Il caso Ruby, dopo l’assoluzione

di Romano Maria Levante

Ecco il secondo articolo sul “caso Ruby” che ripubblichiamo di nuovo nel giorno dei funerali di Stato e del lutto nazionale per la scomparsa di Silvio Berlusconi, al fine di contrastare – con elementi di fatto e le conseguenti interpretazioni – le infamanti accuse sul piano morale che anche in questo momento supremo vengono perpetrate dopo il vergognoso accanimento investigativo e giudiziario finito nel nulla con l’assoluzione ma che è costato tanto a lui e anche al Paese. E’ un contributo di verità dovuto alla sua memoria.

In occasione dell’assoluzione di Silvio Berlusconi nel processo “Ruby ter” , come preannunciato nell’introduzione all’articolo del gennaio 2011 all’apertura del “Caso Ruby” ripubblicato ieri, facciamo seguire il nostro secondo articolo del 2014, pubblicato allorchè ci fu la sentenza di assoluzione dal reato di prostituzione minorile e concussione, nel quale si risponde anche alle note critiche rispetto alle considerazioni espresse nel primo articolo. Si può rivivere così il clima di allora in un momento che sul piano economico, politico e sociale è molto diverso, ben altre sono le preoccupazioni degli italiani. Ma sembra utile fare tesoro di una vicenda che ha segnato il nostro paese perchè ha toccato aspetti molto delicati, dall’azione della magistratura alla moralità pubblica e privata..

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Un’immagine, come le tre seguenti, della trasmissione televisiva “Drive in”

Da www.arteculkturaoggi.com, 10 settembre 2014

Questa nota – siamo nel settembre 2014 – è stata scritta dopo i commenti piovuti sul mio articolo del 21 gennaio 2011 in “cultura.inabruzzo.it relativo al “caso Ruby” poco dopo che scoppiò,  ai quali intendevo rispondere, poi non ritenni di tornarci sopra. Parlo in prima persona, mentre nei miei servizi uso il noi per coinvolgere  lettori e sito nelle visite alle mostre e negli eventi culturali che commento, perché le mie precisazioni sono a titolo strettamente personale.

Ho tenuto la nota nel cassetto ma ora ritengo di pubblicarla con questa premessa  perché  la sua validità  resta, anzi è accresciuta dalle circostanze, in particolare dall’assoluzione in appello con formula piena sia per la prostituzione minorile che per la concussione, il tutto dopo la condanna a 7 anni di reclusione in primo grado.

Una sola aggiunta nel merito mi sento di fare, dopo aver letto per l’ennesima volta – l’ultima nell’articolo del direttore di “Repubblica” Ezio Mauro a commento della sentenza – che la prova logica incontrovertibile della concussione era l’imprescindibile esigenza che aveva Berlusconi  di far rilasciare immediatamente  Ruby perché se avesse pernottato in questura avrebbe potuto rivelare i “bunga bunga” con lui. Ma come non ci si accorge che le telefonate a mezzanotte dalla Francia dove era impegnato in vertici internazionali, quelle sì rivelavano  stretti contatti della ragazza con tale alto personaggio, dai contenuti tutti da scoprire, altrimenti impensabili. Tra questa certezza e il dubbio che lei “parlasse” è più  forte la prima anche perché, se avesse parlato di stretti contatti col Presidente del Consiglio non sarebbe stata creduta. Questa è la prova logica semmai dell’inesistenza della volontà di copertura nell’intervento telefonico notturno, e quindi dell’assenza dell’elemento soggettivo della concussione, e non può servire , quindi, a ribaltare la sentenza di appello, anzi ne rafforza le conclusioni. Anche la sua singolarità resta, ma la spiegazione va trovata nell’impulsività del personaggio, agli antipodi del “politically correct”, e non solo in questo caso.  

Ed ora,  il “come eravamo” di tre anni fa nel testo allora preparato per la pubblicazione non vvenuta.

Il caso Ruby. Una risposta 

Il “caso Ruby”  ha scosso gli animi  e può portare a un benefico esame di coscienza sul’etica pubblica e privata. Prima di ritornarci, mi siano consentite alcune notazioni di costume, sulle reazioni al mio scritto.

La cultura contro il degrado dei valori

Non replico ai legittimi commenti critici di alcuni lettori, ma non posso far passare senza una mia messa a punto  certi toni  sopra le righe nei quali è compreso un giudizio morale.

Ebbene, ho denunciato il venir meno della Rai al suo dovere di promuovere la cultura – al quale la Corte Costituzionale lega la legittimità del canone – per appiattirsi sulla peggiore televisione commerciale, dove certo valori risultano degradati; e l’accenno che ho fatto al “cast” di Sanremo voleva evocare qual è  il “drive” televisivo, la stessa “scuderia” di starlette, le stesse “veline” e “letterine”, epigone delle “ragazze fast food” di “Drive in”.  Non ho avuto nessun commento, nessuna partecipazione, nessun aiuto alla piccola crociata che ho ritenuto di fare in difesa della cultura.

Lo stesso è avvenuto con gli articoli sullo scandalo dei contributi a giornali e giornaletti politici e non, anche fantasma, ignorando del tutto quelli culturali, sebbene con l’informazione e l’approfondimento non solo svolgono un servizio prezioso alla crescita civile del Paese, ma contribuiscono anche ai ritorni economici su cui le autorità culturali fanno leva come risorsa preziosa da valorizzare essendo venuta meno la competitività in molti dei settori produttivi tradizionali. Anche qui nessun commento, e non ne è venuto nessuno neppure nel secondo articolo pubblicato dopo quello sul “caso Ruby”; che assorbe evidentemente tutte le capacità di indignarsi dei cortesi lettori.

Come i politici non dovrebbero mai prendersela con gli elettori così i giornalisti non debbono farlo con i lettori che hanno sempre ragione. E il pregio della rivista “on line” è che possono manifestare la propria opinione, come hanno fatto meritoriamente per il caso Ruby. Resta al giornalista il diritto di replica non per contrastare le libere opinioni che gli vengono contrapposte ma per spiegare meglio le proprie.

E allora dico che non mi riconosco in una certa immagine che mi verrebbe data di compiacenza con quel mondo. Ma non perché mi impanco ad elevare giudizi morali, non ne ho l’autorità e neppure la vocazione; il mio giudizio sulle inammissibili inadempienze della Rai a proposito della cultura  – che purtroppo stanno bene a tutti coloro che si sono indignati invece per il “caso Ruby” – non nasce da un giudizio morale su certa “Isola dei famosi” e quant’altro ma sul fatto che sono “obbligato” come tutti al pagamento del canone che ne alimenta il degrado al livello della Tv commerciale la quale invece usa il “voyerismo” deteriore per sostentarsi, vedi “Grande Fratello”, che, peraltro, è una delle trasmissioni più viste. Ma lo è stata anche “Vieni via con me”  di Fazio e Saviano per non citare la lettura di Benigni dell’ultimo canto del  Paradiso, un pieno di ascolti. Significa che non è colpa del pubblico il degrado della Tv pubblica ma di chi la gestisce.

Non ho bisogno di prendere le distanze da certi ambienti e non mi riconosco nelle allusioni di alcuni cortesi commentatori, il gossip non è nelle mie corde, e lo si può vedere su questo sito e sugli  altri, da cultura.inabruzzo. it a www. antika.it a http://www.fotografarefacile.it/.  E’ difficile assoggettarmi a ricevere lezioni quando, anche per spirito autenticamente liberale, non intendo darne ad alcuno, a parte mio figlio che ha tutto il diritto di non ascoltarle.  Relativismo morale? No, rispetto dei ruoli, e il mio è quello di cronista che, nello spirito di Montanelli, guarda senza pregiudizio e racconta ciò che ha visto, cercando di capire trasmettendo poi ciò che ha acquisito.

E ho trovato quella che potrebbe essere una spiegazione di accadimenti lontani mille miglia dalla nostra comprensione. Perché  nessuno di noi per “rilassarsi”  armerebbe un “ambaradan” di quella natura, con i “nani” e le “ballerine” che sembrano fare a gara nelle espressioni da trivio, e il protagonista che viene fatto passare come pervertito se non malato di mente come si è fatto passare per frodatore fiscale e tanto altro.

Ho citato “Drive in” come chiave di volta di tutto questo perché era la sua creatura prediletta, un “Mosè salvato dalle acque” – spero che l’irriverente associazione non mi scateni contro una valanga di proteste –  perché il numero zero destinato alla distruzione con il programma abortito prima di nascere fu da lui imposto e per di più in prima serata. Chi di noi penserebbe a far rivivere l’atmosfera, scollacciato quanto più si può, di una trasmissione già di per sé trasgressiva? Nessuno, certo non chi scrive che oltre le mostre d’arte e i grandi eventi culturali è solito dar conto di ben altre atmosfere, come quelle che si respirano nelle giornate al Tempio di Adriano che la Fondazione Roma Museo dedica ai “Ritratti di Poesia”,  o quelle, a livello familiare, nei simposi annuali in casa Iacovoni a Forca di Valle, con due relazioni colte su un tema del ‘900 da parte di due commensali; o ancora gli appuntamenti con la poesia di “Rai Notte”  che, fino a quando Gabriele La Porta ne è stato direttore, vedevano un gruppo di appassionati riunirsi in ore antelucane in letture poetiche: nessun commento “postato” dei lettori, a parte alcuni partecipanti.

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“Il bene non fa notizia” si intitolava  l’ultimo articolo di Aldo Moro su “Il Giorno”, quindi comprendiamo la mancanza di reazioni positive in questi casi. Ma possiamo rivendicare come da parte nostra invece di denunce moralistiche ci sia stato qualche tentativo di reagire in modo attivo all’andazzo corrente denunciando soprattutto la deriva del servizio pubblico in quanto è obbligatorio pagarlo, quindi vederlo: mi sono impegnato per la cultura con i soli mezzi di cui dispongo, la parola scritta,  e questo attraverso l’approfondimento costante, direi spasmodico, dei temi e delle mostre d’arte senza alcun ritorno o vantaggio personale. Come non lo ha chi è titolare dei siti mobilitato con le proprie risorse personali, lottando contro la colpevole discriminazione della cultura rispetto alla  politica, che esclude dai generosi contributi  pubblici le riviste culturali; per l’autore e il direttore un generoso volontariato culturale.

Dal “Drive in” di Arcore alla mobilitazione su Ruby

Ma torniamo alle “cene” di Arcore, rispetto alle quali, ripeto, mi sono posto nella posizione di cronista che, dinanzi a notizie così eclatanti, cerca di capire. E ho avuto l’associazione di idee con il “Drive in”, tutto qui. E’ l’unica spiegazione? Certamente no, ci sono quelle più degradanti sotto gli occhi di tutti, la mia non l’ho vista né sentita per quello che ho potuto riscontrare nello tsunami sul tema, quindi ho creduto bene uscire dalla “total immersion” culturale per farne partecipi i lettori. E sono lieto che abbiano risposto.

Hanno trovato che manca un mio giudizio morale su tutto questo? Non è nelle mie corde di cronista, ho detto, né penso che abbia la benché minima rilevanza il giudizio singolo, influenzato dalle condizioni ed esperienze personali. Non sono un “tycoon” televisivo e non posso mettermi nei suoi panni, però non mi è sembrata peregrina l’ipotesi prospettata: per capire, non per giustificare che non sta a me fare o meno.  Il livello morale è suscettibile certamente di giudizi personali, ma non interessano, tanto meno quelli del cronista. Altri ne hanno l’autorità, in particolare la Chiesa che sia attraverso il Pontefice che attraverso i cardinali preposti, dopo “Avvenire”, ha fatto sentire la sua voce sul degrado nell’intera società al quale le istituzioni pubbliche dovrebbero reagire invece di lasciarsi andare sullo stesso piano inclinato. E questo richiamo va ascoltato, stando attenti a non cadere nella morale di Stato dando via libera ai fondamentalisti.

Il giudizio morale dei singoli diventa rilevante quando si traduce in fenomeno collettivo, nella perdita di fiducia in una leadership che è venuta meno alle aspettative. Ma questo non si manifesta attraverso i “crucifige”  a cui abbiamo assistito, molti dei quali interessati per motivi politici, l’occasione per abbattere il “caimano” era troppo ghiotta, dopo che aveva evitato le tante altre trappole, fino a incorrere nella condanna per frode fiscale, discutibile per tanti versi tra cui la doppia assoluzione della Cassazione per analoga fattispecie e la dichiarazione pro-veritate a suo favore. Anche ad alcuni discutibili interventi legislativi si può  trovare una spiegazione non nella cronaca ma nella storia: al “voi suonerete le vostre trombe”  ha  risposto il “noi suoneremo le nostre campane”, alla stonatura delle prime il frastuono delle seconde, laddove sarebbe stato preferibile alla cacofonia durata troppo a lungo l’approccio alla Franco Coppi, l’avvocato difensore, risultato ora vincente, della difesa “nel” processo e non quello perdente “dal” processo.

Dicevo che la riprovazione sul piano collettivo si manifesta altrimenti che nei violenti attacchi giornalistici e televisivi necessariamente di parte. La strada maestra sono le elezioni: che però i più aspri censori non chiedono, anzi continuano a voler evitare ad ogni costo. Allora abbiamo intanto i sondaggi  che misurano i movimenti dell’opinione pubblica. Piepoli, uno dei più accreditati, ha detto che i giudizi su Berlusconi sono come “pietrificati”, nessun mutamento indotto dal “caso Ruby”; comprensione della diversa dimensione in cui si pone lo straricco “tycoon” televisivo mentre la colpa viene data alla sua squallida “corte dei miracoli” da un lato, relativismo morale diffuso o senso di appartenenza politica dall’altro, la situazione è questa.

Allora il discorso torna all’aspetto giudiziario del quale, lo ripetiamo, colpisce lo spiegamento di mezzi sproporzionati rispetto alla qualificazione giuridica del reato attribuito all’indagato. Se tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge, lo sono anche di fronte alla  giustizia, e la Corte Costituzionale giustamente ha respinto le norme “ad personam” volte a creare dei privilegi, dopo l’abolizione dell’immunità parlamentare prevista dai Costituenti, come eccezione all’articolo 3, per impedire un incontrollata “persecuzione” da parte dei giudici contro gli eletti dal popolo. Poi se n’è abusato e dopo Tangentopoli è stato soppresso, ripristinarlo sarebbe stato la strada maestra, magari trovando un meccanismo per impedirne l’abuso. Ma il comportamento dei giudici nel “caso Ruby” è stato così eclatante da evocare il “fumus persecutionis”.

Per quale cittadino normale si sarebbero mobilitati tre magistrati, cento-centocinquanta agenti dell’ordine per le perquisizioni, centocinquanta mila intercettazioni in un anno fino a riempire tra le 600  o  le 900 pagine secondo le notizie ballerine, di cui 389 trasmesse in Parlamento e così divenute di pubblico dominio? E questo con il grave discredito internazionale che viene giustamente lamentato, ma da chi provocato?  Abbiamo citato nell’articolo i  5 milioni di processi penali pendenti e i 200 mila l’anno che vanno in prescrizione, come l’elevatissima percentuale di quelli non puniti, per furti negli appartamenti e di autoveicoli in barba all’obbligatorietà dell’azione penale non ci sono neppure indagini elementari. E allora? Ripetiamo che la maggiore attenzione al Presidente del Consiglio e  al politico non spetta ai giudici che devono considerarlo un cittadino come tutti, e non come un pericoloso delinquente da controllare.

Era necessario allegare 389 pagine “piccanti” non per la richiesta di autorizzazione a procedere, che non c’è più, ma per la semplice richiesta di perquisire un ufficio dove, ad autorizzazione eventualmente accordata, è presumibile che non vi sarebbe più nulla di compromettente, anche se ci fosse stato in origine? Era necessario farlo quando tale perquisizione veniva ritenuta ininfluente sulla decisione già presa del giudizio immediato, che i pubblici ministeri chiedono, e hanno chiesto, quando si ritiene di avere prove sufficienti?

La stessa avocazione a Milano della competenza per i “delitti” compiuti ad Arcore nella competenza di Monza, in quanto assorbita dal reato più grave di “concussione”, sa di lana caprina  per cui si riaffaccia il “fumus persecutionis”, essendo il giudice naturale la garanzia costituzionale perché questo non accada.

Non sembra che con la mobilitazione di mezzi in un anno di indagini alla James Bond assolutamente sproporzionata al reato ascritto e con il causidico spaccare il capello in quattro tra “in qualità” e “nelle funzioni” di Presidente del Consiglio, nonché con l’allegato di 389 pagine di intercettazioni  a gogò divenute discredito internazionale  i magistrati milanesi abbiamo fatto di tutto per accreditare il sospetto del “fumus persecutionis” tanto più che segue la miriade di perquisizioni e procedimenti contro la stessa persona?

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Ma sembra altrettanto che la “corte dei miracoli” intorno al Presidente, nell’organizzargli in privato  i “Drive in” scollacciati che già nella trasmissione erano alquanto osè, abbia fatto di tutto per esporlo alla più facile delle crocifissioni, quella dell’indegnità morale. Non dimentichiamo che Nixon nello scandalo Watergate fu costretto a dimettersi non tanto per la tentata copertura del reato compiuto dal suo partito e non da lui con lo spionaggio nella sede del partito democratico in previsione delle elezioni; ma per il discredito che gli venne dalle registrazioni che faceva fare lui stesso di tutte le conversazioni avvenute nello studio ovale con i suoi consiglieri, non per la sostanza delle cose dette ma per il turpiloquio segno di bassezza morale. Si pensa che questo possa avvenire anche da noi, per il turpiloquio non del Presidente ma delle miserabili protagoniste degli spettacoli che la “corte dei miracoli” gli preparava e che lui, lo si deve anche dire, a torto accettava di buon grado se non promuoveva; ma anche qui non sono un “tycoon”  riccone, e tutt’al più ne posso criticare la colpevole accondiscendenza.  

Anche su questo il giudizio politico va agli elettori, come quello sulla legittimità sotto il profilo penale ai magistrati; purché non mostrino, come avvenuto in questo caso, un’ingenuità di segno opposto, un accanimento “ad personam” che evoca il “fumus persecutionis”  che i padri costituenti ritennero idoneo a  far scattare addirittura l’immunità.

Se era la sensazione avuta dinanzi all’inchiesta, la requisitoria dei PM nel duplice processo “Ruby”- quello contro Berlusconi e quello contro il trio Fede-Minetti-Mora – ne ha dato conferma eclatante; per le sette ore sette della Bocassini tutte impregnate di moralismo degno di miglior causa, per le immagini di Sangermano, che ha parlato addirittura di “assaggiatori”  suscitando voyerismi anch’essi del tutto fuori luogo.

Accanimento su Ruby, altro che protezione di minorenne!

Ma c’è un aspetto particolare che mi ha colpito e sul quale intendo richiamare l’attenzione dei cortesi lettori, anche perché nessuno ne ha parlato: attiene ai due reati di cui è accusato il “tycoon” leader politico: la concussione per avere interferito sulle procedure di tutela dei minori e lo sfruttamento della minore per aver compensato prestazioni sessuali.

Abbiamo sollevato nell’articolo precedente qualche dubbio di sostanza sulla necessità di uno scudo protettivo come quello in discussione nella serata alla questura milanese su una minore come Ruby, vicina al 18° anno, in un’età che nel suo paese non è minorile, tanto che la madre si era sposata a 11 anni, a parte che tutto è sembrata fuorché ingenua e indifesa anche se, come tante, può essere stata bisognosa di aiuto. Ma  non discutiamo, la minorenne viene giustamente protetta anche oscurandone l’immagine, la foto del viso fino al fatidico giorno del 18° anno è stata mascherata. Se questo è stato il lodevole intento, perché appena compiuti gli anni si è operato all’opposto, dandole la patente di prostituta che lei, a torto o a ragione,  ha rifiutato con forza, come l’eventuale “utilizzatore” finale?

Ha respinto l’accusa, ha detto di non essere stata toccata neanche con un  dito, e si è sorbita le sarcastiche battute di Travaglio, “ma con la mano sì”, e per fortuna non si è spinto oltre, lui che è solitamente duro nella polemica e graffiante, ma mantiene un suo rigore e stile. E dopo la deposizione avanti ai giudici in udienza pubblica l’atteggiamento verso di lei non è migliorato, le si vuol dare per forza la “patente” che lei respinge,  e per questo andrebbe rispettata.

Non è uno stupro collettivo quello a cui Ruby viene sottoposta, con la spasmodica ricerca dei magistrati attraverso centinaia di migliaia di intercettazioni, prima, prove testimoniali poi, delle parole che dimostrino come abbia fatto sesso a pagamento, quindi si sia prostituita? La presentazione in Tv del notes di una di quelle dove c’è scritto “Ruby troia”.  non è uno stupro su chi non è più minorenne ma è stata “marchiata” dalla giustizia che doveva proteggerla appena superato il Rubicone dei 18 anni?  A quel momento se non si voleva continuare la protezione almeno non andava trasformata in caccia all’uomo, anzi alla donna, o se si vuole alla prostituta.

Gli alti lai sulla dignità femminile sfregiata dove sono finiti? Si vuole dare la patente di prostituta ad una ragazza fino a poco tempo fa minorenne, a dispetto del fatto che lei la respinga, senza alcun riguardo per la donna. E non è anche questo un motivo che fa pensare al “fumus persecutionis” antoberlusconiano? Non solo di certa magistratura ma anche di chi, come qualche lettore, si indigna sull’altare della dignità della donna. E cos’è Ruby, la sua dignità è più calpestata dall’avere accettato dei regali da chi comunque nega di averci fatto sesso come lo nega lei, oppure da coloro che la mettono in croce sul sesso a pagamento che deve essere dimostrato ad ogni costo, ne va dell’esito della crociata antiberlusconiana?  Che fa venire meno anche il rispetto per la terza età con le espressioni sferzanti sul vecchio al quale “la badante cambia i pannoloni”  e sempre ad opera del pur finissimo Travaglio;  come se non si offendessero così gli altri della stessa età che sono la maggioranza del paese in cui la crisi di natalità fa invecchiare la popolazione.

Un antiberlusconismo al quale si vuole arruolare anche la Chiesa da parte dei più incalliti mangiapreti che respingono ogni altro suo messaggio, a parte questo. Ebbene, si risponda ora sulla sincerità della tutela della minorenne, e sul fatto se non è stata messa alla berlina proprio con la pressione violenta per dimostrarne la prostituzione minorile che lei ha il diritto comunque di respingere con forza.

Chi è che sta perpetrando il “macchiamento del suo nome”? Per citare l’espressione che lei avrebbe usata, secondo le accuse, per ottenere “utilità” smisurate – addirittura quantificate in 4 milioni di euro – da chi potrebbe rovinare ammettendo, in modo veritiero o meno, ciò che i giudici vogliono sentirsi dire. E non è questo un dare,  pur se inconsapevolmente,  un’arma di ricatto potentissima, quasi sperando che venga usata?

Tanti dovrebbero fare l’esame di coscienza, in ogni modo ognuno potrebbe almeno provare a dare una risposta al di fuori di ogni ideologia o prevenzione. Noi abbiamo provato a darla ragionando in piena libertà di coscienza e serenità di giudizio.

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Info

Il nostro articolo al quale ci riferiamo, e al quale rinviamo come necessaria premessa alla presente nota, anche in relazione ai commenti on line che ha suscitato, è stato pubblicato in “cultura.inabruzzo.it”, con il titolo “Il caso  Ruby”, e ripubblicato con una breve introduzione, in questo sito, il 18 luglio 2014, alla vigilia della sentenza di appello. 

Foto

Le immagini sono della trasmissione televisiva “Drive in” di Mediaset che si ringrazia, come si ringraziano i titolari dei siti web da cui le abbiamo tratte per inserirle nel testo a mero scopo illustrativo senza alcun intento economico o pubbliicitario, pronti ad eliminare quelle di cui non fosse gradita la pubblicazione su semplice richiesta.

“Sul mare”, il film di D’Alatri: a Ventotene un’emozione “senza fine…”

di Romano Maria Levante

da cultura.inabruzzo.it – 24 luglio 2010

La scomparsa del regista Alessandro D’Alatri annunciata ieri, all’età di 68 anni, mi ha fatto ripensare alla magica serata a Ventotene nel luglio 2010 quando vidi il suo film “Sul mare”, che aveva ultimato da poco e presentava insieme all’autrice del libro cui si era ispirato ai presenti nell’isola in cui era ambientato. Mi trovavo a Ventotene raggiunta sulla barca del caro amico Ciro Soria per l’annuale Palio sul mare di Sant’Anna della vicina Ischia come nel 2009. Al viaggio del 2009 dedicai un articolo ripubblicato il 21 aprile scorso per il Trigesimo della scomparsa dell’amico Ciro, che ha preceduto di un mese e mezzo quella del regista che associo al suo ricordo; del resto a Ciro piaceva essere sempre, qunado poteva, “sul mare”, al timone della sua barca, di nome “Luna”. Non ho mai recensito film, nè questa è un’eccezione, non è una critica cinematografica ma il racconto di una serata così emozionante che l’articolo lo scrissi alle 2 di notte tornato in barca, subito dopo la fine della proiezione all’una. Del resto, anche per D’Alatri è stato qualcosa di speciale, non solo per la sede dove aveva girato il film, ma perchè il film veniva da sei anni di assenza dal cinema e, possiamo dirlo ora, fu seguito da altri sette anni di assenza. Ed ebbe per quel film nel 2010 il premio “Alabarda d’oro”!

