruota della storia continuò a girare velocemente, dopo pochissimi anni lo scioglimento dell’Unione Sovietica e in seguito la riunificazione della Germania. La festa di libertà dei tedeschi di Berlino assunse dimensioni continentali.

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Dietmkar Katz, “Potzdamer Platz”, Berlino-Berlin 17.11.1989

La galleria fotografica sul Muro di Berlino

Nel visitare la mostra ci si sente percorsi da un brivido, le immagini rendono il clima da incubo in cui sono vissuti i berlinesi, sono per la più in un bianco e nero fosco e oscuro, soltanto le ultime nel loro colore hanno le luci della festa per la liberazione dall’incubo, il Muro è caduto, metaforicamente prima che materialmente, la gente festeggia. Una mostra ammonitrice, un “memento” più che una celebrazione.

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Dietmar Katz, “Porta di Brandeburgo- Brandeburger Tor”, Berlino-Berlin, 10.11. 1989

La storia narrata dalle fotografie esposte inizia con la conferenza stampa del 15 giugno 1961 di Walter Ulbricht che dice al microfono: “Nessuno intende costruire un muro”. Prosegue due mesi dopo con la gente dell’ovest sorpresa che sale sulle sedie e protende due bimbi alzandoli con le braccia nella Bernauer Strasse perché guardino al di là mentre lo costruiscono; i lavori cominciarono il 13 agosto fino al completamento dei 43 chilometri della cortina di ferro calata nel corpo vivo della città.

Immagini sempre prese da ovest, come quelle del “Checkpoint Charlie” con la fanciulla bionda in abito bianco tra i “Military Police” alleati nello stesso mese, e del carro armato americano che vigila. Visioni da incubo le due foto a Kreuzberg nel 1962 con il filo spinato sul muro e nel 1977 con il muro rinforzato dal cemento armato e portato a metri 3,60: cambia il muro, non muta la solitudine resa dalla persona che si allontana nell’una, dall’auto sullo sfondo nell’altra, con i due rispettivi autori, Lehnartz e Tullmann, a trasmettere una desolazione di marca felliniana. Un filo di speranza nella foto del 1975, due bambini saliti sul muro nella Bernauer Strasse tra il filo spinato.

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Dietmar Katz, “Porta di Brandeburgo- Brandeburger Tor
22.12. 1989″

Passano gli anni, siamo nel novembre 1989, ci si arrampica con o senza scale, per lo più sono immagini isolate in bianco e nero, tranne le due foto cult a colori con la gente sul muro in piedi e seduta in primo piano o avendo dietro la Porta di Brandeburgo; poi la folla che si ammassa trattenuta dai soldati. Corale è la fila alla Porta di Brandeburgo, in un bianco e nero che non ha nulla di festoso, sembra una coda per la tessera annonaria.

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Klaus Lenhart, “Porta di Brandeburgo- Brandeburger Tor”, Berlino-Berlin 11/1989

Le immagini ancora inquietanti della Stasi, la famigerata polizia segreta, un mese dopo la caduta del muro, sono lì a far tornare l’incubo. Immortalata la donna che infila la testa in un grande buco praticato nel muro per guardare al di là, quasi che nel gennaio del ’90 si fosse ancora increduli. C’è anche ben visibile la larga apertura praticata a picconate, una sorta di breccia di Porta Pia berlinese.

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Klaus Lehnartz, “Postdamr Platz, Berlino-Berlin, 12.11.1989″”

Perché “l’abbattimento ufficiale, ricorda Reinhard Schultz, curatore della mostra, fu iniziato il 13 giugno 1990 nella Bernauer Strasse”: la strada con i bimbi sollevati in alto per vedere, quella dove due bambini sono saliti sul muro, la strada dove sono rimaste le poche tracce del muro.

La visita di Reagan del novembre 1990 alla Porta di Brandeburgo ingabbiata da un’impalcatura evoca i lavori in corso della nuova Germania. Il bianco e nero resta, è la chiave della mostra: rivivere l’incubo per non dimenticare. Ritroviamo il colore nell’urna al centro della sala, con un frammento di muro colorato dai graffiti in rosa e celeste.  Per i ventotto anni di buio cupo questi colori delicati esprimono l’anelito di libertà.

