Caravaggio, 2. Il successo, la fuga, l’epilogo, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

La mostra di Caravaggio a Roma alle Scuderie del Quirinale, fino al 13 giugno 2010, espone 24 capolavori, opere selezionate tra quelle autografe del Maestro, con un allestimento che rende massima la suggestione di avere “Caravaggio puro, Caravaggio essenziale, Caravaggio vero” secondo le parole di Antonio Paolucci, il direttore dei Musei Vaticani: che nella presentazione definì la mostra, “la più semplice e facile del mondo”, come “il capolavoro di Strinati”, l’ideatore. Descritta la “giovinezza” con le opere dal 1592 al 1599, nel percorso di vita e di arte passiamo al “successo” con le opere dal 1600 al 1606 e infine alla “fuga” con le ultime opere dal 1607 al 1610.

Il successo: 1600-1606

Dagli sfondi verdi della “giovinezza”, nell’allestimento si passa a sfondi rossi per il passaggio alla nuova fase, quella del successo, alla quale vengono riferite le opere tra il 1600 e il 1606.

Abbiamo visto come con “Giuditta” la sua arte si tradusse in una composizione dove i moti dell’anima si imponevano in un realismo non più solo naturalistico ma psicologico dai toni crudi e violenti. La complessità aumentò ancora con l’incarico di decorare le pareti della Cappella Contarelli nella chiesa di San Luigi dei Francesi: lo ebbe nel 1599 da Virgilio Crescenzi, esecutore testamentario del cardinale Contarelli, subentrando al Cavalier D’Arpino, nella cui bottega era stato nel 1593, che dopo aver affrescato il soffitto non poteva completarla, tutto preso dalle prioritarie committenze papali: ne derivarono i dipinti sulla “Vocazione” e sul “Martirio di San Matteo”,il secondo oggetto di ripensamenti e sostituito con una rappresentazione più ortodossa.

Lo stesso avvenne con l’incarico successivo avuto da Tiberio Cerasi – amico di Vincenzo Giustiniani, suo estimatore e grande collezionista – tesoriere papale e acquirente della Cappella della chiesa romana di Santa Maria del Popolo, dove fu accettata una seconda versione meno concitata della prima della “Conversione di San Paolo” e del “Martirio di San Pietro”: in entrambe un’atmosfera di quiete, definita “di sospensione”. Nella cappella la pala d’altare, con l’“Assunzione della Vergine”, fu commissionata ad Annibale Carracci, che vi portò un naturalismo classico immediatamente accettato rispetto a quello legato al vero di Caravaggio, che comportava dei problemi tanto da ricevere il primo rifiuto. Un dipinto di Annibale Carracci lo abbiamo trovato a Pasqua nella chiesa romana di Santa Caterina dei Funaridi recente restaurata e aperta al pubblico per una delle rappresentazioni del “Festival della spiritualità” dell’Eti con Pamela Villoresi.

La sua fama, e con essa la quotazioni, era cresciuta a tal punto che le opere rifiutate trovavano subito compratori: la sua ”Morte della Vergine” fu acquistata da Rubens per il duca di Mantova.

Risulta che Giustiniani, nella sua vastissima collezione di 120 dipinti dei pittori più famosi , ne avesse 15 di Caravaggio, tra cui “Amor omnia vincit” del 1602 circa, esposto in mostra, proveniente dallo Staatliche Museen zu Berlin. Anche senza questo collegamento diretto, i lavori per le chiese romane non sono temi estranei alla mostra che non espone tali opere, sia perché è un momento centrale della sua vita che ha inciso molto sulla sua arte; sia perché l’esposizione delle Scuderie non esaurisce l’esibizione romana di Caravaggio che prosegue nell’itinerario in cui la cappella Contarelli e la chiesa di Santa Maria del Popolo sono tappe fondamentali del suo successo.

Amor omnia vincit” fu ritenuto così straordinario da venire coperto con un velo di seta dal curatore della collezione Giustiniani “perché altrimenti toglieva pregio a tutte le altre rarità”. Il curatore era Sandrart, e scriveva che “tutto era dipinto con grande precisione, con colori rilevati , nitidezza e rilievo”, aspetti che ne marcavano il realismo. La posa del ragazzo alato, colto nello slancio tra spartiti e strumenti musicali, fasciato da una luce violenta che lo fa sbalzare dallo sfondo scuro è molto familiare, come fosse in preda a un abbandono confidenziale e non pensasse a mostrarsi composto: un realismo fresco e spontaneo. Né si tratta di un amorino stereotipato, reca la fattezze di un giovane che lavorava per lui, Cecco Boneri, il quale diventerà pittore, un altro caso di utilizzo di modelli naturali da lui conosciuti e resi riconoscibili.

All’inizio del 1600 risulta residente nel palazzo del cardinal Mattei ed è impegnato in una serie di opere per Ciriaco Mattei, dipinte tra il 1601 e il 1603 ed esposte in mostra per un facile confronto.

La “Cena in Emmaus” è la prima della serie, del 1601 circa, dalla National Gallery di Londra. In essa il suo verismo raggiunge un livello molto elevato sia nell’atmosfera, che nulla ha di luogo sacro dato che il tavolo con Cristo e i tre discepoli sembra in un locale popolare; sia negli atteggiamenti e nei gesti, di Cristo con un mantello rosso e il braccio destro proteso, e dei due discepoli seduti, uno allarga le braccia, l’altro si appoggia al sedile, mentre un terzo è in piedi immobile e assorto. Nella composizione riappare la cesta di frutta che sporge dal tavolo e l’effetto di luce intorno alla caraffa.

Viene automatico confrontarla con l’altra “Cena in Emmaus” esposta, del 1606, dalla Pinacoteca di Brera di Milano; fu eseguita dopo l’episodio di sangue di cui parleremo nella “fuga”, nel feudo dei Colonna vicino Roma dove si era rifugiato. Vi troviamo molti punti in comune con la prima, l’ambiente popolare, il tavolo con tovaglia bianca e al centro il cesto con il pane e caraffa d’acqua,i due discepoli seduti, uno allarga le braccia, l’altro si appoggia sulle mani; la persona in piedi forse è l’oste cui in questa versione si aggiunge l’ostessa. Il gesto benedicente è diverso forse perchè, come ha notato Maurizio Calvesi, qui sembra essere di congedo e non di preparazione, come è diverso il viso pur nella rassomiglianza, essendo più maturo.

Ma torniamo indietro di cinque anni, al 1601, troviamo la “Conversione di Saulo”, da una Collezione privata romana, di dimensioni ancora più grandi del dipinto di analogo soggetto a Santa Maria del Popolo, 2,40 per 190 centimetri. Qui la luce si riflette particolarmente sul santo a terra e il cavallo non ha il primo piano dominante del quadro nella chiesa; invece che dal suo pelo la luce è riflessa dall’armatura del soldato e da un viso che si protende verso la persona a terra; il realismo lo troviamo nelle mani che il santo porta a coprire il viso e nelle braccia protese di altre figure.

Altrettanto realismo nella “Cattura di Cristo”, del 1602, dalla National Gallery di Dublino: la drammaticità della scena anche qui è accentuata dai gesti, in una composizione spostata sulla sinistra dominata dalla figura di Cristo, con lo stesso mantello rosso, stretto tra Giuda che gli dà il bacio del tradimento e il braccio del soldato in un’armatura rilucente, con San Giovanni alle spalle colto in un’espressione atterrita, le braccia alzate verso il cielo, in un’atmosfera cupa e oscura.

Dello stesso anno “San Giovanni Battista”, dal Nelson-Atkins Museum of Art di Kansas City, posa classica in età giovanile, una figura pensosa con il corpo nudo che spicca per la luce che lo fascia e le ombre nette che disegna, su dei drappeggi rossi e uno sfondo nero. La povera croce fatta con un lungo bastone obliquo che dà equilibrio alla scena, sembra uno scettro e l’espressione pensosa esprime molta energia, quasi fosse un dio della foresta a riposo ma pronto ad agire.

Non possiamo non confrontarlo con il “San Giovanni Battista”, la cui datazione è oscillata dal 1598-99 al 1602-03 fino al 1606, dalla Galleria Corsini di Roma. E’ la stessa figura giovanile dal corpo nudo fasciato di luce che spicca con il drappo rosso nel buio, in posa meno classica e più realistica rivolta sulla sinistra, per terra vicino alla ciotola c’è il bastone a croce; ha un’espressione intensa, niente affatto convenzionale, nel viso che resta un po’ in ombra sotto la massa di capelli.

Ed ecco la “Deposizione”, tra il 1602 e il 1604, dai Musei Vaticani, realizzato con grande rispetto dato il tema, in un’atmosfera solenne con richiami alla pittura di Raffaello e all’arte classica, sembra un gruppo scultoreo. E’ resa realistica dalle due braccia rivolte al cielo a mani aperte della pia e dal volto di Nicodemo che regge il corpo per le gambe e sembra guardare l’osservatore quasi per chiedergli aiuto, mentre spiccano le mani che lo sorreggono sotto le ascelle, senza che si veda il volto e il corpo di chi lo sostiene da quella parte. La luce fascia il corpo di Cristo, non manca il mantello rosso, questa volta nelle mani della Madonna.

L’“Incoronazione di spine” degli stessi anni, dal Kunsthistorische Museum di Vienna, faceva parte della collezione di Giustiniani ed ha minori contrasti dei precedenti essendo percorso da una luminosità diffusa, torna l’elemento dei riflessi sull’armatura e il mantello rosso che ravviva la scena, priva della drammaticità che abbiamo sottolineato quasi per un’accettazione del destino in un’atmosfera immobile come nei dipinti della chiesa di Santa Maria del Popolo. La composizione è scandita dalle diagonali dei bastoni dei persecutori che flagellano un Cristo dal viso reclinato.

Con il “Sacrificio di Isacco”, del 1603, dalla Galleria degli Uffizi di Firenze, concludiamo questa sezione. In questo dipinto, che gli sarebbe stato commissionato dal cardinale Barberini prima di diventare papa Urbano VIII, ritroviamo il senso del tragico di “Giuditta che taglia la testa ad Oloferne”, soprattutto nell’espressione atterrita e nella bocca spalancata del volto sul quale si sta per abbattere l’arma da taglio, evidentemente oggetto di attento studio da parte del Maestro. Nel viso e nell’atteggiamento di Abramo come nella disposizione orizzontale delle sue braccia ritroviamo il “San Gerolamo” che vedemmo esposto alla Galleria Borghese nella mostra Caravaggio-Bacon e commentammo. Nelle braccia dell’angelo, che con la mano destra gli afferra il polso per impedirgli l’uccisione del figlio e con la sinistra punta il dito, vi è tutto il realismo della gestualità; mentre nel viso di Isacco è stato riconosciuto il garzone Cecco, modello anche per la testa dell’angelo anche se i connotati sono stati modificati dal Maestro da una base più somigliante.

La “fuga”: 1607-1610

Per non interrompere la cavalcata dei successi di Caravaggio nella seconda fase della sua vita, espressi negli splendidi dipinti esposti sul fondo rosso della relativa sezione della mostra, non abbiamo parlato delle disavventure che non sono mancate. Lo facciamo entrando nel settore a fondo grigio,ilcolore che l’allestimento ha dato al periodo più agitato fino al triste epilogo.

Nel 1603 fu processato per aver diffamato il rivale, il suo biografo Baglione, che si era sentito offeso, con Tommaso Salini, da sonetti a lui attribuiti. Ne uscì bene e rilasciò dichiarazioni rimaste agli atti sulla sua concezione del realismo nella pittura. Però nei tre anni che seguirono fu arrestato diverse volte, sembra cinque, per fatti di limitata gravità, fino al più rilevante, ma che si risolse anch’esso bene, relativo all’aggressione a un funzionario pontificio, Mariano Pascalone.

Sono episodi che si inquadrano nel clima dell’epoca, e non ne danneggiarono l’immagine, tanto che pur in quel periodo i committenti si moltiplicarono e continuò a produrre opere impegnative, come quelle descritte. Inoltre presentava una forte attrazione e un ascendente sui giovani pittori.

Un esempio è costituito dall’episodio di Pascalone, in un primo momento lo costrinse a lasciare Roma per la corte del principe Doria, il quale aveva sposato un nipote dei Colonna suoi protettori. Anche lì gli fu offerta un’ambita committenza, ma volle rientrare nella Capitale appena il problema fu risolto. Ed ebbe l’importante commessa pubblica della cappella dei Palafrenieri per un’opera che aveva come destinazione finale San Pietro. L’opera non vi finì, ma ci fu una compensazione nel nuovo dipinto per la €€€Cappella dei Palafrenieri che fu spostata e richiedeva una pala d’altare.

A questo punto, siamo al 1606, gli capita la disavventura più grave che ne segnerà in modo profondo la vita e l’arte, e avvolge in un alone misterioso parte della sua vicenda umana. Muore Ranuccio da Terni in una rissa con il gruppo dei giovani di cui faceva parte il nostro, non è stato accertato il motivo, forse una provocazione da parte del creditore o altro: scatta l’accusa di omicidio con la conseguente pena di morte, deve lasciare di nuovo Roma.

Inizia così la sua fuga definitiva che lo vede inizialmente a Napoli. E, come avvenuto fino ad allora, arriva una committenza molto importante, le “Sette opere di Misericordia”, di grandi dimensioni, quasi 4 metri per 2,60. Siamo nel 1608, in mostra c’è la “Flagellazione di Cristo”, di quel periodo, dal Museo di Capodimonte a Napoli, appartiene alle opere nelle quali si è controllato dopo le esperienze delle prime versioni rifiutate. Cristo appare nel fascio di luce con i flagellatori in ombra.

Ma non si ferma, è in contatto con Fabrizio Colonna che, per salvarsi da un’analoga imputazione, era entrato nell’ordine di Malta, precisamente del San Giovanni di Gerusalemme. Ecco il nostro è nell’isola mediterranea nel 1607, l’anno dopo sarà alle prese con il “Ritratto di Alof de Wignacourt” a figura intera, che è al Louvre; invece alla mostra citata Caravaggio-Bacon era esposto, e da noi fu commentato, il “Ritratto di fra Antonio Martelli, Cavaliere di Malta”, fino alla cintola. Proprio nel 1608 divenne cavaliere per meriti di pittore insigne e realizzò la pala per l’oratorio con la “Decollazione di san Giovanni Battista”, ebbe compensi e molti riconoscimenti.

Dipinse anche “Amore dormiente”, dalla Galleria Palatina a Palazzo Pitti Firenze, in mostra, nella figura distesa che ha poggiato arco e freccia ed è immersa in un sonno profondo; ci si vede il suo approdo nell’Ordine che doveva dargli finalmente un po’ di serenità e una vita del tutto rinnovata.

Ma ancora una volta tutto cambia, viene arrestato nella stessa Malta e recluso nella tremenda “guva” di Forte Sant’Angelo, un segreta ricavata nella pietra dalla quale riuscì a fuggire; non si sa perché vi fu rinchiuso, né come si liberò, certo è che fu espulso dall’Ordine con ignominia.

Siamo nel 1608, è l’ora della Sicilia, sbarca a Siracusa. gli viene affidato un dipinto per la chiesa dedicata alla patrona di Sicilia, e realizza il “Seppellimento di santa Lucia”, in cui, commenta Alessandro Zuccari, esprime la sua meditazione sulla morte: “Non solo nel formulare un’immagine d’intima e commossa partecipazione al rito funebre, ma anche nel mettere a punto dettagli iconografici che rivelano una particolare attenzione alle fonti agiografiche relative alla martire cristiana”. Altro che “pittore maledetto”!

La sua vita torna ad essere frenetica, va e a Palermo; poi di nuovo a Napoli, non si tratta di irrequietudine quanto di volontà di far perdere le tracce, pende una condanna a morte sul suo capo; ma, contraddizione nella contraddizione, il lavoro pittorico è molto intenso. A Messina dipinge la “Resurrezione di Lazzaro” e l’“Adorazione dei pastori” con un incarico pubblico nonostante fosse ricercato per omicidio. Quest’ultimo, 1608-09, dal Museo regionale di Messina, è esposto in mostra e presenta una scena inconsueta, la madre a terra appoggiata alla mangiatoia con la piccola creaturina è un Madonna dell’umiltà, invece i pastori sembrano un gruppo scultoreo, monumentale.

Ancora a Palermo dove dipinge una “Natività”, la pittura riflette queste convulsioni della sua vita, i fondi scuri si accentuano e così le ombre tagliate dalla luce, le figure si rimpiccoliscono e gli spazi si accrescono, soprattutto il segno diventa rapido ed essenziale, ormai la sua arte domina la scena essendo scomparso Annibale Carracci che era rimasto l’epigono della classicità.

Le due ultime opere in mostra sono del 1610, l’anno terminale, i soggetti in un certo senso opposti.

Annunciazione”, dal Muséedes Beaux Arts di Nancy, è un tema delicato, la Madonna nell’oscurità ha un aspetto dimesso come l’ambiente, nel fondo scuro si intravedono misere suppellettili; mentre l’Angelo sferzato dalla luce sembra incombere dall’alto con il suo gesto.

Invece “Davide con la testa di Golia”, della Galleria Borghese, è drammatico, con la sinistra del giovane che stringe la testa mozzata dove viene vista l’effige di Caravaggio; per l’espressione stravolta, la bocca spalancata e il soggetto ricorda “Giuditta che taglia la testa ad Oloferne”.

Così il 1610 nel quale finisce tragicamente la “fuga” si riallaccia al 1599, anno del secondo dipinto, nel quale finiva il periodo della “giovinezza” e iniziava il “successo”. L’allestimento della mostra ci immerge in un fondo grigio in carattere con la tristezza che ci prende, per molti motivi.

L’epilogo

Tocchiamo con mano l’ironia del destino, si erano moltiplicate le pressioni sulle autorità pontificie perché gli fosse concessa la grazia, i suoi protettori non lo avevano abbandonato, tra loro i Colonna che lo hanno seguito per tutta l’esistenza, e a palazzo Colonna a Napoli aveva fatto diversi dipinti, nel suo nuovo stile. Finché eccolo lasciare la città via mare quando la grazia venne accordata dal Pontefice. Ma non sbarcò a Roma, bensì in Toscana, sembra a Porto Ercole, e si mise alla disperata ricerca della “feluca”, una barca che trasportava i suoi bagagli con due quadri forse per il Papa. Non fece in tempo a ritrovarli, la barca era tornata a Napoli, fu ucciso da una febbre misteriosa quanto micidiale. I dipinti furono recuperati dai Colonna, li fecero restaurare per riparare i danni dell’acqua, e finirono a Costanza Sforza Colonna.

Di lui non fu trovato neppure il corpo, la stessa fama si attenuò fin quasi a scomparire, è tornato all’ammirazione di tutti solo nel Novecento, fu “riscoperto” da Roberto Longhi.

Abbiamo detto molto più della vita e delle singole opere esposte, anche perché della sua arte parlammo in due ampi servizi su www.abruzzocultura.it in occasione della mostra precedente con Bacon alla Galleria Borghese, che abbiamo ricordato. Quella attuale alle Scuderie non è soltanto questo, e sarebbe già tanto; ci sono anche sistemi digitali per ingrandire i particolari, laboratori per i ragazzi, e soprattutto un approfondimento dei vari aspetti della sua figura.

Dal 25 febbraio al 9 aprile ogni giovedì le “Lezioni d’autore”, così frequentate che a parte la fila non si trovava posto nella sala conferenze del Palazzo delle Esposizioni. E c’era un motivo, tenevano le “lezioni” i maggiori esperti, ecco i nomi in ordine di “apparizione” e i temi: Strinati sulla mostra e Vodret sulla tecnica, Paolucci sulla religione e Calvesi sull’uomo senza maledizioni, Zuccari sull’Annunciazione e Gregori sulle ricerche, infine Marini sulla fuga verso Sud.

E non è finita, le molteplici iniziative per il IV centenario continuano a tenere banco. Il 21 maggio è stato presentato al loggiato di Palazzo Venezia il volume curato da Maurizio Calvesi e Alessandro Zuccari “Da Caravaggio ai Caravaggeschi”, con l’intervento di Rossella Vodret, Caterina Volpi e Sebastian Schutze: non un libro di riproduzioni d’arte ma una raccolta oculata di diciotto studi d’autore su altrettanti aspetti del grande Maestro: dai primi passi a Milano alla produzione giovanile, dall’approdo romano ai committenti, fino ai suoi seguaci e al problema delle copie.

Sui seguaci c’è poi il vasto studio curato da Alessandro Zuccari: “I Caravaggeschi”, il primo repertorio completo in due volumi, nel primo una vera “mappa” del cavaraggismo italiano ed europeo, nel secondo le monografie dei 48 artisti caravaggeschi con repertorio critico, iconografico e bibliografico: un’opera monumentale di quasi 900 pagine in un prezioso cofanetto.

E’ uno scavo in profondità che insieme alle altre molteplici iniziative per il IV centenario completa idealmente le “lezioni d’Autore” associate alla Mostra: approfondimento critico e galleria visiva..

Ma pur ripercorrendo le dotte dissertazioni e le preziose riproduzioni iconografiche del mondo intorno al Maestro, resterà sempre negli occhi e nel cuore il fascino unico dei suoi capolavori: i 24 protagonisti sotto l’occhio di bue del proscenio nel più grande spettacolo del mondo. E’ ciò che ci vuole per stimolare l’immaginazione, la fantasia, i sogni. Perché sulla scena, nelle luci della ribalta, ci sono le opere certe del grande Caravaggio, nella sua vera identità che ne fa l’unico, l’assoluto.

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Caravaggio, 1. “Puro, essenziale, vero”, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

E’ tornato Caravaggio a Roma alle Scuderie del Quirinale fino al 13 giugno 2010, dopo essere stato alla Galleria Borghese in coppia con Bacon, ma nulla di ripetitivo sebbene dei quadri della Galleria, presenti ora alle Scuderie, fossero stati già esposti in quell’occasione. Ma non sembrano gli stessi, tanto è mutata l’ambientazione. Non era certo la presenza di Bacon a cambiarne la fisionomia, tanto era distinto e distante, quanto la ridondanza artistica della Galleria che incorporava i dipinti nel proprio contesto architettonico e scultoreo, pittorico e ambientale facendone parte integrante, poco evidenziata, di una residenza principesca tutta particolare.

