di Romano Maria Levante
– 2 febbraio 2009 – Postato in: scultori
Un viaggio nell’arte e nella vita dell’artista abruzzese.
Le celebrazioni sono spesso un fatto rituale, legato al calendario più che al ricordo. Non è così per Venanzo Crocetti, il grande scultore abruzzese che a sei anni dalla morte viene ricordato martedì 3 febbraio 2009 con una cerimonia che si muove come ogni anno sull’asse Teramo–Roma, il suo percorso di vita. La partecipazione del Vescovo di Teramo Michele Seccia, presso il Museo Crocetti sulla via Cassia a Roma, ne fa rimarcare la componente religiosa, mentre la visione culturale del prof. Enrico Crispolti ne sottolinea i valori artistici. C’è anche il videoart di Agostinelli sul suo senso dell’umano.
Importante è tenerne vivo il ricordo, e su questo il Presidente della Fondazione intitolata a Crocetti, Antonio Tancredi, mette tutto il suo impegno di mecenate moderno: dalle celebrazioni nazionali alla promozione internazionale, come quella nel grande Ermitage di San Pietroburgo, fino alla riscoperta di opere come il busto di marmo di D’Annunzio del 1940, tradotto in bronzo nel settantennale della morte del Poeta ed esposto in permanenza a Teramo con le sue grandi sculture monumentali.
Per il cronista tenerne vivo il ricordo significa ripercorrere i momenti e i motivi salienti del suo itinerario artistico e umano cercando di decifrarne le motivazioni e i contenuti più profondi, con l’occhio che guarda non solo per vedere ma anche e soprattutto per capire.
Il nostro viaggio nel mondo di Crocetti inizia a Roma dinanzi alla “Porta dei Sacramenti” della Basilica di San Pietro, con gli otto pannelli ben distinti ma uniti da un nesso interiore, quello che lega la posa ieratica del celebrante alla figura del penitente nel quale sentiamo vibrare l’emozione.
E’ questo forse il punto più alto raggiunto dall’artista approdato a Roma dalla provincia abruzzese che ne ha nutrito e ispirato le precoci manifestazioni giovanili, dai primi schizzi sui muri delle case e sul selciato nelle vie del paese con il carbone, il cui segno robusto ritroviamo nella produzione di disegni, in un carboncino che ricorda questi inizi. E tanti dei temi ricorrenti si nutrono dei ricordi d’infanzia, dal pescatore, alla lavandaia, agli animali da cortile e non solo, che popolavano le sue giornate, alle figurine da presepio che si dilettava a modellare.
Lo sottolinea il critico d’arte Enzo Carli ricordando “il carattere ancora arcaico e pastorale che allora conservavano quei luoghi” collocati in “quel dolcissimo lembo della terra d’Abruzzo, forse la più bella e la più ‘sconosciuta’ regione d’Italia, tra le montagne del Gran Sasso e il mare, che ha come centri più importanti Teramo e Giulianova”, quest’ultimo paese natale del Maestro.
Tra l’inizio e il culmine della parabola artistica si muove tutto il suo mondo, la sua scultura improntata alla classicità: anche nelle raffigurazioni all’insegna del realismo vi è una compostezza, un’astrazione superiore legata a una forma plastica che rappresenta l’architettura ideale della figura. Ma sono significativi anche i casi ben diversi in cui Crocetti – osserva ancora Carli – “conferisce ai suoi ritratti… una tensione psichica, o un moto fisico o, meglio, fisionomico che sommuova la compostezza – non, si intenda, la freddezza o l’immobilità – dei loro lineamenti”.