Klaus Lehnartz, “Porta di Brandeburgo- Brandeburger Tor”, Berlino-Berlin 11/1989

Info

Palazzo Incontro, via dei Prefetti, 22 Roma. Catalogo “”Il Muro di Berlino, The Berlin Wall, DieBerliner Mauer 1989-2009” , a cura di Reinhard Schultz, edito da Galerie Bilderwilt 1989, trilingue italiano-inglese-tedesco, pp. 80, formato 21 x 29. Cfr. i nostri due articoli che usciranno in questo sito prossimamente, nel gennaio 2010, sulla mostra fotografica programmata presso il Palazzo Esposizioni per dicembre-gennaio 2010, di Davide Monteleone il quale racconta per immagini il suo “viaggio della memoria” lungo “La linea inesistente” dell’ex Cortina di ferro, che culmina a Berlino, cui dedicheremo il secondo articolo.

Foto

Le immagini sono state riprese dal Catalogo, si ringrazia l’Editore, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Sono inserite, a parte quella di apertura, in ordine cronologico, dal 1961 al 1989. In apertura, Klaus Lehnartz, “‘Bernauer Strasse, Berlino-Berlin” 06/1975″; seguono, Will McBride, “Bernauer Strasse,” Berlino-Berlin 1961, e Klaus Lehnartz, “‘Bernauer Strasse”, Berlino-Berlin 08/1961″; poi, Gardi, “Leipziger Platz” 1964, e Abisag Tullmann, “Kreuzberg”, Berlino-Berlin 1977; quindi, Klaus Lehnartz, “‘Neukolln”, Berlino-Berlin 08/1981″, e Manfred Uhlenhut, “Muro – Wall – Mauer”, Berlino-Berlin 11.11.1989″; inoltre, Dietmar Katz,”Muro – Wall – Mauer, Berlino-Berlin 17.11.1989″ e “Potsdamer Platz” 17.11. 1989″ ; ancora, “Porta di Brandeburgo- Brandeburger Tor” , Berlino-Berlin, 10.11. 1989, e “Porta di Brandeburgo- Brandeburger Tor” , Berlino-Berlin, 22.12. 1989, continua, Klaus Lenhart, “Porta di Brandeburgo- Brandeburger Tor, Berlino-Berlin 11/89, e “Potzdamer Platz” Berlino-Berlin 12.11.1989; infine, “Porta di Brandeburgo- Brandeburger Tor”, Berlino-Berlin 11/1989, e “Porta di Brandeburgo- Brandeburger Tor”, Berlino-Berlin 12/1989 .

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Klaus Lenhartz, “Porta di Brandeburgo- Brandeburger Tor”, Berlino-Berlin 12/1989″”

1 Commento

  1. Lorenzo

Postato novembre 9, 2009 alle 11:51 AM

Interessantissimo!
Per completare l’argomento invito a dare un’occhiata al mio blog, dove alla pagina “RDT (Germania Est)” c’è una ricca galleria di foto ad alta definizione, raffiguranti i confini berlinesi anche nel periodo “pre-muro” 1950-1961.
Saluti cordiali!

Berlino, Il Muro Infranto, a trent’anni dalla sua caduta, alla Sala da Feltre

di Romano Maria Levante

Nel trentennale della caduta del Muro di Berlino la mostra “Il Muro infranto, Berlino, 9 novembre 1909, di Anna Di Benedetto Pace”  espone dall’8 novembre 2019 al 15 gennaio 2020 alla Sala da Feltre – Open Art agli Orti di Trastevere in Roma, una serie di istantanee scattate dalla fotoreporter inviata nel novembre 1989 a Berlino.  La mostra è a cura di Sabrina Consolini. Nel  catalogo  di Gangemi Editore International le immagini sono accompagnate dalla cronaca viva di quei giorni dell’autrice dello storico “reportage”.

“I segni e le ombre”

L’evento e la testimone che lo ha fissato nelle immagini

Ci sono eventi, tragici o festosi, che segnano l’immaginario collettivo a livello planetario, a ognuno  capita di chiedersi, e spesso di ricordare, dov’era  quando ha ricevuto  la notizia dell’attentato a Kenendy o di quello alle Torri Gemelle, così per la caduta del Muro di Berlino. Esattamente trent’anni fa, il 9 novembre 1989, siamo rimasti avvinti  davanti al televisore, come tutti del resto, partecipi della gioia collettiva che bucava lo schermo, con  un popolo che si liberava da una  segregazione trentennale. Un anno dopo siamo andati a Berlino, c’era ancora aria di festa ma il momento magico era passato, del muro restavano poche tracce anche se venivano venduti frammenti con un’improbabile certificato di autentica in fotocopia.