L’impostazione della mostra

Alle Scuderie del Quirinale, invece, la scena è tutta per i dipinti del Maestro, ciascuno é alla ribalta investito da un fascio di luce nel buio come fosse l’occhio di bue del palcoscenico che illumina la star, lo sfondo è neutro, l’isolamento rispetto agli altri quadri ne fa dei solisti, non dei componenti di un’esposizione corale. E ognuno dei grandi dipinti esposti sembra voglia raccontare la propria storia, in un inedito “Spoon River” pittorico. Anche se qui non si tratta di un’“antologia”, anzi si è evitato volutamente il percorso antologico per seguire un percorso sintetico e mirato: la ricerca delle cosiddette “opere capitali”, cioè quelle accertate con sicura autografia del Maestro.

L’approccio è inusuale e per ciò stesso rimarchevole nell’anno delle celebrazioni del suo IV Centenario nel quale la ricerca esplora in profondità l’intera produzione sua e della bottega, cercando di definire i confini di un catalogo mutevole; e si estende ai Caravaggeschi, per disboscarne il bosco troppo folto e ricercando l’autenticità dell’ispirazione.

Si risale addirittura ai precursori, gli artisti milanesi che Michelangelo Merisi vide nell’adolescenza e nella sua prima giovinezza di cui non vi è nessuna sua traccia pittorica, e nei quali si possono trovare i semi del grande Maestro, tanto che Vittorio Sgarbi, alla presentazione delle iniziative del IV centenario ne parlò definendo la mostra che cercava di promuovere e il Maestro “Gli occhi e il buio di Caravaggio”: ci colpì al punto di farne il titolo del nostro servizio.

Qui invece la concentrazione su Caravaggio è tale da evitare le opere a rischio di “bottega” e le “ulteriori versioni” anche se generalmente accreditate a lui, ma soggette a pareri discordi; si sgombra il campo dalle dotte discussioni dei critici d’arte sulle attribuzioni, a “parlare” sono soltanto le opere sicure del Maestro, che raccontano la loro storia, e le loro storie allineate fanno quella di Michelangelo Merisi, intrecciandone la pittura con la vita. Non certo da “pittore maledetto” – immagine che gli si è appiccicata anche per la biografia per certi versi tendenziosa del suo rivale e avversario Baglione – ma pur sempre movimentata, la diremmo anzi “spericolata”.

Non è stata una scelta facile, ha richiesto una riflessione approfondita sul piano scientifico e un’azione non facile sul piano organizzativo trattandosi di prelevare per quattro mesi “quelle” opere, e proprio quelle, dai maggiori musei del mondo nell’anno del IV Centenario: dalla Biblioteca Ambrosiana di Milano e dagli Uffizi di Firenze sono arrivati la Canestra di frutta e il Bacco, dal Metropolitan di New York e dall’Ermitage di San Pietroburgo I musici e Il suonatore di liuto, dallo Staatliche Museum di Berlino e dal Kimbell Art Museum di Fort Worth l’Amor vincit omnia e I bari e così via dai più importanti musei.

Si è scelto invece di rinunciare all’operazione più facile, esporre i dipinti sicuri della chiesa romana di Piazza del Popolo e delle altre chiese, vicini e disponibili: si è voluta rispettare la loro collocazione storica, senza sottrarli al proprio ambiente e contesto ma facendone parte integrante di un percorso caravaggesco romano che non si esaurisce alle Scuderie: ma è nell’esposizione che trova il suo filo d’Arianna tra le vicende della vita e le diverse espressioni stilistiche di un’arte straordinaria.

La presentazione: Strinati e Paolucci

Come è nata questa impostazione lo ha spiegato all’anteprima l’ideatore della mostra, Claudio Strinati con tono commosso e parole non di circostanza, espressione di un immedesimarsi sincero e intenso: “L’idea ispiratrice, un po’ scientifica e un po’ fantasiosa, è stata che curatore della mostra fosse l’autore, Michelangelo Merisi, una pretesa giustificata da una lunga frequentazione nella quale si è tentati di trovare una sintonia. E allora, trattandosi di celebrarne l’anniversario, mi sono detto: se gli avessi parlato nel 1610 e gli avessi chiesto: ‘Maestro, come faresti la mostra?’ credo mi avrebbe risposto: ‘Facciamola con le opere più belle e sicure che sono queste, senza quelle incerte, e coinvolgiamo i miei estimatori. Quelle nelle chiese è bene lasciarle dove sono, le altre prenderle, ce n’è una che non la molleranno facilmente, ma alla fine la molleranno”. Previsione realizzata: il celebre Canestro di frutta è uscito così per la prima volta dalla Pinacoteca della Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano; e si è potuta realizzare una mostra straordinaria.

Antonio Paolucci, al quale la posizione di direttore dei Musei Vaticani dà un’autorevolezza che si aggiunge all’elevato spessore di studioso, l’ha chiamata “la mostra di Strinati” , usando le parole “mai nulla di così bello, un Caravaggio puro, un Caravaggio essenziale, un Caravaggio vero” che “tocca tutte le espressioni dell’animo umano”. E non è stato facile, ha sciorinato le difficoltà che Strinati per modestia aveva taciuto: “L’idea è stata temeraria per due difficoltà: era problematico avere i prestiti e non era necessariamente gradita dai colleghi. E’ stata superata la prima, Strinati lo hanno accontentato; la seconda è caduta per il fatto che non deve essere gradita dai colleghi ma dalla gente, e questo si ottiene presentando i quadri che si conoscono dal liceo classico. Così facendo, pur se temeraria, è diventata la mostra più semplice e facile del mondo: siamo stanchi di mostre complicate e difficili, ci si rivolge alla gente mediamente colta che vi si deve riconoscere, non ai pochi addetti ai lavori”. E ha concluso definendola “il capolavoro di Strinati”.

Molto altro è stato detto alla presentazione da Croppi e Broccoli nell’ottica romana, da Emmanuele nell’ottica di presidente delle Scuderie e del Palexpo, e da Rossella Vodret e Francesco Buranelli nell’ottica di curatori della mostra. Ci sembra, tuttavia, che Strinati e Paolucci abbiano dato l’interpretazione autentica di un evento che ha messo in fila in paziente attesa folle di visitatori.

Con questa introduzione siamo entrati nel clima della mostra, la racconteremo ripercorrendo anche le tappe principali della vita del Maestro attraverso le 24 opere esposte nei periodi in cui è divisa. Premettiamo soltanto che al fascino dell’allestimento di Michele De Lucchi si aggiunge quello ottenuto dai curatori mediante il confronto tra opere e soggetti in modo da creare una dialettica autentica rispetto a quella, che si è evitata, tra i diversi atteggiamenti della critica sulle attribuzioni.

E mediante la collocazione in tre grandi settori contrassegnati da uno sfondo di diverso colore, che corrispondono alle differenti fasi della sua vita: così ci immergiamo nel verde della “giovinezza”, per poi passare al rosso del “successo” fino al grigio della “fuga”, alla quale segue la scomparsa.

La fase della “giovinezza”: la vita

La rassegna pittorica di questa fase inizia nel 1592, dopo il trasferimento a Roma. Dei primi ventuno anni – era nato il 29 settembre 1571 nella cittadina vicino Milano di cui Michelangelo Merisi prenderà il nome – non si conoscono sue opere, ma i particolari della prima parte della sua vita possono fare luce sulla formazione che si riverbera sulle opere pittoriche che nascono a Roma.

Il padre Fermo Merisi era architetto e amministrava la casa di Francesco Sforza, del ramo cadetto e marchese di Caravaggio. Questa posizione gli dava una certa stabilità e benessere economico e metteva in contatto la sua famiglia con la corte della marchesa, Costanza Colonna figlia di Marcantonio, un aristocratico molto vicino al papato. Ma durò poco, la peste di Milano del 1577 fece tra le sue vittime il padre Fermo e un fratello, e lui a soli sei anni restò affidato alla madre.

Sette anni dopo, nel 1584, lei lo fece entrare nella bottega di Simone Peterzano che si impegnò a insegnargli per quattro anni il mestiere del pittore, al costo non certo modico di 44 scudi d’oro. Si trasferì nella casa di Peterzano nella Milano che recava ancora i segni della peste ed era esposta alle scorrerie spagnole. Dalla quiete della provincia contadina al clima inquieto e tormentato di una città dominata dal fervore religioso di Carlo Borromeo, riflesso nelle opere delle chiese commissionate a Peterzano. Il giovane apprendista completò i quattro anni di tirocinio e apprese il realismo lombardo del suo precettore ma soprattutto si fece un’idea personale della pittura “fedele al vero”. Conobbe di certo il “Cenacolo” di Leonardo che lo istradò ulteriormente sul “vero”, in un viaggio a Venezia l’opera di un allievo di Raffaello con nuove forme di rappresentare l’espressione e la prospettiva; nonché conobbe i pittori milanesi suoi precursori con i tratti di umanità e di umiltà e l’uso delle ombre nei loro dipinti, lo sottolinea Sgarbi parlando degli “occhi di Caravaggio”.

Un’altra improvvisa accelerazione nella sua vita, muore la madre nel 1590, lui vende le proprietà e divide il ricavato con i due fratelli, poi nel 1592 si trasferisce a Roma, non si sa se perché già coinvolto in un fatto criminoso, come scrive Giovanni Bellori, o per esprimervi l’arte acquisita.

La città è in pieno fermento per le committenze religiose legate anche alla Controriforma, e lui in un primo periodo cerca di far valere il pregresso rapporto familiare con gli Sforza e i Colonna, i quali ultimi gli procurarono l’ospitalità di Pandolfo Pucci, dalle frequentazioni ecclesiastiche. Non resistette a lungo, lamentandosi per il vitto insufficiente lasciò la sua casa e andò a vivere da solo. Ancora nulla sulla sua attività, sembra che lavorò per un pittore, Lorenzo, venuto dalla Sicilia, poi ne conobbe un altro, Gramatica, e qui spunta la notizia di alcune “mezze figure” dipinte per lui.

Una malattia la fa ricoverare all’ospedale dei poveri della Consolazione, ma è subito ripagato di questa disavventura, entra nella bottega di Giuseppe Cesari, un colpo da maestro trattandosi di un personaggio molto vicino a Clemente VIII, da poco assurto al soglio pontificio, e come Cavalier d’Arpino pittore molto quotatoe nell’ambiente ecclesiastico e nobiliare.

Fin qui il cono d’ombra sul Caravaggio pittore, solo notizie sul giovane Michelangelo Merisi, del quale, anche se per quattro anni fa l’apprendista da un pittore e per altri quattro anni frequenta pittori – di tutti si sanno i nomi – non si conosce nessuna opera. Nella bottega del Cavalier d’Arpino, si legge nella biografia, “fu applicato a dipinger fiori e frutti”, arte ritenuta minore della pittura di figure, ma che per la sua ricerca del vero era sullo stesso piano di attenzione spinta alla

Le prime opere del periodo giovanile: 1593-94.

Siamo nel 1593, dal cono d’ombra che abbiamo cercato di rischiarare con notizie sulla vita si passa alla luce delle sue prime opere: il “Ragazzo con canestra di frutta” della Galleria Borghese, dove la natura morta si sposa alla figura con la stessa cura del particolare e intensità di rappresentazione. La mostra lo presenta per un raffronto con il “Bacco” del 1596-97 della Galleria degli Uffizi, anch’esso con il suo canestro, e con la “Canestra di frutta”, del 1597-98, in prima uscita assoluta dalla Pinacoteca della Biblioteca Ambrosiana.

Tre opere con tanti punti in comune riconducibili al naturalismo del primo periodo romano con una luminosità data da un cono di luce che taglia la composizione nel primo, oppure da un’atmosfera di chiarezza diffusa negli altri due. L’attenzione agli stessi particolari si nota per le macchie sulle foglie e, nelle due “canestre”, per la spaccatura naturale del fico troppo maturo.

Molto interesse suscita l’inconsueto accostamento delle figura alla natura morta, che troviamo nei due primi dipinti. In entrambi c’è pari cura per i particolari della “natura morta” e quelli della “natura viva”; come avveniva per i fiamminghi, molto seguiti a Roma, le forme venivano poste in risalto nei loro dettagli con la luce anche riflessa. Anna Coliva rileva “la diversità di stesura esecutiva della figura, più sfumata e imprecisa nella definizione”; la attribuisce “all’intenzionale sfida a rappresentare con diversa capacità mimetica la contrastante natura della realtà viva, dotata di anima, e quella morta, degli oggetti inanimati”. La fonte luminosa unica integrava i due temi riuniti, la persona e le cose.

L’arco dei soggetti doveva allargarsi presto dalla mitologia e la frutta a composizioni ispirate anche dalla realtà quotidiana. Il suo naturalismo diventa realismo ispirato alla vita che si svolgeva tra osterie e botteghe dove imperversava la svolta moralistica di papa Clemente VIII con il divieto dei giochi di bettola e l’ostracismo per mendicanti e zingari, oltre che per i delinquenti.

E’ di questo periodo “I bari”, del 1594-95, dal Kimbell Art Museum di Fort Worth anteriore a due delle opere prima commentate e anticipate per la comparazione. Il nostro ha lasciato la bottega del Cavalier d’Arpino, i soggetti rappresentati sono quelli tipici delle osterie, si tratta di uno dei suoi primi dipinti con più figure. E’ una composizione quasi triangolare, su più piani, sembra in rilievo, con tre soggetti, i due giocatori e il baro che sbircia di soppiatto le carte, e tre oggetti, carte, scatola con dadi e tavolo; i movimenti delle braccia sono avvolti dalla luminosità di matrice veneziana, con l’assonanza coloristica della giubba del baro con quella del giocatore suo compare. Ebbe molta importanza per lui perché fu acquistato dal cardinal Del Monte, che da allora cominciò a proteggerlo, e perché fu apprezzato dall’ambiente aristocratico.

1594-99: soggetti musicali, religiosi, biblici

Il nostro risiederà presso il cardinale e alcuni dipinti successivi saranno di argomento musicale, per così dire, essendo Del Monte non solo musicista e studioso della materia ma anche collezionista di strumenti e partiture che hanno un ruolo non secondario nei due dipinti in mostra, “I musici” dal Metropolitan Museum of Art di New York e “Suonatore di liuto” dall’Ermitage di San Pietroburgo: ambedue a cavallo del 1595.

Parla bene di entrambi i dipinti il suo biografo rivale Baglione, cosa alquanto rara: per il primo, che parte dal 1594, scrive di “alcuni giovani ritratti dal naturale assai bene”; per il secondo, che arriva al 1596, “che vivo e vero tutto il parea”. Naturale e vero, soprattutto nelle bocche socchiuse dei suonatori che in tutti e due sembrano prese dalla realtà e, per il secondo, anche nel movimento molto pronunciato e non convenzionale delle mani. E’ evidente la cura nel rappresentare gli strumenti, che nel secondo dipinto sono mostrati con la prospettiva di derivazione lombarda, e il panneggio che assume connotati classici, con le pieghe delle tuniche bianche rispetto ai rigidi corsetti degli abiti romani moderni dipinti nei “Bari”.

Ma qui, soprattutto nei “Musici”, è l’allegoria pagana a subentrare insieme al classicismo stilistico, tanto che la figura in secondo piano ci sembra richiamare il suo “Bacco”; e c’è un amorino che prende un grappolo d’uva; come lo richiama il piatto con la frutta alla destra del “Suonatore di liuto” anche nei fichi maturi spezzati e nelle foglie maculate, il realismo nella “natura morta”. La caraffa con i fiori di cui si intravede il riflesso dell’acqua, così nelle parole del pur severo Baglione: “Sopra quei fiori eravi una viva rugiada con ogni esquisita diligenza finita. E questo (disse) fu il più bel pezzo che facesse mai”.

Anche la partitura musicale in entrambi merita di essere sottolineata, perché torna nel “Riposo durante la fuga in Egitto”, degli stessi anni, dalla Galleria romana Doria Pamphilij, eseguito per un monsignor Petrignani che lo ospitò nella parrocchia di San Salvatore in Lauro nel 1594, quando lasciò la bottega d’Arpino. Ci sembra di vedere nella figura efebica con un leggero panneggio classico che ne avvolge il corpo un residuo pagano che accompagna la tenera immagine della Madonna stretta al Bambino mentre Giuseppe, quasi appartato, regge lo spartito per l’efebo angelo che suona il violino: è stato identificato il motto musicale “Quam pulchra es et quam decora, charissima in deliciis”, dal “Cantico dei Cantici”, la glorificazione della Vergine Maria. Il tutto immerso in una natura senza profondità né prospettiva, la luce fa spiccare l’angelo quasi pagano e la Madonna cristiana, quasi un passaggio di consegne all’insegna della sacralità della musica.

Passiamo al 1599, la scena cambia drasticamente, il naturale e vero delle figure, che avevamo identificato nelle bocche socchiuse dolcemente, assume espressioni di forte determinazione e straziante tragicità in “Giuditta che taglia la testa ad Oloferne”, dalla Galleria Nazionale romana d’Arte Antica di Palazzo Barberini. Anche questo è un dipinto di svolta, perché si cimenta con una scena particolarmente drammatica mostrando la sua capacità di rappresentare storie allora molto richieste. Il contrasto tra l’espressione decisa e ferma della giovane Giuditta e l’orrore degli occhi sbarrati della vecchia serva unita alla tremenda agonia di Oloferne – bocca spalancata e sguardo nel vuoto – mostrano il livello raggiunto nel rappresentare i moti dell’animo, di matrice leonardesca.

Il volto di Giuditta è quello di Fillide Melandroni, una cortigiana che diede le sue sembianze anche a sante ed eroine del nostro, e per il realismo rappresentativo era perfettamente riconoscibile, cosa che creò non pochi problemi all’artista nel suo nuovo ambiente, diverso da quello popolare. Ma ben altri problemi stavano per addensarsi sulla sua vita! Ne parleremo ripercorrendo le altre due fasi, il “successo” e la “fuga”, con la descrizione delle restanti 16 opere in mostra alle Scuderie..

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Cinema & Storia, 100 storie per la nostra storia: un primo piano

di Romano Maria Levante

Dopo aver raccontato la premiazione per l’iniziativa alla quale hanno partecipato 30 scuole della provincia di Roma, intitolata “100 + 1, Cento film più un Paese, l’Italia”, che ha visto impegnati 1800 alunni con i rispettivi professori, facciamo un primo piano sul liceo ginnasio “Tacito” di Roma, risultatotra i premiati con una delle quattro “menzioni speciali” ai lavori scritti, per rendere onore al merito e far percepire a tutti gli interessati le vaste potenzialità della manifestazione.

Il primo piano non può che aprirsi con la fotografia di gruppo di un’allegra brigata di studentesse e studenti intorno alla professoressa, al termine della premiazione, prima del “rompete le righe”. Serena Dandini ha concluso la sua conduzione fresca e disinvolta nel sole implacabile che inondava il cortile di Palazzo Valentini assecondata, nel leggere le motivazioni e consegnare i premi, dai registi e attori i cui interventi sono stati in carattere con la sua freschezza e disinvoltura.

L’immagine successiva che ci sembra molto eloquente è la locandina ideata per la manifestazione dalla scuola premiata, ne ribadiamo lo spirito critico e l’iniziativa di proporre una nuova denominazione per superare il 100 + 1 troppo simile alla “carica dei 101” di disneyana memoria, che evoca un “comic” tenero ed esilarante, ma di impronta infantile, su una storia invece molto seria: perché è la nostra storia – lo propone il loro titolo che abbiamo fatto nostro – scritta con 100 storie, anch’esse molto serie pur se con il tono della commedia: sono il costume e la vita del Paese.

La menzione speciale al Liceo Classico “Tacito” di Roma: parla la professoressa

A questo punto, dopo aver raccontato nel servizio precedente la premiazione, la nostra vocazione all’approfondimento ci ha fatto rivolgere l’attenzione alle “menzioni speciali” di cui non si è saputo altro che la motivazione. Non hanno avuto il televisore a 40 pollici o le video camere dei tre cortometraggi premiati ex aequo, ma l’attestato e soprattutto il riconoscimento morale, ed è quel che più conta, della validità del lavoro svolto con gli strumenti classici della scuola: la scrittura.

E siamo stati fortunati, aveva avuto la “menzione” proprio il gruppo che avevamo fotografato per la gaiezza e la simpatia di ragazze e ragazzi sorridenti alle prese con le fette della torta di “Cinema & Storia”. Appena ci siamo rivolti alla professoressa abbiamo capito di aver trovato quello che cercavamo, una testimonianza diretta per conoscere da vicino il modo con cui si è proceduto. Che poi si trattasse dell’unico liceo classico premiato per noi è stata la ciliegina sulla torta, di licei classici ne abbiamo frequentati due, il Melchiorre Delfico di Teramo e poi il Minghetti di Bologna.

Il nostro “blow up” inizia con una testimonianza, quella della professoressa che dopo la fotografia si presta a raccontarci “com’è andata”, mentre le ragazze continuano a gustare il loro pezzo di torta scherzando. “La maggiore difficoltà – ha esordito parlando degli allievi – è stata invogliarli e riflettere su cose che ignoravano del tutto. Dovevamo scoprire un mondo a loro sconosciuto, in particolare il passaggio dell’Italia da paese agricolo a nazione industriale con il boom economico”.

Ebbene chi come noi ha vissuto il “miracolo economico”, i “favolosi anni ’60” e poi il ’68 si deve immedesimare in una generazione che forse neppure dai genitori ha avuto trasmessa la memoria di quel periodo. Solo il cinema lo può riportare alla loro attenzione con la forza coinvolgente delle immagini e il fascino delle storie narrate. Ci sta provando anche la letteratura, con il Festival in corso a Roma alla Basilica di Massenzio, imperniato appunto sulla “Vita Dolce” per celebrare il sessantennale della “Dolce vita”. Però lo fa nella rilettura attuale, di scrittori e filosofi che leggono propri testi sui temi proposti, mentre il cinema permette di calarsi direttamente nella realtà evocata.