Un altro critico, Floriano De Santi, dà un’ulteriore interpretazione della sua classicità: “E’ classica l’arte che compendia nella rappresentazione della forma una concezione globale del mondo, un’esperienza storica dello spazio e del tempo, del naturale e dell’umano, di cui si concede che mutino secondo i momenti e i luoghi, gli aspetti contingenti, ma non la sostanza o la struttura, cioè la storia intesa come coscienza del valore e ordine degli eventi”. E cita esempi precisi: “Così dimostrano, ‘ad evidentiam’, capolavori crocettiani quali ‘Gazzella ferita’ del 1934, ‘Giovane con l’agnello’ del 1942, ‘Bagnante che si asciuga’ del 1955, ‘Donna al fiume’ del 1969, ‘Maria Magdala’ del 1980-81 ed ‘Equilibrio armonico di una ballerina’ del 1990”.
E se l’arte è lo specchio della vita, in essa non potevano non riflettersi i contrasti dovuti a un’infelicità che ha accompagnato il successo sin dall’età giovanile: un successo venuto subito, quasi a compensare la tragedia familiare che lo ha visto restare orfano di madre a dieci anni e perdere il padre due anni dopo, per essere affidato alle cure dello zio paterno, muratore a Portorecanati.
E’ stata forse la reazione orgogliosa della propria volontà che gli ha fatto moltiplicare le forze e le iniziative facendo leva su un talento innato e su una grande determinazione pur dietro un pudico riserbo, tanto da far dire a Carlo Ludovico Ragghianti: “Non si riscontrano nella formazione e nel percorso di Crocetti dibattiti o crisi. Una spontaneità felice, oltre ogni difficoltà e talvolta divieto di vita specie nella prima età, ha presieduto alle origini artistiche dello scultore, chiaramente un predestinato che fin dalla pubertà ha inseguito con tensione ininterrotta, e si direbbe con serenità, la finalità scoperta fin dalla vocazione”. L’arte, dunque, come suprema rasserenatrice della vita.
E’ straordinario il suo cursus honorum, dalla prima esposizione nel 1930 a soli 17 anni, ai prestigiosi Premi a lui conferiti, alla presenza stabile nelle Quadriennali di Roma e nelle Biennali di Venezia, alle Presidenze e alle Cattedre di scultura nelle più importanti Accademie nazionali, alle grandi committenze; le sue opere si trovano nelle principali gallerie in Italia e all’estero.
Questo è divenuto il mondo di Venanzo Crocetti. La sua dimensione internazionale unita al significato simbolico delle opere monumentali si può riassumere nei tour itineranti del “Giovane Cavaliere della Pace”. E’ stato esposto al Parlamento europeo di Strasburgo e al Palazzo dell’ONU di New York, e soprattutto al Museo di arte contemporanea di Hiroshima, oltre che all’Ermitage di San Pietroburgo e al Tretiacov di Mosca: cioè ovunque si volesse dare una rappresentazione plastica ed eloquente di un valore così alto come il sogno di sempre degli individui e delle nazioni. Finora irrealizzato ma mai abbandonato.
A Roma, nello studio del Maestro
Andiamo a visitare lo studio d’artista di Crocetti, è uno dei due poli della sua vita e della sua arte. Si trova sulla via Cassia, alla periferia di Roma, nei pressi della Tomba di Nerone, incorporato nella grande costruzione del Museo Crocetti; anch’essa realizzata in vita dall’artista con un’iniziativa che colpisce per il notevole impegno e la coraggiosa lungimiranza. Ci attira subito la porta d’ingresso, un bassorilievo di figure al lavoro con i segni della fatica umana. E’ risplendente nella sua patina dorata, come la “Porta dei Sacramenti”, ma invece della compostezza ieratica c’è un’agitazione febbrile.
Entriamo nel Museo come se visitassimo un mausoleo, andiamo alla ricerca dello studio come si cerca la cripta. Ebbene, non ha nulla del mausoleo, è come se l’artista ne fosse uscito solo momentaneamente, lasciando gli attrezzi e gli strumenti inattivi, ma pronti a ricominciare, in un apparente disordine nel quale bozzetti, disegni, pannelli si succedono in un happening creativo. Attira la nostra attenzione una scala per accedere alla sommità del bassorilievo in gesso recante un Angelo, la Madonna e un bambino in piedi; perché sembra un’opera in fieri alla quale manca soltanto la fusione finale per divenire capolavoro, mentre il bozzetto della “Porta dei Sacramenti” fa bella mostra di sé.