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Il regista Alessandro D’Alatri e il manifesto del suo film “Sul mare”

Isola di Ventotene, è la calda serata di venerdì 23 luglio 2010, la piazzetta affacciata sul porticciolo brulica di locali e villeggianti. Sarà proiettato un film girato nell’isola, pensiamo ad uno dei soliti documentari, ma ci incuriosisce la presentazione con il regista, l’attore protagonista e l’autrice del libro dal quale è stata tratta la storia. “Sul mare” il titolo del film, quanto di più adatto per una serata come questa. Immaginiamo qualcosa di molto leggero, promozionale e al più vacanziero.

Ci troviamo qui quasi per caso, uno scalo, per così dire, nell’avvicinamento ad Ischia dove ci attende la “Festa a mare agli scogli di Sant’Anna”, alla quale il 18 agosto 2009 dedicammo un ampio servizio su http://www.abruzzocultura.it/.: raccontammo il viaggio nella barca “Luna” dell’amico Ciro Soria e la manifestazione, con le dichiarazioni strappate a volo a Lina Sastri e Giampiero Mughini, in tribuna tra i Vip.

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Lo abbiamo fatto anche quest’anno, siamo tornati invitati di nuovo da Ciro sulla sua barca, e abbiamo visto la novità, “sirena” della festa sul mare è la bella italiana Paola Saluzzi. Il resoconto della gara dei carri nel Palio marinaro 2010 ha preceduto questo del film, è stato pubblicato il 3 agosto scorso sulla presente rivista.

Ma Ventotene non può considerarsi uno scalo, ci fermiamo tre giorni, per poi tornarci, nell’isola del vento dai nobili ascendenti romani come testimoniano i resti a Punta Eolo di Villa Giulia, della figlia di Cesare, l’acquedotto e l’antichissimo porto, nonché i ruderi degli insediamenti millenari e i reperti soprattutto marini del piccolo ma rappresentativo “Museo archeologico”; oltre alla vicina isola di Santo Stefano con l’antico penitenzirio . A tutti questi luoghiu abbiamo dedicato un articolo. Per di più abbiamo la fortuna di partecipare ad un evento cinematografico inatteso che ricorderemo a lungo.

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La presentazione da parte dei protagonisti: “Sul mare”

La presentazione è sobria e stimolante, parla anche l’assessora comunale alla cultura, poche parole brillanti, senza la pedanteria dell’ufficialità; il conduttore è di qualità, riesce a creare l’atmosfera giusta con tono sommesso, nulla di quanto propinano in queste circostanze gli imbonitori di turno. Sentiamo la sincerità nelle parole del regista Alessandro D’Alatri, non è esordiente, al suo attivo i noti “Casomai” e “Commediasexi” ma per lui – lo ha detto esplicitamente – è stato “un nuovo inizio, un rimettersi in gioco” stimolato dal romanzo “In bilico sul mare” (edizioni e/o, Roma 2009) di Anna Pavignano, la bionda scrittrice che dal palco ne racconta la genesi.

Un film girato con pochi mezzi ma con tanta passione: una macchina da presa digitale da ottomila euro, senza gruppi elettrogeni né luci artificiali, le riprese sono avvenute in diretta in due mesi nei quali l’isola con il suo mare è diventata una seconda pelle, in una simbiosi creativa con la popolazione che ha assecondato il lavoro della troupe. La stessa Pavignano, che ha scritto la riduzione e sceneggiatura a quattro mani con il regista, ha rivelato che alla prima visione del film non ha pensato che era la sua storia e la sua sceneggiatura ma è stata presa dal modo con cui il regista è riuscito a trasfigurarla rendendone la profondità di contenuti e l’intensità di accenti.

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Ha colpito in modo particolare il protagonista, Dario Castiglio, un giovane che studia da attore e non ha mancato la grande occasione, il regista lo ha scelto, l’isola lo ha adottato e nel ritornarci per la prima volta si commuove al punto da incontrare difficoltà ad andare avanti nel saluto. E’ giusto che sulle sue parole sincere si chiuda la presentazione e scenda il buio in una platea all’aperto affollatissima. Rimasta tale fino alla fine, all’una di notte che anche d’estate è sempre un’ora tarda. La stanchezza e il sonno non si avvertivano, la platea nel piazzale sopra la baia ha applaudito con calore il film “Sul mare”, presa dall’emozione di una storia intensa in uno scenario incomparabile.

L’isola, il cuore di una storia di solitudine

Si spengono le luci, è calata la notte, si ripete la magia del cinema mai dimenticata nonostante l’overdose di film in televisione, la partecipazione personale e insieme collettiva ha un suo fascino tutto speciale. Dopo il marchio storico della Warner Bros si è subito proiettati nell’isola vista dal motoscafo che si avvicina sempre più veloce, divorando le onde e insieme i nomi che si susseguono rapidi. Così irrompe quello che possiamo definire il cuore della storia, l’isola accompagna il protagonista con la sua logica e le sue regole inesorabili, potrebbe avere qualunque altro nome o essere l’isola senza nome, ma non l’“isola che non c’è”.

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Perché l’isola c’è con la sua storia passata e il suo presente che non la dimentica, la libreria “Ultima spiaggia” nella piazza principale espone in bella mostra il “Manifesto di Ventotene” di Altiero Spinelli con Ernesto Rossi, ma non solo: una vera “isola” libraria accoglie all’ingresso con una sorta di “opera omnia” degli illustri confinati e imprigionati a Santo Stefano – da Spinelli a Pertini, da Amendola a Di Vittorio-– più molti libri sul lungo confino fascista che fu di ben 16 anni per Spinelli e sul carcere, del quale troviamo, appena uscito datato luglio 2010, il libro di Luigi Settembrini “L’ergastolo di Santo Stefano” edito dalla stessa “Ultima spiaggia” che nel 2009 ha pubblicato “Memorie di un ex terrorista” di Giuseppe Mariani, l’anarchico rinchiuso nel carcere; c’è un grosso libro anche su Gaetano Bresci, l’uccisore di Umberto I, recluso e poi “suicidato”.

E’ un modo encomiabile di trasmettere la storia locale che è anche nazionale e rendere onore alle privazioni subite mantenendone la memoria attraverso gli scritti. Lo fa anche un piccolo monumento con sbarre simboliche di una reclusione della libertà di pensiero non annullata dal fascismo dato che – si legge nella lapide – “cospirativamente autogovernandosi condussero la loro vita di sacrificio e di studio preparandosi alla lotta per un’Italia rinnovata nella libertà” e produssero il “Manifesto” ricordato dal regista D’Alatri con le parole: “Qui a Ventotene è nata l’Europa”. E’ rievocato anche il confino nell’isola del sindacalista Giuseppe Di Vittorio.

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Nella piazzetta adiacente, il monumento alle vittime dell’affondamento da parte inglese nel luglio ’43 nelle acque di Ventotene del postale Santa Lucia che collegava Napoli alle isole: 61 civili sacrificati nella convulsa fase finale del regime e della guerra dove si confondono buoni e cattivi.

La vicina isola di Santo Stefano è dominata dal penitenziario chiuso da tempo dove fu imprigionato Sandro Pertini: il grande edificio a ferro di cavallo con l’ora d’aria tra le alte mura del cortile intercluso e le finestre delle celle poste in alto in modo che i reclusi non potessero vedere il mare; chissà se l’umanizzazione odierna ammetterebbe una simile privazione, anche se vedere il mare sarebbe stato un supplizio di Tantalo, ci riferiamo a tutti gli ergastolani non solo ai “politici”.

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Da “Sapore di mare” di Vanzina a “Sul mare” di D’Alatri

A queste associazioni di idee alla fine della proiezione se ne sovrapporrà un’altra: a Ventotene è nato una modo più meditato di raccontare il mare e i giovani, la vacanza e il lavoro; non lo ha detto il regista che ha citato la nascita dell’Europa, lo diciamo noi catturati dalla storia e dai personaggi. Soltanto al termine abbiamo fatto delle comparazioni, la tensione che percorre il film non lascia spazio ad altri pensieri. Riaccese le luci sono tornate alla mente le immagini dei film di Vanzina, i celebri “Sapore di mare”: anche lì il mare, anche lì i giovani, anche lì gli amori estivi com’erano allora. Anche lì c’è tutto. O niente?

Ci sembrava tutto quando li vedemmo, ci sembra niente ripensandoci ora alla luce – nell’autentico significato del termine – del film di D’Alatri. O almeno niente di quello che c’è in profondità, nel conscio e nell’inconscio sotto la superficie patinata del sole e del mare in una prospettiva speciale. Vanzina puntava la macchina da presa sulla superficie patinata, D’Alatri la fa penetrare nei recessi più nascosti, con un’operazione di grande maestria, partendo proprio da quella superficie.

Tutto il film è percorso dalle immagini di Ventotene, ma non come segno di liberazione, bensì come prigione dorata che intrappola il giovane isolano in una condizione di privilegio e discriminazione insieme. Un confinato anche lui che ne gode fino a quando non ne diventa consapevole; mantiene la libertà di Spinelli nel concepire il “Manifesto di Ventotene” ma lo sconta nell’urto impietoso con la realtà.

Sul mare” va visto e rivisto, e l’uscita in settembre del Dvd ci fa pregustare una “moviola” nel 52 pollici del televisore domestico; anche se il fascino della visione collettiva nell’affollata piazzetta di Ventotene aperta sulla baia ci resterà impresso. Mai lo avevamo pensato per i pur godibili “Sapore di mare” sebbene fossero rivolti alla nostra generazione che ci si rispecchiava perfettamente.

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Forse perché questa era l’“isola che non c’è” mentre D’Alatri ce la fa toccare con mano facendoci calare come degli speleologi negli anfratti dell’inconscio che diventa coscienza e autocoscienza. Ci viene da definirlo l’anti Vanzina non come contrapposizione ma come l’altra faccia dell’estate e dei giovani, come Ventotene è altro rispetto a Rimini e alla Versiglia; D’Alatri ha fatto scoprire l’altra faccia della luna, che si aggiunge a quella nota e non la sostituisce né tanto meno la nega, però reca in sé il valore aggiunto e il fascino inedito e suggestivo che hanno le grandi scoperte.

La duplicità isolana

Dunque, la duplicità isolana: privilegio e discriminazione , comunicazione e isolamento. Si comunica con un turismo senza confini, nell’appuntamento stagionale di sempre quando nascono e si disfano amori passeggeri, in una tela di Penelope che può ricevere strappi profondi, e quando una tela si lacera definitivamente può essere impossibile il rammendo dell’intero tessuto.

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Mentre si comunica, nello stesso tempo si è isolati nella condizione isolana dove il turismo da strumento di apertura può diventare anche forma di sottile discriminazione: caratteristica di ogni località vacanziera, sfiorata anche nei film di Vanzina, che qui si somma al complesso tipico dell’isolamento, rotto soltanto dall’arrivo degli aliscafi e degli altri traghetti dalla terraferma.

L’invocazione canora che ci torna in mente, “per quest’anno/ non cambiare/ stessa spiaggia/ stesso mare”, dava il segno della ricerca di una precaria continuità nell’effimero, il film ne è la visione poetica con le improvvise ricomparse alternate alle altrettanto inattese sparizioni; in più una sorprendente aggiunta su cui meditare, lo sguardo sul “dopo”, il “lato invernale” del materasso.

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Così il protagonista definisce il suo “fuori stagione”, la prosecuzione annuale della breve “stagione” nell’isola. E qui con pochi tratti di rara intensità, quando si rompe l’isolamento con il lavoro invernale nei cantieri edili del continente, ci si imbatte in altre più drammatiche forme di isolamento, il lavoro nero e l’immigrazione di colore che possono arrivare fino alla tragedia.

Come è nata e si sviluppa la storia

E’ arduo inserire questi temi così duri nel clima vacanziero, pur se esplorato in profondità, ma il regista c’è riuscito con leggerezza unita a intensità. Parte del merito va alla scrittrice Pavignano autrice del romanzo e coautrice di riduzione e sceneggiatura con il regista al quale vanno la magia delle immagini e l’azione scenica, il ritmo narrativo e le sequenze cinematografiche.

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Nella presentazione, anzi, l’autrice ha detto che la sua idea iniziale era scrivere un libro sulle “morti bianche”, e lo ha ambientato a Ventotene dopo un casuale giro dell’isola sulla barca di un giovane locale con il lavoro invernale in nero nei cantieri della terraferma dove allignano gli infortuni sul lavoro anche mortali in un’edilizia spesso di rapina senza le prescritte misure di sicurezza.

Il canovaccio è stato offerto dalla realtà, è bastato riempirlo dei particolari narrativi con la fantasia: come nella commedia dell’arte, aggiungiamo noi, con la differenza che qui aveva tra le mani un personaggio vero, in una storia esemplare e peculiare. E’ nato in questo modo Salvatore, e come in “Centochiodi” di Ermanno Olmi l’intenso viso del protagonista contornato dalla barba alla Nazzareno era una metafora religiosa, così qui dietro quel nome forse c’è qualcosa di simile: “sul mare” e poi ancora di più “dentro” il mare dove il bianco riconquista il suo vero valore simbolico.

Ne parleremo al termine pur senza rivelare la trama del film, come hanno fatto saggiamente nella presentazione, evitiamo chi lo fa al punto da interrompere la lettura delle recensioni quando entrano nella trama. Qui il compito è facilitato: più che una trama di vicende intrecciate è una trama dell’anima che viene allo scoperto, e di questo ci piace parlare.

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Il giovane protagonista Salvatore-Dario Castiglio

E’ tutto nella freschezza giovanile e nella spontaneità del protagonista, sembra preso dalla realtà, non diciamo dalla strada, dovremmo dire dal mare tanto è calato in esso nel corpo e nello spirito. Mentre studia da attore e si ritrova protagonista: un sogno che si avvera, e lo dice espressamente nell’emozione per il ritorno all’isola che lo ha adottato e lanciato in questa bella interpretazione.

L’anima è racchiusa in un corpo da esposizione, tale è nella scena in cui Salvatore viene fotografato disteso come la “Maya” di Goya alla guisa di un’attrazione isolana per le turiste, una sorta di turismo sessuale alla rovescia con i ragazzi barcaioli locali nelle vesti di prede. “Preferisco lui che ha il tendalino più grosso”, dice una di loro con fare allusivo; mentre due si fanno spargere la crema sulla schiena insieme (“hai due mani, non è vero?”), ed è solo l’inizio, poi dissolvenza; una posizione privilegiata da scontare amaramente allorché la prospettiva cambia e si ricerca l’amore.

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La calamita della bellezza, della natura e della persona è l’ingrediente costante della storia nella quale emerge l’altra bellezza: quella di un’anima imprigionata nel cliché vacanziero e nella morsa invernale mentre cerca la propria libertà fino all’epilogo. Del quale diciamo solo che sorprenderà per le vette espressive raggiunte con una semplicità unita ad una notevole profondità di ispirazione.

Vi abbiamo trovato il senso di liberazione del finale di “Papillon”, ci siamo permessi di dirlo al regista al quale è piaciuta la nostra associazione di idee, non ci aveva pensato ma la condivide. E non ci riferiamo al “maledetti bastardi, sono ancora vivo!”, che in questi giorni leggiamo come didascalia ad una copertina con il volto di Roberto Saviano, bensì al mare liberatorio con le sue acque profonde, in un lavacro dell’anima, quasi una Resurrezione. E se viene dopo la caduta nell’abisso fa pensare al binomio inscindibile della Cristianità: la Crocifissione e la Resurrezione.

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Le abbiamo sentite evocate entrambe nel film, che si snoda tra i due estremi sui quali si dividono cattolici e protestanti: i cattolici sottolineano il primo aspetto, con il sacrificio e la morte, i secondi l’altro aspetto, con la resurrezione e la vita, ne avevamo parlato nella mattinata con il compagno di barca Aldo Visco, di religione valdese. Con questa associazione di idee non vogliamo portare fuori strada, il film è quanto mai terreno, l’ambiente è un “set” per il corpo prima che una palestra per l’anima: il corpo preso dalle occasioni d’amore e di evasione, l’anima stretta nel groviglio di contraddizioni.

Colonizzazione virtuale da spirito nordista

In questo quadro esistenziale fa capolinea certa disinvoltura “nordista” da colonizzazione virtuale, nei comportamenti del principale personaggio dopo il protagonista, Martina, intensa e non solo vacanziera, sincera e reticente al tempo stesso, essa pure stretta dal viluppo socio-antropologico.

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La reazione a chi le ha mancato di rispetto, nella sua violenza – “lo hai quasi ammazzato!” – esprime qualcosa di più di un normale rifiuto e del sacrosanto diritto a voler scegliere; torna tranquilla solo quando l’altro isolano che la rintraccia, il nostro Salvatore, resta al suo posto di barcaiolo, sarà lei a portarlo alla sua altezza di turista in cerca di emozioni, a prendere l’iniziativa pur se non è la solita cacciatrice vacanziera ma ha un animo sensibile alla gentilezza e al rispetto che prevale sul resto.

Poi nella vicenda sarà la potenza maieutica dell’isola a far esplodere le contraddizioni, a rendere il “non ti dimenticherò…” una rivelazione bruciante peggiore di un abbandono, la conferma di ciò che il segreto svelato dal telefonino spiato faceva percepire; ma occorreva l’interpretazione autentica a quel “anche se non…” lasciato in sospeso. E la sospensione di parole porta a quella dell’anima.

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Una eco, sempre nelle nostre libere associazioni di idee, di “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto”, tematiche diversissime ma un Nord e un Sud in comune, lì la barca dell’agiatezza, qui l’“Erasmus” dell’istruzione, e un’isola anch’essa in comune pur se diversamente raggiunta e raggiungibile. Lì l’isolamento assoluto anche fisico che avvicina fino all’annullamento delle differenze, qui l’isolamento relativo che accosta anch’esso ma mantiene le distanze di fondo.

Sono i due volti dell’isolamento, del corpo e dell’anima, che convergono nel rivelare complessità interiori in ambedue i versanti di una reciproca sincerità che allontana allorché vorrebbe avvicinare. Nulla di vacanziero bensì di profondamente umano. Che va poi ad intrecciarsi con il “fuori stagione” dandogli una piega inattesa sullo sfondo dell’altra discriminazione che sul lavoro impatta i drammatici problemi dell’integrazione e dello sfruttamento sul lavoro fino allea “morti bianche”.

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Leggerezza e diapason nell’epilogo ispirato

Anche qui la leggerezza del regista e dell’autrice raggiunge livelli da sottolineare, quando il protagonista si chiede perché il “lavoro nero” deve dar luogo alle “morti bianche”, un ossimoro, e cerca un colore più adatto per definirle scartando ad uno ad uno i colori principali finché resta un innocuo “morti marroncine”. Leggerezza che nel finale tocca il diapason dell’ispirazione superiore.

Cosa dire ancora se non confessare che questo nostro scritto non va considerato una critica cinematografica voluta? Non vuole esserlo perché è stato uno sfogo dell’anima, scritto la sera stessa della proiezione, alle due di notte, nella barca “sul mare”: sullo stesso mare di Ventotene, senza altra sollecitazione che la spinta interiore. E’ vero che il cronista è sempre in servizio, ma nella circostanza non c’era altro motivo, è stata la carica emotiva “sul mare”, in quanto mare dell’anima.

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Attendiamo il Dvd, ripetiamo, per centellinarlo alla moviola, anche considerando le bellezze dell’isola solo sfiorate che vanno riscoperte. Intanto possiamo dire che quando vorremo lasciarci cullare da una musica “sul mare” non ci risuonerà nelle orecchie e nell’anima il “sapore di sale”, la sigla dei film di Vanzina della nostra generazione, ma “senza fine” che chiude il film di D’Alatri.

Entrambi hanno posto come sigla un Gino Paoli diverso nell’intensità e nel colore. In “Senza fine” il poeta della canzone dà il tocco finale a un film che solo un poeta del cinema poteva concepire: perché tale riteniamo vada considerato il regista Alessandro D’Alatri dopo il film “Sul mare”.

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Alessandro D’Alatri con il premio “Alabarda d’oro” per “Sul mare”

Photo

Sono state inserite nuove immagini in questa ripubblicazione, essendo andate perdute quelle originali nel passaggio dal sito iniziale chiuso a quello attuale. Sono intervallate immagini del film “Sul mare” e immagini di Ventotene dove l’azione si svolge, tratte dai siti web di cui si ringraziano i titolari. Si precisa che l’inserimento delle immagini è a puro titolo illustrativo senza alcun intento economico, commerciale o pubblicitario, e qualora non fosse gradita la pubblicazione di alcune di esse saranno eliminate prontamente su semplice segnalazione. I siti da cui sono state tratte le immagini verranno presto indicati nell’ordine di inserimento.

Ciro Soria, 40° di matrimonio con il sostegno a Ibby

di Romano Maria Levante

cultura.inabruzzo.it – 19 luglio 2010 – Postato in: Culturalia, Letteratura

Facciamo seguito ai due articoli pubblicati nei due giorni scorsi, 21 e 22 aprile 2023 per ripubblicare un terzo articolo nel Trigesimo della scomparsa di Ciro Soria, l’amico da un quarto di secolo che se n’è andato il 21marzo. Il primo dei due articoli contiene il nostro saluto prima del funerale e l’orazione funebre dell’amico Aldo Visco Giraldi al termine della funzione religiosa; il secondo articolo rievoca il viaggio sulla sua barca “Luna” di uomo di mare appassionato per Ischia alla festa di Sant’Anna del 2009 con il Palio del mare e i Carri di Tespi, scene di vita e di navigazione. L’articolo di oggi è sulla festa del 40° di matrimonio nel 2010 e illumina su uno dei suoi pregi, la generosità, qui manifestata nell’appoggio concreto all’attività benefica dell’associazione internazionale dove è impegnata la figlia Deborah e della quale descriviamo l’impegno meritorio. Al termine dell’articolo c’è il commento che Ciro “postò” allora, come sempre generoso, lo ringraziamo oggi, certi che lo ripeterà da Lassù. Si conclude così il nostro triduo celebrativo nel Trigesimo, con il saluto memore e commosso che rinnoviamo: Ciao, Ciro, amico carissimo, buona navigazione lassù, nell’alto dei cieli!

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Non sappiamo quanti conoscano l’Ibby, e non la confondano con un’organizzazione che vende apparecchi per la casa con il “network marketing”. A quelli che sanno di cosa si occupa questa meritoria associazione vale la pena rinfrescare la memoria; ai tanti altri, quasi tutti, che non ne hanno mai sentito parlare è bene dare la notizia della sua attività, e una rivista culturale come la nostra è orgogliosa di farlo rivolgendo un appello perché la si sostenga.

Per il nostro 40° anniversario di matrimonio vorremmo invitare tutti i nostri amici a festeggiare con noi”, così l’inizio dell’invito in un elegante corsivo, accompagnato da una piantina sulla località nei pressi di Nettuno, vicino al campo dei paracadutisti, dove si sarebbe svolta la serata conviviale di sabato 19 giugno 2010.

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Ma quello che ha suscitato subito una forte curiosità, oltre alla festa dei coniugi amici, Ciro Soria e Dilys, è stato il seguito dell’invito: “Per favore niente regali! Apprezzeremmo molto al posto di un regalo una piccola donazione all’Ibby (International Board on Books for Young People”), della quale nostra figlia Deborah è rappresentante per l’Italia. La donazione andrà a sostegno dei loro progetti per fornire libri ai bambini di paesi sconvolti da guerre e altre catastrofi quali Haiti, Afghanistan, Colombia. Alla festa saranno disponibili ulteriori informazioni sull’Ibby e se volete potrete dare il vostro contributo direttamente durante la serata o tramite il conto corrente bancario Iban: II 46 Q 01030 02400 00000 4685 463 Ibby Italia. Grazie mille”.

L’uomo che morde il cane

Ci vuol poco a capire come sia scattato l’interesse giornalistico. In un “mondo di ladri”, come ama cantare Antonello Venditti, dove spiccano le appropriazioni indebite di denaro pubblico e privato a fini esclusivamente personali, nelle forme più fantasiose e invereconde come lo sono le destinazioni, questa sì che è una notizia! E’ l“uomo che morde il cane”, il “sogno all’incontrario”, direbbe Paolo Rossi, il graffiante cabarettista non il campione calcistico della Coppa del mondo vinta dall’Italia che abbiamo rievocato nel nostro recente “Rebus dell’estate 1982”.

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Si rinuncia a ricevere omaggi personali all’altezza della ricca serata conviviale, un vero pranzo di nozze in un locale all’aperto accogliente, con il cantante e tutte le delizie fino alla torta conclusiva, brindisi e hip hip urrah alla marinara, per dirottare i tanti pensieri e riconoscimenti, provenienti dalla platea dei sessanta amici distribuiti in cinque tavoli da dodici, all’Ibby Italia, organizzazione che opera nel sociale troppo spesso depredato e qui invece aiutato da questa generosa iniziativa.

Da giornalisti culturali attenti anche al sociale ci andiamo a nozze, è il caso di dire, tanto più che intendiamo sottrarci alla consuetudine fin troppo diffusa secondo cui “il bene non fa notizia”, lo abbiamo detto altre volte citando l’ultimo articolo di Aldo Moro su “Il Giorno” poco prima del tragico sequestro. Qui la notizia c’è eccome, e va data tanto più in quanto riguarda il “bene”, nella speranza che altri seguano l’esempio.

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Lo facemmo anche per la serata culturale di un compagno di scuola teramano, Fabrizio Iacovoni, già primario cardiologo, che riunisce parenti e amici ogni anno a novembre a Forca di Valle accompagnando la serata conviviale con un incontro nel quale vengono illustrati e discussi dei temi: nel 2009 ci furono il Futurismo e Benedetto Croce, per quest’anno è stata già preannunciata la tragica odissea degli Armeni. Lì è la cultura a dominare, qui è un sociale nella cultura di respiro internazionale, una bella accoppiata le due serate che proponiamo come esemplari per tutti. Perciò questa attuale merita non solo la citazione, ma anche un servizio come fu per quella ora ricordata.