Ma lasciamo proseguire la professoressa: “Dopo lo sconcerto iniziale sono seguite le azioni di inquadramento di quel periodo perché potessero immergersi in una realtà i cui contorni fossero in qualche modo delineati. Così siamo andati alla riscoperta di un mondo all’apparenza meno concitato di oggi, con tanti problemi”. E qui una notizia forse sorprendente anche per gli organizzatori: “Non si sono appassionati soltanto alla storia del costume, lo strumento cinematografico li ha presi, sono andati anche alla tecnica cinematografica sui piani e sulle sequenze, con riferimento a due film molto diversi anche nell’aspetto più appariscente oltre che nel contenuto: il bianco e nero di ‘Io la conoscevo bene’, il colore di “Un borghese piccolo piccolo”.

Un aspetto che la professoressa sottolinea in modo particolare è il lavoro collettivo della classe al completo: “Hanno partecipato i ventuno componenti, nessuno escluso, tutti sullo stesso piano prima individualmente e poi collettivamente”. Ed ecco come si è proceduto, facendo attenzione a che ogni apporto fosse valorizzato : “C’è stato, dunque, un lavoro preparatorio, ho dovuto allungare i tempi di cui potessimo disporre rispetto a quelli che si potevano sottrarre al normale programma”.

Per il lavoro conclusivo, nel quale si sono tirate le fila di quanto emerso dalla visione e dalle discussioni sui film visionati, Internet è stata fondamentale, è stato come creare un Intranet della classe: “Comunicavamo con le e mail, ognuno ha fornito il proprio apporto singolo, poi è iniziato il lavoro di gruppo”. Come? “I pezzi forniti da ciascuno sono stati valutati in modo collegiale per individuare le parti più valide e condivise da utilizzare; su questa base si è provveduto alla riscrittura collettiva organizzata per gruppi”. La riunione conclusiva si è protratta fino a sera tardi.

La professoressa ci tiene a sottolineare l’importanza del punto di partenza: l’ammissione esplicita “non sappiamo nulla”, la consapevolezza di non conoscere la materia. Sottintende il principio socratico “so di non sapere” come principio basilare del sapiente, altrettanto valido per dei giovani discenti. Osserviamo che quell’ammissione fa onore a loro, nel costume di un paese fotografato oltre che dalla maschera di Alberto Sordi anche dal “sarchiapone” di Walter Chiari con la presunzione di mostrare di sapere tutto, anche quello di cui non si sa nulla: ebbene, questa classe non avrebbe descritto il “sarchiapone” né avrebbe detto: “io lo allevo” come invece “fan tutti”.

I contenuti proposti da due film alquanto impegnativi sono molto diversi, il secondo pone anche problemi complessi sul sistema di valori. Perchè in “Un borghese piccolo piccolo” c’è un capovolgimento dei ruoli e sembrano sbiadire i confini tra il bene e il male, il giusto e l’ingiusto. Per l’analisi svolta dalla classe il protagonista è negativo sin dall’inizio, nel sostituirsi al figlio e cercare tutte le scorciatoie per un malinteso amore paterno, prima di precipitare nel dramma finale.

“Non è stato facile far entrare dei ragazzi in un mondo così livido e spietato da entrambe le parti, ma non è stato traumatico, ci ha aiutati il loro interesse alla tecnica cinematografica nello studio delle sequenze”. Anche se, come vedremo dalla loro analisi, i contenuti hanno lasciato il segno.

La professoressa mostra un vero trasporto nel raccontare questa sua esperienza, ci dà anche l’elaborato nel quale il lavoro è confluito. Ne daremo conto di seguito, è intitolato “100 storie per la nostra storia – Contributo degli alunni della II A al progetto ‘Cinema & Storia”. Si presentano così: “Siamo gli alunni della classe II A del Liceo Ginnasio statale ‘C. Tacito’ di Roma, ‘capitanati’ dalla professoressa Laura Maria Teodori”. E nelle virgolette alla parola “capitanati” ci sembra di vedere una citazione: al “capitano, mio capitano!” dell’“Attimo fuggente”.

Alla moviola con le immagini e i contenuti

Qualcuno non riterrà ortodosso fare il “il traduttor dei traduttor d’Omero”, ma è utile se si vuole toccare con mano come è stato tradotto in pratica quanto detto dalla professoressa, e verificare la portata formativa dell’iniziativa. Naturalmente l’elaborato finale è solo la punta dell’iceberg costituito dall’effetto in profondità nell’animo e nella sensibilità dei ragazzi, la parte più importante.

Sin dall’inizio si parla di interesse e passione, lavoro e proposte, visioni e analisi, dibattiti e confronti, emozioni e riflessioni. Quella riassuntiva vede così “il vero cinema”: “E’ divertente, pieno di contenuti, impegnato, non noioso: dà un’idea del mondo e un’idea di sé. E la storia non incontra il cinema per caso, non lo sfiora tangenzialmente, non è un genere. Cinema è storia”. Per loro questo nesso è così importante che contrappongono all’immagine leggera suggerita da 100+1 la più austera intitolazione che qualifica i film come “cento storie” per costruire “la nostra storia”.

E’ solo l’inizio, l’analisi dei due film non è fatta in una visione d’insieme delle vicende narrate, anche se alla fine ricompongono il quadro per trarne una loro morale. Non si improvvisano critici cinematografici, si comportano da veri cineasti che esaminano le sequenze ritenute cruciali e le analizzano ad una ad una con un occhio alla macchina da presa e uno sguardo ai contenuti.

Seguiamoli in questa scomposizione per immagini delle due storie, quasi in un’operazione di montaggio alla moviola, si precisano i minuti. Ed era evidente che nell’introspezione la parte del leone la facesse Adriana, la protagonista di “Io la conoscevo bene”, impersonata da una giovanissima e stimolante Stefania Sandrelli, quasi un’identificazione con i sogni e le illusioni frustrate di tanta gioventù in una vita reale invece spesa nella noia e nelle inquietudini: sette sono le sequenze, per “Un borghese piccolo piccolo” sono tre, poi per entrambi le schede di sintesi.

Scene da “Un borghese piccolo piccolo”

La durezza del tema di questo secondo film con protagonisti i maturi genitori stravolti dal dolore portava a una rimozione, ben venga che invece si siano potuti fissare alcuni momenti cruciali. C’è l’anonimato di un lavoro svolto da “persone prive di immagine, di volto”, in “un luogo tragico e ridicolo”; si coglie la tragedia anche in una “massima aspirazione” malintesa e avvilente.

Come lo è la “religione piccola piccola” della seconda sequenza dove, invece che un rito collettivo, “la religione è solo un fatto privato. Tutto è privato, particolare. Annullata la comunità, l’incontro, la parola, la condivisione.

Nel cuore delle sequenze irrompe l’“’ordinaria’ mostruosità”, vista non soltanto nella tortura cui il protagonista sottopone il giovane che ha ucciso suo figlio dopo averlo sequestrato: “La mostruosità è prima. La mostruosità è già nel modello di vita. E’ nel pensare a se stessi soltanto. E’ chiuso al mondo il borghese piccolo piccolo, questo mostro. Comunità niente vuol dire per lui”.

La sintesi finale “dal ridicolo al tragico” segnala il taglio cinematografica delle parti del film, “la prima parte è caratterizzata da situazioni grottesche, quasi comiche”; poi la svolta drammatica, “in un attimo la situazione cambia, viene messa da parte quell’amara comicità”. Ci fa venire in mente “La vita è bella”, dove c’è analogo spartiacque quando alla farsa subentra un clima cupo da incubo.

Dell’analisi dei ragazzi colpisce e fa riflettere l’aver colto nel finale la possibile continuazione di un evento irripetibile, ormai non serve la tragedia più spaventosa per scatenare i peggiori istinti, al “borghese piccolo piccolo” basta che “un giovane lo insulta per strada”: si scatena lo “spirito del giustiziere” che è entrato in lui, “Giovanni insegue il giovane, presumibilmente, lo ucciderà”.

E’ una conclusione su cui meditare: “Questo film provoca disagio. Ci domandiamo quanto del borghese piccolo piccolo è in noi. Se anche noi siamo piccoli piccoli mostri”. Hanno colto, senza saperlo, le perplessità di Alberto Sordi evocate da Giuliano Montaldo, temeva si equivocasse e fosse preso per comportamento esemplare da imitare; no, i ragazzi lo hanno capito bene. Anche se in loro è subentrato un disagio. Quanti piccoli piccoli mostri tra noi, e se lo fossimo noi stessi?

Filosofia e psicologia, modelli e valori, quanti contenuti hanno potuto cogliere in un film! Per giunta meno congeniale per loro dell’altro molto più vicino ai propri turbamenti di adolescenti. Che provocano l’inquietudine esistenziale, non il disagio identitario. Nell’altro film prevale la prima.

Scene da “Io la conoscevo bene”

L’inquietudine è nella figura di Adriana, protagonista della loro analisi: dalla “sequenza iniziale” sono tutte dominate dall’adolescente che vive sulla propria persona il passaggio dalla vita rurale a quella cittadina nell’esodo epocale dalla “campagna” dove “tutto sembra essere fermo, dove tutto sembra essere senza tempo”, verso un mondo diverso, “per la ricerca della fortuna in città”.

La sequenza “con lo scrittore” viene vista come illuminante, lei ride dell’immagine di Milena che legge nelle pagine sparse sulla scrivania, “fino a che non si rende conto che forse questo personaggio non è del tutto inventato, anzi è proprio lei”. Ed è significativo che nella lettura si individua “il primo momento del film in cui Adriana inizia a prendere coscienza del fatto che sta sprecando la sua vita”; e si giustificano incertezze e superficialità, deve affrontare un mutamento epocale e nessuno la aiuta, la risposta che trova è “chissà, forse fai bene tu a vivere così”.

Come? Con le “mani bucate”, lo dice la canzone di Sergio Endrigo che è nel sottofondo della terza sequenza analizzata. Affidandosi, cioè, a chi si approfitta di lei che va “cercando tenerezza e compassione, per colmare il vuoto che sente dentro e che la rende profondamente sola e spaesata in un mondo troppo complesso per lei”; e perciò “incassa una delusione dopo l’altra con leggerezza, lasciandosela scivolare addosso”. Crede “di potersi destreggiare tra tanta spietatezza”, ma quando è sola come nella scena, “percepisce la solitudine e cerca di affogare il silenzio che la attanaglia”.

Un’altra canzone è anch’essa alla base dell’analisi, si tratta di “E se domani”, parla di perdita incolmabile. Adriana ripensa alla morte della sorella che aveva vissuto con superficialità, ora invece “la maschera che normalmente indossa crolla e lascia intravedere una sensibilità ingenua, innocente, schietta”. Con la voce di Mina, osservano i ragazzi, “sembra quasi di sentire l’anima di Adriana, lei che non fa mai programmi per il futuro, che vive minuto per minuto, che cerca di afferrare un pezzo del suo passato a cui ancorarsi per non lasciarsi trasportare giù”.

Tutto questo lo ricavano dalla “scena degli specchi”, sembra che i ragazzi siano alla moviola: “Pochi secondi, lentamente la camera segue il suo sguardo in movimento, si sposta verso sinistra fino ad abbracciare un’altra immagine del volto piangente”. E’ l’immagine “della protagonista, la vera Adriana, che osserva se stessa”.

La trilogia musicale si completa con “Toi” di Gilbert Becaud, anche qui i ragazzi sentono la musica ma guardano i movimenti della camera: “La macchina da presa è posizionata di fronte all’automobile, la accompagna nel suo percorso. Le inquadrature si giocano su due piani”, la parte anteriore con la città r i riflessi sul parabrezza con un “bell’effetto, piacevole. Ma inquietante, anche” . Perché passano le ombre, scivolano, come la vita è scivolata via dalle mani di Adriana, quando era ancora inconsapevole. Ora è diversa, però. Qualcosa è cambiato in lei”.

Di qui parte l’analisi finale, le sequenze si ricompongono, emerge la figura di “Adriana”: “Il prototipo della nuova Italia: attraente e convinta di poter usare il proprio fascino per farsi strada nell’ambiente dello spettacolo”. Mentre cade presto l’illusione che “tutto, anche le esperienze negative, sembra scivolare via senza lasciare alcuna traccia”: il dramma psicologico si tramuta in tragedia, come per “Un borghese piccolo piccolo”, come per il gettonatissimo “I pugni in tasca”.

Eloquente l’osservazione dei ragazzi: “Storia, diremmo oggi, attualissima: quante ragazze, infatti, sognano di entrare a far parte di quel mondo spregiudicato dello spettacolo a cui Adriana tanto aspirava? Quante alla fine ce la fanno? Ma soprattutto quante di queste ragazze sono costrette a cedere a vergognosi ricatti?”. Domande retoriche, questi giovani la loro risposta l’hanno data.

Che non si tratti di osservazioni superficiali lo dimostra l’ultima carrellata riassuntiva intitolata “L’Idiota”. Per Adriana come per il principe Myskin di Dostoevskij esplode il contrasto tra la natura buona e ingenua, presa per “deficienza”, e una società che si oppone a questi suoi sentimenti e rivela la vera natura della realtà, così diversa dal mondo che lei ha lasciato nel trapasso epocale del boom economico; e tale da sopraffarla quando “la sporca fuliggine che la società deposita sul fondo della sua coscienza pian piano inibirà quel suo chiudere gli occhi che le permetteva di andare avanti dopo ogni amara sconfitta che le veniva inferta da spettatori impietosi della sua storia”.

Se il film è riuscito a far aprire gli occhi su un degrado che “non solo fa parte del mondo moderno, ma ne è anche l’elemento fondante” l’iniziativa ha raggiunto un ulteriore insperato risultato.

L’utilizzo della rete come “forum”: una proposta

Abbiamo lasciato per ultima la loro proposta, che hanno collocato all’inizio: “Perché non ipotizzare l’apertura di spazi, in rete o altrove, destinati all’espressione e al confronto di idee, commenti, critiche ed elaborazioni riguardanti i film proposti?”. Viene così precisata: “Lo sfruttamento di un mezzo come la rete, largamente utilizzato dai fruitori del progetto (studenti liceali) potrebbe rivelarsi strategico e assolutamente ‘proficuo’”. In pratica “la creazione di un blog, un forum, una pagina Facebook potrebbe attirare l’attenzione di molti e stimolare il confronto sui film visti”.

La proposta ha tutto il nostro appoggio, anzi facciamo di più: mettiamo a disposizione lo spazio per i commenti che fossero sollecitati sui film di cui abbiamo detto e anche sugli altri. Naturalmente ci aspettiamo che i primi a usufruirne siano proprio i ragazzi dei quali abbiamo riportato l’accurata ed intelligente analisi; e in particolare l’allegra brigata da noi fotografata mentre assapora con gusto l’ottima torta di “Cinema & Storia”. Non abbiamo potuto ascoltarli dopo la professoressa Teodori, mentre parlava con noi hanno salutato e si sono allontanati. Ci terremmo molto ad averne i commenti, del resto noi stessi ne abbiamo commentato il lavoro. Se l’Intranet virtuale della classe funziona ancora, non tarderanno a ricevere l’eco di questa nostra diretta e personale sollecitazione.

Russia e Italia, anno della cultura, la firma per il 2011

Bondi e Adveev siglano l’accordo per il 2011, anno della cultura Italia-Russia

di Romano Maria Levante

– 20 maggio 2010

Siglato il memorandum d’intenti tra i ministri della Cultura d’Italia e della Federazione russa, Sandro Bondi e Alexander Avdeev, per gli scambi culturali del 2011, anno della cultura italiana in Russia e della cultura russa in Italia: mostre e spettacoli, apertura di un istituto di cultura russo, scambi di stage per i giovani a livello regionale e provinciale.

I ministri Bondi e Avdeev presentano insieme l’anno della cultura Italia-Russia

Siamo ancora una volta al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, in un ambiente diverso dal solito, non nel salone ma nella Biblioteca. Non è una biblioteca come le altre, pur monumentali presenti a Roma, al Collegio romano faceva capo la scuola di astronomi con un famoso osservatorio. I risultati del loro lavoro con i preziosi libri d’epoca sono esposti alla mostra “Visioni Celesti”, aperta fino al 28 maggio2010alla Biblioteca Nazionale Centrale Umberto I.

E’la Biblioteca o Sala della “Crociera”, per la sua forma inconsueta a croce, come nelle chiese a croce greca o latina. Un fascino speciale, accresciuto da una mostra dal titolo stimolante “Per filo e per segno: lavori femminili fra arte e letteratura”: esposti libri antichi sul tema e ricami preziosi su paramenti sacri e teli, nonché interi abiti del laboratorio-scuola di ricamo di Palestrina, provenienti dal Museo diocesano della storica località, l’antica Praeneste in provincia di Roma.

Questa la cornice d’eccezione che il nostro ministro per i Beni e le Attività Culturali Bondi ha voluto per dare solennità all’accordo con il ministro della Cultura della Federazione russa Avdeev.

Sandro Bondi fa gli onori di casa nel modo più appropriato, sia nella scelta della cornice speciale dell’incontro, sia lasciando la ribalta all’illustre ospite. Si limita ad annunciare il principale risultato dell’accordo, l’apertura a Roma di un istituto culturale russo e la prossima venuta per la firma definitiva del Vice Presidente della Federazione russa. Poi passa la parola al collega ministro.

Si vede che Alexander Avdeev si trova a sua agio, per l’ambiente e per l’accoglienza. Inquadra l’accordo nei rapporti molto stretti tra le due culture segnati dalla storia, cita in particolare il ruolo degli architetti italiani negli edifici di prestigio delle principali città russe, il nostro pensiero va alle splendide architetture dalle cornici colorate di Rastrelli viste a San Pietroburgo. L’intento non è di creare ma di “allargare i rapporti, tutta la Russia può essere interessata dall’anno della cultura”.

In particolare si cercherà di “rafforzare e sviluppare i legami diretti interregionali”, dieci regioni russe “da Mosca aVladivostok” saranno coinvolte negli scambi culturali con altrettante regioni italiane. Con questi scambi, che si tradurranno in “stage” in provincia, verrà incentivata l’attività creativa di giovani attori e pittori, poeti e scrittori, “il nostro obiettivo” ha detto il ministro. Gli italiani saranno accolti nella residenza di Tolstoi, ha aggiunto evocando il grande romanziere.

Sarà dato ampio risalto a queste manifestazioni con un’appropriata copertura mediatica in televisione, stampa e altri mezzi, con particolari riguardo a Internet.

In Russia l’anno della cultura italiana è visto come un grande evento, “saremo felici di accogliere i rappresentanti della grande cultura italiana”.

Alcuni aspetti già definiti del programma di gemellaggio culturale

Parlano poi i Coordinatori incaricati dai due governi, con il prestigio di essere stati entrambi Ministri della Cultura e la particolarità positiva di conoscersi da allora.

Per l’Italia Giuliano Urbani dice che si sta lavorando a un programma che assicuri la presenza culturale italiana in Russia al massimo livello. E mette in campo Caravaggio e Botticelli, Giotto e Antonello da Messina più i grandi maestri del ‘900, verranno presentati in importanti mostre, i primi due al museo Pushkin . Poi il grande cinema in una rassegna itinerante, teatro e musica, classica e popolare. Il Piccolo di Milano a Mosca e San Pietroburgo, il Taganka di Mosca in Italia.

Per la lingua e la letteratura italiana le iniziative riguarderanno il libro e le traduzioni tra le due lingue, essenziali per la diffusione. Una sezione concerne la “cultura spirituale contemporanea”.

Ma non sarà soltanto il nostro fulgido passato artistico, e culturale in genere, ad illuminare l’anno dello scambio italo-russo. Verranno presentate anche le eccellenze italiane attuali in una proiezione verso il futuro, nell’arte e nella scienza, nel design e nella tecnologia. Non ci si limita a trasmettere arte e cultura del passato, si comunica anche quella del presente.

Una novità assoluta sarà il dialogo tra i cittadini di ciascun paese e i governanti dell’altro paese, Urbani precisa che sono allo studio le modalità, comunque si svolgerà attraverso Internet. Conclude sottolineando che, a parte queste prime indicazioni, ci saranno molti scambi culturali a livello regionale e provinciale, con iniziative di gemellaggio: cita quella tra una repubblica caucasica sul mar Caspio della nazione scacchistica per eccellenza e la nostra Marostica dove ogni anno viene rinnovata l’antica tradizione della partita a scacchi vivente nella piazza della cittadina.

Il coordinatore incaricato per la Federazione russa  Mikhail Shvidkoy è immaginifico, inizia dicendo che “dobbiamo cercare di stupire e di stupirci a vicenda”.

L’anno della cultura si aprirà a Roma con l’inaugurazione della mostra dedicata ad Alexander Deineka, un esponente della pittura realista russa, celebrato di recente nella Galleria Tetriakova della loro capitale, fu amico di Renato Guttuso; verrà chiuso a Mosca dalla riapertura del Bolshoi dopo cinque anni con un balletto e il “Requiem di Verdi” dell’orchestra del Teatro alla Scala.

E’ all’esame la mostra incrociata degli argenti della famiglia Medici, i capolavori conservati al Cremlino portati in varie città italiane, quelli di palazzo Pitti al museo del Cremlino, con esemplari delle uova Fabergé: un interessante scambio itinerante di una collezione ripartita tra i due paesi.

Poi ribadisce l’interesse a promuovere con gli scambi culturali i giovani talenti: artisti del cinema, teatro, arte in genere, e delle nuove arti visive. Anche il balletto del Bolshoi tornerà in Italia

“Amarci è stupirci”, ribadisce, “l’amore viene dalla sorpresa”. Ce ne saranno di piccole e grandi, tra cui uno spettacolo con un regista russo di 92 anni che metterà in scena un testo del coetaneo italiano Tonino Guerra. “Si può amare e sorprendere anche dopo i novant’anni” conclude, “saranno messe in comunicazione due società civili”. Non lo ha detto, ma Tonino Guerra ha avuto la laurea honoris causa a San Pietroburgo, dunque in Russia è di casa e lo si è capito dal tono che ha usato.

La cultura alla base di tutto, più che l’economia, dice Avdeev

Verrà poi chiesto al ministro russo Avdeev come vede la relazione tra questi scambi culturali e gli intensi rapporti economici che si svolgono da molti anni tra i due paesi. Risponde che i secondi possono anche venir meno – e si riferisce ad un lontano futuro in cui nuove fonti di energia potrebbero sostituire il gas venduto all’Italia dalla Russia – mentre “gli scambi culturali formano la coscienza civile e quindi i loro effetti non potranno mai venire meno, perciò sono alla base di tutto”.