Si disvela dinanzi a noi il miracolo della creazione artistica per mezzo di quegli attrezzi, di quegli arnesi, nella collocazione casuale e insieme oculata delle suppellettili, degli oggetti personali e di quelli comuni ad ogni abitazione. Perché fuori dallo studio, dopo il vetro divisorio che consente di vederne l’interno, ci sono le opere d’arte dello scultore.
Nelle cinque sale per l’esposizione permanente del Museo, distribuite su due piani, incontriamo una folla di figure, che animano una foresta incantata più che pietrificata, dove le ballerine si mescolano agli animali e agli altri soggetti dell’iconografia di Crocetti.
Guardiamo allora i suoi animali, un filone seguito dai grandi artisti che lo hanno preceduto, senza cercare influssi e tanto meno derivazioni. Colpisce il fremito che promana dalle sculture, scattanti e vitali, dalla “Gazzella ferita”, alla “Leonessa”, ai tanti “Cavalli”, nelle loro espressioni più dinamiche, alcuni scavati come i ronzini disegnati da Salvador Dalì nelle illustrazioni del Don Chisciotte di Cervantes, laddove Marino li raffigurava fermi, quasi bloccati e comunque accomunati alla sorte tragica del cavaliere. In Crocetti nervi e muscoli sono in tensione, i corpi arcuati, le zampe protese, aggrovigliate, e anche l’immobilità sembra pervasa, si direbbe squassata, da un’irrequietezza indomabile.
Ragghianti ha così commentato: “Crocetti nella composizione di figure, negli animali e specie nei cavalli infondeva un fluido continuo e incalzante, la strofe plastica si diramava come un organismo accelerato dal moto e ritmato dal respiro, e così mosso destinato a serbare per sempre l’originaria pulsante dinamica”.
Ma sono le figure umane a catturare ora la nostra attenzione, così imponenti e statuarie, ben diverse dalle figure animali. Soltanto la “Maddalena” nelle sue diverse raffigurazioni (del 1973-76 e del 1985) mostra la stessa vitalità nervosa, tutta raccolta e schiacciata come le fiere sono raccolte e pronte a scattare. Una Maddalena scarmigliata come una Erinni, che trasmette angoscia, sofferenza, disperazione, mentre le figure femminili, soprattutto le modelle, esprimono compostezza e stabilità, oltre che dolcezza, con il dinamismo represso delle danzatrici calato in un clima di assoluta serenità. E’ il tema prediletto, nel Museo notiamo almeno una diecina di queste figure, dalla “Fanciulla al fiume” del ‘34 alla “Ragazza seduta” del ‘46, dalla “Modella in riposo” del ‘64 alla “Modella che riordina i capelli” dell’’85, dalla “Maternità” del ’98 alle tante ballerine.
In tutte vi è una costante, l’equilibrio e la calma. Si sente una forza tranquilla; e soprattutto si è soggiogati dalla grandiosità. Le dimensioni, che sovrastano la statura umana fino a superare costantemente i due metri, sono tali da suggerire questa qualifica: anch’esse sono una costante della sua produzione in bronzo, resta il carattere monumentale anche nelle opere che non hanno tale destinazione. E’ un segno anche questo della sua classicità, del bisogno di rispettare canoni millenari verificati in una colta ricerca di studioso oltre che di artista.