Facciamo conoscenza dell’Ibby

Si entra nel mondo dell’Ibby scorrendo il materiale disponibile a lato della cassetta dove gli invitati inseriscono le buste come si fa ai matrimoni americani, anche se senza i fregi in uso oltre oceano.

Più che “un” mondo è “il” mondo, l’International Board for Young People opera in settanta nazioni, è una rete volta alla promozione della lettura infantile nei paesi nei quali maggiore è il disagio e l’arretratezza oppure colpiti da sciagure e calamità.

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Esiste da oltre cinquant’anni, è nata a Zurigo nel 1953, pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, come reazione della cultura ai suoi orrori. Ricordiamo con piacere l’ideatrice, la giornalista Jella Lepman che fa dimenticare l’infelice assonanza italica del nome rendendo onore alla categoria: ha saputo guardare negli occhi spauriti dei ragazzi tedeschi dove si rispecchiavano ancora gli orrori della guerra e capire che occorreva dare loro altre immagini positive per farli aprire alla vita che riprendeva; e come poterlo fare se non con quanto rappresentato dai libri?

Ricordiamo una suggestiva lettura di Alessandro Baricco che evocava come i più bei tramonti e le albe meravigliose, i panorami e i paesaggi, le scene di vita fossero contenuti nelle descrizioni dei libri come in magiche scatolette che si aprivano per magia rivelando le bellezze contenute. Tale dovette essere l’effetto sugli occhi dei bambini tedeschi che avevano visto solo morte e rovine.

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L’origine come reazione agli orrori della guerra fa capire come attraverso la diffusione di libri per ragazzi in paesi dove hanno difficoltà a penetrare si persegue anche una maggiore comprensione internazionale, senza scomodare il valore supremo della pace che pure è un traguardo. Con diffusione non si intende distribuzione di materiale librario qualsiasi, ma di libri di qualità; e non ci si limita a distribuire quelli esistenti resi disponibili ma si promuove la pubblicazione di nuovi e all’altezza; e si promuovono ricerca e lavori scientifici nella letteratura per l’infanzia e i ragazzi.

Oltre al “pesce” si fornisce anche la “canna per pescare”: trattandosi per lo più di paesi in via di sviluppo si pone l’annoso problema dell’assistenza e della formazione, che viene fornita per mobilitare le energie locali e far sì che non abbiano sempre bisogno di tali supporti esterni.

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Come opera l’organizzazione? Svolge un’attività concreta di promozione anche di letture e non solo di libri; organizza convegni internazionali per promuovere ricerca, formazione, e diffusione di libri di qualità, rende pubblica una “Honour List” per evidenziare le eccellenze fino all’assegnazione dell’“H.C. Andersen Award”, ritenuto il Nobel dei libri per ragazzi, l’Oscar dell’immaginazione.

E’ così vasta da riprodurre le più diverse situazioni nazionali: dai paesi dove alfabetizzazione e libri sono a buoni livelli, ai paesi dove il lavoro organizzativo è allo stato pionieristico. Non solo, ma non occorre che vi sia una sezione nazionale per attivarsi secondo la sua missione e i suoi obiettivi, è ammessa anche l’adesione individuale all’organizzazione; anche perché esistono altri livelli oltre quello nazionale, ci sono le aree regionali e l’intera rete internazionale a cui fare riferimento.

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La sezione italiana dell’Ibby.

Siamo andati molto lontano, torniamo in Italia: come in tutte le sezioni nazionali ne fanno parte le più diverse categorie, dagli autori agli editori, dagli illustratori ai traduttori, dagli insegnanti delle scuole primarie e secondarie a quelli dell’università, dagli operatori sociali ai giornalisti, dagli studenti ai genitori; in quanto rientranti in tali categorie ne fanno parte le associazioni di editori e librai, biblioteche e Fiera del libro. Ma chiunque, in pratica, può rivestire una delle qualifiche coinvolte, se non come attività professionale o qualità personale almeno come interesse al tema al quale è impossibile restare indifferenti: si tratta del libro e della lettura, formazione e cultura riferiti ai fanciulli.

Non serve scomodare la Convenzione Internazionale sui Diritti del Fanciullo ratificata dall’Onu venti anni fa, nel 1990; anche se va sottolineato che l’Ibby ha un ruolo, riconosciuto dall’Unesco e dall’Unicef, che si può definire di “avvocato di libri per bambini”, nel senso della produzione e diffusione per una loro formazione qualificata e l’accesso alla cultura.

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Conosciamo bene quali sono i problemi che si incontrano nel nostro paese riguardo alla diffusione della lettura: ne abbiamo parlato sulla rivista a proposito del rilancio del Centro per il Libro e la Lettura affidato al grande manager dell’editoria Gian Arturo Ferrari, illustrandone il programma e le principali iniziative; come abbiamo parlato degli ulteriori problemi che crea la diffusione presso le categorie diversamente abili con problemi di accesso alla lettura a seguito del convegno organizzato dal direttore generale Maurizio Fallace della direzione dl MiBAC competente in materia, con particolare riguardo al diritto d’autore.

Il tema dei disabili sta particolarmente a cuore all’Ibby, per l’Italia è stato tradotto il catalogo “Outstanding Books for Young People with Disabilities 2007”, con le più varie forme di accesso in modo da consentirne la fruizione a tutti.

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Un’operatrice dell’Ibby nella sua meritoria attività educativa

Rinviamo a tali servizi degli ultimi mesi, qui ci concentriamo sull’attività e sui programmi dell’Ibby per il nostro paese. Ebbene, oltre al prevalente significato umanitario e solidaristico c’è quello più direttamente culturale collegato con la promozione dei nostri autori all’estero, che serve a segnare anche l’identità nazionale italiana. A questo mira la proposta dell’Ibby Italia di un albo che riesca a descriverla al meglio, avanzata alla mostra bibliografica di “picture books” a Parigi, e anche la segnalazione al Festival di Berlino e al Festival in Corea di alcuni tra i maggiori autori italiani per la fascia di età tra l’infanzia e l’adolescenza, anche ai fini della loro traduzione.

Alla qualità mira l’attività dell’Ibby, con una diffusione di livello qualitativo sicuro, non mediocre, ed è un compito fondamentale per far emergere opere che uniscano qualità intrinseche letterarie ed estetiche all’adattamento alla psicologia infantile, all’immaginazione. Questa selezione serve anche all’interno, e deve essere seguita dalla promozione, difficile per la scarsa attenzione della stampa italiana ai libri per bambini, a parte l’interesse nelle feste natalizie come libri strenna o in particolari eventi, ma difficilmente a seguito di un’impostazione sistematica lungimirante e moderna.

Deborah Soria, in una intervista sull’attività dell’Ibby

Nella modernità bisogna tener conto anche dello spazio sconfinato del web che Emy Beseghi, Presidente dell’Ibby Italia., ha così definito in una recente intervista sul sito www.ibby.org: “Internet, per usare una metafora fiabesca, può presentarsi come una sorta di foresta multimediale dove perdersi… nel bosco dei mille link”. Di questo rapporto, che “ha alzato la posta in gioco con risposte originali e controcorrente” tratta il libro di Marigliano, “Immaginare l’infanzia”.

Il presidente Beseghi ha accennato anche al futuro: “Puntiamo su un progetto di ampio respiro. E cioè di farci portavoce e promotori, nel dialogo con le istituzioni governative, di una lista di libri eccellenti. Insomma di un strumento prezioso di orientamento e di conoscenza nel mare magnum della produzione editoriale per ragazzi come già fatto in Europa, in particolare in Francia e in Inghilterra. Si tratta di un programma per salvare ‘la qualità’ del libro per bambini sempre più sommerso dalla commercializzazione.” L’espressione “mare magnum”, aggiungiamo per inciso, ci richiama il sito di una straordinaria miniera romana di libri anche rari raggiungibile on-line.

Ibby Camp a Lampedusa, Deborah Soria la seconda da sin.

Dai paradossi italiani all’appello finale

Potevano mancare i paradossi tipici della realtà italiana? Certamente no, e non li omettiamo.

Il primo è che il maggiore problema non è una presunta scarsa notorietà dei nostri autori all’estero: “I migliori sono stati tradotti (dalla Pitzorno alla Silvani alla De Mari eccetera). E molti passi si stanno facendo. L’assurdo – denuncia chiaramente Emy Beseghi – è proprio il contrario. Innocenti, conosciuto in tutto il mondo, è arrivato in Italia con un grave, incomprensibile, imbarazzante ritardo. Lo stesso vale per Beatrice Alemagna, che si è affermata prima in Francia poi in Italia”. Chi conosceva da noi il cognome di Beatrice prima dei successi francesi se non per il famoso panettone? E chi quello di Innocenti se non per l’intervistatrice di “Anno Zero” a fianco di Santoro, prima autocandidatasi con coraggio ma nell’indifferenza dei media alla segreteria giovanile del PD?

Eppure Roberto Innocenti è addirittura il vincitore dell’“H.C. Andersen Award”, che abbiano citato come Nobel della letteratura per l’infanzia, Oscar dell’immaginazione infantile, il culmine.

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L’Ibby a Lampedusa, le operatrici si preparano

Torniamo ora alla festa conviviale dei 40 anni di nozze, che ci ha aperto il mondo dell’Ibby, dipanatasi tra le portate nei grandi piatti assortiti delle “Grugnole” e le musiche del bravo cantante al quale si è aggiunta la voce sorprendente di un’invitata speciale che l’anfitrione ci ha fatto trovare vicina di posto alla cena: è Giulietta Cavallo, conosciuta lo scorso Natale alla mostra dei presepi di San Carlo al Corso a Roma. Nel servizio sulla mostra parlammo della sua arte di Maestro del presepe siciliano, qui dobbiamo parlare della sua arte canora, non solo nel siciliano “Sciuri, sciuri…”, ma nel personalissimo “Uomo in frack”, fino ai classici napoletani interpretati con sobria maestria e raffinate quanto originali modulazioni vocali da Dicitencello vuje” a “O surdato nnammurato”.

Non è mancato il ballo della mattonella aperto dagli sposi raggianti Dilys e Ciro – Nino per determinati parenti e amici – e divenuto subito corale, e le melodie ci hanno fatto dimenticare per un po’ la traccia su cui lo spirito giornalistico ci aveva portato. Ma non potevamo andare via senza cercare di parlare con l’indaffarata Deborah Soria, la figlia degli “sposi”, riferimento per l’Ibby Italia del cui Consiglio direttivo fa parte.

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L’Ibby a Lampedusa, in piena attività con i piccoli migranti

Sono bastate poche parole, ci ha raccontato quando nel settembre 2008 accompagnò Roberto Innocenti a Copenaghen, per l’Award, la felicità nel vederlo sommerso dai festeggiamenti all’estero di persone commosse, vere fan che lo conoscevano bene; poi la delusione del rientro in Italia nel deserto dell’indifferenza e dell’anonimato. Eppure l’alto riconoscimento a Innocenti veniva dopo 40 anni quello a Gianni Rodari e senza l’ombra di favoritismi, non c’erano italiani nella giuria. Nel ricevere il premio ricordò questo isolamento dal suo paese in aggiunta a quello dell’impegno artistico: “Il mio è un mestiere solitario, quasi monastico – disse – Per molte ore al giorno, quando lavoro, mi faccio domande, proposte, ipotesi e mi rispondo da solo, ottenendo fra i molti dubbi, piccole certezze”. Ma dopo il tormento l’estasi di aprire il mondo agli occhi dei lettori.

La ciliegina sulla torta – dopo quella degli “sposi” con brindisi e confetti – è stata la notizia che Deborah ci ha dato: mentre all’estero le varie Ibby nazionali godono di contributi pubblici, in Italia neppure un euro, è un’organizzazione non governativa che vive di volontariato e contributi dei soli soci privati. Per questo invitiamo a unire idealmente ma concretamente la propria “busta” a quella degli invitati alla festa con un contributo che può essere trasmesso all’Iban bancario indicato all’inizio, oppure con l’iscrizione che richiede una modesta quota annuale. Partecipando così a un’opera meritevole si darebbe uno schiaffo morale alla latitanza delle risposte pubbliche alle iniziative per la cultura. Latitanza scandalosa dinanzi all’invereconda dispersione di risorse da parte della “casta” che privilegia i giornali e giornaletti, politici e più o meno fantasmi, gettando al vento contributi miliardari per centinaia di milioni di euro che potrebbero avere ben diversa destinazione.

L’Ibby a Lampedusa, un lato della struttura con le parole di Nelson Mandela

Ne abbiamo pubblicato per la terza volta la lista in occasione della recente manifestazione di Piazza Navona contro i tagli alla cultura e agli organismi culturali decretati dalla manovra economica a senso unico. Invece di ripubblicarla una quarta volta invitiamo i lettori a consultarla tenendo a mente i nomi dei giornali. Adriano Celentano ha scritto del grande potere nelle mani del pubblico dinanzi ai soprusi cui deve ribellarsi, questo è uno dei più odiosi: “fare lo sciopero del video”, diceva, qui è il caso dello “sciopero della lettura”: non leggere quei giornali che in modo inverecondo sottraggono risorse alla cultura incamerandole senza merito. Ce ne sono altri più degni, così capiranno: purtroppo resteranno in vita con i contributi ma almeno avranno una bella lezione.

Eppoi, il risparmio della rinuncia al loro acquisto si potrà impiegare nel sostegno dell’Ibby, per la promozione della lettura dei “young people” soprattutto nei paesi disagiati; e nella diffusione .dei nostri più validi narratori. Si potranno rinverdire i fasti del Gianni Rodari che tutti abbiamo amato. Intanto c’è Roberto Innocenti, il campione del mondo degli Awards. Può essere solo l’inizio.

Photo

Le immagini delle festa sono state perdute nel trasferimento dal sito originario, chiuso da anni, al sito attuale. Nel presenbte articolo sono state inserite immagini recentissime della Ibby, cui è dedicata la maggior parte del testo, tratte dal sito dell’Associazione, che si ringrazia; in chiusura una foto di Ciro Soria, sorpreso in un momento di relax

Ciro, sostenitore di Ibby dove “milita” la figlia Deborah .

Tag: Ibby

1 Commento

  1. Ciro Soria

Postato luglio 21, 2010 alle 10:04 AM

SEI VERAMENTE BRAVO ANZI BRAVISSIMO

Ischia, festa di Sant’Anna, il Palio dei Carri di Tespi 2009

di Romano Maria Levante

cultura.inabruzzo.ir, 18 agosto 2009 Autore: Romano Maria Levante Tradizioni

Oggi, nell’indomani della pubblicazione del ricordo di Ciro Soria, anico carissimo e “uomo di mare” che ci ha lasciato un mese fa, ripubblichiamo la cronaca del viaggio indimenticabile del 2009 sulla sua imbarcazione “Luna” , meta l’annuale festa di Sant’Anna con il Palio dei Carri di Tespi sul mare di Ischia. Un viaggio il cui ricordo è ancora vivo per le qualità di Ciro il capitano, squisito nella sua ospitalità,, la bellezza della traversata e la manifestazione suggestiva vissuta molto da vicino; dell'”equipaggio” di due amici faceva parte Aldo Visco che ha tenuto l’orazione funebre al funerale nella chiesa di Santa Maria Regina Pacis. Lo rievochiamo in omaggio al carissimo Ciro con emozione mista ad autentica commozione sublimata nel segno della festa da lui sempre prediletta.

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Ciro, il “capitano”, sale sulla sua “Luna” per il viaggio verso Ischia

Sotto il Castello Aragonese la 77ema Festa a mare agli scogli di Sant’Anna

Tra le tante Giornate “dedicate” di questi ultimi mesi – dalla Musica popolare a quella senza aggettivi, dalle diversità culturali alla cultura ebraica, dalle tante tematiche artistiche a quelle socio-economiche – ci mancava una giornata vissuta anche dall’interno e non solo come attenti cronisti. Un assaggio è stata la giornata della pastorizia, nell’annuale Fiera sulla montagna teramana della Laga, con un tempo da tregenda tra acquazzoni rovinosi e squarci di sole. Abbiamo voluto viverne un’altra, questa volta sul mare, la festa di Sant’Anna nell’isola d’Ischia; e viverla dall’interno per noi ha significato raggiungerla in barca a vela, per coglierne interamente lo spirito marino.

Partenza da Nettuno

Non si tratta di una semplice festa per un santo patrono, ma della Festa a mare agli scogli di Sant’Anna, che culmina nel palio marino di barche allegoriche e si conclude con l’esplosione di fuochi d’artificio fino all’“incendio” del Castello Aragonese, lo splendido maniero in cima all’isoletta-promontorio che domina lo specchio d’acqua nel quale si svolge la manifestazione.

Ve la raccontiamo tutta, compresa la navigazione su un bialbero di dodici metri dal nome “Luna”, insieme a tre esperti navigatori, Ciro il “comandante” con la moglie inglese Dilys a dare il tocco internazionale, e due amici ben assortiti, Aldo e Beppe, il cui imbarazzante cognome di Grillo dà il tocco dell’imprevedibilità e della fantasia, benché sia un “vice-comandante” metodico e riflessivo.

Il promontorio del Monte Circeo

La navigazione da Nettuno a Ischia

Partenza da Nettuno a motore perché il mare è “forza quattro” e sarebbe più lungo bordeggiare di bolina con il vento contrario. Però viene issata anche una vela, rende la barca più stabile; la velocità è minima, quasi da jogging, sembra di andare sulle montagne russe. Si resiste al mal di mare, basta non scendere sottocoperta e mettere sotto i denti una galletta ai primi fastidi. D’altra parte, se si va in mare non dispiace sentirlo accanirsi sui fianchi dell’imbarcazione mentre la prua fende le onde tagliandole come una spada. E’ bello spostarsi nella parte anteriore, non si ha dinanzi la sagoma delle sartie con l’imponente albero maestro, pur nelle dimensioni contenute di un tredici metri; sembra di essere su una canoa, e allora non si sente più lo scuotimento dei cavalloni, prevale la lama che penetra nel burro dell’acqua marina.

Ponza

Il sole non si sente affatto, la brezza neutralizza il calore ma non la forza dei suoi raggi. Ovviamente abbiamo dimenticato la crema solare protezione 30 che avevamo acquistato con inutile preveggenza, Aldo sopperisce con la sua, però è a protezione 4, ma è meglio di niente. Fa comunque il suo dovere, a sera non dobbiamo cospargerci di limone per rinfrescare le scottature, anche perché al momento opportuno una provvidenziale maglietta ha aiutato la crema solare.

Il Monte Circeo si staglia tra mare e cielo, sembra un’isola, per noi è familiare, non pensiamo affatto ad Ulisse e alla Maga Circe. Però una spontanea associazione di idee da appassionati dannunziani ci fa ripensare alla crociera che il Poeta fece sul veliero “Fantasia” di Edoardo Scarfoglio, “dalle immense vele”, per sbarcare in Grecia e raggiungere il Pireo a cavallo. Non abbiamo “immense vele” né c’è l’immaginifico, e noi cinque non somigliamo neppure al cenacolo dannunziano di Francavilla a mare, non ci sono artisti. Però come il “porfiriogenito” innamorato del mare al punto di immaginarsi nato su una barca dalle vele color porpora, si interrogava poeticamente “perché non sono anch’io coi miei pastori?”, chi scrive ha portato sull’imbarcazione il cappellino bianco con la figurina verde della pecora nella visiera della Fiera della pastorizia. Un modo per sentire riunite la testa di Camoscio e la coda di Sirena che sono il sigillo d’Abruzzo, “la regione verde d’Europa” che ora richiama anche le acque marine oltre ai boschi secolari.

Palmarola

La prima tappa è l’isola di Ponza, ed ecco comparire Palmarola alla sua destra, poi anche Zannone a sinistra. Ponza sta al centro, dall’avvistamento all’attracco il tempo è lunghissimo, non passa mai, i contorni dell’isola sono sempre più definiti finché entriamo nella cala Feola. La natura vulcanica è evidente nelle coste scoscese di pomice e altro materiale lavico. Si squaderna dinanzi a noi un fondale di villette arrampicate sulla collina a picco sul mare, ma senza eccessivi addensamenti, sono raggruppate in piccole strisce edificate, in orizzontale e in verticale, poi tanto verde. Sembrano le note di un pentagramma quando cala la notte e si accendono le luci.

La cena sottocoperta nel piccolo cabinato è un’esperienza da vivere. Nella tavola imbandita spicca un casuale tricolore, il verde dei peperoni arrosto, il bianco della bufala campana, il rosso dei pomidoro, sembra che il vano ristretto si allarghi e diventi un salone. Sarà l’appetito o le traveggole dopo una giornata di mare mosso?

Zannone

Presto l’ambiente si trasforma in un dormitorio ben organizzato, due camere doppie a prua e a poppa, una al centro più due letti a castello. Ci sono otto posti, noi siamo cinque, la cortesia del comandante Ciro mi assegna l’intera cabina di prua, la “suite imperiale” dice. Non sa di farmi un regalo maggiore di quello che pensa, perché c’è un lucernario dal quale si vede il cielo. Anche questa volta chi scrive pensa in grande, l’associazione di idee è addirittura con il viaggio di Darwin intorno al mondo, quando dalla sua cuccetta, in realtà un’amaca sospesa sopra al tavolo del vano soggiorno dell’imbarcazione, ammirava il cielo notturno dal lucernario. Certo l’alloggio qui è migliore, una piccola cabina, ma non si può sperare di vedere la Croce del Sud. Neppure il cielo trapunto di .stelle di Pietracamela – il pensiero torna ancora alla montagna – qui è lattiginoso con una timida falce di luna. Per immaginare le stelle basta socchiudere gli occhi e guardare le luci delle abitazioni inerpicate sulla costa e quelle in cima agli alberi delle barche nella rada. Dipende dal “cappello delle isole”, la cappa di umidità genera una foschia attraverso la quale le stelle si intravedono sbiadite.

Sosta notturna della “Luna”

Risveglio all’alba, partenza di buon’ora dopo la ricca colazione a base di un’ottima marmellata portata da Beppe, è di sua produzione. La foschia si è stesa sul mare, l’orizzonte non “s’imporpora”, il mare traslucido come l’argento assorbe i raggi del sole sempre più luminosi. Costeggiamo l’isoletta Gavia, ieri era un puntino ora sembra grandissima, per l’effetto della prospettiva sul mare si moltiplica. Nessun’isola all’orizzonte, non ci sono più i riferimenti visivi di ieri, ma il Gps oltre all’esperienza del comandante Ciro non crea problemi. Lo si vede anche quando il motore si arresta all’improvviso. Nella bonaccia in cui ci troviamo oggi, al contrario di ieri, si riaffacciano i fantasmi dei romanzi di navigazione con il veliero bloccato per giorni interi. E la nostra meta? Nessun timore, basta spurgare l’aria dal condotto del gasolio, si elimina la bolla e la navigazione riprende; pensiamo che purtroppo non è così facile per gli esseri umani colpiti dall’embolia.

Ventotene

Scacciamo il pensiero fastidioso, senza un alito di vento il mare è una tavola che però si muove trasversalmente, un’onda lunga parallela alla rotta, ma il leggero moto ondulatorio è ben più sopportabile del violento moto sussultorio di ieri. Dovremmo essere presso Ventotene, anche se non si vede per la foschia, il visore del quadro comandi non può sbagliare; infatti appare una sagoma sfumata appena percettibile dalla forma caratteristica dell’isola. E’ tutto semplice, Ciro che si è alternato al timone con Beppe e Aldo, lo lascia alla signora Dilys, anche lei esperta, l’unico incompetente è chi scrive, del resto il reporter non è protagonista diretto degli eventi, li registra.

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La “Luna” si avicina a Procida

E così navighiamo verso Procida, Ischia è a un tiro di schioppo. La costa è molto più estesa di quanto pensavamo, e lo vedremo ancora di più quando la circumnavigheremo. Appare come un fondale teatrale il maestoso Castello Aragonese, su un’isoletta-promontorio unita da un ponte. Ma vi torneremo. Ci sorprende la vicina Vivara, una piccola isola collegata a Procida con un vecchio ponte ora non agibile, parco naturale incontaminato tutto verde e rocce a picco sul mare.

Ecco Procida con il promontorio e il carcere, la cupola e un addensarsi di abitazioni che non disturbano, sono le antiche case dei pescatori, l’insediamento umano è ormai incorporato nella natura che trionfa tutt’intorno. Per oggi le emozioni sono bastate, si getta l’ancora, il capitano e i due secondi, per così dire, sono impegnati nell’operazione.

Procida

Scendiamo a terra, ecco finalmente la crema protezione 30, ma ormai non serve più. Tuttavia “melius abundare quam deficere”, servirà quando riprenderemo la navigazione. Le melanzane ed altri cibi compaiono sulla tavola, Ciro è un impareggiabile anfitrione, aiutato da Beppe e Aldo. I due veri passeggeri sono chi scrive e la signora Dilys. Con Ciro, tutto preso dal ruolo di comandante, si parla della navigazione e dei luoghi che ben conosce, con Aldo e Beppe si spazia anche su altri temi, dall’attualità alla cultura, il tempo non passa mai e quando la barca oscilla non si può leggere, si rischierebbe il mal di mare, è possibile soltanto parlare, e neppure troppo.

Ischia Porto

La visita al Castello Aragonese

Nuovo risveglio di buonora, si va ad Ischia, la nostra meta. Giriamo di nuovo intorno all’isoletta-promontorio del Castello Aragonese, questa volta lo circumnavighiamo completamente, siamo impressionati dalla maestosità, è un tutt’uno con la rupe rocciosa in una fantasmagorica simbiosi nella natura. Mura imponenti circondano il promontorio, non sono megalitiche date le minori dimensioni delle pietre rispetto alle opere millenarie, ma l’effetto è il medesimo; spiccano nel verde mediterraneo su più livelli. E anche le costruzioni, che spesso si confondono con loro, si inerpicano su più ripiani fino a identificarsi anche con la rupe su cui sono state edificate, la incorporano o ne sono incorporate nelle forme, nei volumi e nei colori perfettamente integrati. E poi il Castello è uno spettacolo, i segni del tempo si intravedono nelle aperture buie, ma da lontano sembra intatto.