Rispondendo a un’altra domanda sulle analoghe manifestazioni dell’anno franco-russo e del futuro anno russo-spagnolo, dice che “la cultura italiana è arrivata prima di quella francese” e che con la Spagna non si tratterà solo di rapporti culturali ma “anche in campo economico, tecnico e scientifico, perché occorre promuovere questi ultimi”. Per l’Italia ci si concentra sulla cultura perché negli altri campi i rapporti sono molto intensi e non c’è nulla da approfondire, si sa tutto.

La conferenza stampa termina con questi riconoscimenti all’Italia nella triade latina che è stata evocata. L’occhio ci torna sui paramenti sacri, le mitrie, le stole finemente ricamate in oro. Ripensiamo alle solenni cerimonie liturgiche della chiesa ortodossa, con le spettacolari iconostasi che sottolineano il mistero della fede e la sua presa popolare. Certamente non poteva esserci mostra più appropriata dei paramenti liturgici di Palestrina per fare da cornice a questo solenne incontro.

(ph. Romano Maria Levante)

Tag: Russia, Sandro Bondi

Russia e Italia, Bondi e Adveev siglano l’accordo per il 2011 anno della cultura

di Romano Maria Levante

Siglato il memorandum d’intenti tra i ministri della Cultura d’Italia e della Federazione russa, Sandro Bondi e Alexander Avdeev, per gli scambi culturali del 2011, anno della cultura italiana in Russia e della cultura russa in Italia: mostre e spettacoli, apertura di un istituto di cultura russo, scambi di stage per i giovani a livello regionale e provinciale.

I ministri Bondi e Avdeev presentano insieme l’anno della cultura Italia-Russia

Siamo ancora una volta al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, in un ambiente diverso dal solito, non nel salone ma nella Biblioteca. Non è una biblioteca come le altre, pur monumentali presenti a Roma, al Collegio romano faceva capo la scuola di astronomi con un famoso osservatorio. I risultati del loro lavoro con i preziosi libri d’epoca sono esposti alla mostra “Visioni Celesti”, aperta fino al 28 maggio2010alla Biblioteca Nazionale Centrale Umberto I.

E’la Biblioteca o Sala della “Crociera”, per la sua forma inconsueta a croce, come nelle chiese a croce greca o latina. Un fascino speciale, accresciuto da una mostra dal titolo stimolante “Per filo e per segno: lavori femminili fra arte e letteratura”: esposti libri antichi sul tema e ricami preziosi su paramenti sacri e teli, nonché interi abiti del laboratorio-scuola di ricamo di Palestrina, provenienti dal Museo diocesano della storica località, l’antica Praeneste in provincia di Roma.

Questa la cornice d’eccezione che il nostro ministro per i Beni e le Attività Culturali Bondi ha voluto per dare solennità all’accordo con il ministro della Cultura della Federazione russa Avdeev.

Sandro Bondi fa gli onori di casa nel modo più appropriato, sia nella scelta della cornice speciale dell’incontro, sia lasciando la ribalta all’illustre ospite. Si limita ad annunciare il principale risultato dell’accordo, l’apertura a Roma di un istituto culturale russo e la prossima venuta per la firma definitiva del Vice Presidente della Federazione russa. Poi passa la parola al collega ministro.

Si vede che Alexander Avdeev si trova a sua agio, per l’ambiente e per l’accoglienza. Inquadra l’accordo nei rapporti molto stretti tra le due culture segnati dalla storia, cita in particolare il ruolo degli architetti italiani negli edifici di prestigio delle principali città russe, il nostro pensiero va alle splendide architetture dalle cornici colorate di Rastrelli viste a San Pietroburgo. L’intento non è di creare ma di “allargare i rapporti, tutta la Russia può essere interessata dall’anno della cultura”.

In particolare si cercherà di “rafforzare e sviluppare i legami diretti interregionali”, dieci regioni russe “da Mosca aVladivostok” saranno coinvolte negli scambi culturali con altrettante regioni italiane. Con questi scambi, che si tradurranno in “stage” in provincia, verrà incentivata l’attività creativa di giovani attori e pittori, poeti e scrittori, “il nostro obiettivo” ha detto il ministro. Gli italiani saranno accolti nella residenza di Tolstoi, ha aggiunto evocando il grande romanziere.

Sarà dato ampio risalto a queste manifestazioni con un’appropriata copertura mediatica in televisione, stampa e altri mezzi, con particolari riguardo a Internet.

In Russia l’anno della cultura italiana è visto come un grande evento, “saremo felici di accogliere i rappresentanti della grande cultura italiana”.

Alcuni aspetti già definiti del programma di gemellaggio culturale

Parlano poi i Coordinatori incaricati dai due governi, con il prestigio di essere stati entrambi Ministri della Cultura e la particolarità positiva di conoscersi da allora.

Per l’Italia Giuliano Urbani dice che si sta lavorando a un programma che assicuri la presenza culturale italiana in Russia al massimo livello. E mette in campo Caravaggio e Botticelli, Giotto e Antonello da Messina più i grandi maestri del ‘900, verranno presentati in importanti mostre, i primi due al museo Pushkin . Poi il grande cinema in una rassegna itinerante, teatro e musica, classica e popolare. Il Piccolo di Milano a Mosca e San Pietroburgo, il Taganka di Mosca in Italia.

Per la lingua e la letteratura italiana le iniziative riguarderanno il libro e le traduzioni tra le due lingue, essenziali per la diffusione. Una sezione concerne la “cultura spirituale contemporanea”.

Ma non sarà soltanto il nostro fulgido passato artistico, e culturale in genere, ad illuminare l’anno dello scambio italo-russo. Verranno presentate anche le eccellenze italiane attuali in una proiezione verso il futuro, nell’arte e nella scienza, nel design e nella tecnologia. Non ci si limita a trasmettere arte e cultura del passato, si comunica anche quella del presente.

Una novità assoluta sarà il dialogo tra i cittadini di ciascun paese e i governanti dell’altro paese, Urbani precisa che sono allo studio le modalità, comunque si svolgerà attraverso Internet. Conclude sottolineando che, a parte queste prime indicazioni, ci saranno molti scambi culturali a livello regionale e provinciale, con iniziative di gemellaggio: cita quella tra una repubblica caucasica sul mar Caspio della nazione scacchistica per eccellenza e la nostra Marostica dove ogni anno viene rinnovata l’antica tradizione della partita a scacchi vivente nella piazza della cittadina.

Il coordinatore incaricato per la Federazione russa  Mikhail Shvidkoy è immaginifico, inizia dicendo che “dobbiamo cercare di stupire e di stupirci a vicenda”.

L’anno della cultura si aprirà a Roma con l’inaugurazione della mostra dedicata ad Alexander Deineka, un esponente della pittura realista russa, celebrato di recente nella Galleria Tetriakova della loro capitale, fu amico di Renato Guttuso; verrà chiuso a Mosca dalla riapertura del Bolshoi dopo cinque anni con un balletto e il “Requiem di Verdi” dell’orchestra del Teatro alla Scala.

E’ all’esame la mostra incrociata degli argenti della famiglia Medici, i capolavori conservati al Cremlino portati in varie città italiane, quelli di palazzo Pitti al museo del Cremlino, con esemplari delle uova Fabergé: un interessante scambio itinerante di una collezione ripartita tra i due paesi.

Poi ribadisce l’interesse a promuovere con gli scambi culturali i giovani talenti: artisti del cinema, teatro, arte in genere, e delle nuove arti visive. Anche il balletto del Bolshoi tornerà in Italia

“Amarci è stupirci”, ribadisce, “l’amore viene dalla sorpresa”. Ce ne saranno di piccole e grandi, tra cui uno spettacolo con un regista russo di 92 anni che metterà in scena un testo del coetaneo italiano Tonino Guerra. “Si può amare e sorprendere anche dopo i novant’anni” conclude, “saranno messe in comunicazione due società civili”. Non lo ha detto, ma Tonino Guerra ha avuto la laurea honoris causa a San Pietroburgo, dunque in Russia è di casa e lo si è capito dal tono che ha usato.

La cultura alla base di tutto, più che l’economia, dice Avdeev

Verrà poi chiesto al ministro russo Avdeev come vede la relazione tra questi scambi culturali e gli intensi rapporti economici che si svolgono da molti anni tra i due paesi. Risponde che i secondi possono anche venir meno – e si riferisce ad un lontano futuro in cui nuove fonti di energia potrebbero sostituire il gas venduto all’Italia dalla Russia – mentre “gli scambi culturali formano la coscienza civile e quindi i loro effetti non potranno mai venire meno, perciò sono alla base di tutto”.

Rispondendo a un’altra domanda sulle analoghe manifestazioni dell’anno franco-russo e del futuro anno russo-spagnolo, dice che “la cultura italiana è arrivata prima di quella francese” e che con la Spagna non si tratterà solo di rapporti culturali ma “anche in campo economico, tecnico e scientifico, perché occorre promuovere questi ultimi”. Per l’Italia ci si concentra sulla cultura perché negli altri campi i rapporti sono molto intensi e non c’è nulla da approfondire, si sa tutto.

La conferenza stampa termina con questi riconoscimenti all’Italia nella triade latina che è stata evocata. L’occhio ci torna sui paramenti sacri, le mitrie, le stole finemente ricamate in oro. Ripensiamo alle solenni cerimonie liturgiche della chiesa ortodossa, con le spettacolari iconostasi che sottolineano il mistero della fede e la sua presa popolare. Certamente non poteva esserci mostra più appropriata dei paramenti liturgici di Palestrina per fare da cornice a questo solenne incontro.

(ph. Romano Maria Levante)

Tag: Russia, Sandro Bondi

I Colori di Giotto e l’archeologia del colore in mostra ad Assisi (prima parte)

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I Colori di Giotto e l’archeologia del colore in mostra ad Assisi

I “venerdì di Archeorivista”, dopo il “cinemascope” dell’“Opus Sectile di Porta Marina”, approdano ad Assisi alla Basilica di San Francesco, un vero “planetario” di meraviglie pittoriche e di immagini celesti. Una mostra eccezionale sui “Colori di Giotto”, dall’11 aprile al 5 settembre 2010, regista Giuseppe Basile: un restauro reale nella Cappella San Nicola e la “restituzione virtuale” al Palazzo di Monte Frumentario. La spiritualità che emana dal ciclo delle Storie di San Francesco e dalle immagini sacre che popolano le volte e le cappelle della Basilica Inferiore, è illuminata dal cielo dipinto con un azzurro che nella Basilica Superiore appare tenue e offuscato.

Non solo il cielo, ma anche gli abiti e il panneggio, gli ambienti e la natura hanno assunto con il tempo colori sfumati, spesso macchiati dalle immissioni delle candele poi sostituite da luci anch’esse dannose, non solo potenzialmente, sui delicati pigmenti degli affreschi giotteschi.

Affrontare questo problema fa tremare le vene ai polsi, è un vaso di Pandora del quale non si conoscono gli esiti finali, sarebbe come rivedere, se non riscrivere, la Divina Commedia. Ebbene, è stato trovato il coraggio di farlo, e nel momento più simbolico ed evocativo, nell’VIII Centenario dell’approvazione della regola francescana; e farlo considerando “i colori di Giotto” come un sito archeologico da studiare ed esplorare per portare alla luce per quanto possibile la preesistenza.

A questa celebrazione si unisce il VII Centenario della presenza accertata di Giotto ad Assisi e del suo grandioso lavoro pittorico nelle Basiliche francescane, una congiunzione di astri celesti.

I Colori di Giotto e l’archeologia del colore in mostra ad Assisi

Le celebrazioni dell’anniversario della Regola francescana e della presenza di Giotto ad Assisi

Le manifestazioni si sviluppano lungo un triennio, il 2010 ne è l’anno centrale, metterne la figura di Giotto al centro potrà favorire la candidatura di Assisi a Capitale Europea della Cultura nel 2019: non siamo “sub specie aeternitatis” ma la prospettiva ha l’orizzonte lungo della Chiesa e l’ala del “Serafico” è protettrice. Gli si affidò anche D’Annunzio, che ne parla nei “Taccuini”, prima del volo periglioso alle Bocche di Cattaro, la sua venerazione per il Santo è documentata dal libro “D’Annunzio e il francescanesimo” che Arnaldo Fortini, allora sindaco di Assisi, pubblicò nel 1963 per le “Edizioni di Assisi”, 263 pagine di episodi, incontri e riscontri di fede dannunziani.

Quest’anno sono i “Colori di Giotto” al centro della celebrazione, nel 2011 ci sarà una grande mostra con prestiti internazionali su “Giotto e Assisi. Il cantiere della Basilica e l’arte in Umbria tra Duecento e Trecento”, che proporrà ulteriori iniziative innovative del tipo di quelle presentate quest’anno e di cui parleremo. Non prima di aver precisato che il programma si avvale di un Comitato scientifico il cui presidente è Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, tra i membri spicca Giuseppe Basile, direttore delle attività di restauro reale e virtuale.

L’organizzazione è curata dall’associazione “Civita”, presieduta da Antonio Meccanico, benemerita nella promozione dell’arte e della cultura con la moltitudine di organismi che vi fanno capo, che vede messa alla prova la sua intensa attività e la comprovata efficienza in una sfida molto impegnativa sotto il profilo organizzativo per la novità e la complessità della realizzazione.

Il sindaco Claudio Ricci ha fatto un excursus sul grande lavoro compiuto nel territorio comunale per guarire le ferite del terremoto del 1997 con ben 2600 fra restauri, opere, infrastrutture: “Abbiamo ridato luce alle ‘pietre vive’ della città serafica da cui, otto secoli fa, è nato il francescanesimo – ha detto – Ma dal francescanesimo, sette secoli fa, nasceva anche l’arte pittorica europea”. Ha parlato degli oltre 20.000 mq di affreschi, “in cui si possono ammirare le prove dei maggiori tra i pittori del Duecento e del Trecento, dallo stupore della tridimensionalità in pittura di Giotto, a Cimabue, a Simone Martini, a Pietro Lorenzetti fino all’assisiate Puccio Capanna”.

I Colori di Giotto e l’archeologia del colore in mostra ad Assisi

E’ arrivato così alla manifestazione attuale: “Quasi 100 artisti e artigiani che fecero di Assisi il cantiere più importante della cultura europea. Con le mostre dedicate a Giotto nell’anno 2010 e 2011 vorremmo riaprire questo cantiere”. In che modo? “Non sarà solo un evento espositivo, ma un vero e proprio ‘progetto culturale’ volto a dare emozioni ai tanti visitatori di Assisi”. E ha concluso dicendo che “si è voluta coniugare la tradizione con la modernità per valorizzare l’identità culturale del territorio e suscitare stupore insieme ad emozione”.

Ne parla, con riferimento alle celebrazioni dei centenari assisiati, il Custode del Sacro Convento padre Giuseppe Piemontese con tono ispirato, ricordando la saldatura della spiritualità di San Francesco con l’arte di Giotto: “L’intento celebrativo ed evangelizzatore dei frati francescani, verso la fine del XIII secolo, si incontrò e si sposò in maniera egregia con Giotto e la sua scuola perché, attraverso una coralità di riflessioni e di interazioni, fossero rappresentati la vita, la santità, la teologia e il messaggio di Francesco”. E ha ricordato che nell’VIII centenario dell’approvazione della Regola ad Assisi, nell’aprile 2009, per una settimana 2000 frati osservanti di ogni provenienza hanno celebrato il Capitolo delle stuoie, culminato nel rinnovo della professione della Regola da parte dei ministri delle tre grandi famiglie francescane davanti a papa Benedetto XVI, in una cerimonia “speculare a quella che, sette secoli fa – hanno scritto le cronache – è stata magistralmente affrescata da Giotto nelle storie francescane della Basilica Superiore di San Francesco di Assisi”.

La presentazione da parte di Giuseppe Basile, direttore e regista dell’iniziativa – è riduttivo definirlo curatore della mostra – ha messo in luce la vastità del lavoro di ricerca che ha permesso di proporre al pubblico un’esperienza straordinaria e senza precedenti. Dove lo studio approfondito si è avvalso di tecnologie avanzate e di metodi innovativi – “grazie a Sorella tecnologia” aveva introdotto francescanamente il rappresentante dei frati conventuali – per un compito titanico: mettere le mani sui dipinti del sommo maestro Giotto sembra un sacrilegio, invece serve a riportarli nella loro sacralità originaria, primigenia diremmo; e anche se questo è possibile farlo solo in modo parziale, si è inteso dare un’idea molto spettacolare di tutto l’insieme con un intervento virtuale.

L’archeologia del restauro è stata già sperimentata nella Basilica con gli interventi conservativi e ricostruttivi a seguito del terremoto del 1997, che fece crollare le due vele centrali, ricollocate con un intervento che, per quanto possibile, rivela visivamente il materiale originario recuperato in centinaia di migliaia di frammenti e ricomposto. Si è ricavata da una minaccia un’opportunità, come sia stata grave lo ricorda la nuvola distruttiva di polvere e calcinacci che al crollo sconvolse l’intera Basilica come fosse una tromba d’aria: è stato possibile “‘vedere da vicino’ uno dei più avvincenti capitoli della storia dell’arte dell’Occidente, dove hanno lavorato i maggiori pittori del Medioevo”.

I Colori di Giotto e l’archeologia del colore in mostra ad Assisi

Le storie di San Nicola nella Cappella della Basilica Inferiore

Tra poco anche noi vedremo “da vicino”, nel “venerdì di Archeorivista”, i dipinti della Cappella di San Nicola dove c’è innanzitutto il mistero intrigante dell’intervento di Giotto e dei suoi allievi.

Vittoria Garibaldi, soprintendente dei beni storici e artistici dell’Umbria, direttore del restauro della Cappella, i cui lavori sono coordinati da Sergio Fusetti, descrive la vasta composizione pittorica. Vale la pena prenderne nota per apprezzarne la qualità artistica e valutarne i problemi.

C’è anche il monumento funerario di Gian Gaetano Orsini, della famiglia committente di questa Cappella e dell’altra simmetrica dedicata a San Giovanni Battista. E’ sovrastato da un trittico pittorico che crea con la scultura una composizione di elevato valore artistico tutto da decifrare “durante il restauro in corso, che in questo senso diventa ancora più importante”.

Le pitture, che coprono i 240 metri quadrati della Cappella, iniziano già all’esterno con l’”Annunciazione”, poi ci sono sei coppie di santi compreso San Nicola, quattro martiri circondati da quattro sante tra cui Santa Chiara, ricollegando questa parte di cappella alle storie francescane.

Dopo le pitture iconiche si sviluppano le storie del Santo, dall’apparizione in sogno di Nicola a Costantino, al Dono dell’oro alle fanciulle, dai Salvataggi miracolosi degli innocenti condannati alla decapitazione e della Nave nella tempesta, fino ai Tre principi che gli rendono grazie.

L’attenzione è richiamata su altre vicende miracolose nel vano di fondo della Cappella con Il Santo che risuscita un giovane strangolato da un demone, Libera il giovane Adeodato e lo restituisce ai genitori; fino al Vecchio ebreo che colpisce la sua immagine tra casse svuotate per un furto. La Garibaldi cita le tavole apparecchiate e San Nicola che “vola” a salvare il giovane: “Sono tutte invenzioni che presuppongono uno studio articolato degli spazi e delle storie e che indicano la presenza in questo cantiere di un grande maestro. La qualità di alcune vedute, come ad esempio la prospettiva esplosa del palazzo alle spalle dei tre giovani salvati dalla decapitazione, può avere dei confronti solo con le architetture della cappella degli Scrovegni di Padova”. E aggiunge: “Tutte idee che porterebbero a riconoscere Giotto nell’ideatore di questi affreschi. Che l’esecuzione sia stata affidata o meno alle cure della bottega è un nodo che il restauro in corso dovrebbe aiutare a sciogliere”.

Di grande valore pittorico la Maddalena, “forse la scena più bella dell’intera Cappella”, poi San Giovanni Battista e Cristo benedicente con a lato, finalmente diciamo, San Francesco che presenta Napoleone Orsini e tre cardinali e San Nicola che presenta Gian Gaetano Orsini e altri tre cardinali”: “Anche in questo caso la qualità della pittura è piuttosto alta, ma resta da chiarire per quale motivo le figure di Napoleone e di suo fratello sono state dipinte su pezze di intonaco che evidentemente sono sovrapposte al resto del velo pittorico. Che coprano qualcosa?”. Un altro interrogativo che Vittoria Garibaldi pone con chiarezza, per concludere: “Come si è detto più volte, molti sono i problemi aperti intorno a questa Cappella, tutti importanti e tutti concatenati tra loro, dal nome dell’autore alla data, nodi che si intrecciano con la presenza di Giotto ad Assisi, con lo studio della sua bottega, col passaggio dallo stile di Assisi a quello di Padova. E’ giusto sospendere il giudizio fino alla fine dei restauri in corso”.

Così è giusto sospenderlo nelle ricerche archeologiche fino al termine degli scavi, in questo senso abbiamo quella che abbiamo definito “archeologia del colore”, con annessi gli altri elementi: autore, datazione. E la complessità del restauro diventa ancora maggiore perché deve dare delle risposte chiare, oltre ad eliminare per quanto possibile o comunque ridurre i segni del degrado.

I Colori di Giotto e l’archeologia del colore in mostra ad Assisi

La delicatezza del lavoro di restauro

Si apprezza maggiormente l’eccezionalità di questo lavoro avendo a mente che non vi è altra possibilità di vedere le opere come potevano apparire allorché furono realizzate. Ciò vale in particolare per il ciclo delle Storie di San Francesco, secondo Giuseppe Basile “definite in tutti i manuali e studi di storia dell’arte in ottimo stato di conservazione e invece impoverite in maniera seria rispetto all’aspetto originario, come testimoniano in negativo le piccole, a volte microscopiche tracce rivenute sulla superficie dipinta”.

Né con il restauro, pur se accurato, si possono eliminare i segni irreversibili del tempo, a meno di fare come in epoche passate quando non si andava per il sottile e si adottavano tecniche invasive soprattutto per le parti molto deteriorate. Ne parla Basile ricordando “l’intervento ‘creativo’ mediante completamento mimetico delle parti mancanti”; e la tecnica opposta dell’“‘approccio ‘filologico’ cioè il mantenimento della situazione di non completezza, tutt’al più mitigata dal ‘trattamento a neutro’, un tipo di intervento che ha avuto larghissima diffusione in Italia”.