Si avverte una sensualità naturale, in quei corpi con i seni nudi nel segno di un’innocenza primigenia da paradiso terrestre. La bellezza muliebre viene celebrata come nell’antichità classica e nel Rinascimento, e torna anche per questo verso la classicità di Crocetti, la sua collocazione in una posizione certamente elevata tra i grandi maestri. Sembra che le ballerine di Degas abbiano preso forma e ci guardino dall’alto irraggiungibili, chiuse nella loro corazza di carne e insieme aperte mentre roteano i loro corpi e le loro vesti taglienti come lamine all’aria, alla natura: insomma alla vita in un’altra dimensione.
Secondo Fortunato Bellonzi prorompe la “femminilità che sopporta il peso del proprio fiore”, la “carne che già dimette le promesse acerbe, e che pare liberarsi della veste come di una costrizione” e si vede come “il timbro elegiaco marchi intimamente la carnalità abbandonata”; nondimeno “negli atti dei volti e delle membra dominano una compostezza austera, che attribuiresti al sentimento di un destino oscuro e vagamente minaccioso, e un riconoscimento costante della creatura e del suo vitalismo prorompente negli anni giovani ”. C’è come non mai la sintesi tra classicità e realismo propria dell’arte del Maestro.
Ed è in un’altra dimensione che ci sentiamo proiettati dinanzi al “Giovane Cavaliere della Pace”, grande composizione nella quale si ricongiungono i motivi di compostezza della figura umana con quelli di vitalità nell’animale, questa volta il più nobile e amato dall’artista. Ammiriamo nel giovane cavaliere che si china ad accarezzare il collo del cavallo, il cui muso sfiora il terreno per brucarne l’erba, il simbolo del valore altissimo celebrato nei posti emblematici del mondo. Vederlo nel suo Museo ci proietta nella dimensione cosmopolita che ha permesso all’artista di diffondere, attraverso quest’opera monumentale fortemente evocativa, un messaggio di fraternità universale.
A Teramo, tra le sculture all’aperto di Crocetti
Dall’universo mondo alla provincia abruzzese il passo è breve seguendo le orme di Crocetti. Torniamo alle origini, alla terra che ha visto i suoi primi disegni: a Teramo da dove partì per Roma. Siamo dinanzi al Municipio, a Piazza Orsini, un angolo discreto a misura d’uomo, un gioiello di arte per gli edifici che la circondano, in primis il Duomo e il Vescovado, e un lascito storico per le vicende che l’hanno attraversata.
La statua della “Maternità”, con lo splendido nudo di donna mentre solleva un bambino, che invece è vestito, è una figura solare posta all’aperto sotto gli occhi dei suoi concittadini. Ci riporta alle ballerine, alla sensualità naturale e primigenia, alla seduzione innocente. Un’ardita associazione di idee ci richiama la “Madonnina del Gran Sasso”, diversissima a prima vista per il pesante mantello che le copre anche il capo mentre il bambino ha il petto nudo, ma simile nel gesto spontaneo di protendere il piccolo in alto, quasi in un’esibizione orgogliosa.
Superiamo il Duomo quattrocentesco, romanico con segni gotici, dal campanile svettante, sappiamo che l’interno – di recente restaurato – .è di una sobrietà esemplare che ispira raccoglimento, illuminato dallo sfolgorante “Paliotto d’argento” di Nicola da Guardiagrele. C’è un bel portale d’ingresso e sul retro una scalinata che ha al culmine un secondo portale con l’“Annunciazione” di Crocetti , le cui grandi figure si stagliano nel bassorilievo guardando dall’alto ì giovani, numerosi nella città sede universitaria, che si affollano in quello che è diventato il loro luogo di raduno.
E’ stata l’ultima opera incompiuta di Crocetti, completata con una colomba in alto da Silvio Mastrodascio, scultore venuto dalla montagna di Cerqueto mentre il nostro veniva dalla marina di Giulianova, provenienze nelle quali ci sembra di rivedere il camoscio con coda di sirena, marchio e iconografia della regione.