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La “Luna” alla fonda, si scende a terra

Siamo alla fonda nella rada dove ci sarà la manifestazione, occorre calare l’ancora alla giusta distanza dalle altre imbarcazioni, viene “ammainato” un canotto a motore, altra operazione attenta e meticolosa che impegna l’intero “equipaggio”, cioè i tre prima nominati. I due “passeggeri” assistono, e chi scrive lo fa con gratitudine perché il canotto è tutto per sbarcarlo a terra, precisamente ai piedi del Castello dov’è la tribuna della stampa per assistere al Palio marino.

La giornata è ancora lunga, niente di meglio che visitare il Castello dopo averlo tanto ammirato girandoci intorno lungo la costa. Dall’interno l’imponenza è confermata nella cinta di mura, che si percorrono lungo vialetti perfettamente tenuti tra il verde mediterraneo con belvedere mozzafiato da ogni lato della piccola isola: c’è il lato a picco su verde e mare incontaminato senza neppure una barca, e i lati che pullulano di barche alla fonda o in transito. Riconosciamo la barca di Ciro con gli occupanti, dall’alto sembra un modellino per la prospettiva. La fotografiamo, sarà un bel ricordo.

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Il Castello Aragonese

Quanto entusiasma l’esterno del Castello, tanto delude l’interno, per il semplice motivo che non c’è. Nel lungo elenco di siti indicati all’ingresso manca la residenza degli Aragonesi, il maschio del Castello, che ne è il cuore, che è tutto. Sapremo soltanto dopo che non è agibile, gli arredi e le opere d’arte furono portati al museo di Napoli, i due fratelli che lo acquistarono in un’asta dei primi del Novecento indetta dal Demanio che l’aveva lasciato in abbandono, hanno fatto già molto a restaurarne una parte. Che sono le “dependance”, pregevoli soltanto per la vista altrettanto mozzafiato che dalle mura; mentre la chiesa semidiroccata con la cupola ancora riconoscibile è senza dubbio suggestiva, come lo sono gli angoli merlati per la difesa.

La delusione viene superata dalla “scoperta”, sulla via dell’uscita, della grande cripta gentilizia costituita da un ambiente centrale con volte a crociera circondato da sette cappelle con volte a botte, e decorato da una serie di affreschi trecenteschi di scuola giottesca, deteriorati ma di notevole pregio, con immagini di santi; uno dei quali da prendere a simbolo dell’ignoranza umana, anzi disumana, reca incisi i nomi dei giovani che hanno voluto imprimervi la propria abissale incultura e insensibilità. La cripta fu individuata per caso dietro un muro di mattoni e aperta dieci anni fa. Suggestione opposta rispetto a quella dei panorami, ma non minore; la semioscurità, le volte a crociera e ciò che si vede fanno sentire tutto il fascino dell’antico, arte e storia ancora unite.

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L’interno del Castello, la Cripta

E quando usciamo “a riveder le stelle” ci troviamo di nuovo nel buio, in un tunnel scavato nella roccia; un’altra suggestione trovarsi all’improvviso nell’oscurità in un luogo rutilante di luce. Un buio che segue quello della ragione evocato dall’esposizione degli strumenti di tortura, una vera mostra tematica dell’orrore così completa e documentata nei particolari da far rabbrividire. Però, a parte i luoghi appena citati nelle opposte configurazioni di luce e di oscurità, la visita al Castello delude non per il suo contenuto effettivo, ma per le aspettative. Basterebbe precisarlo all’ingresso che la parte più consistente, la residenza aragonese, non è accessibile oppure, e sarebbe la cosa ovviamente migliore, fare uno sforzo in più: restaurare anche quella parte, ovviamente con l’intervento dello Stato che potrebbe poi rivalersi sulla gestione.

La miopia del Demanio privatizzò un secolo fa questo bene culturale di valore inestimabile; ma il concorso e l’associazione dei privati è il fulcro della nuova strategia di valorizzazione dei beni culturali presentata con grande rilievo dal presidente del Consiglio e dal nuovo Direttore Generale Mario Resca, che proprio nel settore privato ha dato prova di grandi capacità manageriali. E’ una sfida da lanciare, convinti come siamo della validità di questa strategia e delle capacità di realizzarla in chi ne ha avuto l’onore e l’onere con una così solenne investitura. L’identificazione con l’isoletta- promontorio ne fa l’equivalente di un “Palazzo Ducale” di Urbino, purtroppo questo di Ischia ha perduto la ricchezza e la magnificenza, riacquistasse almeno l’agibilità e la visibilità, passando da rudere pur interessante e significativo a testimonianza viva ed eloquente.

Gli affreschi del Castello

Il parallelo è meno ardito di quanto possa sembrare, anche il Castello Aragonese per lungo tempo è stato un palazzo-città. Nella rocca si rifugiavano in migliaia, soprattutto dopo l’eruzione del Monte Trippodi del 1331; ancora di più dopo che Alfonso d’Aragona ricostruì il vecchio maschio angioino e realizzò le poderose mura e fortificazioni entro le quali il popolo di Ischia trovò rifugio e protezione dalle scorrerie dei pirati. Alla fine del XVI secolo la rocca arrivò ad ospitare circa 1900 famiglie, l’intera popolazione dell’isola, e solo dopo il 1750, cessato il pericolo, la gente cominciò a scendere nella piana e a formare gli abitati sulle coste in prossimità delle bellissime insenature con accesso al mare. Fu una scelta oculata, nel 1809 gli inglesi assediarono la rocca tenuta dai francesi e la distrussero a cannonate. Poi fu sede di luoghi di pena dei Borboni. Nel 1912 la vendita.

Si è fatta sera, ci affrettiamo a occupare il nostro posto in tribuna, dopo una rapida pizza in uno dei tanti locali caratteristici di questo lato dell’Isola, il comune Ischia Ponte. Ridente, come gli altri numerosi approdi – elegante quello di Sant’Angelo, caratteristico quello di Forio – questo, però, si colloca nella dimensione creata dal Castello Aragonese, dove la storia è in simbiosi con la natura.

Il Palio dei Carri di Tespi, “Storia della Sambuca” di Casamicciola

Il Palio sul mare della festa di Sant’Anna

E’ un’antica festa propiziatoria per le partorienti, che dura da 77 anni, prima le barche raggiungevano la chiesetta di Cartaromana addobbate con ghirlande di fiori e festoni di frutta, ora si presentano all’insegna della fantasia e si misurano in una gara d’arte e di bellezza per conquistare il palio, uno stendardo simbolico dipinto da un pittore locale. “E’una delle manifestazioni più importanti sotto il profilo culturale e storico della nostra isola, le cui origini sono antichissime – ha scritto il sindaco di Ischia Giuseppe Ferrandino.- uno spettacolo di quelli che forse oggi diventano sempre più rari, che non teme di far uscire dal ‘cilindro magico’ di tutto, colori, suoni, forme, per incantare il pubblico”.

La cornice d’eccezione è data dal Castello, un fondale che dà un’incredibile suggestione, è indescrivibile. Viene tenuto sgombro lo specchio d’acqua antistante, delimitato dal ponte, un insolito palcoscenico dove si esibiranno le straordinarie protagoniste di una vera e propria rappresentazione teatrale: le barche allegoriche realizzate in mesi di prove e di lavoro sulla spinta di un’antica tradizione e delle rivalità di campanile che porta con sé, in realtà piattaforme galleggianti sopra le quali è stata costruita una scenografia completa. Più tardi ci sarà la gara, si animeranno.

“La Nuova Assunta” di Serrara Fontana,

Una platea di natanti e motoscafi, yacht e panfili , con qualche barchetta, è assiepata ai bordi del “palcoscenico”. Avremmo voluto restare sulla barca come i compagni di navigazione, per immedesimarci meglio, ma la visuale sarebbe stata incerta, niente a che fare rispetto alla tribuna, per questo siamo scesi a terra. E già abbiamo avuto un vantaggio, abbiamo visitato il Castello, altri ne verranno con gli incontri che faremo, e ne daremo conto.

Ora il Castello è illuminato da una luce discreta, che rimbalza sulla severa facciata con le finestre che disegnano dei grandi buchi neri, avvolge le mura sempre più simili a una cintura protettiva, mentre il verde mediterraneo rimane come macchia scura appena lambita dal chiarore. Spicca come un Castello d’If inaccessibile, una Torre di Babele che si alza verso il cielo alla pari di un vulcano.

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“Il matrimonio diVittoria Colonna e Ferante di Avalos“, Ischia Ponte

A bordo vasca, per così dire, un palco da dove un cantante isolano, Nick Pantalone, aiuta a ingannare l’attesa con le sue melodie, affiancato da una volenterosa cabarettista locale. E poi la presentatrice che farà un’appassionata radiocronaca della serata. Tutto ben organizzato.

Il nostro posto di osservazione è davvero privilegiato, siamo nell’area della stampa dietro la Giuria. Però ci spostiamo in avanti e prendiamo posto alla destra dell’artista autore del Palio, il giovane pittore Massimo Venia, che ci mostra il dipinto sul suo telefonino, lo vediamo anche nello stendardo poco lontano. Rappresenta una cascata di fuochi d’artificio che si solleva dal mare, come in effetti avverrà, ha voluto raffigurare il “clou” della festa, i fuochi; noi vi troviamo qualcosa di più, la delicatezza del tratto delinea forme delicate, stellari, quasi simboli religiosi che rimandano alla cupola diroccata in alto nel Castello, una sintesi di valori, dunque, anche spirituali. Accoglie compiaciuto la nostra interpretazione e insieme attendiamo l’inizio della sfilata delle barche in gara.

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“Bar internazionale Maria” di Forio

In realtà è una sfilata di carri su enormi zattere, in passato hanno partecipato anche i maestri d’ascia del Carnevale di Viareggio, fuori concorso. Ma è riduttivo definirli così, sono altrettanti Carri di Tespi che si presentano uno dopo l’altro sul proscenio di un set di sogno per mostrare le loro coreografie in una rappresentazione teatrale muta, in un confronto a distanza serrato. La componente artistica non viene trascurata, i bozzetti sono stati esposti nell’isola, il migliore avrà il premio Funiciello, la scenografia prescelta avrà il premio Nerone, l’arguto soprannome di un personaggio locale entrato con Funiciello nella storia della festa di Sant’Anna, furono i primi a passare dalle barche con frasche e ghirlande a zattere con figurazioni, poi a fare le gare.

I carri sono cinque, manca solo Barano tra i comuni dell’Isola, in passato c’è stata anche Procida, fortissima; quest’anno problemi e dissidi vari ne hanno impedito la partecipazione. Assistiamo alla sfilata, lentissima e tuttavia avvincente; nel giro intorno ai bordi dello specchio d’acqua che fa il set in movimento sul mare si attende che si avvicini al massimo per coglierne tutti i particolari.

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la sfilata del Carro di Forio vincitore

L’inizio è in sordina, con la “Storia della Sambuca” di Casamicciola, il comune rimasto nell’immaginario collettivo per il catastrofico terremoto nel quale rimase sepolto ma per fortuna si salvò, anche Benedetto Croce. Il soggetto presentato non fa nulla per allontanare il brutto ricordo, anche se richiama la Dolce vita; infatti la Sambuca, evocata visivamente da una gigantesca bottiglia galleggiante con due grandi bicchieri ai lati e davanti scene di vita mondana, non è fatta per suscitare particolari entusiasmi, anche se ideata e prodotta da un personaggio del luogo, quindi è stato giusto ricordarla, pur se la resa scenica è modesta. Il pubblico rimane freddo, nonostante la calda serata.

Viene accolta meglio “La storia del pesce Filippo” di Lacco Ameno, una fiaba animata, di quelle fatte per spaventare i bambini affinché non siano avventati, una sorta di Cappuccetto rosso che viene preso da un pesce invece che da un lupo, fino all’arrivo provvidenziale del cacciatore, pardon, dell’angelo salvatore, con il lieto fine assicurato. Le piccole mongolfiere rosse che si innalzano, a sorpresa, dal carro, ne sollevano, ma non più di tanto, le sorti, che sembrano segnate, un buon piazzamento e nulla più.

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uno scorcio della tribuna e delle barche alla fonda

Con “La Nuova Assunta” di Serrara Fontana, comune arrampicato sulla scogliera che vede il mare dall’alto, sembra realizzarsi il miracolo della Svizzera di Alinghi nella Coppa America, l’unica nazione non bagnata dalle acque che ha vinto il trofeo marinaro per eccellenza, un ossimoro mondiale. Qui l’ossimoro si preannuncia isolano; questo carro, che fa pensare all’audacia di un varo dalla montagna, sembra non avere rivali. Il veliero è un capolavoro, perfetta la riproduzione delle sartie, suggestiva la scenografia con la vedetta in coffa, la ciurma che fa “ammuina” in un’esplosione di vitalità napoletana coinvolgente, tra un teatro di marionette e un Masaniello marittimo. Anche l’autore del Palio al nostro fianco lo vede virtualmente issato su quel pennone. Il successo è travolgente.

Ma non si deve precipitare il giudizio, le vie per toccare il cuore sono infinite, e le due barche successive propongono scenografie che puntano sull’emozione piuttosto che sulla tecnica.

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Le luci della manifestazione

Scivola verso di noi il carro di Ischia Ponte, la località in cui ci troviamo, gioca in casa ma va dato onore al merito. E’ come se la chiesa diroccata del Castello sopra di noi si specchiasse sul mare miracolosamente ricostruita con la sua cupola. Questo per celebrare, con la cornice di pubblico che merita, “Il matrimonio di Vittoria Colonna e Ferrante di Avalos”, avvenuto 500 anni prima, una delle storie edificanti e torbide del castello. Gli sposi sono davanti all’altare, dietro l’officiante nella solennità degli abiti talari e della mitria, intorno i dignitari in costume e il popolo. La scena incute soggezione per la sua compostezza, fino all’irrompere dei giullari e dei saltimbanchi che intrecciano le loro acrobazie nello scatenarsi della festa rinascimentale.

Non c’è tempo di riprendersi dalla sorpresa che arriva l’ultimo carro, mentre quello precedente termina lentamente il suo lungo giro seguito ancora dagli sguardi degli spettatori. E’ il “Bar internazionale Maria” di Forio, “un angolo di Paradiso”, due modeste casette da pensione estiva, una di colore rosa; avventori, e scene di vita dignitosa, quanto ha assicurato per decenni il Bar Maria nel comune di Forio. E’ la proprietaria l’invisibile artefice e protagonista della magnifica accoglienza e del delizioso soggiorno ad artisti, pittori, e a tanti altri personaggi. Generale è il rimpianto, la sua scomparsa si intuisce dai grandi ventagli che scendono avanti alle casette; c’è malinconia e non oblio, la memoria è nella grande fotografia di Maria che una mongolfiera porta in alto nel cielo.

Un’esistenza semplice e virtuosa, evocativa di un tempo trascorso si contrappone alla ritualità sacrale e nobiliare di personaggi d’antico lignaggio, entrambe competono con la vitalità di una Piedigrotta sul mare a bordo del veliero così acclamato. Prevarrà il sentimento, la storia o la vita?

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L'”incendio” del Castello Aragonese

Lina Sastri, seduta dinanzi a noi, non ha dubbi, è per il sentimento. Raffinata e sensibile come sempre, ha toccato gli animi con il breve intermezzo di “’O surdato ‘nnamurato”; mentre il cantante lo intonava dal palco un intervistatore in tribuna le ha porto il microfono e dopo molte insistenze l’ha convinta, mentre la canzone scorreva; è entrata in contrappunto con il cantante, poche note accorate che sono andate dritte al cuore, come quelle della Magnani nella “Sciantosa”, un sigillo di arte e di napoletanità. Vorrebbe dire la sua preferenza nel giro di opinioni finale sulla festa, non può, non deve. Si è schierata e attende il verdetto senza speranze, il veliero sembra imbattibile.

I risultati della gara, il Palio è andato al sentimento

Ma ecco i risultati cominciando dall’ultima, la Sanbuca, e non poteva essere altrimenti. E’ una sorpresa che la storia di Tommaso abbia sopravanzato il matrimonio al Castello, ma ora l’interesse è sui primi due. Viene proclamato il secondo, è il veliero, la Sastri capisce a volo chi è il vincitore ed esulta, la sua è un’esplosione di entusiasmo mentre la giuria viene coperta di fischi. Ha vinto il sentimento che si legge negli occhi febbrili della delicata attrice, l’allegria nella vita può attendere. Certamente la fotografia di Maria portata in cielo dalla mongolfiera ha avuto il suo peso, i voti di differenza sono stati solo due, 42 a 40, un battito di ciglia forse inumidite dall’evocazione celeste.

L’avvampare dell'”incendio” del Castello dal cielo al mare

Il contrasto tra pubblico e giuria è stato rumoroso – anche se al veliero viene assegnato uno dei premi- satellite, il “Premio Nerone” – ma non quanto i fuochi artificiali a chiusura di ognuna delle cinque esibizioni per scatenarsi al termine nell’apoteosi finale. Dopo i fuochi verso il cielo dai carri, questi vanno insolitamente in orizzontale, verso la tribuna, come ventagli monocromatici a forma di corolle e di piante che si aprono, di stelle e di delicati arabeschi, quasi che il Palio dipinto si fosse acceso di luci; alternati con esplosioni a grappolo nel tripudio di colori di una Piedigrotta spumeggiante sul mare. I cui riflessi moltiplicavano l’effetto mentre il Castello si incendiava di rosso, quasi a rivaleggiare con Nerone evocato dal premio di consolazione, avvampando dal cielo al mare. Quando tutto è finito lo spettacolo del Castello che si staglia superbo su un proscenio di barche anch’esse illuminate su un mare tornato d’argento, non ha eguali, tanto più in una serata in cui arte e cultura hanno attinto alla tradizione.

Questo vuol dire valorizzare ambiente naturale e storia locale mantenendo viva una memoria popolare che è insieme identità di un nobile passato e garanzia per il futuro. C’è anche Giampiero Mughini, in un settore alla nostra destra, non resistiamo a chiedergli un commento, l’indomani presenterà a Lacco Ameno il suo “Gli anni della peggio gioventù”. Non si smentisce, ha l’inconfondibile verve che conosciamo: “Uno spettacolo vivace e raffinato in un posto straordinario, si è spremuto dalla natura e dalla storia, dalla cultura e dalla serata, tutto quello che si è potuto spremere”.

Anche a Lina Sastri chiediamo un commento, la risposta è in carattere con la sua sensibilità: “Una manifestazione popolare, tanta gente che partecipa significa che vuol essere coinvolta con la propria terra, con le proprie radici”.

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I fuochi d’artisficio di chiusura

Queste parole fanno pensare, ed allora avanziamo una modesta proposta, nata dalla profonda impressione provata per quanto abbiamo visto. Perché non farne uno spettacolo itinerante- tale era il Carro di Tespi – per non bruciare in una sola serata, per quanto indimenticabile, tanto impegno ed energia, tanta inventiva e tanta arte? Le isole partenopee, e perché no, la costa campana, potrebbero moltiplicare le serate, farne momenti significativi di quella “circolazione delle attività culturali” che è uno degli strumenti della politica di valorizzazione del patrimonio artistico del paese. E abbiamo già detto come il bene culturale del Castello Aragonese potrebbe essere a sua volta valorizzato, con l’effetto moltiplicativo della sinergia con la natura, la storia e la tradizione.

Lina Sastri dovrebbe esserne l’ineguagliabile madrina, e siamo certi ne sarebbe entusiasta, come lo è stata all’annuncio del risultato dopo aver seguito l’intero spettacolo con totale immedesimazione.

I Carri di Tespi del mare potrebbero essere quelli di Ischia, nei suoi sei comuni, che hanno l’antica tradizione di Sant’Anna. Ma pensiamo a cosa potrebbe nascere se si aggiungessero quelli delle altre isole, Procida già ha partecipato in passato, ma poi ci sono Capri e Ponza, Ventotene e le altre isole, per non parlare delle perle della costa napoletana. Non solo “piazze” estive per gli spettacoli turistici, ma possibili protagoniste di grandi rappresentazioni sul mare con i loro scenari naturali tanto suggestivi. In un campionato estivo, come le coppe calcistiche; con eliminatorie e finali.

Crediamo che a Lina Sastri anche questa prospettiva piacerebbe senz’altro.

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Sulla via del ritorno (in un viaggio successivo)

Photo

Le immagini delle località incontrate lungo il viaggio e del Palio dei Carri di Tespi alla Festa di Sant’Anna ad Ischia del 2009 – andate perdute quelle originarie nel trasferimento dell’articolo dal sito chiuso a quello attuale – sono tratte dai siti web seguenti, di cui si ringraziano i titolari, precisando che sono inserite a puro scopo illustrativo senza alcun intento di natura commerciale o pubblicitaria, e se la pubblicazione di alcune di esse non fosse gradita dai titolari dei diritti basta comunicarlo che saranno immediatamente eliminate. I siti web sono i seguenti in ordine di tema e di inserimento: per le località lungo la traversata: Nettuno e-borghi.com, Monte Circeo nauticareport.it, Ponza visitgaeta.it, Palmarola tripadvisor.it , Zannone planetmountain.com, Ventotene latitudeslife.com, Procida italia.it, Ischia Porto ischialike.com; per il Castello Aragonese, turismo.it, ischialike.com, castelloaragoneseischia.com; per le 7 immagini della festa, tutte ischiasky.it, cui va il merito di rendere disponibili le immagini del 2009; per l’incendio del Castello Aragonese, ischiablog.it, ischia.it, ischianews.it. Di nuovo grazie a tutti. Le foto delle località attraversate sono intervallate da alcune immagini della barca “Luna” nei diversi momenti descritti. In apertura, Ciro, il “capitano”, sale sulla sua “Luna” per il viaggio verso Ischia, seguono, la Partenza da Nettuno e Il promontorio del Monte Circeo, quindi Ponza e Palmarola, inoltre Zannone e Ventotene, continua, Procida e Porto d’Ischia, prosegue, Il Castello Aragonese; con ‘L’nterno del Castello, la Cripta e Gli affreschi del Castello; poi, Il Palio dei Carri di Tespi, “Storia della Sambuca” di Casamicciola, e “La Nuova Assunta” di Serrara Fontana, “Il matrimonio di Vittoria Colonna e Ferrante di Avalos” di Ischia Ponte, e “Bar internazionale Maria, un angolo di Paradiso” di Forio; prosegue, La sfilata del Carro di Forio vincitore e Uno scorcio della tribuna e delle barche alla fonda; poi, Le luci della manifestazione e L'”incendio” del Castello Aragonese; qundi, L’avvampare dell'”incendio” del Castello dal cielo al mare; inoltre, I fuochi pirotecnici di chiusura; infine, Sulla via del ritorno (in un viaggio successivo) e , in chiusura, Ciro, il “capitano”, al timone della sua “Luna”.

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Ciro, il “capitano”, al timone della sua “Luna”

2 Responses to Ischia, festa di Sant’Anna, il palio dei Carri di Tespi

  1. Romano Maria Levante 29 settembre 2009 a 17:28

Grazie, ma è tutto vero, è la cronaca fedele di un bel viaggio e di una bella festa sul mare, Mughini e Lina Sastri compresi.

Romano

  • CIRO SORIA 28 settembre 2009 a 20:34

Bravo Romano certo che ne hai di fantasia

Ciro Soria, buona navigazione Lassù, nell’alto dei cieli!

di Romano Maria Levante

Il 21 marzo Ciro Soria, per gli amici anche Nino, ha lasciato il nostro mondo, dopo un improvviso aggravarsi che ha colto di sorpresa chi lo aveva visto di recente in condizioni apparentemente buone. Da allora è trascorso un mese, è il trigesimo nel quale si tiene una cerimonia di ricordo; il nostro è un ricordo laico, legato però alla sua fede. Ecco il messaggio che da amico affezionato ho trasmesso al suo indirizzo e mail destinatario dell’infinità dei nostri contatti assidui e intensi, prima di uscire per recarmi al suo funerale al termine della mattina del 23 marzo scorso; nel quale l’amico di una vita Aldo Visco Gilardi ha tenuto l’orazione funebre che segue il mio messaggio.

Ciro nel suo elemento, il mare!

Inviato a Ciro…..———- Messaggio originale ———-Da: romanolevante@libero.itA: “ciro.soria@gmail.com” <ciro.soria@gmail.com>Data: 23/03/2023 13:48 Oggetto: Ciao, Ciro, amico indimenticabile  

Ciro carissimo,

tra due ore e mezza verrò a darti l’ultimo saluto con i tuoi familiari e amici che ti circonderanno di tutto il loro e nostro affetto; anche se  non potranno venire Rosemary e Alberto e neppure Salvatore, ma sarò io a porgere il loro saluto memore e riconoscente, come lo è il mio. 

Nella mia memoria una infinità di momenti anche molto diversi, ma sempre con la tua genuinità ed autenticità nei sentimenti e comportamenti, il tuo ardore negli impegni, il tuo coraggio nell’affrontare situazioni anche molto difficili e le inevitabili incomprensioni. Esserti stato di aiuto per quasi un quarto di secolo è per me una soddisfazione indicibile, perchè hai meritato tutta l’attenzione e considerazione  possibile. E anche tu mi sei stato di aiuto quando occorreva la tua esperienza e competenza concreta in cose anche piccole ma significative per essere un punto di riferimento prezioso all’occorrenza, come per te io  da semplice scrivano. Cercavo di moderare i tuoi sfoghi focosi in cui si esprimeva tutto il tuo essere, che non cercava compromessi ma il rispetto della verità e della giustizia.