Mentre per il “restauro virtuale” delle storie di San Francesco non vi sono questi problemi e limiti, l’approccio è quanto mai creativo aiutato dalla tecnologia, nell’altro evento, il “restauro reale” della Cappella di San Nicola, il lavoro sarà conservativo e di ripristino, ma vi sono situazioni che possono richiedere la ricostituzione di parti perdute, e allora Basile è esplicito, si seguirà la linea indicata da Cesare Brandi: “Se integrità materica e interezza formale possono non coincidere, allora il restauro di un’opera può dirsi cosa fatta anche se non si è riusciti a ripristinare l’integrità materica, purché però sia ricostituita l’unità formale dell’opera, cioè la capacità di tornare a produrre nel fruitore effetti il più possibile analoghi a quelli anteriori alla perdita dell’integrità materica”.

Si procede operando con i due modi suggeriti dalla “Teoria del restauro” di Brandi, il “tratteggio” e “l’abbassamento ottico-tonale”. Il primo – spiega Basile -“consiste in una serie di tratti sottili, paralleli, verticali, che da lontano ricompongono percettivamente il tessuto pittorico, mentre a distanza ravvicinata esso si rivela senza possibilità di equivoci per quello che è, cioè un intervento strumentale alla restituzione dell’unità potenziale dell’opera”. L’altro modo “persegue , ovviamente, lo stesso scopo ma in maniera profondamente diversa, forse anche più innovativa, certamente più complessa e difficile, dato che rinuncia al ‘supporto’ percettivo derivante dalla ‘ricucitura’ del tessuto pittorico”.

E’ bene che i visitatori conoscano questi problemi e questa tecnica per apprezzare meglio l’opera di restauro alla quale potranno assistere da una posizione ravvicinata: “Schematicamente, essa consiste nello ‘abbassare’ in maniera uniforme tonalmente, facendolo diventare più scuro, il fondo delle lacune in modo da farlo retrocedere (appunto ‘abbassare’) otticamente fino a farlo coincidere – nei casi più felici – con il fondo e, in ogni caso, ottenendo che il tessuto pittorico ‘riemerga’ e torni così ad assumere la funzione sua propria di figura rispetto al fondo che, a questo punto, risulterà costituito dall’insieme delle lacune”.

Quando le “lacune” non sono “risarcibili”, il “tratteggio” è la via obbligata del restauro, le due tecniche “non sono fungibili”. Sono le regole dell’Istituto Italiano per il Restauro, impegnato nei restauri reali e virtuali di Assisi.

A questo punto ci sembra di essere preparati alla visita, e così ci auguriamo possano sentirsi i nostri lettori. Non ci resta che visitare la Cappella di San Nicola nella Basilica Inferiore per renderci conto dei lavori di restauro testé iniziati; e poi andare nel vicino Palazzo del Monte Frumentario per la “restituzione virtuale” delle Storie di San Francesco nella Basilica Superiore, “un ciclo pittorico ritrovato”, come dice il realizzatore Fabio Fernetti, con gli autentici “colori di Giotto”.

Autore: Romano Maria Levante – pubblicato in data 23 aprile 2010 – Email levante@archart.it

Dada e surrealisti, 2. Le opere delle grandi mostre dal 1936, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

– 7 febbraio 2010

Prosegue il racconto della splendida mostra (rimasta aperta sino a oggi) che, al Vittoriano di Roma, ha permesso di ammirare quasi 700 opere di oltre 200 autori collocabili nell’ambito della corrente artistica del surrealismo. Tra essi va citato indubbiamente anche l’abruzzese Marco Boschetti, nativo di Chieti, che pur non essendo stato presente in questa mostra ha comunque esposto le sue opere a Roma lo scorso gennaio, sul filo di un rinnovato interesse della Capitale per questa temperie artistica.

Una breve introduzione alla visita delle opere per richiamare la caratteristica principale del surrealismo già illustrata nel servizio precedente. Nel superamento totale del passato, comune ai dadaisti, ne rifiutava il nichilismo per un “engagement” altrettanto radicale rivolto, però, non alla cancellazione fine a se stessa, bensì al rinnovamento non solo artistico ma anche etico e politico.

La forma stilistica era assolutamente libera, basata sul rifiuto della “funzione mimetica” dell’arte che ne avrebbe svuotato il significato e travisato la natura: “Un’idea molto limitata dell’imitazione – sono parole del fondatore e anima del movimento André Breton – indicata all’arte come fine, è all’origine di un grave equivoco che vediamo prolungarsi sino ai nostri giorni. Partiti dal presupposto che l’uomo sia capace soltanto di riprodurre, più o meno felicemente, l’immagine che lo tocca, i pittori si sono mostrati sin troppo concilianti nella scelta dei loro modelli”.

Il curatore della mostra Arturo Schwarz spiega cosìil superamento di tale limite: “Nell’arte dei surrealisti predomina l’esigenza della fedeltà al ‘modello interiore’, non vi è posto per una ricetta estetica o un cliché figurativo”. E lo esemplifica: “Niente accomuna la pittura dei surrealisti; niente salvo, appunto, una comune esigenza ideale, la preoccupazione di fare una ‘bella pittura’. Le esigenze estetiche passano quindi in second’ordine dal momento che primeggia la volontà di esprimere, con la maggiore autenticità possibile, i propri sogni e desideri, la propria visione del mondo”. E perché non ci siano dubbi sui risultati conclude: “E’ un fatto occasionale anche se non irrilevante che questa esigenza abbia prodotto alcuni tra i maggiori capolavori dell’arte moderna e contemporanea”. La quotazione record data a Giacometti nell’asta di Sotheby’s dei giorni scorsi, citata in apertura del primo servizio, è un’ulteriore conferma delle affermazioni di Schwarz.

Questo ci rende desiderosi di scoprire i “sogni e i desideri” che stanno dietro a forme incomprensibili, ci fa essere rispettosi di scelte sorprendenti, spesso sconvolgenti, ci fa apprezzare di più l’arte surrealista. Visitiamo le opere riferite agli “artisti presenti o attorno” alle sei grandi mostre surrealiste, di cui si occupò Breton, organizzate nell’arco di quarant’anni, dal 1925 al 1965.

La mostra iniziale del 1925

La prima mostra collettiva surrealista si inaugura alla Galerie Pierre di Parigi il 14 novembre 1925, l’esposizione presenta i grandi nomi, cominciando da Arp, già visto tra i dadaisti, qui con 9 opere ben diverse dai collage colorati. Abbiamo china su carta e dei rilievi in legno dipinto, forme senza colore che si stagliano sullo sfondo al quale sono applicate.

Di Breton una grande varietà: un bronzo dal titolo e dalla forma “Anche guanto di donna”, un disegno e un fotomontaggio, un collage e un assemblaggio, una decalcomania e una “Pagina oggetto”, nella realtà una scatola di legno e vetro.

Ancora Ernst, quasi una personale con 16 opere le più varie, dal “Dattiloscritto-manifesto” ad alcuni oli su tela come “Il mare” e “Uccello in gabbia”, “La bella stagione” e “Muro avanti a sole”, fino al grandissimo “Un momento di calma”, una vegetazione verde molto frastagliata.

Un’altra personale di Man Ray dopo quella “dada” con 9 opere, le “surrealiste” sono addirittura 18. Si va da disegni molto eleganti a un’originale fotografia di Breton con sullo sfondo una piazza metafisica di de Chirico, da collage ad oggetti assemblati come la collana su un minuscolo bigliardo, un “Monumento al pittore ignoto”, poi delle squadre e una scopa, una calamita con una chiave. e una bottiglia fino alle tre più note e caratteristiche: “Il violino d’Ingres”, l’aggiunta di due chiavi di violino al nudo femminile del pittore francese; la “Venere restaurata”, un torso femminile legato da una corda, e il celebre “All’ora dell’osservatorio – Gli innamorati” con le enormi labbra rosse femminili che occupano un cielo cosiddetto a pecorelle. Fino alla “Vergine indomita”, figura femminile lignea in piedi, con le catene della cintura di castità, rinchiusa in un armadietto ligneo dagli sportelli spalancati che lascia vedere il manichino.

Nelle dieci opere di Masson troviamo piccoli disegni su carta, in china inchiostro e acquerello, e due grandi oli su tela: “Il pittore e i tempi”, una composizione allucinante e “Goethe e la metamorfosi delle piante”, dove lo scrittore sembra trapassare forme misteriose con lo sguardo.

Con Mirò e Picasso si va completando la sezione. Di Mirò quattro oli su tela molto colorati, diversissimi l’uno dall’altro, con forme collocate in ambienti e spazi particolari. Poi due dipinti “Donna circondata dal volo di un uccello” e ”Donne, uccelli e stelle” dove i riferimenti ai soggetti del titolo sono visivamente molto deboli, ma l’arte del pittore ne fa sentire la presenza. Più evidenti in ”Donna (Personaggio)”, un bronzo con una figura distinguibile nella sua imponenza.

Da un grande a un altro, di Picasso due opere di ambientazione marina, se ne sente l’atmosfera e la leggerezza: “Bagnante”, un piccolo olio su tela, e “Sulla spiaggia”, una china su carta con scorci fugaci di figure disegnate con tratto sottile ed elegante, un rudere e una gamba, un braccio e un vaso di fiori. L’olio su cartone “Testa” riporta al Picasso più caratteristico dei volti con occhi, naso e labbra asimmetricamente disposti, ma che si ricompongono in una superiore armonia.

Concludono la sezione quattro opere di Roy, antropomorfe, diremmo, pur senza figure umane, perché con spazi a dimensione d’uomo e oggetti quotidiani, una sedia al centro di una piccola stanza con quadri alle pareti, una ruota di carretto dritta su un pavimento, cavolfiore e cipolle, pestelli, cestini e vasi in un vano di finestra. La mostra del 1925 termina nell’ambiente domestico. 

Le mostre del 1936 e del 1947

In una successione ininterrotta, sfruttando tutti gli spazi nelle pareti di sale e salette, ecco le opere della mostra inaugurata l’11 giugno 1936 alle New Burlington Galleries di Londra., partecipano una sessantina di artisti, tutti presenti in mostra, alcuni dei maggiori visti già nella precedente.

Dobbiamo fare una drastica selezione, ci soffermeremo su alcuni tra i più noti ma, essendo la peculiarità della mostra di Roma la visibilità a tutti gli artisti delle esposizioni di Breton, nessuno escluso, citeremo tra gli altri quelli che colpiscono la nostra sensibilità o curiosità. Il primo è Armstrong con un “Nudo disteso” in una specie di alcova, le cui forme richiamano Botero. Quasi opposta una tempera di Bellmer “Senza Titolo”, la figura femminile sembra fatta con il filo di ferro come le opere iniziali “scolpite nell’aria” di Calder, presente in mostra con i suoi “Dischi bianchi nell’aria”, eterei e quasi incorporei. Quanto mai corposo è invece l’olio su tela “Il trionfo dell’amore” di Carlsson, un corpo femminile in un gambero gigantesco, nello sfondo un violoncellista suona; e anche “La famiglia Pino” di Colquhoun, a metà tra arti e tuberi affiancati, e “Cavalli” della Carrington, i due animali scalpitano in un ambiente tra il medioevale e il lunare.

Torna la delicatezza del tratto in Bucaille, i suoi collage sembrano xilografie, al pari di Castellon. Figurativi anche “Scheletri in un ufficio” di Delvaux, “Un mare celeste” e “L’onda” di Dominguez, i collage di Huguet e di Marièn, gli oli di Valentine Hugo. Il collage è la tecnica usata da Jennings per “Testa di leone in un comò” e il “Ritratto di lord Byron con un libro; mentre Maar ricorre alla “stampa alla gelatina d’argento”.

Delle 11 opere di Branner colpisce l’“Indicatore dello spazio”, una sorta di Pinocchio surreale, e “La sonnambula”, il tronco di un albero il corpo, un uccello sopra la testa; nei 2 oli su tavola e masonite di Mednikoff si notano i colori violenti e l’allucinazione delle forme; i 5 oli su tela di Lamba si ricordano per una certa vicinanza cromatica nella diversità estrema di stile e contenuto, Vicini anche i 5 di Ubac, senza colore, e i 9 di Toyen, invece coloratissimi, spicca il collage con una sorta di scacchiera rosa e nera con sopra dei cani accovacciati e riflessi a terra di teste di tigri..

Le ultime citazioni prima dei grandi riguardano i 9 collage di Styrsky, per lo più figure singole, come le 4 tempere e assemblaggi di. Oppenheim; e le 7 tempere di Tanguy, quasi dei bassorilievi.

Superati 12 Duchamp, mattatore della mostra – non senza aver notato il bozzetto del “Nudo che scende le scale” del quadro visto alla mostra sul “Futurismo” – ecco Dalì, Giacometti e Magritte.

Dalì non ha una considerazione nel mondo surrealista, in particolare da Schwarz, pari alla fama di cui gode per le sue stravaganze e la sua vita mondana: sono esposti il “Saggio surrealista”, la “Donna cassetto”, quest’ultimo è ricavato nel viso, la “Regina Salomè”, un busto nudo di donna che inquadra una testa maschile staccata.

Non c’è “L’uomo che cammina”, di Giacometti, venduto a Londra per 104 milioni di dollari, ma sono esposti tre suoi bronzi dai titoli importanti “Uomo”, “Donna” o suggestivi come “Donna distesa che sogna”. La figura femminile in chiave surrealista, quindi com’è pensata non com’è vista, è in due suoi gessi, ancora “Donna” e “Donna cucchiaio”.

Ed ora siamo ai 6 oli su tela di Magritte: tre inquietanti, ci sono delle fiamme e delle scarpe vuote con i piedi che vi hanno lasciato l’impronta, e due fantasiosi, “La Generazione spontanea” e “L’isola del tesoro”. Abbiamo lasciato per ultimo il più imponente nei suoi due metri per uno e mezzo dalla straordinaria forza espressiva: “Il castello sui Pirenei” , cisi sente portati in alto in quel maniero nella grande rupe sospesa miracolosamente sul mare, un rifugio e insieme una conquista, sembra di poter dominare la natura. Passano tutti gli incubi, si vola in cima al mondo.

Di qui dobbiamo ridiscendere per passare in rassegna le quasi 100 opere della mostra del giugno 1947, alla Galerie Maeght di Parigi. Sorprende la rapidità nell’organizzare una rassegna così nutrita quando era così vicina la tragedia epocale della seconda guerra mondiale. La volontà dei surrealisti di cancellare il passato per ricominciare ha trovato un potente alleato in un evento distruttivo al quale è seguita la volontà di ricostruire; di qui è scattata un’immediata sintonia.

La prima opera in cui ci si imbatte, in senso stretto, è il vero pianoforte rovesciato su un altro con fascia dai colori dell’iride di Cage e il titolo “Suona per favore o la madre, o il padre o la famiglia”.Tra le altre “sculture-oggetto”, evidentemente di minori dimensioni, troviamo le 3 di Henry, un violino, una pistola e un telefono, tutti fasciati , cui si aggiunge un olio su tela con una macchina da cucire sotto un ombrello, perfettamente figurativi.

Ma ecco il nostro Enrico Donati, morto a 99 anni il 27 aprile 2008, con due oli su tela e un inchiostro su carta dai titoli impegnativi come “La Pietra filosofale”, “Corte d’appello” e “Téte a Téte”; e si sa quanto siano importanti titoli che esplicitano la motivazione interiore, essendo spesso arduo decifrarla dalla forma.

Vogliamo liberarci subito delle immagini più ansiogene, per esplorare poi lidi più sereni e attraenti. Iniziamo con lo “Studio di gufi” di De Diego, ne abbiamo contato circa 20 i cui occhi sbarrati spiccano sul fondo scuro; un’ansia diversa nasce dagli “Occhi di Edipo”, di Gottlieb, qui sono 17 gli scomparti con sagome di teste molto diverse. Una certa ansia suscita la testa di donna con un bavaglio nero in bocca su una spiaggia, di Malet, ma il titolo è rassicurante, esprime “L’abolizione dei privilegi”. Mentre il fondo nero delle 4 composizioni fotografiche di Heisler può dare inquietudine nelle due in cui emerge un cappello su un manichino trasparente o una figura radiografata come San Sebastiano trafitto da ramoscelli. Due ansie diverse da due dipinti uno sul verde, l’altro sul marrone: il primo, di Frances, intitolato “Composizione con un uccello, un uomo e una ragazza”, è da incubo per le spine e la testa a uccello; il secondo, di Duvillier, può inquietare soltanto se pensiamo al titolo, “Abisso tanto bramato” o all’intrico di arbusti che può soffocare.

Più che in queste immagini le angosce della guerra si riflettono sulla “Morfologia psicologica” di Matta, e in modo traslato sulle tempeste turbinose di Vulliamy in “La liberazione di Andromeda” e “La mano di Dio”; di questo autore è anche il “Concerto fantastico” dove le volute non sono più tempestose ma chiare e armoniose, rispetto alla livida atmosfera delle altre due.

Maddox ci fa entrare nella psicologia con “Intenzioni segrete”,una grande foglia verde appoggiata a una colonnina, “Pied à terre”, un pesce verticale alto quanto i pantaloni di un uomo in piedi a lato, e “Poltergeist”, una donna dai lunghi capelli neri seduta con delle fiammate intorno. Un’altra immagine femminile ben evidente è nell’“Oracolo” di Henry, un bel viso con capelli al vento, bocca aperta e tre occhi che sarebbero piaciuti a Giovannino Guareschi, creatore dei “trinariciuti”, lui li vedeva come minorati, qui invece è un potenziamento della vista dell’oracolo. Immagine femminile ben diversa la “Sirena del Niger”, di Lam, una forma quasi picassiana.

La “Cosmografia del mondo interiore” e “La struttura della luce del cosmo interiore emanata dal sole della poesia erotica” di Henry, grafiche su carta con una serie di elementi che svolazzano su un fondo nero, ci portano in un mondo nel quale emerge il richiamo della donna, l’amore. Ecco “Amore nella foresta” di Hérold, quasi una dissolvenza, e l’allusivo quanto inquietante “Ginandrologia, di Serpan.

Ma la donna balza fuori nei due “Senza Titolo”di Teige, di cui c’è anche “Sulle rive di Baudelaire”, un seno nudo guardato da una severa testa di manichino. E nei due oli su tela di Trouille esplode l’erotismo: “La mummia sonnambula” scoperchia addirittura il sarcofago e si dimena attaccata a un obelisco in tutta la sua sensuale e procace nudità figurativa, mentre una grande testa bionda di giovane cerca di guardare lontano in un’altra direzione; dalla mummia egizia a “La religiosa”,tanto di crocifisso al collo, seduta su una cassapanca in abito rosso ma da suora, viso ammiccante, sigaretta accesa, scosciata, con le gambe invitanti inguainate nelle calze di seta.

Dopo quest’escursione nell’erotismo surrealista, prima di passare alle opere della mostra successiva è bene guardare il “Paesaggio surrealista”, ce ne sono due esposti: il primo, di Herold, il cui titolo specifica “in riva al mare”, ha le onde sullo sfondo e due figure arboree in primo piano; l’altro, di Bjerke-Petersen, senza ulteriori titolazioni, è una doppia immagine arborea con i tronchi e le chiome che si stagliano nel cielo e sono protese verso la vallata. Un paesaggio, sì, diremmo riecheggiando un’antica barzelletta del malizioso Pierino, ma le forme arboree sono in effetti umane e non sembrano in atteggiamento contemplativo. Come non lo sono i due bronzi della Waldberg dal titolo allusivo “Seguito da…”; un uomo e una donna si inseguono anche nel surrealismo. 

Le ultime tre mostre del 1959-60, 1960-61 e 1965 

Ed ora le opere della mostra del 1959-60, inaugurata a Parigi alla Gallerie Cordier il 15 dicembre 1959 che restò aperta fino al gennaio 1960. Il movimento surrealista ha fatto molta strada, le immagini sono colorate e colorite, le forme hanno un forte impatto emotivo, muovono l’inconscio: delle volte somigliano alle figure fatte decifrare nei test psicologici e psichiatrici, altre volte propongono immagini evocative di allucinazioni, rappresentano intrecci che coinvolgono chi le vede oppure riportano a una dimensione più serena, anche lontanamente figurativa.

Alla prima categoria appartengono “Cercatrice di agata gemella”, un fotomontaggio colorato di Benayoun e, in misura minore, i tre oli su tela di Elleouèt, nonché la “Colata rossa” di Loubchansky, “Delizioso” di Molinier e “Situazione rossa e arancio” di Morris.

Evocano allucinazioni alcuni “Senza titolo”:di Bona, un gatto nero con gli occhi sbarrati su un pavimento e un pennuto appeso per i piedi; Halpern, una piccola figura rinchiusa in una sorta di batiscafo con ectoplasmi filiformi ai lati; Hirtum, immagine totemica con in più tre enigmatici porcellini su un trespolo; e “Amore” di Eluard, un fotomontaggio di due nudi femminili in pose ed espressioni inquietanti. Anche “La veggente” e “L’arcivecchia” di Silbermann, con i loro colori violenti e le forme particolari possono muovere l’inconscio, così il “Ritratto analogico di Mimì Parent”, di Ivsic fa sentire il brivido di una folgorazione e il “Monumento ai viventi” di Legrand, con una mano tagliata che spicca in un ambiente dantesco.

Intrecci e viluppi nelle tre “Senza Titolo” di Dax, che sembrano aprirsi “Col cielo sereno” di Benoit; mentre torniamo alla dimensione più serena con i due assemblaggi di Parent (“La Vittoria di Samotracia” e “L’amore in visita”), il “Dittico dell’Atlantide riemersa” di Falzoni. Ci riporta ad una realtà urbana rielaborata in forma quasi onirica “L’occhio della città (magnetico)” di Le Marechal, suo anche “Il palazzo dell’angoscia n. 3”, un vero incubo.

La dimensione pittorica rasserena con l’astrazione delle due versioni di “Sguardo” di Rotsda e soprattutto del “Prometeo”di Seligmann, dove si ricompone un cavaliere figurativo.

Dal 28 novembre 1960 al 14 gennaio 1961 si espone alla D’Arcy Gallery di New York, 12 opere in mostra, prime tra esse due del nostro Baj: “Donna”, un collage che ripropone gli spiritelli filiformi e “Generale trombettiere”, l’altro tema dissacratorio prediletto dall’artista.