Risaliamo il Corso cittadino in questo pellegrinaggio ideale, la nostra meta è un’opera particolarmente complessa dalla motivazione superiore alla pur elevata ispirazione artistica, in quanto investe sentimenti profondi quanto sofferti impressi nella storia e nella vita di una intera comunità. Il “Monumento ai Caduti di tutte le guerre”, realizzato tra il 1960 e il 1968, non è solo un gruppo di sculture imponenti che superano i quattro metri d’altezza; è un set a cielo aperto con l’immagine di raggiunta serenità data dal “Giovane Cavaliere della Pace” al centro e di inquieta sofferenza nelle figure ai lati, che rappresentano rispettivamente i “Caduti della Terra”, i “Caduti del Mare”, i “Caduti del Cielo”.
Nelle loro immagini poste in verticale, scavate e allungate fino ad apparire innaturali, non vi è la compostezza delle ballerine né la serenità del Cavaliere, tutt’altro; un fremito nervoso scuote i corpi protesi in pose estreme come lo è il momento nel quale sono colti, sul confine sottile tra l’eroismo e il sacrificio, la sublimazione di sé per una causa superiore.
Una composizione “en plein air”, un vero Mausoleo, in cui le figure, distinte e lontane l’una dall’altra, ricompongono l’unitarietà del contenuto e del messaggio da qualunque angolo di visuale, in un tutt’uno con l’ambiente circostante, i tigli che le fanno corona, le colline che la sovrastano, il Gran Sasso che le fa da sfondo.
E qui, tornando sui nostri passi per un breve tragitto, entriamo in contatto con un’altra cospicua presenza dell’artista nella sua terra, inusuale perché non si tratta di un monumento pubblico o di un’esposizione privata.
Ci siamo passati vicino senza fermarci, la nostra meta era il Monumento ai Caduti, ma ora possiamo ammirare quella che ci piace chiamare la “piccola Loggia dei Lanzi”, l’esposizione nella terrazza-giardino della Banca di Teramo che domina la strada cui si accede dal livello superiore. Antonio Tancredi, presidente della Banca oltre che della Fondazione e realizzatore di questo Museo a cielo aperto, ci parla dei contenuti umani delle sue opere, che sono universali, come “la passione e l’amore, la gioia e il dolore, la contemplazione illuminata e l’esaltazione della vita”.
Alcune esprimono “lo smarrimento e l’umiltà e altre l’eleganza e la forza e altre ancora la dolcezza e la prepotenza. In tutte le figure sono impressi i modi di essere dei sentimenti e delle interiorità che si incontrano nel mondo”.
E ci rivela i contenuti umani dello scultore, suo sodale di vita, che chiamava “monaco della scultura” perché “in tutta la sua vita ha sempre cercato il lavoro, in silenzio e solitudine”. In definitiva, “un artista che non conosce pause per feste o per ferie, che non ammette distrazioni, neanche le più lecite, perché queste opere sono la sua famiglia, i suoi figli, tutto il suo mondo”. Colpiti da queste parole alziamo gli occhi alla grande scultura che ci sovrasta.
E’ il “Giovane Cavaliere della Pace”, ancora lui! Lo avevamo visto a Roma e poi a Teramo al centro del “Monumento ai Caduti”, ma qui c’è qualcosa di diverso. Notiamo il serto d’alloro sul capo che mancava nelle altre sue incarnazioni, se così si può dire, e non è un particolare secondario. Perché il viso proteso incoronato dal serto, con gli occhi febbrili, ci ricorda il giovane intenso protagonista del suggestivo film “L’attimo fuggente” nelle scene culminati della rappresentazione teatrale. Con questa preziosa variante sul tema l’artista è riuscito a precorrere i tempi, a fare del suo Cavaliere un simbolo anche per la gioventù, nella febbrile inquietudine che si affianca al sentimento di pace. A questo punto è riduttivo parlare di grandiosità delle sue opere. Si può parlare di grandezza.
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