Sono stati tanti i fronti in cui hai e abbiamo combattuto insieme, anche quelli più impensabili. Ricordo i tanti momenti distensivi, quando parlavi della tua passione per il mare, indimenticabili le due traversate con la tua “Luna” per Ventotene e Ischia, nel 2009 e 2010, ne diedi conto in due articoli sul mio sito on line; come  la festa dei 40 anni del tuo matrimonio, oggetto di un altro mio articolo in cui parlavo dell’iniziativa benefica di tua figlia Deborah che vi era collegata come destinataria dei pensieri degli amici. Molti anni dopo mi dicesri con giustificato orgoglio che veniva intervistata e la sentii anch’io, parlava dell ‘iniziativa dei libri per i piccoli migranti di Lampedusa, veramente meritoria come lo è la destinazione benefica dell’ultimo omaggio alla tua persona.  

Non posso nasconderti che mi sono  sentito smarrito – oltre che addolorato anzi sconvolto per la perdita dell’amico di un quarto di secolo – e  non solo per la riflessione anche personale sulla caducità della vita, date le circostanze in cui la notizia del tutto inattesa mi ha colpito come un fulmine a ciel sereno: un mese fa mi avevi telefonato in videochiamata insistendo perchè la attivassi e non rispondessi solo vocalmente come volevo fare non riuscendo a farla funzionare, finchè ci siamo parlati e soprattutto visti, anche con Rosemary, tu veramente florido in grande forma, ti abbiamo detto; avevi promesso che saresti venuto presto a trovarci, ora lo facciamo noi, Rosemary mio tramite sarà anch’essa in chiesa tra poco. 

Lo smarrimento per la perdita del riferimento sicuro ad un amico sincero e generoso mi ha preso l’animo stringendomi il cuore. Poi ho visto il tuo ultimo saluto su Facebook: “A tutti gli amici dico: divertitevi il più possibile su questa terra e quando vi sarete stufati venitemi pure a trovare quassù, vi aspetto”. Non puoi immaginare quanto risultino consolatorie queste tue parole così sincere e genuine, ora che sei “lassù”!

E poi la poesia al nonno  che “postasti” nel febbraio 2017 iin cui si descrive l'”uomo di mare”  come se fossi tu ad essere descritto  fino al saluto finale del viaggio estremo verso l’orizzonte. Ebbene, queste due “cose” veramente “tue” mi hanno ispirato il “post” che ti ho rivolto su Facebook dopo tanti tuoi “post”  ai miei articoli con condivisioni entusiaste ed elogi da me immeritati frutto della tua generosità.

La sua imbarcazione “dal nome fatidico ‘Luna’”

Ti trascrivo di seguito il mio “post” di saluto:    “Era il 9 febbraio 2017, Ciro condivideva, inserendola in questa sua pagina, la poesia di una nipote al nonno Fausto ‘grande appassionato e uomo di mare’ ricordando l’amico ‘con tanto affetto’. Una poesia che descrive Ciro nella sua nobiltà di ‘uomo di mare’, e nelle conclusioni che riportiamo inserendovi solo il suo nome al posto del ‘nonno’: ‘E ora Ciro ha levato l’ancora da questo mondo/ E come uomo di mare che si rispetti/ solca i cieli senza più limiti/ Adesso, libero da quei confini di umana natura/ è in rotta verso l’orizzonte/ E con il sorriso sulle labbra lo varcherà/ sospinto dalle onde verso un’altra avventura’: con la sua imbarcazione dal nome fatidico ‘Luna’ raggiungerà le stelle, e non soltanto le 5 alle quali era legato, ma tutte le stelle del firmamento. Così è bello ricordarlo, del resto il suo ultimo messaggio lo ha mandato da ‘quassù, con la serenità espressa dal suo sorriso che non dimenticheremo mai. Ciao, Ciro!”  

Mi sento soltanto di aggiungere con tanta emozione, Ciao, Ciro, amico indimenticabile, ti immagino in un’altra dimensione, lassù in alto, con il tuo sorriso, la tua energia, la tua attività instancabile e generosa, la tua fiducia sconfinata. Sarai sempre presente nei nostri pensieri.  

Romano con Rosemary, Alberto e anche Salvatore.  

L’abside della chiesa Santa Maria Regina Pacis a Monteverde

Roma, 23 marzo 2023, ore 13,45, alle ore 15 l’inizio della funzione funebre.

Ore 15, la grande chiesa di Santa Maria Regina Pacis nel quartiere romano di Monteverde gremita, tanti hanno voluto dare a Ciro l’ultimo saluto. Al termine della messa, l’orazione funebre di uno degli amici più cari, un’amicizia che risale a 40 anni fa, è tra quelli che lo chiamano Nino: dall’alto del pulpito le parole che ne rievocano la figura nei suoi aspetti profondamente umani con la visione intimamente religiosa di Aldo Visco Gilardi, diacono in emeritazione della Chiesa valdese (Unione delle chiese metodiste e valdesi), che si è occupato dei rapporti con lo Stato e delle relazioni internazionali con Paesi di vari continenti, come Africa e America Latina.  

NINO (Ciro Soria 17.06.1941 – 21.03.2023)

di   Aldo Visco Gilardi

Dal Salmo 145:
8 Il SIGNORE è misericordioso e pieno di compassione,
14 Il SIGNORE sostiene tutti quelli che cadono
e rialza tutti quelli che sono curvi.
15 Gli occhi di tutti sono rivolti a te,
e tu dai loro il cibo a suo tempo.
16 Tu apri la tua mano,
e dai cibo a volontà a tutti i viventi.
17 Il SIGNORE è giusto in tutte le sue vie
e benevolo in tutte le sue opere.
18 Il SIGNORE è vicino a tutti quelli che lo invocano,
a tutti quelli che lo invocano in verità.
Salmo 23:
1 Salmo di Davide.
Il SIGNORE è il mio pastore: nulla mi manca.
2 Egli mi fa riposare in verdeggianti pascoli,
mi guida lungo le acque calme.
3 Egli mi ristora l’anima,
mi conduce per sentieri di giustizia,
per amore del suo nome.
4 Quand’anche camminassi nella valle dell’ombra della morte,
io non temerei alcun male,
perché tu sei con me;
il tuo bastone e la tua verga mi danno sicurezza.
5 Per me tu imbandisci la tavola,
sotto gli occhi dei miei nemici;
cospargi di olio il mio capo;
la mia coppa trabocca.
6 Certo, beni e bontà m’accompagneranno
tutti i giorni della mia vita;
e io abiterò nella casa del SIGNORE
per lunghi giorni.

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La facciata della chiesa del funerale

Nino non era un santo. Nino era generoso.

Appoggiava volentieri iniziative ambientali (cfr. la destinazione di offerte in sua memoria a Legambiente) e umanitarie: a me, per esempio, mise a disposizione la sua esperienza di spedizioniere e il magazzino per l’organizzazione di alcuni container da mandare in Africa per la chiesa valdese.
Era stato provato dalla vita: avviato dal padre autoritario ad un lavoro pesante da ragazzo, lavoro che l’ha reso robusto. La sofferenza per la perdita del fratello Paolo…
Si lega da bambino a Lucione e alla sua famiglia Sabbadini. Lucio è l’amico fraterno con cui condivide molte esperienze di vita fino alla sua morte, avvenuta 13 anni fa, proprio in marzo.
Nino ha avuto qualche disavventura sul piano lavorativo, non voluta, ma anche grandi soddisfazioni e consolazioni, tra le quali ha goduto l’affetto di una paziente moglie, Dilys,  delle figlie Debora e Susanna e della nipote Elena.
A modo suo era spiritoso, prova ne sia l’annuncio che lui dà della sua morte, che parafraso così: “Amici miei, godetevi la vita come ho fatto io, poi ci rivedremo!”

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In uno dei suoi viaggi

Era un edonista. Amava la vita, il ballo, i viaggi per conoscere il mondo. Amava la compagnia di amici, familiari e conoscenti con cui non perdeva occasione di festeggiare in grande stile anniversari in luoghi pubblici, o la tradizionale festa di fine-inizio anno a casa propria, con un luculliano cenone, con l’enorme tacchino, sovrabbondante anche per la trentina di ospiti presenti, seguito dalla tombola e giochi a carte…
La partecipazione di tanti amici, qui oggi, è dimostrazione dell’affetto che ha seminato.
Il mare in tutte le sue manifestazioni era ed è il suo elemento, dove desidera siano sparse le sue ceneri, come avvenuto con Lucio. Amava la barca a vela, che fosse la Pacioccona o la Luna, le immersioni, la pesca, la buona ed essenziale cucina, che in barca doveva sporcare il minor numero di tegami possibile, e l’immancabile siesta pomeridiana sottocoperta, sdraiato sul pavimento su cui poggiava un giornale, per non sudare sulla moquette.

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La “buona ed essenziale cucina” in barca

Aveva un’abilità manuale e meccanica straordinaria, per riparare da sé la barca.
Curioso di natura, non perdeva occasione per cimentarsi in nuove avventure, come fare il vino o distillare le grappe, con l’aiuto di amici e collaboratori più recenti.

Non era un santo, ho detto. Chi può essere definito tale? 
Era anche tignoso, alquanto maschilista, a volte impietoso, il che non gli impediva di essere gentiluomo con il gentil sesso. Di due donne ha avuto rispetto costante: la madre e la sorella Ada, oltre che della moglie Dilys. Forse, il carattere contraddittorio era dovuto al suo segno zodiacale: Gemelli?
Era combattivo, ma anche animoso, tenace e testardo, poco propenso alla mediazione e alla rinuncia. Purtroppo, questioni di interessi gli hanno fatto guastare i rapporti con amici di una vita e con familiari, mentre altre volte si è dovuto difendere da quelle che sentiva come prevaricazioni e ingiustizie. 

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Sulla “sua” barca, nel “suo” mare

Negli Evangeli, Gesù ci invita a risolvere le diatribe terrene finché siamo in vita sulla Terra, Matteo 18.18: “Io vi dico in verità che tutte le cose che legherete sulla terra, saranno legate nel cielo; e tutte le cose che scioglierete sulla terra, saranno sciolte nel cielo.”
Mi dispiace che Nino non abbia colto questa opportunità, pur volendolo, pare, tanto che aveva preparato una lettera risolutrice di una annosa questione familiare, ma la morte lo ha colto prima che potesse  trasmetterla. In tal caso, mi sarebbe piaciuto leggere in questa occasione l’incontro di Gesù con Zaccheo (Luca 19, 1-10), il quale, ospitando Gesù, si redime riconoscendo e riparando ai suoi torti fatti. Ora, se ci sono ancora questioni in sospeso, il compito di risolverle sarà responsabilità di chi rimane.
La morte segna un passaggio che può sembrare definitivo, ineluttabile… Ma non è l’ultimo atto, né l’ultima parola-
Gesù è morto, ma è anche risorto.
Il Signore, Dio di Amore, è misericordioso: a lui spetta la magnanimità e il giudizio!

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Un piccolo impegno che è anche un momento di raccoglimento

Siamo fiduciosi, come il salmista, nella Sua clemenza (Salmo 25. 1, 6-11,16-18):
1 A te, o Eterno, io elevo l’anima mia.
2 Dio mio, in te mi confido;
6 Ricordati, o Eterno, delle tue compassioni
e della tua bontà; perché sono eterne.
7 Non ricordarti dei peccati della mia gioventù,
né delle mie trasgressioni;
ricordati di me nella tua clemenza,
per amore della tua bontà, o Eterno.
8 L’Eterno è buono e giusto;
perciò insegnerà la via ai peccatori.
9 Guiderà i mansueti nella giustizia,
insegnerà ai mansueti la sua via.
10 Tutti i sentieri dell’Eterno sono bontà e verità
per quelli che osservano il suo patto e le sue testimonianze.
11 Per amor del tuo nome, o Eterno,
perdona la mia iniquità, perché essa è grande.
16 Volgiti a me, e abbi pietà di me,
perché io sono solo e afflitto.
17 Le angosce del mio cuore sono aumentate; tirami fuori delle mie angustie.
18 Vedi la mia afflizione e il mio affanno,
e perdona tutti i miei peccati.
Chi è in vita e si sia sentito da lui offeso, può ancora fare la sua parte perdonando, non portando rancore: il suo carattere impetuoso, talvolta, lo faceva reagire con degli eccessi a quelle che sentiva come ingiustizie.
Facciamo noi ammenda, presso il Signore, delle sue mancanze (che non sono maggiori di quelle di tutti noi peccatori) e, per lui, chiediamo perdono a Dio!
Rimaniamo con la certezza del messaggio del Cristo. che ci ha trasmesso Giovanni, l’Evangelista, in 14. 1-6:
1 “Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me!
2 Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, ve l’avrei detto; io vado a
prepararvi un luogo;
3 E quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi;
4 e del dove io vado sapete anche la via”.
5 Tommaso gli disse: “Signore, non sappiamo dove vai, come possiamo sapere la via?”.
6 Gesù gli disse: “Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”.

Concludo con la preghiera al Signore che vi consoli, vi guidi e vi benedica, carissime Dilys, Debora, Susanna, Elena, e quanti tra noi soffra questo distacco!
Vi voglio bene!

Aldo Visco Gilardi

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Il saluto di Ciro con un sorriso


Musica e Folklore per l’Abruzzo a Piazza di Spagna, 17 maggio 2009

di Romano Maria Levante

Nel 14° anniversario del terremoto che ha colpito l’Abruzzo il 6 aprile 2009 avanti ieri e ieri abbiamo ripubblicato due articoli che scrivemmo dopo il tragico tragico evento, il “Requiem da Gabriele d’Annunzio” pochi giorni dopo e ” Cinque registi tra le macerie” un mese dopo; la ripubblicazione ha coinciso con il giovedì e venerdì di poassione dell’attuale settimana pasquale. Concludiamo la rievocazione con un terzo articolo, anch’esso ripubblicato, che uscì a metà maggio 2009, con la simbolica ripresa attraverso la musica dei complessi popolari abruzzesi a Roma, a Piazza di Spagna. Nella passione, oggi è il Sabato santo, vigilia della Resurrezione….

cultura.inabruzzo.it, scritto il 18 maggio 2009 Autore: Romano Maria Levante Tradizioni

E’ stato inconsueto vedere la scalinata di Trinità dei Monti e l’area intorno alla Barcaccia deserte in una calda mattinata domenicale; c’era una transenna che impediva alla folla di romani e di turisti di transitarvi e di sostare. Poi, nel primo pomeriggio la scena si è animata, gruppi musicali e folkloristici hanno cominciato ad affluirvi, la gente si è accalcata, lo spettacolo è iniziato.

E’ domenica 17 maggio 2009, la Giornata nazionale della musica popolare organizzata dal Ministero dei Beni culturali, una novità che assume da subito un significato del tutto particolare.

La simbiosi tra le Corali abruzzesi dell’Aquila e l’Orchestra di Cesenatico di Mirko Casadei

I primi gruppi che si schierano alla base della scalinata sono quattro complessi abruzzesi, precisamente dell’Aquila, vengono da alcune delle località più colpite dal terremoto. Si tratta di corali nei pittoreschi costumi tradizionali, che hanno nomi familiari: Coro della Portella di Paganica, Schola cantorum di Barisciano, Associazione polifonica di Tempera, Associazione corale “Gran Sasso” di L’Aquila. Intonano i loro canti popolari, il folklore abruzzese fa vibrare di emozione la piazza, per quello che significa cantare di nuovo dopo essere stati toccati dalla tragedia.

Ma il calore dell’accoglienza della gente, le parole della presentatrice Silvia hanno rincuorato i componenti dei gruppi, li hanno fatti sentire ospiti d’onore oltre che partecipanti di una festa collettiva nel segno della musica popolare: che vuol dire tradizioni e memoria, identità e appartenenza dove si esprimono le più riposte virtù di un popolo, la sua autentica anima. Ed è nel ritorno alle proprie radici che si può trovare la forza per ricominciare, riprendersi, andare avanti.

A fianco dei primi quattro gruppi si è subito schierata in una simbiosi altamente simbolica l’Orchestra Casadei, un nome che ha fatto la storia della musica popolare italiana, rappresentata da Mirko Casadei, dalla terza generazione dopo Secondo Casadei e il successore, anch’egli ormai mitico, Raul Casadei. Mirko, come il padre Raul, è insieme cantante e presentatore, direttore e animatore e con la sua simpatia e bravura ha aiutato a rompere il ghiaccio, se si può usare questo termine in una giornata così calda, e non solo in termini meteorologici. Il suo arguto cappellino e la sua voce festosa hanno punteggiato l’intero pomeriggio come la sua musica popolare, che è italiana e non solo romagnola anche se viene da Forlì-Cesena, precisamente Cesenatico.
E’ stata una simbiosi simbolica, abbiamo detto, con la musica abruzzese, perché entrambe vanno alle radici della sensibilità popolare, toccano il cuore, fanno vibrare le corde del sentimento. E ascoltarle insieme così vicine e così da vicino è stata un’emozione tradottasi in applausi scroscianti. Ma c’è un altro motivo perché l’accoppiata sia risultata così indovinata: l’intensa partecipazione di Casadei a questa emozione, espressa in una vicinanza intima, evidente nelle sue parole e nell’atteggiamento avuto per l’intero pomeriggio.

Abbiamo voluto verificarlo parlandogli direttamente: “Non potevamo mancare- ci ha detto – non solo perché ci sentiamo di rappresentare le radici della musica popolare, ma soprattutto per essere vicini alla gente d’Abruzzo così duramente colpita”. Le parole successive fanno capire che c’è molto di più di un generico anche se sincero sentimento: “L’Abruzzo è una regione alla quale siamo legati in modo particolare, e non solo per la vicinanza geografica quanto perché ci ha dimostrato sempre molto affetto, conosciamo bene la sua gente avendo suonato in tutte le località, grandi e piccole, ci hanno chiamato e ci hanno accolto con grande simpatia e calore”. Mirko ricorda l’accoglienza che ebbe il loro spettacolo a Paganica e aggiunge: “Per questo ci sentiamo in debito con l’Abruzzo e il 29 maggio, nel nostro tour partito il 15 da Cuneo che attraverserà l’Italia fino alla Sicilia, ci sarà la serata benefica a L’Aquila tra i colpiti dal terremoto per portare un po’ di allegria tra tanta tristezza”. E in conclusione dedica espressamente all’Abruzzo il loro motto: “Si scrive Casadei e si legge festa”. In effetti, anche per suo merito, in Piazza di Spagna c’è stata festa.

Il gemellaggio virtuale tra Abruzzo e Lazio

I complessi abruzzesi presenti in Piazza di Spagna non sono stati soltanto questi. Altri quattro, sempre della provincia dell’Aquila, si sono aggiunti alle Corali, dopo aver sfilato da Piazza Augusto Imperatore risalendo Via Condotti. Tra i primi ad unirsi a quelli ai piedi della scalinata, ecco due gruppi folk: il “Sirente” di Castelvecchio Subequo e il “Luigi Venturini” di Tagliacozzo, Più tardi hanno completato la nutrita rappresentanza regionale il Corpo bandistico città di Paganica, preceduto da un grande cartello retto da due deliziose bambine; il clarinettista ci ha detto che avevano avuto distrutta la sede, molti strumenti e sopratutto l’atroce perdita della madre di uno di loro per il terremoto, la gente ha capito il loro sforzo per riprendersi e li ha applauditi. E il Complesso bandistico città di Tagliacozzo.

E’ stata una prova straordinaria di vitalità della gente aquilana e della sua anima popolare questa ricostituzione e rinascita di otto gruppi musicali e folkloristici che hanno onorato la giornata nazionale; della quale si deve rendere merito al Ministero Beni Culturali che ha promosso l’iniziativa con il supporto del sindaco di Roma e della Presidenza del Consiglio. Berlusconi non ha fatto mancare il suo saluto con una lettera per nulla rituale letta dalla presentatrice Silvia.

Ma torniamo alla festa, i gruppi che sfilano lungo Via Condotti affluiscono a ritmo incalzante, è il caso di dirlo, perché entrano in Piazza di Spagna e si collocano lungo la scalinata facendo vibrare l’aria con le loro musiche, spesso fatte di forti percussioni, e sciorinando i colori dei loro abiti e divise e delle loro bandiere. E a proposito di bandiere c’è l’ingresso spettacolare di quaranta vessilli di paesi esteri, e la loro collocazione alla sommità della scalinata a rappresentare simbolicamente il significato internazionale della musica che supera le barriere e unisce storie e tradizioni.

Notiamo che dopo e tra i gruppi abruzzesi la rappresentanza più nutrita è dei gruppi laziali. Alla fine ne contiamo otto, lo stesso numero di quelli d’Abruzzo: due sono romani (la Banda musicale “Corbium” di Roccapriora e il Corpo folklorisico musicale “Compatrium” di Montecompatri) due di Viterbo (il Gruppo musicale folk “La sbandata” di Chia, e le Sbandieratici e il gruppo storico musicale città di Viterbo), tre di Frosinone (l’Associazione bandistica musicale città di Sgurgola, la Banda musicale “Massimo Pagliei” di Villa Santo Stefano, l’Amaseno harmony show band di Amareno; e per finire uno di Rieti, l’Associazione musicale città di Pescorocchiano.

E allora ci piace immaginare che nella magica Piazza di Spagna sia avvenuto un gemellaggio non dichiarato ma vissuto nella fusione della musica e del folklore popolare, nei loro suoni e nei loro colori, tra Abruzzo e Lazio, così vicine e unite anche per altri versi e oggi più che mai.

La presenza corale delle altre regioni

A questo gemellaggio fanno corona le altre regioni, del Centro, Nord e Sud pur esse presenti. Dal Nord, e precisamente da Bergamo, è venuto il Gruppo folkloristico “La Garibaldina” di Terno d’Isola, che rende onore al suo nome con sfavillanti camicie rosse, una bella macchia di colore sulla scalinata; da Torino il Turinstars Majorettes, con le loro gambe tornite e le bandiere; da Trento il Corpo musicale “Giuseppe Verdi” di Condino.

Dal Centro, ad Abruzzo e Lazio si sono unite le vicine Marche, è venuto da Ascoli Piceno il Complesso bandistico città di Falerone.
Dal Sud, dopo l’apertura del corteo con il Gruppo majorettes Città di Rapone, i primi a sfilare sono stati il Complesso bandistico “Leonardo da Vinci” città di Pallagorio venuto da Crotone e il Complesso bandistico città di Ordona, venuto da Foggia; infine la Banda civica città di Sarno venuta da Salerno.

                                                                                   Mirko Casadei

Non è mancata, a completamento di una partecipazione già così nutrita, una colorata delegazione di gruppi folkloristici provenienti da varie regioni.

A conclusione della sfilata, prima del momento culminante finale, c’è stata la parte cerimoniale con la consegna degli attestati di partecipazione ai singoli complessi, nonché dei premi a due istituti scolastici di Campobasso e Cannara presenti alla manifestazione con i dirigenti e gli alunni autori degli elaborati migliori; e sono stati un parterre colorito ed animato.

I momenti culminanti della manifestazione

Ma è stato ancora l’Abruzzo protagonista con le commosse parole di Vincenzo Vivio, delegato a rappresentare i gruppi abruzzesi presenti alla manifestazione di Roma e nei comuni della regione: “Non è stato facile venire a cantare qui – ha detto -Potete immaginare le condizioni in cui si vive nelle zone del terremoto, in tenda, con tante famiglie nel dolore. Ma abbiamo voluto fare lo sforzo di esserci, perché vogliamo continuare, vogliamo agire, vogliamo andare avanti. La musica ci salverà”.

Subito dopo si è levato, quasi per magia, il canto di “Vola, vola”, mai apparso così profondo e intenso, così carico di significati. E quella musica che “ci salverà” ha fatto volare davvero tutti.

E dato che siamo tornati alla musica non possiamo dimenticare gli altri canti. Abbiamo dovuto distaccarcene con dispiacere per seguire la sfilata dei tanti complessi, non potevamo ometterli perché al di là della lista che può apparire tediosa ci sono stati i suoni, i colori. Abbiamo citato soltanto il rosso delle camicie garibaldine, ma ce n’era una sinfonia, tutte le gradazioni dell’iride, dalle tinte fredde riscaldate dal sole e dalla passione a quelle calde, in tutti gli accostamenti; e poi cappelli e pennacchi, vessilli e costumi d’epoca, e altro ancora.

Ma ora i canti. Il folk abruzzese lo conosciamo, di “Vola vola” abbiamo detto. Non c’è stato “Tutte le fontanelle” e neppure “Il lamento della vedova”, sarebbe stato forse troppo triste, si doveva ricordare con il folk della tradizione e poi volare sulle ali della speranza. Lo si è fatto.

C’era sempre Mirko Casadei – protagonista della manifestazione con gli abruzzesi ai quali pubblicamente ha detto più volte di essere vicino, e alle Corali lo era anche fisicamente – a riportare l’allegria con la sua musica popolare italiana, tiene a precisare, e non solo romagnola. Ed ecco “Simpatia” e “Romagna e sangiovese”, “Ciao mare” e “Romagna mia”, quest’ultima con “Vola vola” vera colonna sonora della manifestazione. Fino alla “Musica del mondo” conclusa da Mirko con il grido “Viva la musica, viva l’Abruzzo, viva L’Aquila!” E poi, ancora, “Romagna mia”.

E’ stata un’apoteosi, ma il “clou” è venuto poco dopo, con i gruppi sulla scalinata in un turbinio di colori e di bagliori inconsueto anche per una “location” così prestigiosa. Il suono e il canto corale prima dell’“Inno alla gioia” poi dell’“Inno di Mameli”. Una sorta di consacrazione dell’unità nazionale, anzi dell’unità europea dopo l’esibizione delle identità territoriali del nostro bel paese. Sapere che nello stesso momento questi due inni venivano cantati nelle manifestazioni di tutt’Italia e anche nelle zone terremotate, in particolare ad Onna, Tempera, L’Aquila, ha dato vera emozione.