Anna Di Benedetto, invece, si è trovata a Berlino e ha potuto  vivere direttamente i momenti topici di un simile evento. Infatti, da giovane giornalista, in quall’inizio di novembre,  era stata inviata dal settimanale “Il Sabato”, rilanciato alla grande da Paolo Liguori, a Berlino per un servizio su come la città viveva un momento di attesa per quello che si muoveva al di là del muro, dopo i primi segni di allentamento delle ferree misure restrittive evidenti nella svolta impressa da  Gorbaciov. Una giornalista fotoreporter, qualificata e intraprendente, nello stesso 1989 la sua partecipazione  a Torino Fotografia 1989,  tre anni prima a “Vetrina” nel Parterre di Firenze, all’estero alla Biennale dei giovani di Barcellona. Quindi la persona giusta, con l’entusiasmo giovanile e la professionalità giusta, nel posto giusto al momento giusto.

“Giostra di sentimenti”

Nel trentennale dell’evento presenta una selezione tra le 300 fotografie scattate, sono state scelte immagini quasi di quotidianità, con i volti raggianti di gioia della gente dell’est che incontrava quella dell’Ovest altrettanto felice del ricongiungimento tanto atteso. Oltre  a quelle, naturalmente, del  “Muro della vergogna” con i   giovani che lo aggrediscono con piccoli punteruoli, incapaci anche di scalfirlo per “souvenir”, ma in grado di esprimere tutta la rabbia repressa che si sfoga come può.

Da allora la fotografia di ricerca è stata la grande passione della Di  Benedetto,  sui quattro  elementi, acqua, fuoco, terra, aria, sulla luce e il buio, ma anche su  grandi campioni dello sport. Dopo quotidiani e riviste, entra in RAI , con rubriche  e reportage culturali, dalle opere d’arte dimenticate  ai restauri, dal  buio della  distruzione alla luce della  ricostruzione della “Fenice” di Venezia, dalla lirica nei grandi teatri all’architettura delle nostre città; nel Giubileo del 2000 esplora la storia e la cultura del  “cammino medioevale”, sua l’inchiesta premiata  su “I cantieri della Serenissima”e  quella di successo sulla figura di Caterina da Siena, sua la rubrica  “Angeli d’Europa”  nei luoghi di cultura europei con le loro storie.  Non mancano video,  cortometraggi e, naturalmente, interviste ai personaggi del mondo della cultura. Sono alcuni elementi tratti fior da fiore da una vita professionale nella cultura particolarmente intensa.

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“Il cuore oltre l’ostacolo”

Ma questo è stato “dopo”, nel 1989 la vediamo attiva e intraprendente, nella Berlino sospesa dall’incertezza, pronta a cogliere l’occasione che si sarebbe presentata di fissare sulla pellicola un momento epocale. E lo fa in un “reportage” che ci viene proposto come si trattasse di un’opera teatrale in 3 quadri: “Divisioni”,  “La Gabbia”, “Il cambiamento”.

Le immagini esposte ci fanno rivivere le emozioni che, pur da lontano, provammo tutti davanti al televisore. In prevalenza c’è il Muro, nella sua presenza incombente, i “graffiti” colorati dei writers  metropolitani hanno ingentilito l’immagine spettrale che resta nella realtà per i morti che ha provocato; ma anche immagini della gente comune, dell’Est e dell’Ovest. La galleria si apre con “I segni e le ombre”, rivelatrice del clima, poi la sequenza di fotografie nei 3 “quadri” della rappresentazione evocativa.

Il “reportage”, le Divisioni, la Gabbia, Il cambiamento

Le “Divisioni” suscitano la “Giostra dei sentimenti”, ansie e attese davanti a un muro che è un “tazebao”,  si legge “Doors not Walls” – ripensiamo a scritte attuali dello stesso tono – e anche in grandi caratteri “Kant”, chissà se è un richiamo al cielo stellato, che l’ oppressione non può  cancellare, e soprattutto alla legge morale che invece viene calpestata.  Due immagini sull’”Attesa” mostrano la gente che si accalca intorno al muro, le voci che si potrà passare si sono moltiplicate, si cerca una posizione di prima fila per essere tra i primi, i graffiti variopinti sembrano sottolineare la festa che si preannuncia. C’è qualcuno che non può più aspettare, “Il cuore oltre l’ostacolo” lo mostra  aggrappato alla sommità del muro, la scritta “El Salvador” fa pensare alla salvezza, più che alla nazione sudamericana. Ma ancora “Una sentinella della Germania Est vigila sul muro alla Porta di Brandeburgo”, lo vediamo in piedi serio e compassato, restano i pericoli della reazione dei “Vopos”, ma per fortuna sono increduli e in qualche caso fraternizzano, non aggressivi.