Cornell sorprende con una “Colombaia”, vera pulsantiera, e due “Senza Titolo” figurative, l’una un nudo femminile su spiaggia con nello sfondo un castello, l’altra con piccole sculture soprammobili in una stanza con tracce di costellazioni; torna nell’insolito l’autore con “Eclisse di terra”, un assemblaggio in legno e vetro, acciaio e gesso, sabbia blu e fotografia. Molto particolari le tre tempere su carta di Svanberg,, dalle “Donne Minotauro” agli “Uccelli”.

Per concludere la rassegna del 1960-61 vogliamo citare “L’amore di Venezia” di Copley. un quasi figurativo con un uomo dal volto e le braccia nere a maniche corte che bacia una donna la cui figura si mimetizza con il pavimento dalle mattonelle di un minuzioso disegno a quadretti.

Delle trentaquattro opere dell’ultima mostra, tenuta nel dicembre 1965i, alla Galerie L’Oeil di Parigi, citiamo innanzitutto le due in legno: “Antropomorfo I” di De Sanctis e Sterpini, e “La Regina Mariana” di Girondella. Mentre di De Sanctis è esposta anche “Le delizie di Kadali”, in ferro, materiale utilizzato pure da Duprey e Hiquily; e di Sterpini l’ammiccante “Non bisogna pensare alle preghiere” dove si vedono richiami che, se non siamo maniaci, ci sembrano sessuali.

Torna Elleouèt, incontrato nelle opere della mostra del 1959-60, ma qui nella pienezza espressiva con sei collage su carta coloratissimi e movimentati, figurazioni fantastiche o allucinate che emergono da uno sfondo nero caravaggesco; i titoli sono evocativi, da “Sotto la corteccia” a “Valle addormentata”, da “Il tagliafuoco” ad “Argonauti II”.

Evocativo anche l’olio “La lunga valle” di Dangelo, mentre Del Pezzo espone due assemblaggi di legno e metallo. Diversissimi i tre oli su tela ciascuno di Klapheck e di Lacomblez. Il primo riproduce con forti stacchi di colore e segni marcati degli oggetti veramente rivelatori di quanto indicano i titoli: “Lo spirito della notte”, “La rivolta”, “Terrorista”. Il secondo autore ci dà dipinti allusivi come “La cosa che viene” e “Rito di esorcismo: l’acqua” attraverso enigmatici labirinti.

Dopo tanta pressione sull’inconscio e sulla percezione visiva, quieta contemplazione con i due “Senza Titolo” di Zurn, ectoplasmi raffinatissimi, quasi di fattura giapponese, dove si è incantati dall’arabesco e non inquietano occhi e visi che fanno capolino tra le volute calligrafiche. 

Le sorprese surrealiste del curatore della mostra e il ricordo di Eva 

Un ulteriore giro della mostra in senso inverso ripropone il caleidoscopio di sorprese, in alcuni casi sconcertanti. Ma non è così la vita? E l’arte e la vita unite nell’anticonformismo libertario quando possono lasciare spazio all’estro creativo non hanno limiti né confini. Surrealismo è sorpresa dell’insolito, che può operare nelle due direzioni, perché può essere sorpresa positiva e negativa.

Il nostro percorso a ritroso ci ha riportati all’ingresso, in un vano si proietta ininterrottamente un brevissimo filmato, parla un signore con occhiali e barba bianca, è Arturo Schwarz, il curatore della mostra. Dice di essere “l’ultimo dei Mohicani avendo vissuto la cultura surrealista dal 1944” a stretto contato con il padre del movimento André Breton. Ne ha una tale venerazione da avere ammesso soltanto gli artisti che hanno esposto almeno una volta nelle sue grandi mostre collettive.

Ebbene, le domande che ci ponevamo hanno trovato risposta nelle dichiarazioni di Sandro Bondi sull’esposizione, promossa dal Ministero per i Beni e le Attività culturali:”La mostra non è curata da un semplice studioso, per quanto dei più illustri, ma da un vero protagonista di quel tempo e di quei movimenti, Arturo Schwarz, che nel corso di una vita lunga e intensa si è occupato di cultura in tante molteplici forme. Storico dell’arte, saggista, poeta, conferenziere, filosofo e gallerista, il professor Schwarz è stato compagno di strada di personalità come, tra i tanti, André Breton, Marcel Duchamp e Man Ray. E’ davvero una prospettiva unica la sua per descrivere Dada e Surrealismo”.

Cerchiamo la sua biografia e la bibliografia, sono impressionanti gli innumerevoli saggi sulla pittura surrealista, almeno venti i più importanti, i tanti cataloghi di mostre curate sullo stesso tema, le oltre cinquanta raccolte di poesie, l’attività didattica e di studio, fino agli incarichi e riconoscimenti accademici in America, Israele e anche in Italia. E’ autore unico del ricchissimo Catalogo della mostra, quasi cinquecento pagine con riprodotte in bei colori e adeguatamente commentate tutte le opere con monografie sui movimenti dadaista e surrealista ed accurate schede singole.

Ma le sorprese surrealiste del curatore non finiscono qui, ce le rivela ancora il ministro Bondi: “Arturo Schwarz non è, però, solo uomo di studi e questa mostra testimonia un altro aspetto eccezionale di questo personaggio. Due nuclei importanti di opere qui esposte, infatti, provengono dalle donazioni che il professor Schwarz ha fatto della sua collezione personale alla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma e all’Israel Museum di Gerusalemme”. L’iceberg del personaggio, come impegno culturale diretto da protagonista, sta per svela tutta la sua profondità: “Oltre millecinquecento opere divise tra il suo paese e il suo popolo, donate con straordinario disinteresse a due istituzioni che ne potessero divulgare la conoscenza e l’apprezzamento, un modo per perpetuare in eterno la memoria di quegli artisti che sono stati i suoi compagni di viaggio”. Non possiamo che unirci all’elogio del Ministro “per il suo valore assoluto e la sua generosità”. Anche questa è una sorpresa surrealista, in un mondo dove si perdono i valori e manca la generosità.

Ci prepariamo a lasciare l’esposizione fortemente colpiti da questa scoperta, e ne facciamo un’altra singolare. L’addetto che ha per noi un prezioso gesto di gentilezza si chiama Gattuso, di nome Giorgio, di modi e di aspetto sembra l’opposto del calciatore soprannominato “Ringhio”; commentiamo la cronaca calcistica del giorno prima su Sky: “Pirlo in panchina, regista è Gattuso”: chi segue il calcio ne coglie come noi la vena surrealista, due sorprese surrealiste in un incontro.

Usciamo dalla mostra, finora le sorprese sono state gustose e positive. Abbiamo già confrontato l’affermazione riportata all’inizio del “Manifesto Dada” di Tzara secondo cui “l’opera d’arte non deve rappresentare la bellezza che è morta”, con la vista dalle vetrate del Vittoriano della Roma monumentale e antica. Concordiamo con il sindaco Gianni Alemanno: “Roma risponde con il suo fulgore eterno, con una serie di immagini di bellezza assoluta che sembrano voler contraddire il pensiero dadaista”.Il Colosseo è dinanzi a noi in fondo a via dei Fori imperiali nella sua maestosità.

Ma nel marciapiede destro dello stradone notiamo un insolito assembramento: oltre un centinaio di ciclisti pronti a salire in sella, c’è un cartello “con la scritta “In ricordo di Eva, uccisa da un’automobile a 28 anni”. Chiediamo conferma, dicono che l’incidente mortale c’è stato un paio di mesi fa. Comincia a piovere, inizia la mesta sfilata, è una sorpresa vedere il dolente corteo di bici occupare interamente la mezzeria verso il Colosseo, una sorpresa surrealista; come è surrealista morire a 28 anni nel centro di Roma per andare in bicicletta. Lo abbiamo premesso, le sorprese surrealiste possono essere positive o negative, nell’arte come nella vita, per loro strettamente unite.

E’ la sera del 29 gennaio 2010, una data che non dimenticheremo. A Eva dedichiamo questo nostro racconto dell’evento “unico” di Schwarz: la mostra “Dada e Surrealismo riscoperti” al Vittoriano.

Tag: Marco Boschetti, surrealismo

Dada e surrealisti, 1. Il loro mondo, precursori e compagni, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

– 6 febbraio 2010

Quindici pittori italiani alla grande mostra aperta fino al 7 febbraio 2010, con quasi 700 opere di 200 autori. L’abruzzese (di Chieti) Marco Boschetti ha invece esposto – sempre a Roma – dal 24 al 29 gennaio 2010. Al Vittoriano gli artisti delle mostre di Breton fino al 1965, da Ernst a Ray, da Duchamp a Magritte, da Giacometti a Dalì, con i “precursori” da Kandinskij a Mirò, da Chagall a Klee, in una concezione libertaria di arte e vita nella pittura e in altre svariate forme..

La vendita record di “L’uomo che cammina”, un scultura di Giacometti acquistata all’asta londinese di Sotheby’s di inizio febbraio 2010, per 104 milioni di dollari, ha illuminato gli ultimi giorni della grande mostra del Vittoriano, nella quale sono esposte anche opere dell’artista. Non c’è il pittore surrealista abruzzese Marco Boschetti di Chieti che ha esposto, sempre a Roma, dal 24 al 29 gennaio: una pittura “tra sogno e realtà”, espressione di un pensiero inquieto del tutto libero.

Venivamo dalla scalinata con il tappeto rosso di Palazzo Venezia per “Il Potere e la Grazia”, ci troviamo a salire un’altra scalinata nel vicino Complesso del Vittoriano. Non è imponente e antica come l’altra, invece del tappeto rosso come guida centrale c’è una passatoia di plastica bianca con scritti dei nomi su ogni gradino, anche nell’alzata: è l’infinita teoria degli autori esposti, duecento, che accompagna dal corridoio di accesso lungo le due lunghe rampe di scale e nell’insolita collocazione già introduce alla mostra; sono anche duecento le pubblicazioni d’epoca dadaiste e surrealiste allineate nella vetrina che costeggia l’ultimo corridoio di accesso al piano superiore.

Là si celebrava una storia, la tradizione e l’identità, e lo si faceva nel modo più solenne, nel culto della bellezza, al Vittoriano si dà conto di una rivoluzione non solo pittorica ma anche culturale contro ogni tradizione, tutt’altro che espressione della bellezza. Non contano i temi e gli stili, conta l’autore, di qui la lunga teoria di nomi e l’assenza di qualsiasi percorso comune stilistico o tematico.

Il mondo del Dada e del Surrealismo

Si entra nel mondo del Dada e del Surrealismo, i due movimenti nati nel secondo decennio del ‘900, un secolo così prodigo di movimenti artistici anche sovrapposti e intersecati, se nel 1909 c’è stato il “Manifesto del Futurismo” di cui si è appena celebrato il centenario e poi sono seguiti altri movimenti, ciascuno con il suo messaggio di cambiamento: il Fauvismo nel colore, il cubismo nei volumi, e così via. Dadaismo e Surrealismo cambiamento in tutto, non in una componente, con uno spirito libertario che arriva alla pittura e all’arte dalla letteratura e dalla filosofia: in questo forse sulla scia del Futurismo che postulava anch’esso una palingenesi di vita contro il conformismo borghese, ma lì c’era un indirizzo ben preciso nell’energia, nel movimento, nel futuro, qui no.

In questi due movimenti l’unico indirizzo è l’assenza di un indirizzo, a parte la cancellazione dei lasciti del passato nell’arte come nella vita. Assenza che non va vista come vuoto assoluto, tutt’altro, le idee venivano espresse addirittura nei Manifesti, come aveva fatto il Futurismo.

Nel 1918 abbiamo il “Manifeste Dada” di Tristan Tzara, pubblicato nel terzo numero della rivista “Dada” che affermava: “L’opera d’arte non deve essere la bellezza in se stessa perchè la bellezza è morta”, seguendo dei fermenti manifestatisi già nel 1916 con l’apertura a Zurigo del “Cabaret Voltaire”; la rivista era uscita addirittura nel 1912 e l’anno dopo c’erano state in Russia e a Praga serate che precedettero quelle propriamente dadaiste di Zurigo, Parigi e Berlino. In questa fase iniziale partecipavano alle loro mostre collettive anche cubisti e futuristi, espressionisti e astrattisti. Il nome fu trovato da Tzara per caso nel vocabolario “Larousse”. Si chiamerebbero così la “coda della vacca santa” (per gli indigeni Kru), il cubo e la madre (per una non specificata zona italiana), il doppio sì (in russo o rumeno); quindi, secondo lui, è “una parola che non significa nulla”.

Successivo è il primo “Manifesto del Surrealismo” di André Breton, del 1924, ma già tra il 1914 e il 1918 si rivela determinante l’influsso di alcuni scrittori,. In Rimbaud, Breton coglie la visione trascendente della realtà come “regolamento dei sensi”, in Jarry vede “contestata, e finirà poi annullata nelle sue stesse basi, la distinzione fra arte e vita che a lungo si era ritenuta necessaria”; in Apollinaire trova la poesia e l’erotismo, il meraviglioso e la sorpresa; in Freud la poesia nelle associazioni verbali degli alienati mentali. Finché nello sconosciuto Lautréamont trova riuniti questi influssi in una “rivelazione totale”: intravede, dice Schwarz, “l’anticipazione dello spirito moderno in tutti i suoi aspetti più sovversivi… il rifiuto dell’aspetto utilitario-borghese delle attività intellettuali, il significato più profondo della crisi di tutti i valori”.

Citiamo ancora parole del curatore della mostra Arturo Schwarz di cui parleremo alla fine: “Dada e il Surrealismo sono stati gli unici due movimenti dell’avanguardia storica a non limitarsi a una rivoluzione visiva, ma a propugnare invece una rivoluzione culturale, nel senso maoista di ‘rivoluzione ininterrotta’ e di abolizione dell’antinomia tra teoria e pratica… Dada e il Surrealismo suggerivano una nuova filosofia di vita”: rivoluzionaria perché basata sul superamento dei modelli in essere. E qui finiscono le analogie, anzi la contiguità finché non rimase solo il surrealismo, presente e attivo tuttora in una ventina di gruppi sparsi nel mondo in tutti i continenti.

Le differenze sono notevoli, nell’impostazione e nello spirito interiore più che nella manifestazione esteriore, e abbiamo già detto che furono filosofie di vita prima che correnti artistiche.

Rivoluzione e palingenesi per entrambe. Il Dada aveva una concezione nichilista, con l’imperativo di fare “tabula rasa” del passato, negando in modo radicale tutti i valori e rifiutando qualsiasi convenzione borghese;. Ma non per finalità etiche, estetiche o di altra natura, la “rivoluzione” veniva perseguita per se stessa, come liberazione da qualsiasi vincolo, fosse anche quello della logica. Tanto che per la poesia Tzara suggeriva di tagliare le singole parole da un giornale, metterle in un sacchetto, estrarle e allinearle a caso: “La poesia vi rassomiglierà. Eccovi diventato uno scrittore infinitamente originale e fornito di sensibilità incantevole”. E’ un esempio, il tipico gesto dada di provocazione contro il buon senso e il costume, la morale e le regole.

Il surrealismo invece vedeva la palingenesi come strumento di rinnovamento altrettanto radicale nel campo etico-politico prima che in quello artistico. Breton, che si ispira anche ad altri personaggi oltre quelli già citati, scrive nel 1935: “Trasformare il mondo’ ha detto Marx; ‘Cambiare la vita’ ha detto Ribaud; queste due parole d’ordine sono per noi una sola. ‘Bisogna sognare’ ha detto Lenin: ‘Bisogna agire’ ha detto Goethe”. E conclude: “Il surrealismo non ha mai voluto altra cosa, il suo sforzo è teso a risolvere dialetticamente questa opposizione”. E’ un “automatismo psichico” per esprimere in ogni forma “il funzionamento reale del pensiero”. Cioè “è il dettato del pensiero con l’assenza di ogni controllo dettato dalla ragione, al di là di ogni preoccupazione estetica e morale”.

Di questi due movimenti sono esposte quasi 700 opere, considerando le pitture e le sculture, i collage e gli oggetti, i disegni e i video. Schwarz ha voluto che fossero rappresentati tutti coloro che hanno partecipato ad una almeno delle sei mostre di Breton, quindi hanno avuto un contatto diretto con lui. Da un lato non ha ammesso i successivi, dall’altro ha curato che ci fossero tutti quelli di Breton, non solo i più noti, per la prima volta, cosa che accresce il valore della mostra. Di qui il numero di duecento artisti i cui nomi si leggono sugli scalini salendo ai due piani superiori del Vittoriano, in un intrico di sale dalle pareti bianche e luminose l’una dentro e dietro l’altra: un’ambientazione opposta rispetto alla scenografia da Kolossal dell’altra mostra citata all’inizio.

E’ il momento di vedere le opere esposte dopo averne inquadrato motivazioni e contenuti, o meglio, assenza di contenuti. E mancanza anche di una linea stilistica o di un collegamento di qualsivoglia natura tra gli artisti. Li unisce solo la libertà assoluta di espressione, eliminato ogni riferimento a determinati canoni stilistici come alle apparenze della realtà, con le due motivazioni di fondo radicalmente dissimili: il nichilismo distruttivo nel Dada, il rinnovamento utopico nel surrealismo.

Precursori e compagni di strada, “cadaveri squisiti” e “readymade”

L’inizio della mostra è di grande livello, perché i “precursori” sono artisti di fama che in qualche misura sono stati anche “compagni” di strada dei due movimenti, abbiamo detto come inizialmente ci fossero commistioni e partecipassero alle stesse mostre collettive.

Di Chagall non abbiamo le figure fortemente colorate nel volo onirico, ma delle “acqueforti e punta secca”, disegni molto composti di una “Casa”, e Davanti alla porta”.

Così de Chirico è presente con quattro opere, ciascuna espressiva di un periodo: c’è lo splendido olio metafisico “Enigma di una partenza”, poi il disegno michelangiolesco dei “Bagni”, quello con i punti e linee dell’ “Apocalisse”, dal titolo “Nel paese della gatta fata”, e un disegno del 1915 intitolato “Piazza surrealista e paesaggio”, proprio così, surrealista e non metafisica, con le arcate misteriose, il monumento al centro, il treno sbuffante nello sfondo, un ciuffo di alberi.

Incalza Duchamp con “Giovane e fanciulla” e “Sposa” seguito da Kandinskij con le intelaiature di “Anche di più” e la voluta oblunga colorata di “Fisso” .

Ben cinque sono le opere esposte di Klee, due disegni a matita, due acquerelli e un piccolo “penna su carta” con una gustosa “Gioia animale”, due ironici gatti quasi in parata.

Arrivano i colori negli otto oli di Alberto (Giacomo Spiridione) Martini, forti figure femminili ovviamente reinterpretate in modo surreale e un forte autoritratto dal titolo “Il veggente”.

Questo “parterre de roi” si conclude con dei grossi calibri: due piccoli quadri di Munch, una litografia a colori e una xilografia, e due grandi oli su tela di Klinger, “Nereidi” e “Sirena”, che con le figure distese in dissolvenza rappresentano il mondo che sta per essere travolto dalla rivoluzione nelle motivazioni, nei contenuti e nelle forme dei due movimenti di avanguardia.

Ci siamo soffermati su questi grandi, ma percorreremo rapidamente il mondo rivoluzionato dei Dada e dei Surrealisti, il numero di opere è così elevato da non consentire una compiuta rassegna. Pescheremo fior da fiore per dare un’impressione complessiva di una mostra che può essere “raccontata” ricorrendo a fuggevoli immagini, dopo aver provato lo “shock” della visione diretta.

Una spiegazione è doverosa, e riguarda i “Readymade”, le opere realizzate presto. Sono forse quelle maggiormente “shockanti”, la più trasgressiva delle quali, “Fontana”, di Duchamp che è un orinatoio preso dalla realtà, è posta nel logo della mostra insieme alle altrettanto famose grandi labbra rosse di Ray. che evocano “Gli innamorati”. In questa scelta Schwarz si dimostra ancora una volta surrealista nell’anima, offrendo una provocazione nella provocazione mettendo in evidenza e accostando l’opera più irridente a quella più romantica.

Ecco come spiega i “Readymade”nelle “istruzioni per l’uso” della mostra: “La regola iniziale stabiliva che bisognava ‘spaesare’ l’oggetto, riproporlo con l’angolo di visuale cambiato al fine di ‘decontestualizzarlo’”, com’è con una ruota su uno sgabello invece che su un telaio di bicicletta, un attaccapanni al soffitto invece che alla parete. “Ma tale spaesamento di carattere fisico non bastò”.

Il precursore Duchamp “aggiunse un altro fattore di spaesamento, questa volta di carattere semantico, che potesse rafforzare l’effetto del primo, e cioè dare all’oggetto un titolo – che egli definì con me ‘un colore verbale’. Lo scopo era quello di trasportare la mente dello spettatore verso altre regioni, più mentali, e quindi il titolo non doveva essere descrittivo e tanto meno doveva avere un rapporto logico con l’oggetto stesso. Si trattava, infatti, di riscoprire la dimensione poetica dell’oggetto scelto”.

Non basta: “Sempre più esigente con se stesso, Duchamp stabilisce poi una terza regola dal carattere evanescente. Egli ritiene sia necessario pianificare un incontro con l’oggetto che diventerà un Readymade. Postula cioè che , tra l’artista e l’oggetto, vi sia ‘una specie d’appuntamento. Naturalmente bisognerà datarlo tale data, ora, minuto”. E, per concludere: “La quarta regola che Duchamp impose a se stesso, per non scadere nell’atto ripetitivo, fu quella di limitare il numero di Readymade scelti in un anno”.

Schwarz riporta le parole testuali di Duchamp: “Molto presto mi resi conto del pericolo di ripetere indiscriminatamente questa forma di espressione e decisi di limitare a un piccolo numero la produzione annuale di Readymade. A questo punto comprendevo che, più ancora per lo spettatore che per l’artista, l’arte è una droga che dà assuefazione, e volevo proteggere i miei Readymade da una simile contaminazione”.

E’ significativo come Schwarz voglia proteggerli lui stesso, preoccupandosi di “dissipare l’impressione che chiunque, nel tentativo di imitare Duchamp, sia in grado di prendere un oggetto di serie e di promuoverlo alla dignità d’un oggetto d’arte per il solo fato di averlo scelto e firmato”. E se non bastasse aggiunge: “Troppo facile. Si dimentica che non vi è opera di Duchamp che non sia il frutto di quello che ho definito altrove ‘il rigore dell’immaginazione’ “.