Al termine, lo “sventolio” degli strumenti musicali sulla scalinata, prima del rompete le righe. Ma no, si fa per dire, i gruppi sono rimasti compatti e ordinati, è iniziata una nuova sfilata in senso contrario lungo via Condotti. Si sono sentite tante altre musiche, veramente spontanee e liberatorie, l’abbraccio della folla è stato ancora più vicino e intenso. Le luci del tramonto completavano lo spettacolo di una festa che proseguiva vivace e partecipata.

Ci sembra di poter dire che abbiamo vissuto qualcosa di più della Giornata nazionale della musica popolare. Abbiamo partecipato a una festa di popolo che ha consacrato l’amore per le tradizioni regionali e insieme per l’identità nazionale. E anche l’amore per l’Abruzzo.

[tutte le foto sono: ph. Romano Maria Levante

corali abruzzesi, L’Aquila, Roma

One Response to Musica e Folklore per l’Abruzzo a Piazza di Spagna

  1. Catharina 31 maggio 2009 a 07:35

Io che sono Tedesca e non Abruzzese. Alla mia famiglia piace che siete andati a
Roma a cantare.

Tanti saluti da Catharina.

L’Aquila, cinque registi tra le macerie per ricostruire il Conservatorio, 6 maggio 2009

di Romano Maria Levante

Nel 14° anniversario del terremoto che colpì l’Abruzzo la notte del 6 aprile 2009 ci siamo uniti ieri alle celebrazioni con l’articolo pubblicato in quei giorni riportando le parole del grande abruzzese D’Annunzio sulla sua gente e su altre tragiche situazioni; oggi ripubblichiamo l’articolo del maggio 2009 sulla manifestazione un mese dopo con l’interpretazione filmata di 5 registi tra le macerie.

da cultura.inabruzzo.it – 10 maggio 2009 – Postato in: Storia

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La locandina della manifestazione

Mercoledì 6 maggio 2009 al Teatro Capranica di Roma: una sala di mille posti gremita al di là delle aspettative, come ha detto Corrado Augias nella presentazione, sessantacinque sindaci romani presenti alla manifestazione organizzata dal quotidiano “Repubblica” e dalla provincia di Roma, un parterre di attori famosi, giornalisti, pubblico. Tutto “per non dimenticare” e lanciare le basi della ricostruzione di un’istituzione benemerita per la cultura musicale, il Conservatorio che è la punta di diamante.

Il presidente della provincia di L’Aquila, Stefania Pezzopane chiamata da Augias sul palcoscenico, non è stata tenera parlando di “fuochi artificiali” ai quali non seguono ancora atti concludenti adeguati; dopo un mese ci sono ancora migliaia di attendati, i ritardi sono evidenti. Nicola Zingaretti, presidente della provincia di Roma, ha detto che si sono uniti all’iniziativa “per non dimenticare ed essere coerenti”, nella convinzione che è necessario superare presto l’emergenza e “far rivivere il territorio nel suo tessuto civile e sociale”, del quale la ricostruzione del Conservatorio “A. Casella” rappresenta un aspetto particolarmente significativo.

Ma non si è trattato di una passerella di personalità. Dopo i due presidenti delle province di L’Aquila e Roma, Augias ha introdotto il direttore di “Repubblica” Ezio Mauro che ha raccontato come è nata l’iniziativa. C’è stata l’immediata mobilitazione degli inviati giunti per primi nelle località colpite all’insegna dell’“andare, guardare, cercare di capire e raccontare”, dove il “cercare di capire” va inteso a 360 gradi, responsabilità comprese. Ai loro occhi sono apparse subito case sventrate, per metà distrutte e per metà rimaste in piedi rivelando il loro contenuto di quotidianità, è stato un impietoso anche se inevitabile guardare dentro le vite altrui. Poi ha parlato di quello che ha funzionato, il pronto intervento della Protezione civile, la presenza dello Stato, l’impegno del governo; e ha aggiunto che diverse cose non hanno funzionato, si può e si deve fare di più. Nessuna polemica, comunque, Mauro ha presentato l’iniziativa, che è stata di aggiungere al racconto giornalistico una visione artistica: “cinque registi tra le macerie” con la loro “capacità di guardare e cogliere il senso delle cose viste” raccontandole in un cortometraggio. Poi è venuta l’idea di collegare il tutto all’iniziativa di solidarietà per ricostruire il Conservatorio “A. Casella” a L’Aquila.

Dopo un applauso corale al personale della Protezione civile, ai Vigili del fuoco e ai volontari per l’impegno e l’abnegazione profusi, Augias può dare inizio allo spettacolo, perché tale è stato, curato da un noto regista, Piero Maccarinelli, con la tensione ideale che le circostanze comportano.

I cinque filmati sono stati preceduti ciascuno da un breve scambio di parole dell’autore con Augias, e seguiti dalla lettura da parte di personaggi dello spettacolo di brani dei “reportage” ad essi collegati.

Paolo Sorrentino

Il racconto dei cinque registi

Si inizia con Paolo Sorrentino, è lui a ringraziare rispondendo ad Augias: “Noi cercavamo un modo per renderci utili, voi ce l’avete consentito”. E’ stato come se “un’infrastruttura civile” fosse scesa in campo. Il suo cortometraggio si intitola “L’assegnazione delle tende”. La prima immagine è di una lunga strada deserta, con edifici ai lati che sembrano intatti, poi un’altra strada, una piazzetta deserta, quel silenzio spettrale che è stato detto essere la cosa che ha colpito di più al primo contatto con i luoghi del disastro. A questo punto nel filmato il silenzio è rotto da rumori sinistri: un elicottero, delle ruspe, dell’acqua tumultuosa. Quindi ancora macerie, vigili al lavoro, secchi avvertimenti. Le immagini delle rovine si susseguono, è un panorama di distruzione come dopo un bombardamento. A un certo punto una voce insistente scandisce dei nomi, alcuni di intere famiglie, seguiti dall’ossessiva ripetizione: “Non sono state assegnate”. Nelle catastrofi c’è anche questo, una parte quasi burocratica, fatta di disposizioni, di annunci, di elenchi. Ma questa volta è diverso, lo si vede chiaramente quando si passa dalle macerie alle tende, dove un pannello con un assemblaggio di fotografie di persone scomparse dà la triste chiave interpretativa della litania che percorre l’intero cortometraggio. Si capisce perché, purtroppo, all’interminabile elenco di nomi le tende “non sono state assegnate”.

Michele Placido

Segue il lavoro di Michele Placido con la collaborazione di Antonello Caporale, “Le mani di Osmai”. Volti pensosi e rudi di lavoratori, un viso delicato di ragazza, poi Placido parla con loro. E’ una comunità macedone molto unita, come dice il primo, si è prodigata nel salvataggio. Il regista, con chioma e barba bianca, rivela che il nonno e lo zio sono emigrati, poi hanno chiamato gli altri. “Per noi è uguale”, rispondono. Ma è Osmai il protagonista, mentre scorrono immagini di macerie racconta di aver estratto dalla casa distrutta la moglie e una figlia vive, ma non è riuscito a salvare la figlia più piccola al piano di sopra. L’ha recuperata senza vita ma non si è fermato a piangere sul suo corpo, ha continuato a scavare a mani nude, era l’unico che lo potesse fare perché il più forte. Ora ha mani e piedi massacrati, avvolti da grossi bendaggi, ma ha salvato undici persone. “Questa è la nostra terra, dice, qui stiamo benissimo, siamo paesani, ci hanno dato tutti di tutto. Non ci scordiamo l’accoglienza di questa gente” e scoppia a piangere. Una donna aquilana lo abbraccia, e parla dell’accoglienza che è stata doverosa per gente che lo meritava, e lo ha dimostrato ancora. Avrà ora il problema di riportare la figlia morta in Macedonia, ma tornerà, sente questa terra come la sua terra, e così la colonia di macedoni che è con lui. Non si dimenticano facilmente quei visi segnati da un dolore che è anche il loro dolore.

Mimmo Calopresti

Mimmo Calopresti ha firmato “Perfect day”, dal titolo della canzone di Nicola Piovani che ne è la colonna sonora. Si sarebbe potuto intitolare come il famoso film “Le vite degli altri”, qui non le mette a nudo la “Stasi” della Germania Est, ma una violenza ben più spietata, quella del sisma che ha squarciato le case, come aveva detto Ezio Mauro, distruggendole per metà e aprendo il resto alla vista di tutti. Inizia con il recupero di povere cose, vestiti e altro, infilate nelle automobili, portate nei sacchetti in un andirivieni con i vigili del fuoco e gli uomini della Protezione civile onnipresenti. “In quei momenti prendi cose inutili che non servono a niente” dice un giovane. La macchina da presa percorre le case squarciate, si sofferma sui comò semiaperti e i soprammobili, i televisori rotti e le sedie con damasco, gli specchi e le suppellettili; non c’è un clima gozzaniano, purtroppo, ma un inventario di intimità violata, non dall’operatore, ma dalla crudeltà del sisma. Un graffito rosso su un muro, con “Non mi arrendo. Ti amo”, mostra un’intimità gridata quanto l’altra era riposta e privata. Poi il viso sereno di un’anziana signora che riesce a dire “Siamo nella disperazione” con un amaro sorriso. Grande dignità, come nella ragazza che esclama: “Abbiamo provato terrore, stavamo dormendo, siamo fuggiti, ora siamo felici perché siamo qui, purtroppo c’è gente che non lo può raccontare”. Prima è passato due volte un gatto nero, ora in questi due volti si accende un raggio di speranza.

Ferzan Ozpetek

“Nonostante tutto è Pasqua” di Ferzan Ozpetek, è “dedicato ad Alessandra Cora, Capri 8-1-86, L’Aquila 12.4.2009”, preceduto dalla scritta “ad Alessandra… per sempre”, è la ragazza con le cuffie che canta su una musica molto ritmata, colonna sonora e visiva del cortometraggio le cui immagini si susseguono incalzanti al ritmo accelerato della canzone. Il regista dice di aver trovato Alessandra in Internet, su “you tube”, non altro. Inizia il filmato, prima in bianco e nero con le immagini capovolte, scosse dal sisma; poi si aprono al colore, è un susseguirsi così frenetico di macerie che sembrano fotogrammi, quasi istantanee dopo un bombardamento, poi carrellate su esterni e interni, sulle povere cose private che il sisma ha reso pubbliche con una violenza nella violenza. C’è anche un crocifisso che sembra guardare tanta desolazione, quasi una crocifissione corale. A questo punto le immagini dei palazzi tremano e con loro anche quella della giovane cantante, sovrapposta quasi in dissolvenza, travolta anch’essa. Infine la tendopoli, come se tornasse la quiete dopo la tempesta; e la vita torna nel modo più eclatante, un gigantesco uovo di Pasqua di cioccolato con su scritto a grandi caratteri “Nonostante tutto è Pasqua”. Le macerie portate al diapason, poi il Crocifisso: questa Pasqua non è la festa tradizionale, è la Resurrezione dalle macerie di una terra martoriata.

Francesca Comencini

L’ultimo cortometraggio è sulle “Donne di San Gregorio” di Francesca Comencini. Un racconto sereno, anch’esso inframmezzato di immagini delle macerie, ma dominato dalle figure di sei donne intervistate, che ha reso l’atmosfera perché due di loro hanno interrotto il racconto per dire “Oddio, che scossa, l’avete sentita?”, l’altra “C’è stata, l’ho sentita” e per un po’ la paura è tornata nei loro visi. Ma per poco, i racconti sono proseguiti pacati e sereni con un denominatore comune, l’amore per la propria terra vista nei suoi elementi fondamentali: “La chiesa, la piazza, il bar, gli alimentari, sono la nostra vita; un paese diverso non sarebbe più il nostro paese”; e ancora “La piazza con la chiesa nello stesso posto, il bar vicino”. E’ un amore che ha portato il padre del marito, tornato dall’America, a mettere tutti i risparmi nell’acquisto di una campana donata alla chiesa, ora è a terra spezzata; un amore che fa lavorare da commessa la giovane geologa per restare nel suo paese; e ugualmente per restarvi fa lavorare come cameriera, sacrificando anni di studio, la ragazza che ha fatto la tesi su un manoscritto della chiesa di S. Maria in Paganica, scelto come opera preziosa del proprio territorio. E’ un amore che ha fatto ritornare una paesana, trasferita a Milano da dieci anni, perché “non ho voluto lasciarli soli, sono cresciuta con loro, come potevo restare lontana?”.

Nucola Piovani

La conclusione, con l’appello di Nicola Piovani

I cortometraggi dei “cinque registi tra le macerie” sono stati seguiti ciascuno dalla lettura del testo del relativo reportage mentre sullo schermo scorreva un “loop” di immagini scelte. Così Piera degli Esposti ha letto il testo che accompagna il film di Sorrentino, Fabrizio Gifuni quello del film di Placido, Giorgio Pasotti quello di Calopresti, Valeria Golino di Ozpetek, Margherita Buy della Comencini. Ci sembrerebbe riduttivo chiamarli “reading”, è stato un vero oratorio, momenti ispirati per i toni intensi di queste letture, un concerto di parole dopo quello di immagini.

Crediamo di non dover aggiungere altro alla nostra cronaca se non due notazioni. La prima è che in due interviste nei filmati troviamo la percezione dell’imminenza di una scossa più forte delle altre: una ragazza dice che dormiva vestita tenendo a portata di mano “il giubbotto, le medicine, il cellulare, la tessera per gli sci e la piscina, e le scarpe posizionate” in modo da poter fuggire prontamente; due giovani dicono che tenevano “a portata di mano il violino e il violoncello”, pronti a mettere in salvo con la propria vita i loro preziosi strumenti.

La seconda notazione, al di là di tante analisi sociologiche, viene dalle “donne di San Gregorio” e riguarda l’attaccamento alla propria terra. Già ne abbiamo dato conto, ma c’è dell’altro: “Siamo abruzzesi, l’abbiamo sempre fatto, abbiamo lavorato i campi e dai campi siamo riusciti a fare quello che vedete, che c’era, anche se non c’è più”; per dire che ci si riuscirà ancora, perché “il paese, l’Aquila, l’Abruzzo è tutto”. E ancora, dalla donna partita e ritornata per stare vicina ai paesani: “Il nostro popolo è duro, forte e gentile, tutto questo non ci sarà più, ma lo rifaremo di nuovo più bello, ritorneremo quello che eravamo, ne sono quasi certa, anzi ne sono sicura”.

Ed ora il clou di Nicola Piovani, non perché ha suonato al pianoforte, gli sarebbe stato messo a disposizione ma ha preferito di no, e vedremo perché. Ha parlato dell’importanza della musica, ha detto di essere rimasto sorpreso leggendo che, a parte l’emergenza e le necessità vitali, “il resto è poesia” nel senso che si può trascurare se non ignorare. Si è ribellato a questo, anche la musica è poesia e in nome della musica e della poesia ha chiesto l’impegno solidale alla ricostruzione di quanto fa parte della cultura di un popolo. Nello specifico l’oggetto, anzi il soggetto della manifestazione è il Conservatorio “A Casella” di L’Aquila, da ricostruire con il contributo di tutti.

Ha ricordato i due giovani che, temendo venisse il terremoto, si erano preparati a fuggire tenendo in vista il violino e il violoncello, come le cose più preziose da salvare. Ebbene, ha concluso, “dobbiamo permettere a questi giovani di tornare nel loro Conservatorio, per questo lo dobbiamo ricostruire. E nel giorno dell’inaugurazione io sarò là, con il mio pianoforte, e suonerò con loro e con gli studenti e i docenti. Per questo motivo non suonerò questa sera”.

Migliore conclusione non poteva esserci, all’insegna della musica e della poesia, della ricostruzione e della rinascita. Il conto al quale trasmettere il bonifico bancario per i contributi alla ricostruzione del Conservatorio ha campeggiato nei titoli dei cinque cortometraggi, Piovani e Augias lo hanno riproposto nella conclusione: ecco il codice Iban: IT 37E 03002 03379 000401059955.
Anche noi pensiamo che il modo migliore di chiudere questo resoconto sia di esortare i nostri lettori perché si uniscano allo sforzo solidale di tante donne ed uomini dello spettacolo e della cultura. Abruzzocultura, che è stato ed è in prima linea sulla frontiera del terremoto, è con loro.

L’ora del terremoto

Tag: L’Aquila, Terremoto

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Le immagini sono state tratte dai siti web che sono indicati di seguito nell’ordine di inserimento. Si ringraziano i titolari dei siti per l’opportunità offerta, precisando che le immagini sono inserite a puro titolo illustrativo per cui qualora la loro pubblicazione non fosse gradita basta segnalarlo e saranno immediatamente eliminate I siti sono i seguenti: movieplayer e donnapop, spettegolando e comingsoon, biografieonline, mymovies e corriere: a tutti ancora grazie!

Terremoto in Abruzzo, 6 aprile 2009, Requiem da Gabriele d’Annunzio

di Romano Maria Levante

Nel 14° anniversario del terremoto che colpì l’Abruzzo la notte del 6 aprile 2009 ci uniamo alle celebrazioni con l’articolo pubblicato in quei giorni riportando le parole del grande abruzzese D’Annunzio sulla sua gente e su altre tragiche situazioni.

da cultura.inabruzzo.it – 10 aprile 2009 – Postato in: Storia

D’Annunzio idealmente vicino agli abruzzesi

Manlio Barilli, legionario di Fiume, così descrive la partecipazione del Poeta a una tragedia che ricorda l’immane ferita di questi giorni, il colpo al cuore dell’Abruzzo: “La sua partecipazione all’altrui dolore è così forte, così sincera, ch’egli ne patisce assai più di quanto farebbe se si trattasse di cosa sua propria. La sua generosità è immensa, ed io ricordo quel che fece quando, in Val di Scalve, la diga di Gleno ruinò, seminando morte e distruzione a Darfo e nei paesi circonvicini. Il Poeta visitò subito tutti i paesi colpiti dall’immane sventura, portando ai feriti, raccolti negli ospedali, ed ai superstiti, la sua parola efficace e calda di conforto ed il suo aiuto materiale, veramente notevole. E tornò a Gardone pallido, stravolto e turbatissimo, tale era stata l’impressione provata dinanzi alle ruine di fiorenti borgatelle montane, dinanzi a morti e feriti, di fronte agli scampati ancora istupiditi per i terrificanti momenti vissuti e disperati per la perdita di parenti, di tutti i loro beni, della loro casa. Per alcun tempo non fu più lui: non volle vedere nessuno, e non toccò quasi cibo”. Lo stesso Poeta scrive: “Il mio vero male è d’anima. E non posso né debbo parlare della mia anima. Sono tornato da Darfo con la morte in me, con una morte operaia che dentro mi lavora incessantemente”.

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La religiosità dannunziana

Quindi partecipazione sofferta alla tragedia e al dolore, ma anche preghiera. Giorgio Nicodemi, nelle testimonianze sulla vita del Poeta, così riporta la sua risposta alla domanda se pregasse: “Sempre, quando l’anima è in pena e in solitudine. L’invocazione a Dio è nel mio spirito stesso. Forse, non so pentirmi del male che faccio a me stesso, e penso che da me stesso venga il bene che spero di fare agli altri. Ma – è sempre il Poeta che parla – in me è la fede, quella fede stessa che fu di mia Madre. Ella ebbe la santità vera, le virtù che fanno corona alla fede: io ebbi con la fede il potere di dominare il male con l’Arte, e tutto quello che toccai divenne virtù”.

Sulla partecipazione ai riti funebri Eugenio Coselschi, che è stato vicino a D’Annunzio a Fiume, ricorda: “Il Comandante pallido, con gli occhi reclinati, assorto in una meditazione profonda o in una chiusa preghiera, è anch’egli in ginocchio… Ed ecco che, accompagnata dal ritmo breve della pioggia, risuonò, sui vivi e sui morti, sui compagni giacenti e su noi che eravamo la loro guardia in ginocchio, la voce accorata ma ferma, del Comandante: ‘Inginocchiamoci e segniamoci. Segniamoci. Crediamo e promettiamo’”.
Ugo Ojetti – che lo chiama amico, maestro, soldato – racconta: “Genuflesso ha seguito la messa sopra un messale, sulla messa dei morti che… è la più semplice e la più bella e la più antica delle nostre messe”.

Ed ecco la testimonianza di Antonio Bruers, il bibliotecario del Vittoriale: “Seguendo la salma, Gabriele d’Annunzio entrò nella basilica. Subito si fece il segno della croce, come fa sempre quando è in chiesa. Coprì nuovamente il feretro con la bandiera e con fiori. Volle far tutto da sé. Poi si inginocchiò. Tutti erano a posto nei banchi. Lui inginocchiato nel mezzo della chiesa. Rimase così per due ore quanto durò la messa”.

Questa la sua intensa partecipazione, mossa da una religiosità autentica che arrivava fino alla fede, nelle tragedie che avvenivano intorno a lui, e soprattutto in quelle della sua terra. Diceva: “Ho un’anima nativamente religiosa, carica del retaggio di fede tramandato dalla mia gente che di secolo in secolo va peregrinando ai suoi Santuari… Vi sono dunque luoghi di culto annoverati, vi sono luoghi di preghiera prefissi. Ma il nostro dio è sempre davanti a noi come l’orizzonte, o come la colonna invisibile di fiamma”.

I luoghi di culto, dunque, il loro valore incommensurabile per l’Abruzzo, ne parla nella “Lauda dell’illaudato” contenuta nel “Libro ascetico”: “Ben fu la Chiesa abruzzese, già fondata nel primo secolo del Cristianesimo, la custode vigilante del nostro patrimonio ideale. Nelle sue basiliche e nelle sue abbazie ella non conservò soltanto le ossa dei Martiri, ma puranco le testimonianze della nostra nobiltà, i vestigi dell’opera secolare compiuta dal nostro genio; e fu promotrice e propagatrice delle nostre arti belle”.

Le basiliche e le abbazie dell’aquilano colpite dal sisma sono ora mutilate e devastate – prima tra esse Santa Maria di Collemaggio con la tomba di Celestino V, sede della suggestiva “Perdonanza” – alcune distrutte, e Giovanni Lattanzi ne ha fatto un’impressionante galleria, più eloquente di mille parole. Dinanzi alle immagini della loro inagibilità non si può che seguire ancora una volta il Poeta: “Quando l’anima è nello stato di grazia può inginocchiarsi alla ventura, nell’erba o sul sasso, nell’oratorio o nella palestra, nel trivio o nel deserto”; è quello che sta facendo la gente aquilana rimasta senza chiesa e senza casa.

Ma non vogliamo aggiungere altre parole, intendevamo soltanto dare il giusto significato alle espressioni dolenti di D’Annunzio dinanzi alle tragedie, soprattutto della guerra, nelle quali ha saputo rendere in modo toccante sensibilità e sofferenza. Del resto, anche questa che si è abbattuta sulla nostra terra è una guerra, con le devastazioni e le vittime, le sofferenze e gli eroismi.

Le parole di D’Annunzio, tratte dai suoi scritti, spesso rivolte agli abruzzesi, sono dunque un Requiem verso questa terra, la sua terra. Ascoltiamole con raccoglimento, in queste giornate di lutto e di memoria, lo dobbiamo alle vittime della catastrofe alle quali è dedicato il Requiem dannunziano, preceduto da un commosso pensiero per i feriti e sopravvissuti e per tutta la gente d’Abruzzo. Le “testimonianze della nostra nobiltà”, che abbiamo citato dal “Libro ascetico”, si sono ripetute in queste drammatiche giornate, allorché è emersa la dignità degli abruzzesi così dolorosamente colpiti, pur tra sofferenze indicibili e ferite profonde: forza nell’animo e fierezza nel cuore, “vestigi dell’opera secolare” e “nostro patrimonio ideale”, antico retaggio di uno spirito indomito e di una tenacia incrollabile che, nonostante tutto, non sono andati dispersi.

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La vicinanza alla gente d’Abruzzo

“Le lacrime chiamano le lacrime. La pietà chiama la pietà. La bontà chiama la bontà… C’è chi piange e prega nella mia casa abbandonata, nelle mie capanne d’Abruzzo, nel rifugi della mia montagna, nelle chiese, negli ospedali, nelle officine.” (dal “Libro ascetico”).

“Con una commozione profonda, come se udissi la voce medesima di mio fratello partitosi giovine dalla casa paterna e non più ritornato, riconosco l’accento del mio paese, l’idioma della terra d’Abruzzi… Rattengo le parole del suo linguaggio, del nostro caro linguaggio che mi salgono alle labbra.” (dalla “Licenza” della “Leda”).

“Sono anch’io della medesima razza, della medesima fede, del medesimo comandamento… La mia stirpe ha una faccia che io riconosco, una voce che io distinguo, un gesto che io interpreto… Odo alla mia sinistra un accento d’Abruzzo, un suono di terra natale. Il linguaggio natale mi riaffluisce alla gola, alle labbra. Chiamo, grido, interrogo. M’è risposto. M’è dato il rude e fiero ‘tu’ paesano e romano”… Non fui dunque sempre rifatto da mia madre, col medesimo viso, col medesimo cuore, cento volte? Non fui cento volte ritagliato e rifoggiato nella sostanza della stirpe? Cento volte, chi mi vide partire non fu certo di non rivedermi più? Tutti i miei ritorni non sono rinascite?” (dal “Libro Ascetico”).