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“L’attesa”

Tanto che, mentre “Un ragazzo e una ragazza guardano  in una sorta di buco aperto nel muro, improvvisamente una sentinella si affaccia dall’altra parte”. E’ forse l’immagine più straordinaria dell’intero servizio,  rende perfettamente la  costrizione dell’Est dove anche un buco viene sorvegliato, rispetto all’Ovest, la testa bionda della ragazza contrasta mirabilmente con l’occhiuta presenza oltre il Muro. Ed ecco “Il varco”, il Muro è ripreso da lontano, si vede la gente che si accalca per passare dall’altra parte.

Le 10 immagini che documentano “La Gabbia” mostrano  le due facce della realtà. Una faccia la vediamo nella “Tenacia” dei giovani che scalfiscono impotenti il muro con i loro scalpelli, e nei “Frammenti di memoria”, sempre con i graffiti variopinti,  che si cerca di prendere come “souvenir” quando ormai non vi sono più dubbi sul lieto fine; non solo giovani tedeschi, anche una figura con una giacca a vento rossa e un cappello a bombetta da peruviano; “Al di là del muro” si attende,  è vicino il momento di rivedere i propri cari e amici segregati nell’Est della città.

Dell’altra faccia della realtà, vediamo  il volto e la figura degli agenti, con le loro divise e i loro berretti che non incutono più timore, sono ormai inoffensivi, in “Contrapposizioni. La libertà controllata” e “Confine” la gente discute con loro. Ma non si possono dimenticare i “vopos” assassini: lo testimonia “L’ultima croce per Chris”,  la vediamo  fissata a una rete vicino al muro nel ricordo del ragazzo ucciso nel tentativo di superarlo per raggiungere Berlino Ovest, il 6 febbraio, nove mesi prima della caduta del Muro; ripensiamo al proiettile che in “All’Ovest niente di nuovo”, fulmina il giovane sulla trincea  a guerra ormai finita, proviamo la stessa stretta al cuore che ci suscitò allora  quell’immagine di morte così ingiusta  e beffarda.

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“Una sentinella della Germania Est vigila sul muro della Porta di Brandeburgo”

Nel terzo “quadro” dell’opera teatrale che viene presentata per immagini, “Il cambiamento”, vediamo i due “vopos” presi dal “Dubbio”, hanno il colbacco, vicino ad una rete, il terreno coperto di neve, l’immagine di una “Fuga” sulla neve è enigmatica, come lo sono le “Vestigia contrastanti”, il Muro in primo piano  e le colonne della Porta di Brandemburgo di sfondo sfuocate, ancora i “Cuori ribelli” e la “New generation” , giovani che scalano il muro o lo  scalfiscono con punteruoli,  c’è ancora “Il freddo della storia” nei volti   di alcuni, ma le minestre calde e il vin brulé  dell’“Accoglienza e solidarietà” della gente dell’Ovest riscaldano i  fratelli dell’Est; le immagini sono eloquenti, non c’è più il Muro, la comunità si è subito ricostituita, anche se non mancano le discussioni, si cominciano a confrontare le rispettive esistenze, così diverse.

I “Colori del futuro” e il “Sogno d’Occidente”   offrono immagini  espressive dei miraggi  che si aprono,  la rutilante auto sportiva rossa dov’erano le utilitarie Trabant a due tempi come una motocicletta, rumorose e inquinanti, l’ampolla con all’interno qualcosa cui solo la fantasia può dare un contenuto, i colori e il futuro compongono una miscela inebriante.  Ma si finisce con il Muro, “Uno squarcio verso la zona franca”,  nome ingannevole perché al contrario era  chiamata più propriamente “striscia della morte”, lì i “vopos” facevano le loro vittime. E l’alta fessura “Per guardare oltre”, che fa scoprire  l’antenna televisiva alta 360 metri, con cui l’Est sfidava l’Ovest, ma il sole riflettendosi sulla sfera posta alla sommità creava per un effetto ottico l’immagine di una croce, beneaugurante come segno divino, che le autorità cercarono di eliminare senza riuscirci.

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Un ragazzo e una ragazza guardano  in una sorta di buco aperto nel muro, improvvisamente una sentinella si affaccia dall’altra parte”

Con questa notazione termina il diario per immagini della Di Benedetto Pace, mentre l’ultima visione del Muro,  in primissimo piano,  sebbene sia imponente, quasi ingigantito, non fa più paura, i graffiti sono in parte scorticati dai tentativi di aprire dei varchi o rendere “souvenir”, è “L’arte strappata”. Per poco tempo il Muro diventerà un reperto, poi verrà tolta  ogni traccia, la vista anche  di pochi tratti inizialmente lasciati come “memento”  era fonte di ricordi angosciosi, con la loro scomparsa la liberazione si è compiuta. Comunque, “La città ritrovata” si presenta subito nel suo ritorno alla normalità di prima del Muro.

