Beato Angelico, l’oro della fede, ai Musei Capitolini

di Romano Maria Levante

Ai Musei Capitolini l’oro della fede illumina l’alba del Rinascimento

Nell’intitolazione della Mostra “Beato Angelico, l’alba del Rinascimento”, organizzata dal Comune di Roma, Assessorato alle politiche culturali, dall’8 aprile al 5 luglio 2009 nella splendida cornice del Campidoglio, è contenuta già una sintesi della caratteristica della sua pittura e del suo inquadramento nel periodo storico in cui si colloca, un secolo dopo quello di Giotto in mostra nel vicinissimo Complesso del Vittoriano, in un’accoppiata magica nel tempo e nello spazio.

Innanzitutto il nome, Beato Angelico: fu attribuito a Fra Giovanni da Fiesole; nato nel 1400 circa vicino Firenze, pittore laico dal 1417, frate domenicano dal 1423, e viene dal riconoscimento fin dai suoi contemporanei, della sua arte religiosa e della sua vita pia; corrisponde alla definizione di “Doctor angelicus” data a San Tommaso d’Aquino, nume tutelare dell’ordine con Alberto Magno, il cui pensiero, secondo Giulio CarloArgan, era “il fondamento dottrinale della sua pittura”.

Lo chiamò “Angelico” il suo contemporaneo fra Domenico da Corella nel “Theotocon” del 1469 nel senso di “ora assurto tra gli angeli”, e il Vasari, definendolo “uomo di santissima vita” e anche “santissimo nei costumi”, scrive che la sua devozione:lo portava a usare i pennelli solo dopo aver detto le orazioni, a piangere nel dipingere il Crocifisso e a non ritoccare mai i suoi dipinti per lasciarli come erano scaturiti dalla volontà divina, nonché a destinare i proventi interamente al convento; soprattutto “mai volle lavorare altre cose che di Santi”, ed era solito dire che “chi faceva quest’arte aveva bisogno di quiete e di vivere senza pensieri; e chi fa le cose di Cristo, con Cristo deve stare sempre”. Perciò il Landino nel 1481 considerò il nome come consacrazione della sua “angelica espressione artistica”, e le sue stesse parole danno alla vita monastica un ruolo centrale.

La qualifica di “Beato“ fu aggiunta dalla fede popolare per la sua vita esemplare di religioso che mai trascurava i doveri di frate pur nell’intensa attività artistica che lo portò ad affrescare i conventi domenicani secondo la pratica dell’ordine e a dipingere immagini sacre per le chiese di Firenze, fino alla chiamata in Vaticano nel 1446 da papa Eugenio IV per una Cappella oggi sparita e due anni dopo dal successore Niccolò V per la Cappella Niccolina e lo Studio pontificio.

Nel 1449-51 fu Priore del piccolo convento di S. Domenico a Fiesole dove aveva iniziato la vita monastica per spostarsi nel 1437 nel convento di San Marco, in cui dipinse una splendida Pala d’altare e rimase fino alla chiamata in Vaticano; intorno al 1453 tornò a Roma dove morì nel 1455 nel convento di Santa Maria sopra Minerva dove fu sepolto con ogni onore. In epoca recente, nel 1982 è stato elevato al rango di Beato, l’anticamera della santità, e due anni dopo da papa Giovanni Paolo II è stato proclamato “Patrono Universale degli Artisti”; un “santo subito” per i contemporanei che ha impiegato più di mezzo secolo per essere riconosciuto ufficialmente, ma il ritardo non toglie valore alla consacrazione della sua vita devota, alla quale si è aggiunta quella della sua vita artistica.

Tra Medioevo e Rinascimento

L’“alba del Rinascimento” nel sottotitolo è una scelta intermedia tra i due orientamenti estremi di considerarlo l“ultimo pittore mistico” oppure artista rinascimentale primo seguace di Masaccio.