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L’ansia per i feriti e i sopravvissuti

“.. è ferito all’addome, è ferito alle reni, è ferito al costato. E da che banda lo poseremo noi? Se lo mettiamo bocconi non grida. Se lo mettiamo supino, non grida. Eppure il suo strazio fende anche la tavola morta. Sono inginocchiato nel fango. E nello spasimo silenzioso egli punta i piedi contro la mia coscia. E io serro le mascelle. Ha i piedi nudi. E’ mezzo denudato. Ritorna alla culla. Ritorna alla razza. Sono della sua razza; e soffro il suo dolore con una vastità smisurata che non so dire, da tutta quanta l’infanzia a tutta quanta la vecchiezza, e per tutti i fiumi dalle sorgenti alle foci, e per tutte le montagne dalle radici ai vertici. La sua povera carne è la mia povera carne. La sua costanza nel patire è la costanza di mia madre e della mia gente. E’ là bocconi. E’ stroncato. Ha vent’anni.” (dal “Notturno”).

“Ha la faccia imberbe rivolta dalla mia parte, e da me non distoglie mai lo sguardo. Mi beve. Beve da me una pietà che gli torna dall’altare della chiesa dove fu battezzato e cresimato. Mia madre per la mia bocca gli parla come gli parlava sua madre. E il più lieve dei sorrisi infantili appare all’estremità del suo strazio.” (dal “Notturno”).

Vidi le loro labbra muoversi, vidi nelle loro labbra smorte formarsi la preghiera: la preghiera del tugurio lontano, la preghiera dell’oratorio lontano, del santuario lontano, della lontana madre, dei lontani vecchi… Al ricordo, il cuore mi trema, mi tremerà sempre. Saliva dal cuore della terra quel canto?… Giungeva dall’imo della miseria umana? Dal fondo delle generazioni? Dalla lontananza dei secoli?… La preghiera muta… s’era fatta voce, s’era fatta coro, s’era fatta clamore dal profondo: lamentazione, invocazione, implorazione senza carne, pentimento senza figura, giuramento senza segno, come nelle latomie, come nelle solfatare, come in tutti i luoghi della fatica umana, della pena umana.” (dal “Libro ascetico”).

“… incominciò a cantare un canto sommesso, una melodia senza parole o forse di parole sconosciute, una infinita e tenue musica ch’io non percepii coi miei orecchi ma col sommo dell’anima: un aereo canto, non modulato dalle bianche labbra, simile forse a quello non mai udito dagli uomini ma sol dalle stelle, simile a quello dei cigni iperborei su i fiumi senza sponde. E quel suono era certo ‘al di là della vita’ ma non nella morte. Ed io, pieno di meraviglia sacra e di speranza sovrumana, mi inginocchiai. Non so se in atto io piegassi le ossa dei miei ginocchi sul pavimento, perché avevo smarrito il senso del mio corpo, divenuto anch’io un puro spirito, congiunto a quella improvvisa bellezza. Né altro so. E però dissi io: ciò che io ho avuto da Me medesimo, io ho manifestato a voi. D’ogni cosa n’è cagione l’Amore.” (da “Solus ad solam” e “Le Faville del maglio”).

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Il Requiem per le vittime

“Vado a inginocchiarmi solo, a fianco della cassa, presso il luogo dove il suo capo riposa… Ho nelle ossa un freddo orribile! Toccare la morte, imprimersi nella morte, avendo un cuore vivo! Eppure siamo anche una volta soli… Tutti gli altri mi sembrano estranei, anche il fratello. Siamo soli. Il prete dice la messa funebre. Dal fondo della cappella sale una preghiera mormorata, un coro sommesso e roco. Sento l’immobilità del mio corpo, le ginocchia mi dolgono, e non posso muovermi. Il prete or s’accosta alla cassa, con un libro, tra due ceri; e legge le preghiere dei morti.”(dal “Notturno”).

“Il mio amore non basta, per l’amore dei vivi straniato o falsato, basta solo a togliere dalle loro ossa anche il gelo dell’alpe… Invisibili a quei vivi, sono visibili a me. Senza voce per quei vivi, hanno una voce per me. Hanno per me la salutazione del mattino e la salutazione della sera, come io ho per loro la salutazione della vigilia costante. E tutto quel che di me non può perire, a essi io lo debbo. E tutto quel che di più divinamente umano in me vive, da essi ha origine.” (dal “Libro ascetico”).

“Credo che oggi potrei dentro di me chiamarmi il primogenito dei morti. Io vivo con loro, vivo morendo e risuscitando in loro, rimango coricato presso di loro; o mi levo sul gomito per scrutarli e per rimirarli; o li tengo abbracciati, come mi tenevano abbracciato per terra i miei primi compagni… quando non avevo ancora fatto in me il voto forse orgoglioso di rimanere in piedi sempre e di non abbassare mai la fronte. Talvolta, nelle notti della mia agonia immota, mi pareva udire nel foco taluno dei miei morti crollarsi mormorando. E io parlavo per lui; e mi facevo interprete de’ suoi sogni sotterranei… Io non piangevo, né piangevano i miei compagni supini. Il suono dei singhiozzi non traeva a noi le lacrime. Ora sappiate che i morti non piangono. Ma cantano. E chi ha udito quel canto, quegli sa che c’è un cielo sotto i nostri piedi come ce n’è uno sopra la nostra fronte.” (dal “Libro ascetico”).

Tag: Gabriele d’Annunzio, Terremoto

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Photo

Le immagini sono state tratte dai siti web che sono indicati di seguito nell’ordine di inserimento. Si ringraziano i titolaridei siti per l’opportunità offerta, precisando che le immagini sono inserite a puro titolo illustrativo per cui qualora la loro pubblicazione non fosse gradita basta segnalarlo e saranno immediatamente eliminate I siti sono i seguenti: ilfaro e abruzzolive, rainews e ansa, abruzzoweb e avvenire: a tutti ancora grazie!

Dufy, il “pittore della gioia”, 2. Decorazione e moda, Sicilia e fiori, a Roma, Palazzo Cipolla

di Romano Maria Levante

Si conclude la nostra narrazione della mostra di “Raul Dufy, ll pittore della gioia”, a Roma dal 14 ottobre 2022 al 26 febbraio 2023 a Palazzo Cipolla, promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro Internazionale, presidente Emmanuele F. M. Emanuele , realizzata da “Poema” con il supporto organizzativo di  “Comediarting” e Arthemisia. A cura  di Sophie Krebs con Nadia Chalbi,  del Musèe d’Art  moderne di Parigi, che hanno curato anche il Catalogo Skira.

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Autoritratto”, 1935.

Abbiamo già cercato di evidenziare le peculiarità di un artista definito “pittore della gioia” per la sua inesausta ricerca di quanto possa sollevare lo spirito nei più diversi ambienti e del modo migliore per rappresentarlo. E’ stata definita una “estetica nuova” e lo si è chiamato pittore “moderno-classico”, impegnato nell’approfondire il rapporto luce-colore, anche con soggiorni nelle località più adatte, e nel mettere in pratica le proprie  scoperte.

La vasta galleria espositiva delle sue opere, articolata in 13 sezioni, ci ha portato prima in quelle realizzate sulle orme di Cézanne,  soprattutto paesaggi urbani e rurali, poi  nell’intimità delle  bagnanti e delle modelle nel loro atelier, quindi  nei paesaggi marittimi e nelle corse di cavalli, dove può registrare le scene di vita nel suo dichiarato interesse per questo motivo fondamentale. Ora passiamo alle sezioni successive dalla decorazione e la moda all’illustrazione dei libri e alla Fata elettricità, alla musica e al viaggio in Italia, con particolare riguardo alla Sicilia, al grano e ai fiori in uno straordinario eclettismo contenutistico ed espressivo.

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DECORAZIONE: “Trent’anni o La vie en rose”, 1931

Le opere di natura decorativa-ornamentale

La “Decorazione” è un motivo peculiare dell’artista, da lui curato in quello che viene definito “un edonismo decorativo” da Stephane Laurent la quale precisa che a quel tempo non era ritenuta più un’”arte minore” come in passato, le avanguardie vi si dedicavano come reazione  alle gerarchie accademiche dalle quali la decorazione era penalizzata.  E Dufy, a posteriori, “sosterrà addirittura che la  pittura fauve non è niente altro che  ornamento, colore e arabeschi orientaleggianti”, e su questo concorda uno dei maestri, Matisse.

Alla decorazione fu introdotto dallo stilista Paul Poiret, che aveva una “maison” di moda, con  il quale  nel 1910 aprì un laboratorio di stampa su tessuto, la “Petit Usine”, che produsse per un anno soltanto, ma poi fu ingaggiato dalla seteria di Lione Bianchini-Férier dal 1912 al  1928 e si trasferì, dopo essersi sposato,  a Montmartre nelle vicinanze della fabbrica in cui si svolgeva la produzione di tessuti da decorare in un atelier dove resterà  fino alla fine. Erano tessuti presentati nelle sfilate di moda, di qui un altro lato.della sua attività artistica, la moda per la quale ideò una vastissima serie di costumi con le decorazioni in cui era maestro.  

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“La pesca (bozzetto per un tessuto”, 1919

Vi era un’ispirazione comune tra pitture su tela e su tessuti, con l’orientamento a una diffusione ampia in una sorta di “arte sociale”. Nei contenuti si ispirava alle scene di vita negli ambienti più frequentati, dalle sale da ballo agli ippodromi, dalle regate alla vita nelle località di villeggiatura, ai campi da tennis, le decorazioni erano disegni arabescati con forte cromatismi. Dal punto di vista tecnico si impegnava con le tecnologie più avanzate, dalla antica xilografia alla serigrafia  e l’aerografo, alle schede perforate  per riportare le decorazioni sui tessuti.  “Alla fine – commenta la Laurent – è l’unico pittore della sua generazione  a collaborare con l’industria, a vestire i panni di un vero e proprio designer”. Dal 1925 si immerse nel design dell’art decò  sempre più diffusa, lavorando su decorazioni di oggetti di vari materiali, anche e soprattutto in maiolica smaltata, abbiamo piastrelle e vasi decorati con disegni di animali. Non mancano decorazioni monumentali come quella di 16 metri per una villa ispirate al “De rerum natura” di Lucrezio.

Sono esposte in mostra 26 opere ornamentali, “La pastorella”1912 su lino, “Studio per il parato Baccara” 1925 su carta, “Trent’anni o La vie en rose” 1931 su tela , altre 7 su tessuti intitolati alla Maison Bianchini- Férier dall’ocra e marrone molto tenui al blu e al rosso molto intensi, e 16 pergamene “gouache su carta”, di una straordinaria eleganza e varietà  nel cromatismo molto intenso e nelle forme  variegate, geometriche o arabescate, con tanti motivi: da “Il tennis” 1918  alle “Forme a zig zag” 1918-19  dai vegetali di diverse specie – come le “Zucche e i frutti” 1920 –  alle “Conchiglie” 1924, dai  “Vasi  cinesi” 1925 ai “Motivi cinesi”,  i “Triangoli”,  le “Rose e fiori stilizzati” 1925-30,  dai “Cerchi” 1928,  ai “Monumenti di Parigi” 1929,  agli “Uccelli” 1930. 

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Il tennis”, 1918

Con gli anni ’20, la sua attività si estese  alla “Moda” , con i costumi e la scenografia, sulla scia della decorazione. Tutto parte dalle illustrazioni del “Bestiario” di Apollinaire, che piacquero allo stilista Poiret – e meno all’autore del testo illustrato – dando avvio alla trasposizione per la propria Maison di moda. Nadia Chalbi  – che ha curato la mostra con Sophie Krebs – ricorda: “Trasponendo  la tecnica della xilografia in ambito tessile, scolpisce nel legno motivi figurativi stilizzati  nello spirito del Bestiaire e studia con l’aiuto di un chimico tutte le fasi del processo produttivo, dalla scelta dei colori alla stampa”. Con questo procedimento “realizza parati ispirati a immagini popolari come La pastorella,  disegna motivi floreali su sontuosi  tessuti di seta, raso e velluto per la confezione di abiti e cappotti,  e collabora all’organizzazione della festa ‘persiana’ ispirata alle Mille e una notte  organizzata nell’abitazione privata dello stilista”. Viene descritta così un’altra delle tante vite artistiche di Dufy.

Sono esposti 8 Bozzetti di moda  per la Maison Bianchini- Férier con “Abiti scuri per l’inverno” su eleganti siluette femminili, e una “Panoramica di abiti per l’estate“, alcuni  di color rosso sfumato, sono 10 modelli allineati  in un’unica “sfilata”, siamo nel 1920.  Oltre ai modelli  sono esposte 18 Fotografe di abiti indossati da modelle in diversi ambienti – in interni e all’esterno – realizzati su suoi disegni sempre per lo stilista Poiret su tessuti della Maison Bianchini-Férier, negli anni dal 1919 al 1926. Sono in bianco e nero con molte ombre che rendono scuro l’insieme, il contrario dei 7 disegni  a inchiostro su carta,  con i contorni di abiti appena delineati, quasi evanescenti, di un’indossatrice della Maison Poiret, sono “Studi per il  parato. Le indossatrici alle corse” 1926. Vediamo anche “7 fogli di carta da lettere intestata alla maison Paul Poiret” nel 1911, quando inizia la collaborazione.  

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MODA:”Bozzetti di moda, sete di Bianchini Férier disegnate da Raoul Dufy”, 1920

Della decorazione fa parte l’”Illustrazione dei libri”  alla quale si dedicò con altrettanto impegno che nell’ornamento dei  tessuti. Sembrava un campo poco adatto per chi voleva valorizzare la propria espressione pittorica, lo spiega Laurence Campa: “Il libro  non è certo l’ambiente naturale dei pittori: scrigno di parole e immagini mentali organizzate da un altro,  volume chiuso nelle biblioteche, non si offre con la stessa immediatezza di una tela o di un disegno incastonato nella sua cornice”. Ma divenne adatto a lui  perché “offre mille combinazioni felici a chi ama la  tipografia, l’incisione, la decorazione e la poesia. Come Raul Dufy”.

Il nostro artista, infatti, aveva una concezione diversa da quella  comune,  appena ricordata, secondo cui le illustrazioni sono in secondo piano rispetto alle parole scritte che devono evocare: “L’illustrazione non deve seguire il testo – disse nel 1948 – deve insinuarsi nella mente del lettore. L’illustrazione è un’analogia”.  Ne  ebbe una speciale predilezione nel suo eclettismo appassionato, ricorrendo soprattutto alla xilografia su legno.

ILLUSTRAZIONE DI LIBRI: “Le Paon”,
illustrazione di Raoul Dufy di ‘Le Bestiaire’ di Guillaume Apollinaire

Non ripercorriamo le sue numerose esperienze illustrative e i relativi stretti contatti con i grandi scrittori e poeti dell’epoca, ci limitiamo a sottolineare come inizialmente troviamo delle xilografie del 2010, “La pesca” e “La caccia”, che preludono al “Bestiario” di Guillaume Apollinaire, illustrato nel 1911, dopo il rifiuto di Picasso,  con figure di animali poi tradotte con grande successo sui tessuti di moda, come abbiamo detto sopra,  e sui vasi di ceramica in una sinergia coinvolgente, vediamo esposta la grafica del “Pavone”.

 Per Apollinaire quindici anni dopo il “Bestiario” abbiamo  le illustrazioni di “”Le Poéte assassiné”  1926, è esposta la copertina rossa e 3 disegni molto scuri e addensati con dei velieri e dei campi.  A metà nel tempo tra queste due illustrazioni quella per “Stephane Mallarmé, Madrigaux” 1920,  vediamo 7 figure  molto nitide e colorate sui singoli temi descritti nel testo.  

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FATA ELETTRICITA’ “Studio per ‘Centrale elettrica’”, 1936

Un posto a sé spetta alla“Fata elettricità”, una pittura murale di 600 metri realizzata in tempo record, tra il 1936 e il 1937, per l’Esposizione internazionale delle arti e delle tecniche applicate alla vita moderna, per  la quale fece una apposita ricerca sulle fonti e gli impieghi dell’elettricità e sugli scienziati e ricercatori, vi inserì un centinaio di figure. Realizzò 250 pannelli di 2 x 1,20 m. dagli schizzi e  disegni in scala minore, veramente tantissimi, fece anche un dipinto in scala 1 a 10. Vediamo una spettacolare riproduzione lunga 6 metri a olio su tela della “Fata elettricità” in un cromatismo variegato con le  tante figure che si muovono tra le installazioni, e 2 studi anch’essi colorati, gouache su carta per  “Centrale elettrica” e “Paesaggio”;  e anche 13 Bozzetti a inchiostro su carta per i personaggi. Siamo nel 1936, lo fermerà solo un’artrite reumatoide che inizia proprio allora  a tormentarlo.

La gioia in altre espressioni, dalla  Musica a viaggio in Italia, fino ai Fiori

Dopo tante immagini di vita spensierata e operosa nei più diversi ambienti, che esprimono la sua volontà di ricercare la gioia nelle diverse situazioni, vogliamo concludere con le sezioni in cui la gioia si esprime in modo diverso, cominciando con la “Musica”  di cui era appassionato, veniva da una famiglia di musicisti.

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MUSICA: Omaggio a Mozart”, 1945

Nei suoi inizi pittorici di stampo impressionista rappresenta l’”Orchestra di Le Havre”  nel 1902 e un “Omaggio a Mozart” nel 1915, il primo di una serie; ma anche molto più avanti, negli anni ’40, sono suoi soggetti orchestre e compositori, balletti e strumenti musicali. Fino al 1952, un anno dalla morte, quando realizzò altri omaggi a grandi compositori in modo molto diverso dall’ultimo “Omaggio a Mozart”  del 1945  che vediamo esposto,  evocato con immagini  dagli strumenti musicali alla partitura, alla casa natale, come osserva la Chalbi: “Questi motivi svaniscono  negli ultimi omaggi a Bach e Debussy (1952) per lasciare spazio  a un lirismo in cui i ritmi musicali della linea  e le armonie cromatiche occupano interamente la scena”.  Diceva: “Un quadro è una partitura orchestrale e l’osservatore stesso marca il ritmo della musica  con l’ampiezza e la rapidità del suo sguardo”.

Spicca nlle sue evocazioni la figura di Arlecchino come simbolo dell’incontro tra musica  e teatro nella Commedia dell’arte, è una maschera prediletta anche da Cézanne e Picasso. In mostra sono esposti 3 dipinti degli anni ’40: “Arlecchino e orchestra” 1940 in cui lo ritrae disteso addormentato  con la mano sul violino, “Arlecchino con violino e ritratto di Berthe  Reysz”1941-42, “L’Arlecchino” 1943 in piedi a braccia conserte su uno sfondo dal cromatismo molto intenso tra il pavimento rosso, la campagna verde e il cielo azzurro.

VIAGGIO IN ITALIA: “Paesaggio siciliano. Taormina”, 1923

Ma  è “Il viaggio in Italia” , in particolare nel Sud – con l’immersione vitale nel sole mediterraneo e quella culturale nelle antichità – che ci sembra possa esprimere la gioia di trovarsi nell’ambiente preferito.  Tra maggio e giugno  del 2022 visitò Roma e Napoli – come Picasso –  e soprattutto la Sicilia,  da Catania e Caltagirone a Taormina. Non è stata solo vacanza, ecco cosa osserva la curatrice Krebs: “La luce densa e costante del Mediterraneo gli permette di  semplificare la gamma cromatica e di  studiare i rapporti tra i colori, ciò che chiama ‘colore-luce’.

Questo soprattutto in Sicilia, dove  oltre al sole mediterraneo c’è l’antichità vivente nel mito di Ulisse che lo affascina.  Tanto che dichiara: “Sono a Porto Ulisse, penso a Omero”. La Krebs aggiunge: “L’Etna gli richiama il frastuono della folgore di Zeus e il biancore dei marmi greci nella Valle dei Templi,  di fronte all’azzurro del cielo e del mare, lo spinge all’allegoria. Quei panorami bucolici sembrano abitati da ninfe  e divinità, mentre le piccole città aggrappate alle colline sono cariche di storia”.

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“Il lavoro nei campi in Sicilia”, 1923

Lo vediamo nei dipinti sulla Sicilia realizzati dopo il viaggio, “Il teatro di Taormina” 1922 e “Paesaggio siciliano. Taormina” 1923  con in primo piano antiche colonne  che fanno pensare anche a reminiscenze del Foro romano; e “Caltagirone. Paesaggio, veduta di un borgo siciliano” 1922-23,  una delle “piccole città cariche di storia” citate  dalla Krebs.  Ma anche i “panorami bucolici”,  come “Il lavoro dei campi in Sicilia” 1923 con una visione dall’alto invece della prospettiva orizzontale. Oltre a questi dipinti sono esposti 16 “Schizzi del Taccuino siciliano”, con pochi tratti a fissare luoghi e persone incontrate; il  taccuino lo riprese  23 anni dopo, nel 1946,  per illustrare la traduzione  di Paul Valery delle “Bucoliche di Virgilio”, ma rimase allo stadio di progetto non realizzato.

“Il lavoro dei campi in Sicilia” sopra citato non è il solo dipinto esposto con questo soggetto,  vediamo anche “Paesaggio meridionale con fichi d’India”  del 1920, anteriore al viaggio, che ci prepara a un altro aspetto della sua pittura: l’attenzione alla campagna, con l’opera dell’uomo e la vita rurale, di un artista che abbiamo visto molto attratto da ambienti ben diversi, come le marine e i loro frequentatori, i luoghi e le occazioni della vita mondana.

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“Caltagirone. Paesaggio. veduta di un borgo siciliano”, 1922-23

Questa attenzione si traduce in particolare  nelle sue rappresentazioni aventi come soggetto “Il grano”,che vediamo in due opere con tale titolo , un Disegno punteggiato a penna su carta del 1922-23, e un Acquerello a due colori ocra-oro  e verde del 1930 e addirittura in una Piastrella di ceramica intitolata “Spighe” del 1926.  Ma a parte queste premesse, la sua attenzione si concentrò in particolare su campi di grano di Langres ai quali dedicò circa 50 vedute  nelle estati 1933-36, in cui  soggiornò in Normandia e nell’altipiano dilangres, ispirandosi anche a Van Gogh.

Vediamo “La mietitura a Langres” in 2 dipinti dallo stesso titolo e anno, il 1935, il primo schematico ed equilibrato con al centro la mietitrice  a cavalli, a destra una verde quinta di alberi,  sullo sfondo azzurro la città lontana,  il grano dorato risplende; il secondo, più mosso ma altrettanto eloquente nella sua luce dorata,  mostra in primo piano l’immagine della dea Cerere  distesa nuda. Cerere diventerà soggetto esclusivo in “Ninfa distesa nel grano” 1938, nella stessa posa languida del quadro precedente,  ad esprimere la condivisione della dea protettrice nella fatica del lavoro dei campi e nel meritato riposo.

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IL GRANO: “La mietitura a Langres”, 1935

Del 1938 vediamo anche “La Senna, l’Oise e la Marna”,  facente parte di un trittico della “Fata elettricità”, fiumi impersonati dalle Tre Grazie davanti a una distesa di spighe di grano con sullo sfondo un paesaggio con ponti  e tralicci. Seguirà dal 1945 al 1953 la serie delle “Trebbiature”,  dipinti, acquerelli, disegni. Così la Chaibi: “Questo ciclo, comprendente scene che descrivono la battitura del grano,  l’azione dell’uomo e delle macchine integrata nel paesaggio, esalta le semplici gioie del lavoro nei campi e le ricchezze della natura fino a un ultimo quadro rimasto incompiuto alla morte del pittore”.

Dall’interesse per la vita nei campi e per il grano ai “Fiori e bouquet”,  cui si è dedicato sin dalla fase iniziale del suo percorso artistico, nel periodo fauve e impressionista, pur se il loro impiego decorativo si è avuto quando lavorava per la Maison di Paul Poiret e l’impresa di tessuti Bianchini-Fèrier di cui abbiamo già parlato; e non solo, anche nell’illustrazione di libri. Vediamo 8 Acqueforti senza colore del 1930 delle 93 per il libro di Eugene Montfort, 8 Acquerelli molto colorati dei 12 per il libro di André Gide, 19 Incisioni  su legno sulle 24 del libro di Roland Dorgalés uscito nel 1956, tre anni dopo la sua morte. Ma, come per il grano,  il massimo impegno su questo soggetto si è avuto in occasione del lungo soggiorno  presso un amico prima a Perpignan, poi a Vernet-les-Bains, nella campagna del Midi. E’ il 1941, sebbene l’artrite reumatoide lo tormenti sempre più, nel giardino d’inverno della residenza si immerge nella pittura dei fiori, ricorrendo per lo più all’acquerello in modo da seguite l’ispirazione senza disegni preparatori.

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La Senna, l’Oise e la Marna”, 1938

Diceva  che “i fiori portano naturalmente i colori”, e “l’acquerello è forse la maniera  di dipingere che lascia più libertà all’improvvisazione, è quasi immateriale”; per questo “è perfetto per le annotazioni rapide dal vero”. Lo vediamo dipingere fiori, nature morte  e lavoro nei campi  nei due anni successivi quando soggiorna presso un amico scrittore  in un villaggio agricolo dell’alta Garonna, Montsaunés. Così la Chaibi: “…eccelle in questo esercizio in cui  fioriture, arabeschi ed ellissi  giocano da pari a pari con una tavolozza dalle sfumature infinite. Sa bene come ridurre all’essenziale i motivi vegetali, che si tratti delle fronde di una palma,  del fogliame di un albero, di una spiga di grano o dei petali di una rosa”.  La rosa è uno dei fiori preferiti, ma in generale prediligeva tutti i fiori di campo. Vediamo esposti 6 dipinti,  2 del 1942, “Le rose” e “Anemoni  e tulipani”, poi  “Le margherite” 1943, “Mazzi di iris e papaveri” 1948,  “Fiori di campo” 1950, e“Bouquet campestre” del 1953, l’anno della morte.  