E con questo ossimoro del curatore della mostra – dato che a chi non è surrealista nulla sembra meno rigoroso e più libero dell’immaginazione – passiamo dalla lezione di Schwarz che è stata una sorta di laboratorio dada-surrealista alle opere espressamente riferibili ai due movimenti, iniziando con i dadaisti per passare poi ai surrealisti delle principali mostre organizzate da Breton.

Ma prima uno sguardo alle “opere collettive”, realizzano nella pittura ciò che abbiamo riferito sulla poesia dadaista formata prendendo a caso le parole da un sacchetto, cioè al buio. Qui al buio nascono dei dipinti in una sequenza detta dei “Cadaveri squisiti”: cinque artisti uno dopo l’altro aggiungono le loro pennellate a un quadro senza vedere quelle precedenti. Ne sono esposti dieci, c’è sempre André Breton nel gruppo, in due Tristan Tzara: cinque “matite colorate su carta” sono a composizione unica, e si deve dire che sia pure “al buio” c’è un’unitarietà interessante, gli altri disegni sono a comparti affiancati, anzi diremmo che sono “squisiti” e tutt’altro che”cadaveri”.

I dadaisti

Ed ora, dopo i grandi “precursori” e “compagni di strada” entriamo nel mondo dei Dada, nella provocazione contro la morale e il buon senso, le regole e anche la logica. Qui il riferimento è alla “Prima Fiera internazionale Dada” del 1920 a Berlino, che per due mesi e mezzo espose soprattutto autori tedeschi con innesti prestigiosi. Scorriamo le opere, citando solo alcune di esse.

Di nuovo Duchamp, non più come “compagno di strada” ma protagonista con dodici opere, tra le quali i due primi “readymade” mai realizzati: la “Ruota di bicicletta” su uno sgabello, seguita dal “Portabottiglie” appeso al soffitto.. Qui la provocazione consiste nello “spaesamento”, mentre in altre troviamo il “colore verbale”: il badile per spalare la neve è intitolato “In anticipo del braccio rotto”, l’attaccapanni è chiamato “Trappola”, fino al vero orinatoio in porcellana intitolato “Fontana”. La trasgressione nelle opere pittoriche si esprime anche nel cosiddetto “readymade rettificato”, la riproduzione della “Gioconda” leonardesca con dei sottilissimi baffetti e pizzetto, dal titolo “L.H. O.O.Q”, la “rettifica” è appena accennata, non si pensa alla profanazione. Ci sono altre “rettifiche”e un “Apolinère smaltato” su latta dipinta.

Anche il padre del surrealismo Breton figura in questa sezione con un “Assemblaggio Dada”, collage di lettere; collage pure per Blumefeld, uno dei quali dal titolo “Dada” reca in grande questa scritta sopra immagini di persone prese in parte da fotografie.

Passiamo subito a un altro grande, Max Ernst, le litografie della serie “Viva le mode, a morte l’arte” esprimono il concetto tipicamente dadaista con un manichino disarticolato e una colonna spezzata, nello sfondo due cerchi con una sorta di cinghia di trasmissione.

Collages con figure umane in Fraenkel, come “Artistico e sentimentale” e in Grosz, l’interessante “Misura di un uono”, un busto femminile in miniatura tenuto tra due dita maschili, sembra la visualizzazione di “Eri piccola, piccola, piccola… così” di Fred Buscaglione. In Hoch troviamo quattro volti umani allucinati, un “Ritratto” e anche un “Pollo”, in Kassak il manifesto “Dadaco”.

Ancora collage per cinque composizioni di Schwitters, tre colorate intitolate “Merz” e due di Freytag-Loringhoven: un “Ritratto di Marcel Duchamp”, il viso scolpito con i colori e a lato un cerchio con raggi (la sua “ruota di bicicletta”?); e un assemblaggio-scultura “Desiderio nelle membra”, una sorta di spirale in ferro su una base con all’interno un pendaglio, forse il desiderio

Su carta Hausmann, negli “Ingegneri”, figure in acquerello e inchiostro ben definite con teste a uovo e ambiente metafisico, è del 1920, si sente de Chirico; molto diversi la “Testa di contadino” e “391 Berlino-Dresda”, che hanno comunque evidenti riferimenti al titolo.

C’è poi Joostens, che con il titolo “Rotazione mista della libido” presenta una testa a falce di luna e un alambicco che versa in un bicchiere; oltre che su carta normale li fa con dei materiali, finché nella “Costruzione” passa all’oggetto in legno e metallo, una colonna lignea con un imbuto in cima.

Dai collage su carta a quelli su tela di Janco,completati da brillanti colori ad olio, nel “Trofeo” e nel “Soldato della Grande guerra”; è un artista molto versatile, sono esposti anche due oli su tela, il “Funambolo su una fune tesa”, un dadaismo figurativo, e “Ballo a Zurigo”, in stile cubista; quattro “Rilievi”, in legno e metallo, stucco e gesso, fino alla “Maschera per Firdusi”, in legno e cartone, rafia e vernice.

Collage e assemblaggi, acqueforti e fotogrammi si trovano nelle undici opere di Moholy-Nagy ”Senza titolo”, immagini in movimento o schematiche, mentre “Madhouse” è una sorta di intelaiatura di acciaio a campana su un fondo variegato a colori.

Figurazioni quasi astratte nelle quattro “Composizioni” geometriche a colori di Taeuber-Arp.

Il finale dadaista è di due grossi calibri. Ritroviamo Picabia della mostra “Futurismo” con dodici opere, là quadri a olio, qui acquerelli e tempera, inchiostro e carboncino, collage e decoupage. Assortimento di soggetti e stili, dalle tre figure umane quasi figurative a disegni puramente dadaisti, da titolazioni poetiche come “La musica è come la pittura” e “La fanciulla nata senza madre” al più prosaico “I centimetri”. Versatile ed efficace nelle diversissime espressioni artistiche.

Anche di Man Ray quasi una personale con nove opere, l’olio su tela “Il villaggio”, due collage della serie “Porte girevoli”, altri che sembrano “readymade” anche se sono chiamati “assemblaggi” perché all’oggetto principale ne sono uniti altri: così “L’enigma di Isidore Ducasse”, una coperta legata su un’invisibile macchina da cucire di cui si vede la sagoma, un “Dono” cioè ferro da stiro a incandescenza con sotto fissati 14 chiodi, un “Oggetto indistruttibile”, metronomo con aggiunto un occhio sulla lancetta segnatempo, Indubbiamente creativo e sottilmente allusivo e ironico; fino a “Ostruzione”, una sorta di lampadario sospeso fatto di grucce, l’effetto ha la leggerezza di Calder.

Il botto finale spetta a Tristan Tzara, in un certo senso il teorico e iniziatore, anche se con quattro opere molto discrete, “Npala Dada” una sorta di decalogo, un “Calligramma” e “Jamais”, delicati e sottili piantine delimitate dalle scritte poetiche.

A questo punto si impone una sosta. Nella nostra visita per le emozioni forti che abbiamo provato, anche per lo “spaesamento” dinanzi a certe trasgressioni; nella lettura per riprendersi da quelle che siamo riusciti a trasmettere. Passeremo presto alla parte più folta, quella dedicata al Surrealismo.

Tag: Marco Boschetti, surrealismo

2 Comments

  1. Fabrizio Iacovoni

Postato febbraio 7, 2010 alle 11:43 AM

il commento di sopra e’ di mia
moglie Possenti Michelina a cui mi
associo. Bravo Romano Levante

  • Fabrizio Iacovoni

Postato febbraio 7, 2010 alle 11:39 AM

R. Levante in una mostra così i’”tanta” a
livello espositivo e così ’irrazionale
nei contenuti delle opere,e’riuscito a
scrivere il suo saggio con molta chiarez-
za e soprattutto con razionalità, così’ da
rendere il “magma” fruibile. E’proprio un
risultato “tanto”.E poi:saggia la sosta
prima di presentare il Simbolismo.
Grazie ancora. Possenti Michelina-Teramo

Auschwitz-Birkenau, “la morte dell’uomo”, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Il giorno della memoria nel 65° anniversario della liberazione di Auschwitz del 27 gennaio 1945 si inaugura al Complesso del Vittoriano a Roma la grande mostra , aperta fino al 21 marzo 2010, su “AuschwitzBirkenau”, i campi di sterminio per la “soluzione finale” con il genocidio degli ebrei, nell’orrore degli eccidi e nel degrado umano, in base a documenti, reperti, fotografie e video.

“La morte dell’uomo” è la risposta che ci ha dato Bruno Vespa, in esclusiva per Abruzzo Cultura, alla nostra richiesta di fornire, lui curatore della mostra insieme a Marcello Pezzetti, una definizione che la riassumesse, quasi dovesse fare il titolo di “Porta a Porta”. Conosciuta la nostra provenienza ce l’ha data con molta cortesia, dopo un attimo di riflessione, con espressione pensosa.

Abbiamo cominciato dalla fine, l’incontro con Vespa è stato nell’intrattenimento dopo la visita alla mostra su Auschwitz-Birkenau e la presentazione con le autorità, una celebrazione sobria e toccante. Ospiti d’onore, anzi veri protagonisti circondati di attenzioni e di affetto, tre sopravvissuti, tra cui il premio Nobel Elie Wiesel.

Un aggettivo e un sostantivo simboli della memoria

Due parole si ritrovano nel messaggio del Presidente della Camera Gianfranco Fini e in quello del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta, che da un anno presiede il Comitato di Coordinamento per le Celebrazioni in ricordo della Shoah. Le parole sono: un aggettivo, “vivido”, un sostantivo, “monito”. Il primo si riferisce al ricordo e alle testimonianze, è vivo e livido insieme; il secondo è per il presente e il futuro, non dimenticare perché l’orrore non si ripeta.

Vivida è la testimonianza piena di sgomento per “tutti gli atti disumani” il cui ricordo, è sempre Fini, “non cesserà mai di indignarci e di turbare le nostre anime”. Atti consegnati alla cronaca prima, tanto erano visibili, alla storia poi, tanto sono laceranti, dinanzi alla vista, ha ricordato Letta, di “milioni di oggetti personali quando non di frammenti di corpi umani accatastati; volti e corpi di uomini, donne e bambini, deturpati e annientati solo perché ebrei, sinti o rom o politicamente non omologati”.

Il monito per Fini viene dalla coscienza del passato per garantire il futuro contro simili barbarie: “Considero, infatti, la memoria collettiva una conquista morale e civile per ogni Paese autenticamente democratico”. Gianni Letta si è posto in una dimensione problematica e sofferta: “Tutto ciò ad opera di persone considerate normali, comuni, e sotto gli occhi di un’umanità che non vedeva , non capiva”. In questa agghiacciante “normalità” il monito viene dalla “banalità del male” che “individua nella sospensione :della facoltà di pensare la causa del progressivo cedimento da parte di persone, del tutto normali, a compiere atti altrimenti inconfessabili, visti esclusivamente in funzione di un progetto criminale di cui non si è stati capaci di percepire la gravità”.

L’inferno e il buco nero, il monito per l’umanità intera

Evocare il “sonno della ragione” sarebbe troppo poco, viene evocato l’ “inferno”, lo fanno Gianni Alemanno e Sandro Bondi, le autorità che hanno parlato nell’inaugurazione, gli altri sono stati presenti e i loro interventi all’apertura sono messaggi scritti. Il Sindaco di Roma lo annuncia agli studenti romani che vanno a visitare quei campi di sterminio: “Ragazzi, sappiate che sarà un viaggio verso l’inferno. Andrete nel punto più buio dell’animo umano, un sorta di viaggio dantesco”.

Il Ministro per i Beni e le Attività Culturali , ricordando i 1.022 ebrei romani deportati ad Auschwitz il 18 ottobre 1943, di cui solo 17 fecero ritorno, dice: che “persero la vita in quell’inferno al quale tutti noi dobbiamo avere il coraggio di volgere lo sguardo per non doverci un giorno ritrovare a riviverlo.

Il “buco nero nella storia del XX secolo” per Alemanno è “una discesa nel lato oscuro dell’umanità”, per Vespa è la rimozione fatta da una generazione per difetto di conoscenza, la mostra colmerà il vuoto. Dinanzi alle omissioni di allora l’umanità, per Bondi, “si interroga su quel silenzio, sull’impotenza di Dio” e conclude che “la risposta alle ideologie del male risiede in noi, nell’essere capaci di una conversione, un rinnovamento interno per costruire una società più umana”.

Marcello Pezzetti, curatore con Vespa della mostra, dà all’esposizione una funzione pratica: “Comprendendo i processi che dalle prime persecuzioni hanno condotto poi alla sopraffazione violenta e allo sterminio, si imparerà a riconoscere i germi dell’intolleranza al loro primo manifestarsi, onde combatterli e impedirne lo sviluppo prima che sia troppo tardi”.

Il presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane Renzo Gattegna sottolinea che “tali crimini non furono commessi solo contro il popolo ebraico e le altre categorie giudicate ‘inferiori’, ma contro tutta l’umanità”. E conclude dicendo che Auschwitz è stato “uno spartiacque della storia. Dopo Auschwitz l’Europa è completamente cambiata, ora è retta da quei principi e quel valori che Auschwitz cercò di annientare. Il monito è per l’umanità intera”.

Uno sguardo d’insieme alla mostra

Tutto questo si è svolto nella sala monumentale del Vittoriano, anche le parole scritte sembrano riecheggiare tra quelle colonne con i capitelli dalle volute ioniche, la platea per gli invitati e la piccola galleria per la stampa, la solenne scalinata e la quadriga con la vittoria alata dietro agli oratori che si sono succeduti a un microfono isolato, una presenza sobria e spartana come dovuto.

Parole, quelle scritte e quelle dette, che si sostanziano nelle testimonianze quanto mai vivide esposte in mostra, nelle immagini agghiaccianti che rappresentano quel monito che più di uno ha evocato. Negli ambienti dell’esposizione il monito viene dai documenti, spesso di fonte tedesca, dagli oggetti, come le lugubri divise rigate del lager, dalle lettere ricolme di tenerezza e dai tremendi elenchi di internati di una burocrazia dell’orrore; c’è anche un frammento del ghetto di Varsavia.

Si visita la mostra in un’atmosfera tesa, tra video e filmati, si guardano le immagini, fotografie e disegni, agghiaccianti nella loro spaventosa evidenza. Ci colpiscono i disegni sulla “selezione”, fatta separatamente per donne e uomini, all’aperto, quei corpi nudi appena abbozzati sembrano ancora più inermi e indifesi nei pochi tratti che li delineano, torna subito alla memoria “se questo è un uomo”; e il tarlo dell’anima che ha fatto soccombere il sopravvissuto Primo Levi schiacciato molti anni dopo da un peso, rinnovatosi con la visita al lager, che il tempo non aveva alleggerito.

Ripensavamo al suo dramma perché, anche se in forme e con esiti diversi lo hanno vissuto tanti, forse tutti i sopravvissuti venendone fuori. Si sono rinchiusi in se stessi perché troppo grande era l’orrore per essere comunicato; c’era addirittura il timore di non essere creduti. E questo silenzio ha reso temerari i revisionisti, fino a cercare di accreditare il negazionismo, ne ha parlato Bruno Vespa.

Fino a quando si è aperta la fontana dei ricordi, il tabù è stato superato, il revisionismo-negazionismo schiacciato dall’evidenza della realtà provata e testimoniata direttamente.

La rapida visita alla mostra

L’ultima sezione della mostra è dedicata ai processi per Auschwitz, svoltisi dopo il processo di Norimberga ai più alti gerarchi per i crimini di guerra insiti nella loro responsabilità complessiva. E’ l’approdo, la dolente nemesi che giunge purtroppo tardi, quando milioni di vite sono state schiacciate, un milione nel solo campo di Auschwitz, con duecentomila bambini la cui vita è stata spenta il giorno del loro arrivo al lager. Sono sconvolgenti quegli occhi che sembrano guardarci dalla fotografie esposte alle pareti, la “vita è bella” in un cupo bianco e nero senza finzione cinematografica è davanti a noi. Alla bestialità della guerra si aggiunge l’infamia inenarrabile dell’olocausto, il genocidio di un popolo da eliminare nell’aberrazione dell’inferiorità o superiorità razziale.

La mostra non fa salti, Ci fa ripercorrere le tappe di un itinerario allucinante per la lucida follia che lo pervade in quella “sospensione della facoltà di pensare” di cui ha parlato Gianni Letta. Birkenau, oltre Auschwitz, viene preso come espressione criminale di un disegno consapevole definito nei suoi particolari non come obnubilazione temporanea e folle. Aveva un ruolo ben preciso nel meccanismo perverso della “Shoah” nazista.

In sette sezioni, ulteriormente ripartite al loro interno, si attraversa il museo degli orrori dell’Europa prima metà del novecento. C’è il cosiddetto “sistema concentrazionario” con i suoi campi da lavoro e le sue regole, viene descritta la nascita di Auschwitz.

Dalla persecuzione degli ebrei nella Germania nazista ai ghetti polacchi, inizia lo sterminio prima in Unione Sovietica, poi in Polonia; oltre a quello degli ebrei il “destino parallelo dei sinti e dei rom”. Il piano Auschwitz-Birkenau è lo strumento perverso per realizzare l’obiettivo aberrante. A seguito del piano tali campi diventano i terminali delle deportazioni di ebrei dall’Europa e anche dall’Italia.

Nella mostra si vede come fosse pianificato lo sterminio: dalla selezione al massacro nelle camere a gas, fino al trasporto dei corpi e al saccheggio dei beni delle vittime.

La vita nel lager e le condizioni di lavoro sono ben documentate con scritti e immagini: dopo l’immatricolazione la quarantena e l’inserimento nella vita del campo, con il lavoro; poi le selezioni interne e i criminali esperimenti medici. Particolare attenzione va ai bambini e ai giovani presenti nel campo, dove ci sono anche le altre categorie perseguitate. E poi l’“arrivano i nostri”: evacuazione, liquidazione e liberazione del campo, fino alla scoperta dei crimini contro i tentativi di occultarli, infine i processi di Auschwitz. Siamo tornati al punto dal quale avevamo iniziato il giro.

Una ricorrenza per la memoria di tutti noi e dell’umanità intera

Abbiamo raccontato la cerimonia ma non la mostra, della quale abbiamo indicato soltanto i contenuti per fugaci accenni. Lo faremo in modo più meditato di quanto consentito in una serata d’inaugurazione, ripercorrendo il museo degli orrori che rappresenta e cercando di leggere nella lucida follia che lo ha architettato le tracce del disegno delirante e del meccanismo infernale.

Oggi la cerimonia è stata un’intensa immersione in una tragedia epocale resa insostenibile dai visi dei bambini che sgranano gli occhi nelle immagini esposte. Erano così, pensiamo, i visi dei tre sopravvissuti presenti,quegli occhi potrebbero essere del Premio Nobel Elie Wiesel che tutti riveriscono. Si sente un tuffo al cuore, i morsi della memoria sono laceranti, scavano dentro.

Però per questa sera l’ingresso dell’inferno può bastare, il viaggio dantesco nella mostra lo faremo un’altra volta e lo racconteremo come sempre. Possiamo uscire a riveder le stelle. E certo, la terrazza del Vittoriano ce le presenta con la vista mozzafiato unica al mondo . Sono le ore 20, ha smesso di piovere, attraversiamo la grande terrazza, possiamo dinanzi all’ascensore trasparente che porta in vetta al Vittoriano. Scendiamo a Piazza Venezia, non c’è più la fila davanti al palazzo per “Il Potere e la Grazia”, la grande mostra ha chiuso i battenti per questa sera.

Ci affrettiamo a tornare a casa per scrivere il servizio. Vogliamo essere sulla rivista quando sorgerà il sole del sessantacinquesimo anniversario della “liberazione” di Auschwitz, il 27 gennaio 2010. Sentiamo il dovere di celebrare, con la solennità che merita, una ricorrenza così importante per la memoria di tutti noi e dell’umanità intera.

Tag: Bruno Vespa, Gianni Letta, Roma

4 Comments

  1. Claudio Vespa

Postato marzo 22, 2010 alle 3:23 PM

Ogni volta che si ricordano questi eventi della Storia dell’Uomo mi tornano alla mente alcune parole scritte da un ragazzo ebreo fatto prigioniero nei campi di sterminio, rivolgendosi alla madre :
anche se il mare fosse d’inchiostro ed il cielo di carta non basterebbero a descrivere l’angoscia ed il dolore che sto provando…….

  • laformiotodidac

Postato gennaio 27, 2010 alle 8:30 PM

Ricci :

I ricci/
Del giorno/
Cadute a vostro piedi/
Carezzano/
Le notti/
Delle nostre memorie bruciate./

Auschwitz 3 settembre 1941, Polonia.
Di Anick Roschi

  • Francesca

Postato gennaio 27, 2010 alle 7:48 PM

la guerra e stata terribile io ho sentito le storie di Luigi Bozzato e sono terribili perfino lui piangeva a forza di parlare di quella ssua bruttissima esperienza nei campi di concentramento. ora luigi bozzato e morto a Ponte Longo il luogo in cui abitava e è morto l anno scorso 2009 . mi dispiace per tutto questo e anche luigi e spero che non si ripeta mai più questa guerra. bruttissima e stata … ciao

  • Nemo profeta

Postato gennaio 27, 2010 alle 3:42 PM

Cerchiamo di non dimenticare:
Il genocidio del popolo Palestinese ad opera dei Nazi-Israeliani;
I milioni di anticomunisti massacrati dall’Unione Sovietica;
I 70 milioni di europei morti nella seconda guerra mondiale;
I cittadini di Dresda bruciati vivi dalle bombe al fosforo;
I milioni di Giapponesi arsi dalle radiazioni atomiche;
Lo sterminio dei Kurdi;
I bambini Iracheni e Afghani vittime innocenti delle guerre democratiche;
Le migliaia di Storici imprigionati nelle galere di tutta Europa, a causa della loro ricerca sulla verità Olocaustica.
Io non dimentico!