I ricordi di quei momenti dell’amica  giornalista 

Tutto questo è stato colto dall’autrice del “reportage”, di cui abbiamo citato i titoli, con gli altri motivi  contenuti nelle ulteriori immagini del suo archivio; ci si chiede qual è stato il criterio della scelta, dato che la maggior parte delle immagini sono “normali”, nessun effetto speciale di arte fotografica. Per lo più vediamo la quotidianità di una giornata pur straordinaria, l’evento ricondotto a una dimensione domestica. Ma per scattare tante fotografie nel torpore dell’attesa  prima, nella concitazione dell’evento poi,  c’è voluta molta energia, con la fotoreporter  in punti di osservazione spesso acrobatici, oppure nei passaggi tra Est e Ovest quando ancora le notizie rimbalzavano incerte e mutevoli, fino alla sospirata conferma data per comunicato stampa, .ma poi tradottasi in un’ondata popolare irrefrenabile, come una valanga umana.

Così rievoca quei momenti Maria Gabriella Susanna, giornalista anche lei che ha condiviso quei momenti a Berlino con la Di Benedetto Pace: “Bisognava fotografare tutto e tutti in un solo momento. Cogliere gli stati d’animo, gli abbracci e l’energia dei colpi di scalpello per salvare le scritte, i murales da immortalare  come iconografie di un secolo. Ognuno portava a casa un frammento di quei graffiti con poesie, disegni pop, dichiarazioni d’amore e anche parole oscene contro il potere, che avevano costituito  un dialogo muto tra i tedeschi di Est e Ovest, ma anche una denuncia  fantasiosa sullo ‘Schandmaue’ (Il Muro della Vergogna)” come lo definirono i berlinesi. Morirono così i contrasti: tutto sembrava dissolversi in una notte di grida, di pianti, di entusiasmi sotto la Porta di Brandemburg”.

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“Tenacia”

E sulle immagini afferma: “Sono foto da pellicola studiate scatto dopo scatto, senza l’opportunità delle tecniche correttive di oggi. Un click, e l’istante è quello, immodificabile, con tutto il suo fascino e la sua intensità”, qui risiede la magia della fotografia istantanea. “Svela lo stato dei sentimenti, ma anche le probabili incomprensioni, le differenze somatiche e gli atteggiamenti di un popolo uguale costretto da una separazione fisica e materiale a sentirsi diverso”. E in molte immagini la gente dell’Est si mescola a quella dell’Ovest che la accoglie con i conforti del caso.

I ricordi dell’autrice del “reportage”

Sentiamo, dal racconto della protagonista, i particolari di quel “reportage” straordinario.  Abbiamo detto che scattò 300 fotografie, sembrano troppo poche rispetto alla grandezza dell’evento, almeno con i criteri di oggi. Ma aveva una scorta limitata di rullini Kodachrome per la sua Nikon, e doveva contenersi per non rimanere senza nei momenti topici. Dalla parte dell’Est e dell’Ovest  è “un fiume in piena inarrestabile”, dice la giornalista, che si riversava dopo i primi momenti di incredulità. “Ricordo il forte brusio gioioso della folla e anche il rumore fragoroso delle prime Trabi o Trabant che iniziarono a uscire dal varco suonando il clacson. Mi resi conto di vivere la storia”.  

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“Frammenti di memoria”

Era giunta in treno due giorni prima, con l’amica giornalista Susanna, ospite a Berlino Ovest di due amici che poi, due giorni dopo la caduta del muro, le portarono in giro per la città con l’auto scoperta, in modo che, in piedi sul sedile, lei potesse fotografare  ciò che avveniva lungo il loro percorso;. Ovviamente si muoveva anche a piedi, nessun disagio pur quando si metteva in posizioni acrobatiche, come nessuna fatica nel portare la pesante attrezzatura, l’attenzione era tutta su ciò che avveniva per le strade: “I Berlinesi dell’Ovest, già nelle prime ore della notte del 9 novembre, avevano organizzato spontaneamente punti di ristoro. Provvedevano a donare, nel freddo pungente di quei giorni, zuppe calde e vin brulè”, lo abbiamo visto nelle immagini. “I Berlinesi  dell’Est erano sopraffatti dalla gioia e increduli per quello che stava accadendo. Si spostavano freneticamente nella città ritrovata, come se tutto potesse svanire all’improvviso, da un momento all’altro. Ma nulla svanì”.