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FIORI: “Anemoni e tulipani” , 1942

Così termina il nostro viaggio ideale nell’”estetica nuova” dell’artista “moderno-classico” espressa in forme molteplici – di cui abbiamo cercato di dare conto – accomunate da uno speciale cromatismo frutto della ricerca del rapporto luce-colore anche con soggiorni appositi negli ambienti più adatti, e il Sud Italia è stato uno di questi. 

Nella sua esplosione floreale possiamo sentire l’espressione autentica del “pittore della gioia” . La consideriamo una sorta di “inno alla gioia”, e come tale ci resta negli occhi mentre sentiamo echeggiare dinanzi alla visione di queste e delle altre sue opere esposte in mostra  le note del pezzo di Beethowen, ripensando agli omaggi pittorici di Dufy per i grandi musicisti dell’epoca.  

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“Le margherite”, 1943

Info

Palazzo Cipolla, Fondazione Terzo Pilastro Internazionale, via del Corso 320, Roma.  Orario, tutti i giorni, tranne il lunedì chiuso, dalle ore 10 alle 20, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso euro 10, ridotti euro 8 per under 26,  over 65  e le categorie agevolate. Tel. 06.9837051, e mail: biglietteriapalazzocipolla@gmail.com.Catalogo  “Dufy. Il pittore della gioia”,  a cura di Sophie Krebs con Nadia Chalbi, Skira, ottobre 2022, pp.  250, bilingue italiano-inglese, formato 24,5 x 28,5. Il primo articolo è uscito in questo sito il  18 febbraio 2023. Cfr. i nostri articoli in questo sito per gli artisti citati: su Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Cézanne 22, 31 dicembre 2013.

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Le immagini delle opere di Dufy sono inserite nell’ordine in cui vengono commentate nel testo le sezioni della mostra che le espongono; esse sono tratte dal Catalogo della mostra, si ringrazia l’Editore Skira con i titolari dei diritti. Alle 16 immagini riportate nel precedente articolo relative alle sezioni ivi commentate seguono altre 16 immagini delle sezioni commentate in questo articolo. In apertura, “Autoritratto” 1935; seguono, DECORAZIONE: “Trent’anni o La vie en rose” 1931, “La pesca (bozzetto per un tessuto” 1919 e “Il tennis” 1918 ; quindi, MODA:“Bozzetti di moda, sete di Bianchini Férier disegnate da Raoul Dufy” 1920, e ILLUSTRAZIONE DI LIBRI: “Le Paon, illustrazione di Raoul Dufy di ‘Le Bestiaire’ di Guillaume Apollinaire; inoltre, FATA ELETTRICITA’: “Studio per ‘Centrale elettrica’” “ 1936, e MUSICA: “Omaggio a Mozart” 1945; ancora, VIAGGIO IN ITALIA: “Paesaggio siciliano. Taormina” 1923, “Il lavoro nei campi in Sicilia” 1923 e “Caltagirone.Paesaggio. veduta di un borgo siciliano” 1922-23; continua, IL GRANO: “La mietitura a Langres” 1935 e “La Senna, l’Oise e la Marna” 1938; infine, FIORI: “Anemoni e tulipani” 1942, “Le margherite” 1943 e, in chiusura, “Bouquet campestre” 1953.

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“Bouquet campestre”, 1953

Dufy, il “pittore della gioia”, 1. Paesaggi e scene di vita, a Roma, Palazzo Cipolla

di Romano Maria Levante

La  mostra di “Raul Dufy, ll pittore della gioia”, in corso a Roma dal 14 ottobre 2022 al 26 febbraio 2023 a Palazzo Cipolla,  espone  circa 100 dipinti  e una sessantina di disegni, bozzetti e modelli, in 13 sezioni che ne documentano l’estrema versatilità nei contenuti all’interno di una rigorosa ricerca su luce e colore.  La mostra è promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro Internazionale, presidente Emmanuele F. M. Emanuele , realizzata da “Poema” con il  supporto organizzativo di “Comediarting” e Arthemisia. A cura  di Sophie Krebs curatore generale  del Musée d’Art moderne di Parigi, con Nadia Chalbi, responsabile delle mostre,  hanno curato anche il Catalogo Skira.

Auroritratto”, 1898 .

La vastissima  esposizione di opere di Dufy  è spettacolare: si passano in rassegna dipinti a forte impatto per la loro vivacità cromatica, uniti a disegni  variamente colorati di decorazioni quanto mai raffinate ed elaborate fino a  modelli di costumi variegati  e rifiniti, a colori o in bianco e nero, nelle tecniche più diverse, olio e acquerello, xilografie e gouache, su carta e tessuto.“Il pittore della gioia” è stato chiamato, si arriva a tale definizione da questo caleidoscopio di colori e forme. 

Torna a Roma dopo 40 anni  dalla mostra che ci fu a Villa Medici, una delle tante “riscoperte” di Emmanuele F. M.  Emanuele, citiamo tra gli altri, nell’ultimo decennio,  per l’Italia Corrado Cagli ed Ennio  Calabria, per l’Europa i CoBrA, per l’Est sovietico i Realismi Socialisti e Deineka.  Ha promosso la mostra con il suo entusiasmo e la sua lungimiranza e  ci dà subito  segnali molto interessanti sui criteri artistici alla base di un itinerario pittorico così invitante. Intanto, anche per spiegare l’insufficiente  considerazione  per questo grande artista, osserva: “Spesso non compreso a fondo, a causa dell’apparente semplicità del suo tratto pittorico, che gli ha fatto non di rado attribuire la patente di superficialità e mondanità, Raoul Dufy in realtà ebbe una formazione articolata e complessa: fu inizialmente influenzato dall’impressionismo. Successivamente si accostò al fauvismo”.

DUFY E I MAESTRI: “Ballo del Moulin de la Galette”, 1939

Ed ecco il risultato: “La particolarità di Dufy consiste nel dissociare gradualmente nel corso della sua maturazione artistica il colore dal disegno, semplificando il più possibile: egli eludeva il soggetto dell’opera per una specie di propensione al principio dell’indeterminatezza, facendo sì che il segno si posasse sul colore con disinvoltura, mosso dalla pura gioia  del dipingere”. Ancora più addentro alla sua espressione artistica: “Si può affermare che nell’estetica dell’artista francese la forma venisse prima del contenuto, e questa caratteristica probabilmente lo relegò a un ruolo di secondo piano in un periodo in cui l’impegno dichiarato … era un imperativo”.  Con questa importante precisazione: “In realtà, sotto  l’apparente semplicità delle forme di Dufy, vi erano un’elaborazione minuziosa, un’attenzione  e una sensibilità fuori del comune,  soprattutto la sua teoria che il colore servisse ai pittori per captare la luce”.

L’”estetica nuova” dell’artista “moderno-classico”

Nella  sua ricerca  artistica Dufy  si trova nel bel mezzo della contrapposizione tra roubenisti e poussinisti, come ricorda la curatrice della mostra Sophie Krebs:  per i primi – che si rifacevano a Roubens. Tiziano  e Veronese – “il colore era altrettanto importante del disegno e della composizione in quanto capace di conferire verità ed emozione al soggetto rappresentato”;  mentre i secondi, legati all’Accademia, “rivendicavano il primato del disegno e della composizione alla base dell’insegnamento accademico e ritenevano il contributo del colore puramente decorativo”. Un conflitto acceso, con implicazioni non solo tecniche ma anche filosofiche e sociologiche.

SULLE ORME DI CEZANNE: “Le regate”, 1907-08

Dufy  risolve il conflitto tra colore da un lato e disegno-composizione dall’altro in modo pragmatico, basandosi sull’esperienza oltre le enunciazioni teoriche. Ecco le sue parole: “Quando parlo del colore, non parlo del colore della natura, ma dei colori della pittura, che sono le parole con cui formiamo il nostro linguaggio di pittori … Non pensiate che io confonda il colore con la pittura, ma dato che faccio del colore l’elemento creatore della luce, cosa che non va mai dimenticata, esso è, insieme al disegno, il grande fondatore della pittura, l’elemento chiave”.

Il colore, “insieme al disegno”, dunque: , così  viene superata la contrapposizione tra due “elementi chiave” della pittura, e lo dimostra praticamente con una evoluzione  che parte dall’impressionismo di Monet  lasciato dopo  l’emozione suscitata in lui da un quadro di Matisse,  passando per le opere di Lorrain,  fino a far suo l’insegnamento di Cèzanne: “il colore-luce costruisce la forma”; e “quando la ricchezza del colore è massima, la forma è al massimo della pienezza”.

“La terrazza sulla spiaggia”, 1907

Da Cézanne prende la “pennellata direzionale” che collega gli oggetti con il colore in modo da tenere insieme il soggetto principale del quadro e ciò che lo circonda: “Abbiamo l’albero, la panchina, la casa, ma ciò che mi interessa, la cosa più difficile, è ciò che sta intorno a questi oggetti. Come riuscire a tenere tutto insieme”. In altre parole la composizione che si aggiunge al colore e al disegno.

E’ un percorso il suo che, come Cézanne,  lo ha visto ritrarre dal vero i soggetti ma non più come impressionista che coglie l’attimo  fuggente bensì  come osservatore attento che interpreta le forme rendendole geometriche e i colori riducendo la gamma cromatica, ricercando la sintesi tra colore e disegno in un estremo rigore compositivo.

“Paesaggio a Hyéres”, 1913

Non è solo – anche Braque dopo il cubismo si muove in questa direzione – ma soprrttutto si ispira agli antichi maestri, da Tiziano a Botticelli, a Renoir; e anche all’arte antica che conosce direttamente nel suo viaggio in Italia. “La cultura classica si insinuerà a poco a poco nella sua pittura – commenta la Krebs –  I suoi  ‘Omaggi a Lorrain’, una vasta serie inaugurata nel 1926, riuniscono diversi elementi : l’antichità, l’arte classica e la questione  del colore-luce”,  abbinamento che nasce dalla forte impressione suscitata in lui dalla  luce mediterranea, che diventa la vera luce, “cruda e violenta”.

Ma Dufy, pur avendo queste fonti di ispirazione,  mantiene una spiccata personalità e una peculiarità  nell’associare disegno, colore e composizione, con un’ulteriore singolarità.  E’ stato definito “cacciatore di immagini” per essersi dedicato alla rappresentazione delle più disparate situazioni, come specchio dei tempi da lui vissuti,  dalle scene di vita alle decorazioni, dai paesaggi alle corse ippiche,  dai bozzetti ai costumi teatrali, dalle bagnanti alle modelle. Ma non in una pedissequa riproduzione del reale, sia pure con l’associazione disegno-colore-composizione, bensì  con forme spesso abbozzate e sproporzionate, lontane dalla prospettiva classica.

La Jetée promenade a Nizza”, 1924-26

La sua viene definita “esplorazione lirica del mondo” da Brigitte Léal  secondo la quale “in tutti i suoi quadri si ritrova invariabilmente un certo ritmo cadenzato , che struttura con dolcezza le composizioni. Abile arrangiatore, Dufy si preoccupa di bilanciare  le linee rigorose della natura e delle strutture destinate allo svago … con il  gioco abbagliante dei riflessi  nell’acqua  e nel cielo … Il talento gli permette di mettere insieme intere serie di vedute urbane e paesaggi brillantemente eseguiti, utilizzando  inquadrature sempre più sofisticate in cui l’influenza della fotografia e del cinema gioca probabilmente un ruolo importante”.

In che modo avviene tutto questo?  Seguendo le fonti di ispirazione pur in un approccio del tutto personale: “Nella  grande tradizione della pittura en plein air praticata dagli artisti dell’Ottocento , esse gli permettono di coniugare l’occhio e la mano, il lavoro dal vero destinato a definire l’ambientazione topografica e quello realizzato in studio sul colore … ormai affrancato dai codici impressionisti  il colore si distende in ampie campiture  opache dalle tinte vivide e uniformi che donano alla tela l’aspetto di un affresco”.  Ci si riferisce ad opere del 1906 quando “l’estetica fauve, che attiva le funzioni spaziali e decorative del colore, inizia a corrodere la granitica adesione di Dufy alla trascrizione figurativa della realtà”, comunque deformata.  Successivamente le “apparenze figurative” restano limitate alla parte costruttiva della composizione, seguendo anche in questo Cézanne, verso una sempre maggiore astrazione  basata sulla geometria.

BAGNANTI: “La grande bagnante”, 1914

L’evoluzione pittorica, mantenendo  precisi riferimenti  a Cézanne e non solo, è evidente. Per le opere del 1909-10  la Lèal osserva a conclusione del suo commento: “In quell’epoca,  in coincidenza con l’avvento del cubismo di Braque e  Picasso, Dufy  ritorna ad un’estetica  più decorativa ed elegante, satura di colore,  che preannuncia il suo lavoro sui tessuti.”. Con questo spirito: “Senza mai rinunciare alla propria libertà, esplorerà fino in fondo l’estetica nuova, animato dal puro piacere di dipingere”. Tutto questo  non solo in quadri con paesaggi e scene di vita rutilanti di colori, ma anche in decorazioni – specialmente quelle su tessuti – e illustrazioni di libri che rappresentano altre espressioni quanto mai  spettacolari della sua intensa attività artistica.

La galleria espositiva: i dipinti  di paesaggi e scene di vita

Ripercorriamo l’itinerario dell’artista attingendo,  per le notizie e le citazioni, ai saggi e alle schede del ricco Catalogo da cui sono tratte anche le citazioni precedenti.  Facciamo  la sua conoscenza attraverso  4 “Autoritratti”,  che  lo ritraggono nel corso della vita, dalla giovinezza dei 21 anni,  alla maturità di 43 e  58 anni, all’età anziana di 71 anni, a  5 anni dalla morte: sono immagini di un viso sempre pensoso, assorto, che non esprimono gioia ma riflessione. La gioia la troveremo nei suoi dipinti paesaggistici e ambientali, oltre che in quelli ornamentali. Intanto ecco i suoi omaggi  ai Maestri del passato, da Claude Lorrain  nel “Porto con veliero” 1935, a Toulouse Lautrec  con il “Ballo del Moulin de la Galette” 1939,  fino a Botticelli con “La nascita di Venere” 1940, aveva dai  58 ai 63 anni, a riprova di quanto continuasse ad essere profonda la loro influenza su di lui.

Due bagnanti”, 1943-45

Ma immergiamoci nello speciale  cromatismo dei suoi dipinti  iniziando da quelli  della sezione “Sulle orme di Cézanne¸ soprattutto paesaggi che iniziano con il “Paesaggio provenzale” 1905 –  ancora  linee morbide; con influsso impressionista –  e si sviluppano nei paesaggi successivi alla morte di Cézanne, il  grande maestro “padre di tutti noi” secondo cui  si doveva “trattare la natura  attraverso il cilindro e la sfera, il cono”, di qui le forme e i volumi diventano palesemente geometrici. Seguendo questo criterio  dipinse gli stessi suoi soggetti, alberi dalle linee spezzate, case dalle forme cubiche e fabbriche stilizzate; e da aprile a  novembre 2008, due anni dopo la morte di Cézanne, soggiornò anche lui  nell’Estaque, analogamente a Braque che vi stette  4 mesi, da giugno a settembre.

Vediamo  “Funivia all’Estaque”“Alberi, case, statua”, “Battelli ormeggiati nel porto di Marsiglia”, tutti del 1908. Successivamente   “Paesaggio  dell’Estaque”e “L’Estaque” , del 1910, con lo stesso scorcio panoramico; un cromatismo molto più intenso nei due colori ocra e verde in “Veduta da una finestra aperta” 1908  e “Paesaggio a Hyéres” 1913. Invece unica dominante  verde cupo con figurazioni geometrico-architettoniche  bianche in “Il giardino abbandonato” 1913  e “”Case e giardino”1915, con tendenza all’astrazione. Alcuni anni dopo più figurativi e con cromatismo variegato, come “Vence” 1919-20 . Tornano i  volumi geometrici  nelle “Nature morte”, altro genere caro a Cézanne, questa volta tondeggianti, con forti contrasti cromatici pur nell’armonizzazione di colori molto intensi.

ATELIER E MODELLE: “La modella”, 1933

Dalle nature morte passiamo alle scene di vita, nella “Terrazza nella spiaggia” 1907 e “Al caffe’” 1908, figure appena delineate ma che sprizzano vivacità in una atmosfera coinvolgente; diversa  “La Jetée promenade a Nizza ”  1924-26, dove le figure viste da lontano sono composte in un ambiente austero. Ma la figura umana in primo piano è “La grande bagnante” 1914, un corpo statuario con  forme che richiamano quelle cubiste  ma sono alquanto arrotondate.

Ritroviamo le “Bagnanti” – tra le quali rientra di diritto “la grande bagnante” del 1914 – quasi venti anni dopo nel  “Nudo con conchiglia” 1933, una figura con linee morbide in una sorta di monocromia ocra,  a parte la  conchiglia che tiene sollevata con la mano destra e il lenzuolo su cui è seduta di colore bianco-nero.

“Atelier di Perpignan, rue Jeanne d’Arc” , 1942

Dopo altri dieci anni la figura sembra addirittura sciogliersi nel mare verde con accennate  onde bianche in cui le “Due bagnanti”  1943-45 fluttuano, per poi ricomporsi nei “Due nudi”, dello stesso anno, chiari su fondo scuro, di cui è sia pur vagamente ben definita la forma. Con “Nuotatrice rossa” 1925 e “Naiade” 1926 le forme femminili tornano tra le onde, meglio definite e addirittura leggiadre. Immagini dello stesso tipo nei “Vasi con bagnanti”, rispettivamente “su fondo giallo” nel 1926 e “su sfondo rosa” nel 1935, fino a “La coppa blu” del 1935.

Dopo le bagnanti troviamo  altre figure femminili conturbanti  nella sezione “Atelier e modelle”,  allorché dalla pittura in “open air” era passato a prediligere la pittura in studio,  nell’’intimità, come del resto è quella “rubata” alle bagnanti. 

PAESAGGI MARITTIMI: “Festa nautica a Le Havre”, 1925

Sono figure  a se stanti, come “Nudo su sfondo azzurro”  e “Nudo disteso”, entrambi del 1930,  dai contorni ben delineati, oppure inserite nell’ambiente  come  “La modella” 1933,  seduta su un divano con mobili e quadri alle pareti. In “Atelier di Perpignan, rue Jeanne d’Arc” 1942, la modella è  al centro dello studio del pittore con i cavalletti per le tele, mentre in ’”Atelier  di Perpignan, ‘La freddolosa’” 1942, è evocata da una figura statuaria sulla sinistra; in altri 3 dipinti sono in grande evidenza le finestre, “Atelier con finestra” e “Atelier con torso”, entrambi del 1942 e con un manichino acefalo su un tavolo, mentre in “La consolle gialla con due finestre” queste sono addirittura il soggetto, siamo nel 1948, dello stesso anno “Coppa di frutta” su fondo rosso: l’artista ha 71 anni, morirà cinque anni dopo.  

Le scene di vita collettiva tornano nei “Paesaggi marittimi”,  a partire da “Festa nautica a Le Havre” 1925, in cui si distinguono appena le minuscole figure umane allineate in basso a destra in una composizione dominata dalla tante barche dei tipi più diversi che affollano il vasto mare. Invece spiccano in “Il molo di Honfleur” 1928, e “Case a Trouville”1932, nella tranquillità con cui passeggiano.

“Il molo di Honfleur”, 1928

Molto  diversa la presenza di figure umane in due dipinti sulle regate: in “Regata con gabbiani” 1930 e  “Henley, Regata a bandiere” 1935-52 si intravvedono appena sulle barche, a vela nel primo,  a remi nel fondale imbandierato nel secondo, mentre in “Regata a Henley. I vogatori” sono in primo  piano e occupano quasi l’intero dipinto 11 grandi figure nerborute  ognuna con un remo in mano poggiato a terra, dietro di loro molto in piccolo si intravede una barca con i rematori. Vediamo anche solo le barche nel mare,“Velieri nel porto di Le Havre” 1925 e “Regate” 1935, mentre per l’ambiente a terra sono esposti “”Honfleur. Il molo o il faro” 1935 e “La spiaggia a Saint Adresse”, entrambi senza figure umane, ma si immaginano popolare rispettivamente la struttura portuale e quella balneare.

Regata con gabbiani”, 1930

La sezione “Corse e cavalli”  conferma l’interesse alle scene di vita nei vari ambienti pur nella specificità dei luoghi rappresentati: frequentava gli ippodromi interessato all’umanità di chi li affollava più che alle corse che vi si svolgevano. E non solo gli ippodromi francesi, che vediamo rappresentati nel suoi dipinti del 1923-24, ma anche quelli inglesi nei periodi in cui soggiornò in Gran Bretagna dal 1930 al 1932.  Vi fu introdotto dallo stilista Paul Poiret perché erano frequentati dall’élite, quindi si potevano trarre spunti interessanti dal pubblico in tribuna oltre che dall’animazione dell’insieme. E non solo, vi trovò l’ambiente ideale per i suoi esperimenti sul rapporto colore-luce. e colore, tanto che trovò il modo di illuminare i soggetti da entrambi i lati perché, affermò, “ogni oggetto ha il suo centro di luce”. In tal modo,  precisava, “mi libero dal vincolo  dell’imitazione e lascio campo libero all’immaginazione del colore”.

Dei 6 quadri esposti, 3 rappresentano l’insieme: in “La pesa” 1930, si vede e si sente l’animazione febbrile per tale operazione, “Corse a Epson” 1934, è una panoramica da molta distanza dell’intero complesso sportivo-mondano,  “Ippodromo di Ascot” 1937-38 mostra in primo piano anche se quasi in dissolvenza, la società che lo frequentava.  Altre 3 quadri rappresentano  in primo piano i cavalli: “Il paddok” 1913, una sorta di scuderia  con due cavalli, del 1930 “Cavalli da corsa” con 5 cavalli, di cui  3 visti di fronte e 2 di lato con in groppa i cavalieri, come se si preparassero ad allinearsi per la partenza, e infine “Cavalli al galoppo”  con 2 cavalli lanciati in corsa sfrenata.

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“La spiaggia a Saint Adresse, Le Havre”, s.d

Stephane Krebs racconta che questi quadri ebbero tanto successo tra i collezionisti che  smise di produrli  perché, diceva “non conta la storia ma il modo con cui viene raccontata”, cioè “la meccanica del mio metodo e la finalità della mia pittura  piuttosto che l’aneddoto da cui traggono spunto i miei dipinti”.  Nulla di semplicistico e di improvvisato, dunque, in Dufy, ma di molto elaborato e sentito.

La nostra carrellata delle sue opere è a metà strada, descriveremo prossimamente le opere decorative, quelle per la moda e le illustrazioni di libri, i quadri sulla Sicilia e sui campi di grano, infine i fiori. Sempre nella “gioia” di dipingere.

CORSE E CAVALLI: “Cavalli da corsa”, 1930

Info

Palazzo Cipolla, Fondazione Terzo Pilastro Internazionale, via del Corso 320, Roma.  Orario, tutti i giorni, tranne il lunedì chiuso, dalle ore 10 alle 20, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso euro 10, ridotti euro 8 per under 26, over 65  e le categorie agevolate. Tel. 06.9837051, e mail: biglietteriapalazzocipolla@gmail.com. Catalogo  “Dufy. Il pittore della gioia”,  a cura di Sophie Krebs con Nadia Chalbi, Skira, ottobre 2022, pp.  250, bilingue italiano-inglese, formato 24,5 x 28,5. Il secondo articolo uscirà in questo sito il  22 febbraio 2023. Cfr. i nostri articoli in questo sito: per le mostre citate, su Corrado Cagli 5, 7, 9 dicembre 2019, Ennio  Calabria 31 dicembre 2018, 4  e 10 gennaio 2019, CoBrA  17 e 24 marzo 2016,   “Realismi socialisti” 25, 28, 31 dicembre 2011,  Deineka,  26 novembre, 1°  e 16 dicembre 2012; per gli artisti citati, su Matisse 23, 26 maggio 2015. Cézanne 22, 31 dicembre 2013, Tiziano 10, 15 maggio 2013, Impressionisti 5 febbraio 2016, Impressionisti e moderni 12, 18, 27 gennaio 2016, Cubisti 16 maggio 2013, Da Corot a Monet 27, 29 giugno 2010.

Photo

Le immagini delle opere di Dufy sono inserite nell’ordine in cui vengono commentate nel testo le sezioni della mostra che le espongono; esse sono tratte dal Catalogo della mostra, si ringrazia l’Editore Skira con i titolari dei diritti. Alle 16 immagini riportate in questo articolo relative alle sezioni in esso commentate seguiranno nel prossimo articolo altre 16 immagini delle sezioni che vi saranno commentate. In apertura, “Auroritratto” 1898; segue DUFY E I MAESTRI: “Ballo del Moulin de la Galette” 1939; poi, SULLE ORME DI CEZANNE: “Le reegate” 1907-08 e “La terrazza sulla spiaggia” 1907; quindi, “Paesaggio a Hyéres” 1913 e “La Jetée promenade a Nizza” 1924-26; inoltre, BAGNANTI: “La grande bagnante” 1914 e “Due bagnanti” 1943-45; ancora, ATELIER E MODELLE: “La modella” 1933 e “Atelier di Perpignan, rue Jeanne d’Arc” 1942; continua, PAESAGGI MARITTIMI: “Festa nautica a Le Havre” 1925 e “Il molo di Honfleur” 1928; prosegue, “Regata con gabbiani” 1930 e “La spiaggia a Saint Adresse, Le Havre” s.d; infine, CORSE E CAVALLI: “Cavalli da corsa” 1930 e, in chiusura, : “Due cavalli al galoppo” 1930.

“Due cavalli al galoppo” ,1930