Caravaggio e Bacon, 3. Bacon, alla Galleria Borghese

di Romano Maria Levante  

Si conclude la visita alla galleria Borghese ai dipinti di Caravaggio e di Bacon esposti fino al 24 gennaio 2010 con le loro concezioni, così diverse ma anche parallele, lontane quattro secoli, di spazio, luci e ombre, corporeità. Il finale con i dipinti di Bacon: teste, corpi, e omaggi agli amici.

Un salto di quattro secoli, che si riducono a pochi metri nelle splendide sale della Galleria Borghese e dal mondo caravaggesco si passa al mondo baconiano. Un profondo tormento esistenziale anche in questo autore così lontano nel tempo e diverso nello stile, ma vicino nella condizione umana. Abbiamo visto nella preparazione alla mostra i profili paralleli attraverso i quali si possono leggere le loro opere radicalmente dissimili, che più diverse non potrebbero essere, e apprezzarne gli aspetti peculiari: è la magia dell’arte che fa cogliere in siderali lontananze un denominatore comune.

La testa e il corpo negli studi di ritratto di Bacon

La corporeità esasperata di Bacon può essere analizzata, nelle opere esposte, partendo dalle teste. E non si può non iniziare dallo “Studio per ritratto III”, viene da una Collezione privata, alla singolarità del titolo, peraltro a lui consueto, unisce la genesi tutta particolare. Siamo nel 1955, l’anno prima è stato in Italia, a Ostia e a Roma, non a Venezia nonostante sia in mostra alla Biennale con Lucian Freud; l’anno successivo andrà a Tangeri per visitare il compagno Peter Lacy. Il musicista Gerard Schurmann gli chiede di ispirarsi al calco del poeta Blake realizzato nel 1823 mentre era in vita, per la copertina della raccolta di musiche ispirate alle sue poesie; e Bacon, che le apprezzava, esegue lo studio dopo avere visto il calco e soprattutto le fotografie, che preferiva all’immagine reale nel suo lavoro. Quello esposto è il terzo di sette studi, una figura spettrale realizzata sulla tela grezza con pochi tratti, occhi chiusi, naso definito dall’ombra, espressione ieratica, il genio nell’eternità; gli altri, non in mostra, hanno altre particolarità, ad esempio lo “Studio per ritratto II” ha il lato sinistro, quello più in vista, segnato con un taglio nella guancia e l’occhio ancora più chiuso.

Molto diversa la “Testa VI”, realizzata a quarant’anni, nel 1949, viene da Londra, Southbank Centre, Art Council Collection. L’anno prima Bacon aveva venduto una sua opera al Museo d’arte moderna di New York, non ha ancora incontrato il critico Sylvester, che lo intervisterà molte volte facendolo aprire quasi come in sedute psicanalitiche. Non è solo una testa, sebbene si intitoli così, c’è anche il busto con la mantellina violetta di papa Innocenzo X. Ha messo il busto per dare una base importante alla testa, perché questa era ritenuta fondamentale: l’urlo della balia ferita nella “Corazzata Potemkin” il celeberrimo film di Ejzenstejn che lo colpì molto, riteneva l’urlo della balia insuperabile e insuperato anche da lui stesso; a quell’immagine si ispira, il viso è tutto bocca, un forno nero che inghiotte i lineamenti. Ancora otto anni dopo, nel 1957, farà un dipinto intitolato “Studio della balia della Corazzata Potemkin”, un’immagine agghiacciante, se l’avesse vista Paolo Villaggio non si sarebbe sentito di dare al film cult l’esilarante definizione di “boiata pazzesca”, satira ben indovinata la sua di certi intellettuali intrisi di ideologia che ostentavano i loro osanna.

Ci sono poi “Tre studi per un autoritratto”, da una Collezione privata, del 1980: lui ha compiuto settant’anni, la sua mostra parigina di tre anni prima ha avuto successo. E’ un soggetto che da vent’anni gli è consueto, la testa anche in trittico e la propria immagine. Diceva “la mia faccia la detesto, ma continuo a dipingerla solo perché non ho altre persone da ritrarre”, i suoi amici non c’erano più; poi, anche se usava le fotografie, “talvolta, mentre si dipinge, si ha anche bisogno di vedere la persona”, e nulla di più facile della propria persona anche se definiva il suo viso “un vecchio faccione grasso”. Gli dava la resa migliore perché lo conosceva, eccome, per averlo analizzato allo specchio e rivisto infinite volte nelle fotografie che, perfino nell’autoritratto, restavano la fonte primaria; perciò riusciva a scomporre e ricomporre il proprio volto con facilità. Di certo i tre esposti sono veri studi di scomposizione e ricomposizione quasi anatomica fatta di luce e colore, con una lente deformante che in realtà era per lui la rappresentazione vera della realtà nascosta. Ce ne sono altri, ma riguardano persone amate o stimate, ne parleremo più avanti.

Adesso è il momento di passare dalla testa al corpo, la corporeità sentita da Bacon parte da lontano, addirittura da Michelangelo. Torniamo al 1949, realizza “Studio del corpo umano”, e l’anno successivo il “Dipinto” esposto in mostra proveniente da Leeds, Museums & Galleries: rappresenta in un certo senso il movimento della figura rappresentata l’anno precedente. Il moto risulta anche in uno sdoppiamento, quasi che un’altra figura maschile si affiancasse alla prima femminile; qualcuno ha potuto vederci un’allusione all’ambiguità sessuale tanto è indefinita e nel contempo percepibile immediatamente. La figura è michelangiolesca, e lo è in modo ancora più evidente quella dello studio precedente, con muscolatura potente e forme esuberanti.

Qui il discorso si fa più complesso, perché tali caratteristiche erano anche negli scatti del fotografo Muybridge a cui si ispirava più che alla realtà. Anche Bacon sembra incerto nell’individuare l’influenza prevalente, nel parlarne con Sylvester nel 2003: “E’ possibile che abbia imparato da Muybridge riguardo alle posizioni e da Michelangelo riguardo all’ampiezza e alla grandezza delle forme, e sarebbe per me molto difficile separare l’influenza di Muybridge da quella di Michelangelo”. Poi dà un’indicazione precisa: “Ma naturalmente, siccome la maggioranza delle mie figure hanno a che vedere con il nudo maschile, sono certo di essere stato influenzato dal fatto che Michelangelo ha realizzato i più voluttuosi nudi maschili che ci siano nelle arti plastiche”. E non a caso usa un simile aggettivo per i nudi maschili.

Ci interessa meno, a questo punto, lo sfondo inconsueto a strisce, come in un bagno pubblico, e lo stesso dicasi per le due fasce nere verticali che delimitano il campo e i violenti colori, altrettanto inconsueti, di quelle superiore e inferiore. Perché in altri dipinti questo corpo così compatto ed eretto si scompone. Ecco la “Figura sdraiata” del 1969, non ha avuto ancora i gravi lutti che lo colpiranno due anni dopo con la morte della madre e del compagno, ma l’immagine che ne viene è quanto mai tormentata. Si sarebbe ispirato a fotografie di una spregiudicata frequentatrice dei locali di Soho, sembra fosse Henrietta Moraes, da lui chieste all’amico fotografo Deakin per studi di nudo femminili a figura intera. Venti anni sono trascorsi dal nudo maschile michelangiolesco sulle pose statuarie di Muybridge; Deakin ha altre predilezioni, sembra abbia fatto scatti intimi molto spinti, per poi venderli a Soho. Il dipinto che ne deriva mostra una figura vista dalla testa, quasi venisse offerta su un grande vassoio, sovrastata da una lampadina con una luce gialla. Esprime l’abbandono della carne, è sdraiata su uno strano sofà rotondo, che evoca il vassoio, con intorno mozziconi di sigarette intorno e una siringa piantata nel braccio destro. Le gambe sono aperte, le braccia divaricate con le mani dietro la testa, posizione inequivocabile che dà il senso dell’offrirsi.. L’insieme mostra i segni evidenti del degrado della vita e la sofferenza della condizione umana.

L’intimità è ancora maggiore in “Due figure” del 1975, da una Collezione privata: sono all’interno del contenitore trasparente che le rinchiude in uno spazio limitato, si avvitano in un amplesso che ne fa un unico corpo; il desiderio, evidentemente tutto maschile, le proietta con violenza ma anche con intensità emotiva. Inizialmente c’era una figura seduta sulla destra, che non contrastava con l’intimità della scena data la concezione di Bacon al quale non dispiaceva assistere né che altri lo facessero; poi la staccò forse pensando di farne un trittico finché non lasciò isolate le “due figure”.

Ricompare il genere femminile negli “Studi dal corpo umano” dello stesso 1975, da una Collezione privata, ma solo nel corpo perché la testa è maschile. .Si tratta della figura laterale, sullo sgabello, dov’era seduta anche la figura tagliata nel dipinto precedente. Ha parvenze femminili con un seno nudo prosperoso ma volto maschile, un’espressione androgina inquietante, sembra preludere a qualcosa di violento; presumibile che ne sarebbe oggetto la diversissima figura del nudo disteso, a gambe divaricate e braccia aperte con le mani dietro la testa come nella “Figura sdraiata”: corpo e viso in atteggiamento altrettanto inequivocabile, in parte riflesso da uno specchio. Si è parlato di “licenziosità”; vi si può vedere il contrasto netto tra godimento e incombente repressione.

L’ultima immagine corporale non riferita ai compagni è un “Trittico ispirato all’Orestea di Eschilo”, del 1981, proveniente da Oslo, Astrup Fearnley Collection, tre figure disgiunte che non hanno rapporti né cronologici né di altro tipo, unite solo dall’ispirazione del momento: non ha più i suoi diletti Lacy e Dyer, perduti nel momento del successo, può entrare in lui una filosofia esistenziale di rassegnazione, si rifugia nel lontano passato: “In quello che faccio, ebbe a dire, sento di rispondere a un lungo richiamo che viene dall’antichità”. Ma soprattutto sente di espiare dei sensi di colpa per la morte degli amici, e nulla più di Eschilo gli si addice. Immagini allucinate, forse di Erinni, la figura centrale è deforme e senza testa con una coppa di sangue sacrificale in un fondo rosso che forse lo evoca; le due laterali, ulteriormente deformate, diventano quasi ectoplasmi con parvenze umane, il contenitore geometrico trasparente, assente in quella centrale, sembra imprigionarle.

L’omaggio baconiano alle figure amate e rispettate

Fin qui le opere esposte nelle quali dipinge soggetti senza personificarli, salvo lo “Studio per ritratto III” riferito al calco della testa di Blake e la “Figura sdraiata” ispirata alle foto di Henrietta; a parte i “Tre studi per l’autoritratto” che fanno parte di una serie sterminata di simili esercizi.

L’omaggio con cui inizia questa carrellata è del 1957, l’anno del primo autoritratto. Si tratta dello “Studio per un ritratto di Van Gogh VI”, proveniente da Londra, South Bank Center, Arts Council Collection: fa parte di una serie di otto dipinti sul grande artista del quale lo attirava l’arte ma anche la vita allucinata. In quel periodo Bacon aveva una relazione molto tormentata con Lacy, che era stato pilota, era violento e gli distruggeva anche i quadri; l’anno prima era andato a trovarlo a Tangeri. Nell’inquietudine estrema del grande olandese, che si era mozzata una parte dell’orecchio in preda alla furia autodistruttiva, vedeva rispecchiarsi le proprie inquietudini. Il quadro si ispira, riprendendone il soggetto, a un dipinto di Van Gogh distrutto durante la guerra di cui c’erano riproduzioni; “Autoritratto del pittore sulla strada di Tarascona” del 1888. Tra gli otto dipinti, nello “Studio per un ritratto di Van Gogh V” aveva raffigurato il pittore su una strada nelle sue linee rette con tinte accese; in quello esposto ricorre a una composizione molto elaborata, con linee oblique e tinte forti, dove però la figura del pittore quasi non si distingue essendo l’unica forma scura con una tavolozza variopinta, quasi albero tra gli alberi. Sono di Van Gogh i colori puri e gli scorci della campagna. E’ veramente suggestivo.

Alcuni anni dopo abbiamo due ritratti molto diversi, entrambi di grandi dimensioni, apparentemente anomali per Bacon: il ritratto del Papa, per lui non credente, e quello di una donna, per lui misogino.

Il primo può sembrare inatteso fino a quando non se ne conosce la storia, è lo “Studio del ritratto di papa Innocenzo X”, del 1965, da una Collezione privata. E’ stata una sorta di “magnifica ossessione” per il ritratto di Velasquez allo stesso Papa, da Bacon definito ineguagliabile; ne aveva molte riproduzioni ma non volle andarlo a vedere a Roma a Doria Panphili, anche per la soggezione che gli incuteva. Abbiamo osservato come si serva del suo busto per sostenere una testa a cui teneva molto deformata dall’urlo della balia di Ejzenstejn. Michael Peppiatt sembra vedere tale immagine immanente: “Chiaramente, per Bacon, questa serie di parafrasi estreme, quasi isteriche, cui ritornò molte volte, presentava profonde implicazioni personali. Il vero soggetto dei suoi papi era il suo stesso irascibile e autoritario padre? E la balia urlante di Ejzenstein richiamava forse l’amata nanny, che aveva vissuto con l’artista durante i primi ani della sua carriera?” Ora vediamo come la soggezione si esprime nella maestosa struttura dell’immagine, nei grandi tendaggi cremisi e nel pavimento marmorizzato, solo la testa reca il sigillo inconfondibile del nostro artista, scolpita nei colori ma non deformata. Per lui era l’altro motivo della pittura, oltre alla figura maschile libera o nei contenitori, a voler spaziare dalle persone comuni ai potenti, in mezzo c’erano i suoi amici.

Il “Ritratto di Isabel Rawsthorne”, del 1966, viene da Londra, il Tate lo ha acquistato nel 1966: è un’immagine frontale del busto di una bella donna, dalle fattezze esotiche, modella e amante di diversi artisti, frequentò anche Picasso. A parte il dubbio se fosse stata l’unica donna anche di Bacon, che aveva nel proprio studio molte foto di lei scattate da Deakin, tra loro nacque un rapporto di amicizia molto stretto; lui era colpito dalla variabilità delle sue espressioni, ilari o altezzose, furibonde o pensose, e dal suo carisma e fascino nel mondo degli artisti, Giacometti aveva perso la testa per lei che riuscì a fare tre matrimoni prestigiosi. Il quadro in mostra ne rivela la forza espressiva e l’imponenza, un viso scolpito da colpi di luce sul nero del resto della figura e dello sfondo: un’immagine, diremmo con un ardito riferimento, dalle luci e ombre caravaggesche.

Dall’omaggio ai personaggi a quello agli amici più stretti; più che omaggio si tratta di ispirazione costante e bisogno di manifestare il suo rapporto con loro anche nella pittura. Iniziamo con il grande trittico, razionale e geometrico, dei “Tre studi di Lucian Freud”, da una Collezione privata: è del 1969, precede di due anni quelli di Dyer di cui parleremo. Freud era un artista con cui ebbe un lungo sodalizio, si frequentarono nella capitale inglese dove animarono la “Scuola di Londra”, un gruppo molto attivo. Pensare che il primo ritratto all’amico lo aveva fatto nel 1951, poi tanti altri avvalendosi delle fotografie del solito Deakin, al quale chiese di farne una serie che chiamava il “dizionario” per servirsene in assenza dell’amico. Di Freud apprezzava la vitalità e il sapersi sbrogliare in qualunque situazione, e questo lo esprime nelle inquadrature razionali, comprese in tre contenitori geometrici dalle proiezioni triangolari, mentre la sua figura contiene un’energia repressa pronta ad esplodere declinata nelle tre posizioni, non unite in trittico, che differiscono di poco.

Ora arriva il pezzo forte della serie, si tratta dell’omaggio a George Dyer, il più amato. Era un ladruncolo dell’East End, conosciuto casualmente e divenuto suo compagno per l’attrazione che suscitava in lui la figura muscolosa. Moltissimi quadri lo ritraggono nelle situazioni più diverse, anche scene familiari come in bicicletta o seduto a fianco alla propria immagine. I “Tre studi per ritratto”, del 1968, da una Collezione privata, sono tre teste quasi in posizione segnaletica, ne esplora fattezze e lineamenti. Qui si va dall’immagine quasi dormiente di sinistra e quella sfuggente di destra alla temibile figura centrale, dura e determinata.

Lo “Studio per ritratto”, del luglio 1971, viene da una Collezione privata londinese: è un grande dipinto di due metri per uno e mezzo: ci mostra Dyer seduto con la gamba destra accavallata e la struttura geometrica che ne delimita lo spazio; pur se un’ombra verde ne fuoriesce con uno schizzo bianco; la sua posizione molto composta ha fatto dubitare che fosse proprio lui, trattandosi di un periodo tormentato della loro vita in comune, un paio di mesi dopo morì in circostanze che fecero pensare al suicidio, in albergo a Parigi mentre Bacon era impegnato nella mostra al Grand Palais.

Ma crediamo che, se è questa la ragione del dubbio, c’è la prova che è infondato. Infatti l’altro dipinto delle stesse dimensioni esposto, intitolato “Studio di George Dyer”, dello stesso 1971, da una Collezione privata, esprime la stessa compostezza, pur se in uno spazio delimitato diversamente: là con la geometria del contenitore trasparente, qui con il rosso cupo del cerchio sul pavimento dove i piedi poggiano su giornali spesso presenti nei suoi dipinti, colore insolitamente forte che si ripete nello sfondo, con due strisce celesti e dei riflessi di specchio ai lati quasi in un bagno. Ebbene, la stessa compostezza e solidità, anzi vigore e salute ancora maggiore con la solita gamba destra accavallata e la figura compatta, quasi per nulla scomposta.

Il quadro venne esposto alla mostra dell’ottobre 1971 la cui inaugurazione, alla quale Bacon partecipò stoicamente, fu funestata appunto dalla morte del compagno trovato esanime per una miscela micidiale di sonniferi e alcool. In effetti Dyer, pur nell’apparenza rude e violenta, aveva mostrato sensibilità e invece di dominare Bacon, come l’artista forse avrebbe desiderato, si sentiva schiacciato dal suo ambiente e cercava di annegare nell’alcool il suo disagio. Forse da qui nacquero i sensi di colpa dell’artista che si tradussero in una copiosa produzione di opere in memoria di Dyer, dove la compostezza delle immagini in vita lascia il posto a figure che si tramutano in larve.

L’altra opera esposta, il “Trittico – Agosto 1972”, proveniente dal Tate di Londra che lo ha acquistato nel 1980, costituita di tre dipinti delle stesse grandi dimensioni, mostra ancora compostezza, sono trascorsi pochi mesi, la figura di sinistra è molto simile allo “Studio di George Dyer” anche nella gamba accavallata; e pure quella di destra, nella quale, però, viene vista l’immagine di Bacon stordito, mentre al centro c’è un viluppo di forme muscolose nel quale potrebbe esserci un amplesso amoroso. La tragedia viene in qualche modo evocata in tutti e tre i dipinti del trittico con un’ombra color carne che sembra portar via la vita.

Così si conclude la nostra carrellata nel mondo di Bacon, tra le figure singole e i trittici, anch’essi però con tre immagini isolate. Non ha mai voluto fare “narrazioni” con immagini in sequenza, tanto che si oppose a che mettessero una cornice comune a un suo trittico in mostra. Le stesse tre tele possono cambiare posizione perché non legate fra loro; teneva molto a che non si equivocasse.

Lascia una produzione che dà uno shock all’osservatore con delle deformazioni dei corpi e dei volti forti e violente, ma espressive del tumulto interiore che difficilmente il figurativo puro riesce a esprimere con altrettanta efficacia e verità. Diceva che cambiava radicalmente le fattezze perché i soggetti rappresentati potessero essere meglio se stessi, per arrivare alla loro essenza più genuina.

E lascia un insegnamento che riportiamo testualmente come lo espresse a David Sylvester, riteniamo sia la migliore conclusione: “Se stai per decidere di fare il pittore, tu devi metterti in mente che non dovrai aver paura di renderti ridicolo. Un’altra cosa, penso, è essere capaci di trovare soggetti che tu senta fortemente di voler tentare di dipingere. Sento che senza un soggetto si ricade automaticamente nella decorazione, perché non hai il soggetto che sta sempre a roderti dentro per uscire fuori… e la più grande arte ti riporta sempre alla vulnerabilità della situazione umana”. C’è qui tutta la sua inquietudine, ma prosegue con indicazioni pratiche: “E poi penso che oggi, per fare il pittore, si debba conoscere, anche solo in forma rudimentale, la storia dell’arte dall’età preistorica ai giorni nostri. E anche molti tipi diversi di libri documentari… E ho attinto moltissimo anche dal cinema”. Citando Bunuel oltre a Ejzenstejn può precisare meglio il suo senso della vita: “E’ vera crudeltà quella di Bunuel? Qualsiasi cosa in arte sembra crudele, perché la realtà è crudele. Forse è questa la ragione per cui così tanti amano l’arte astratta, perché nell’astrazione non si può essere crudeli”.

Conclusione

Abbiamo cercato il testamento spirituale di Caravaggio nell’iscrizione sulla spada “Humiltas occidit superbiam”. Forse nelle parole di Bacon appena citate abbiamo trovato il suo testamento spirituale.

Finisce così la nostra visita all’esposizione della Galleria Borghese. Tra poco si separerà la “strana coppia” di due maestri di epoche diverse, così differenti tra loro. Bacon non fece mai riferimento a Caravaggio, anzi teneva in bella vista proprio la sua biografia che sottolineava questo aspetto. Abbiamo visto all’inizio come risolvessero le rispettive problematiche di luce-ombra, spazio e corporeità; i motivi interiori, ben diversi, ma accomunati da una lacerante inquietudine, possono avvicinarli al di sopra delle tante diversità. E li hanno avvicinati in questa mostra, perciò nel descrivere i singoli quadri abbiamo ricordato episodi della loro vita. Con tanti aspetti contraddittori, come contraddittoria può apparire la mostra che li ha associati in un’esposizione nelle stesse sale ma nelle pareti opposte, quasi ne temesse la vicinanza nel momento in cui la promuoveva.

C’è la medesima contraddizione nei trittici di Bacon fatti di immagini indipendenti e isolate, senza alcun nesso narrativo. Un altro motivo perché quella visitata sia una mostra che lascia il segno.

Si può dire che mai come in questo caso genio e sregolatezza hanno fatto la differenza.

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