Poi l’ attenzione si sposta verso il Muro: “Ricordo che la folla rendeva difficile avvicinarsi al Muro. Ognuno voleva portarsene  via un pezzo, e così martelli, scalpelli, e qualsiasi utensile utile allo scopo, fecero il loro ingresso nelle mani di chiunque. Tutti volevano partecipare alla distruzione di quel simbolo di divisione. . Tutti volevano portarsi via la testimonianza di quel momento storico. I  nostri amici continuavano a ripetere:.’We Were There!’, ‘Noi c’eravamo’”.

Per questo  abbiamo riportato testualmente alcuni ricordi dell’autrice del “reportage”, lei c’era  e ha la fortuna di dire: “L’esperienza di quei giorni  mi rimarrà per sempre nella mente ma soprattutto nel cuore”.

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“Il dubbio”

Una storia epocale, dalla palla di neve del Muro alla valanga liberatoria

E’ stata una pagina di storia, nel grande libro della “guerra fredda”  che ha portato alla contrapposizione dei due blocchi, Unione Sovietica e paesi del Patto di Varsavia all’Est, e l’Occidente  con l’Europa e gli Stati Uniti d’America all’Ovest,  la Germania divisa in due con gli accordi di Yalta,  poi la cortina di ferro calata sull’Europa, come disse Churchill, “da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico” con settemila chilometri di barriere invalicabili. La  città di Berlino anch’essa divisa in zone amministrate dalle potenze vincitrici, in sostanza in due parti assegnate ai due blocchi contrapposti.

Per circa quindici anni la situazione tenne, i passaggi tra le due parti della città per i motivi più diversi erano normali, finché la libertà e il benessere dell’Ovest fecero sì che 2 milioni di persone non rientrarono nella zona Est.  Finché nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961 nel confine tra le due zone fu posta una  barriera di 135 chilometri di filo spinato, poi  finestre al confine murate,  edifici abbattuti, separazioni innaturali tra parti contigue.

Il filo spinato circondava l’intera città, poi fu sostituito dal Muro, come le cinte murarie delle carceri,  tale era diventata Berlino Ovest. Per la divisione con Berlino Est  il  muro era di 42 chilometri.  prima  eretto da muratori con mattoni, blocchetti e cemento armato, in seguito rafforzato con grossi prefabbricati alti 4 metri  e pesanti 3 tonnellate ciascuno; dieci anni dopo il raddoppio, doppia barriera con frapposta una “terra di nessuno” che divenne, come abbiamo già ricordato, la “striscia della morte”  per le tante vittime dei berlinesi fulminati dai  “vopos”  che vigilavano dalle 300 torri di controllo e pattugliavano con cani addestrati.  Per i passaggi autorizzati c’erano soltanto 8 posti di controllo, il più noto il “Checkpoint Charlie” che immetteva nel settore americano.

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“Cuori ribelli”

Dalla “prigione” che era diventato Berlino Est,  i tentativi di fuga oltre il Muro erano continui. Le finestre al confine furono murate per impedire che si gettassero dall’alto per entrare nell’altra parte con sprezzo del pericolo; l’anelito della libertà non solo faceva sfidare la morte, ma moltiplicava l’inventiva, dai tunnel sotterranei alle teleferiche fino ai palloni aerostatici, non parliamo delle automobili  con doppio fondo e dei tanti stratagemmi. E non mancavano i temerari che cercavano di superare il Muro calandosi dall’altra parte e divenendo bersaglio dei “vopos”, le vittime furono  130, ma ben  5000 riuscirono a fuggire nei 28 anni di permanenza del Muro.

L’avvento di Gorbaciov al vertice dell’Unione Sovietica segnò la fine del regime accentratore e oppressivo verso gli altri paesi dell’Est, la “perestrojka e la “glasnost”  incoraggiarono  movimenti libertari in Cecoslovacchia e Ungheria, non più soffocati come era stato all’epoca dei “fatti d’Ungheria” e della “primavera di Praga”; la gente  non solo protestava pubblicamente rivendicando libertà e democrazia, ma fuggiva attraversando frontiere dove non poteva esserci nessun muro, finché caddero anche i fili spinati. Dall’Ungheria e Cecoslovacchia si cominciava  a passare in Austria e nella Repubblica Federale Tedesca.

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New Generation”

In questa situazione che evolveva rapidamente verso una sempre maggiore liberta di movimento senza più opposizioni armate la Germania Est, nonostante l’oppressivo apparato poliziesco  della STASI, incontrava difficoltà crescenti nel cercare di resistere alle pressioni popolari che si esprimevano con una serie di manifestazioni di protesta, dato che non c’era più la mano armata del regime sovietico a sostenerla.

Un mese prima della caduta del Muro ci fu a Dresda una manifestazione popolare con 20.000 partecipanti, e anche a Lipsia con un numero maggiore, si parlò di 100.000, nonostante il regime avesse ammonito che non l’avrebbe tollerata. Ma, come ha ripetuto un testimone, se fossero stati pochi li avrebbero fermati, erano troppi anche per i 5.000 agenti armati.

Il dittatore Eric Honecker – di cui  è esposta in mostra l’immagine del celebre bacio in bocca a Breznev  – si dimise il 18 ottobre 1989  dopo 18 anni di potere ininterrotto. Tre settimane dopo, nella giornata del 9 novembre in una riunione del nuovo vertice fu stabilita  una maggiore apertura verso l’Occidente. Riguardava una liberalizzazione dei permessi tra Berlino Est e Berlino Ovest,  da motivare e richiedere con il passaporto, documento peraltro dato con il contagocce, sarebbero stati larghi nelle concessioni.

Qui scatta la ricostruzione di come fu possibile  che nella stessa giornata in cui si prendevano decisioni all’insegna di una certa gradualità la situazione precipitò, prendendo di sorpresa le autorità. Tre sono i personaggi-protagonisti nei quali è  racchiusa la storia di quella giornata memorabile, oltre alla gente.

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“L’arte strappata”

Il primo protagonista è il portavoce del governo dell’Est, che in una conferenza stampa comunicò le decisioni della riunione alla quale non aveva partecipato, quindi non aveva notizie dirette; si tenne nel vago pur prospettando la liberalizzazione degli accessi. Il secondo protagonista è un giornalista italiano, corrispondente dell’Ansa, che chiese precisazioni su tempi e modi, il portavoce – dopo aver posposto la risposta a quella data a compiacenti giornalisti tedesco- orientali – non potè sottrarsi e si lasciò sfuggire che avevano effetto immediato senza limitazioni; per il giornalista dell’Ansa fu tutt’uno correre a telefonare alla sua Agenzia che il Muro era caduto, ma i berlinesi  non dovettero attendere i giornali dell’indomani perché la conferenza stampa era trasmessa per televisione, così da entrambe le parti del Muro una folla oceanica accorreva senza alcun freno. Il terzo protagonista è il capo delle guardie del confine tra l’Est  e l’Ovest, all’accorrere della massa umana non si sentì di ordinare ai suoi uomini di fermarla con le armi, capì e sentì che non poteva farlo, sarebbe stata una carneficina.  Mentre il giornalista italiano ebbe una medaglia e fu elogiato da Kohl, per i due tedeschi la soddisfazione di aver scritto una pagina di storia: il portavoce per aver anticipato ciò che sarebbe stato solo graduale, il comunicato ufficiale previsto per l’alba  del 10 novembre avrebbe indicato le modalità di una apertura progressiva e controllata, non di liberalizzazione totale e immediata; il responsabile delle guardie di confine che disse “ho vissuto la miglior e peggiore notte della mia vita” per avere evitato  il  bagno di sangue che non avrebbe fermato ciò che era inarrestabile.

Lungo il Muro non ci furono momenti drammatici,  il clima di festa coinvolse anche le guardie, tutto avvenne in un modo impensabile in tali circostanze, perchè quando i mutamenti epocali precipitano ciò comporta disordini e violenze, rivolte e repressioni, nulla di questo avvenne.

I grandi della terra,  i presidenti, l’americano Bush e  il sovietico Gorbaciov si tennero in stretto contatto tra loro e con il capo del governo della Germania Ovest Kohl per controllare la situazione. Anche se centinaia di migliaia di persone  erano passate da una parte all’altra della città, la maggior parte di loro  erano rientrate nella propria  zona: la “breccia” non era temporanea ma definitiva, quindi non serviva fuggire. 

Un‘ultima immagine del Muro

Kohl  lo comunicò in un telefonata a Gorbaciov in quei giorni drammatici, per rassicurarlo che non era in corso un esodo sconvolgente, concludendo così: “Non molto tempo fa le ho detto che non vogliamo una destabilizzazione della situazione nella DDR. Sono sempre di quell’idea”. E Gorbaciov: “I cambiamenti si verificano addirittura più in fretta di quanto potessimo immaginare solo poco tempo fa… Tuttavia, per mantenere la stabilità, è importante per tutti agire responsabilmente. Tutto sommato, io credo che stiamo migliorando i fondamenti di una comprensione reciproca. Ci stiamo avvicinando gli uni agli altri. E’un fatto molto importante… Io penso, signor Cancelliere, che stiamo vivendo una svolta storica verso nuove relazioni, verso un mondo nuovo”.

E possiamo così celebrare questo trentennale, un lungo intervallo di tempo nel quale gli avvenimenti epocali si sono moltiplicati. La fine dell’Unione Sovietica con la libertà riconquistata dai paesi dell’Est che ne facevano parte, al punto che alcuni tra i più importanti come  Polonia e Ungheria sono entrati  nell’Unione Europea; la riunificazione della Germania con il ritorno della capitale a Berlino, dopo aver avuto due capitali, Bonn per la parte Ovest e Pankov per la parte Est; nella riunificazione fu riconosciuta la parità tra due monete molto lontane tra loro.

Sono soltanto dei flash di eventi straordinari di dimensione continentale e mondiale. Ma tutto nasce da quella serata del 9 ottobre 1989, la palla di neve trasformatasi in valanga liberatrice e benefica.

Come non ringraziare Anna Di Benedetto Pace per averci fatto rivivere quei momenti?  Perché lei “c’era”,  “She  Was There”  direbbero  i suoi amici che l’hanno ospitata allora;  per quanto ci riguarda, anche se eravamo a casa incollati al televisore, attraverso le sue immagini e le sue parole  ci sentiamo di dire con la mente ed il cuore: “We Were There”, anche noi c’eravamo.  

Il bacio”, tra Breznev e Honecker

Info

Sala da Feltre-Open ART, via Benedetto Musolino, 7 (Orti di Trastevere). Dal lunedì al giovedì ore 9-13, 14-17, venerdì chiusura ore 16, ingresso gratuito; festivi e prefestivi per appuntamento, tel. 06.585205274. Catalogo: Anna Di Benedetto Pace, “Il Muro infranto. Berlino 9 novembre 1989”, Gangemi Editore International, ottobre 2019, pp. 48, formato 24 x 28; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo relative alla mostra, quelle sui colloqui telefonici Kohl-Gorbaciov sono tratte dal catalogo della mostra del 2009 Davide Monteleone, “La linea inesistente. Viaggio lungo la ex Cortina di ferro”, Italianieuropei-Contrasto, novembre 2009, pp. 152, formato 22 x 30,5. Oltre al presente articolo sulla mostra in atto, abbiamo ripubblicato, sempre in data di oggi, tre nostri articoli usciti su due mostre tenutesi a Roma nel novembre 2009: per la prima mostra, di cui al catalogo appena citato, “Cortina di ferro, il viaggio della memoria di Monteleone, al Palazzo Esposizioni ” e “Berlino, il culmine del viaggio della memoria di Monteleone, al Palazzo Esposizioni” ; per la seconda mostra, “Berlino, la caduta del Muro, rievocata nel ventennale al Palazzo Incontro“. I tre articoli furono pubblicati in cultura.inabruzzo,it (ora non più raggiungibile), il 12 e 14 gennaio 2010 per la prima mostra, il 9 novembre 2009 per la seconda. In tal modo, nel giorno del trentennale della caduta del Muro, celebriamo l’evento con la recensione sulla mostra attuale, e anche con le nostre recensioni sulle due mostre del 2009 celebrative del ventennale.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla Sala Feltre – Open Art all’inaugurazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti, in particolare l’autrice delle fotografie, per l’opportunità offerta. Sono inserite nell’ordine della citazione nel testo, con le didascalie date dall’autrice. In apertura, “I segni e le ombre”; seguono, “Giostra di sentimenti”, e “Il cuore oltre l’ostacolo”; poi, “L’attesa” e “Una sentinella della Germania Est vigila sul muro della Porta di Brandeburgo”; quindi, “Un ragazzo e una ragazza guardano  in una sorta di buco aperto nel muro, improvvisamente una sentinella si affaccia dall’altra parte”, e “Tenacia”; inoltre, “Frammenti di memoria” , e “Il dubbio”; ancora, “Cuori ribelli” e “New Generation”; continua, “L’arte strappata” ‘e Un’ultima immagine del Muro; infine, “Il “acio” , tra Breznev e Honecker e, in chiusura, Alcune fotografie con la gente che accoglie i fratelli dell’Est e discute.

Alcune fotografie con la gente che accoglie i fratelli dell’Est e discute