Il primo orientamento si trova in Landino, che parla di “angelico et vezoso et divoto et ornato molto con grandissima facilità” e in altri, come il Cavalcaselle che lo definisce “più mistico che pittore” quindi più del Medioevo che del Rinascimento, in quanto rivolto più verso il cielo che verso la terra secondo i canoni dell’astrazione celeste rispetto alla realtà naturale; il secondo orientamento, subentrato nel Novecento, da critici come Longhi e Ragghianti, lo vede artista rinascimentale per il suo incipiente naturalismo e perché la sua devozione si realizza nelle forme prospettiche e spaziali di Brunelleschi, tenendo conto di quanto dice il Vasari, che si è formato con Masaccio al Carmine.

La tesi intermedia, che sembra della Mostra, non è quella minimale del Van Merle di “pittore di transizione”, ma di precursore già calato nell’aura rinascimentale, “l’alba”, a risolvere, in coerenza con il nuovo corso, i problemi nati dal confronto tra la millenaria dottrina cattolica e l’emergente cultura laica, in definitiva tra fede ed estetica. E lo ha fatto con soluzioni di grande qualità pittorica.

Si può aggiungere che la Mostra, come precisano nel Catalogo i curatori Alessandro Zuccari, Giovanni Morello e Gerardo de Simone, ha compiuto la scelta apprezzabile di presentare sia opere che possono segnare i diversi periodi della vita artistica del Maestro e marcarne l’evoluzione sia opere che non essendo state mai esposte finora costituiscono una novità assoluta e fanno provare al visitatore il gusto dell’inedito. Tale scelta si è resa necessaria perché molte delle opere raccolte nella precedente grande Mostra del quinto centenario dalla morte, tenuta nel 1955 prima a Firenze a San Marco, poi a Roma nei Palazzi Vaticani, non sono più trasportabili; e sono visibili al Museo di San Marco dove si trova una vera esposizione permanente della maggior parte dei suoi capolavori. L’elenco dei prestatori, comunque, è impressionante, da tutto il mondo.

La Mostra, il cui percorso segue il criterio cronologico, mostra la parabola del maestro e la sua evoluzione stilistica attraverso una cinquantina di opere di notevole effetto che coprono l’intero arco della sua vita ed espressione artistica, sia come tipologia – dalle Pale d’altare ai polittici, dalle tavole alle tele, dai disegni alle miniature – sia come forma espressiva, dal tardo gotico medievale allo spirito rinascimentale da lui reinterpretato anche riguardo alla natura e ai sentimenti alla luce dei valori trascendenti soverchianti quelli umani.

Maurizio Calvesi, presidente del Comitato scientifico della Mostra, scrive: “Egli aderisce ai nuovi principi rinascimentali, e anzi li promuove inserendo una visione apertamente naturalistica in una nitida struttura prospettica… Così la sua opera è, insieme, tradizionale e nuova”.

Arte e la Fede nella sua opera e il significato storico

La prima sensazione che si prova nell’entrare nella Mostra è un senso di raccoglimento quasi mistico, e di questo si deve rendere merito all’ambientazione, con il fondale blu, come le profondità del cielo siderale, e una penombra rotta dalle esplosioni di luce dorata dove sono i dipinti e le grandi pale; coperte di un oro che abbaglia, espressione del trionfo della fede nella magnificenza divina e della devozione dell’artista per la bellezza di una visione che deve essere circonfusa di luce come nelle immagini dantesche del Paradiso.

Non bisogna dimenticare la concezione secondo cui l’arte e la bellezza portano a Dio perché la prima fa risalire la seconda alla sua causa prima, il Creatore; e che il Beato Angelico era logicamente impegnato ad esprimere la sua base dottrinaria cristiana per un’opera di proselitismo; quindi valorizzazione della scelta del bene rispetto al male sia in forma implicita che esplicita. La mediazione di queste esigenze con il nuovo corso porta a privilegiare la luce come emanazione celeste al chiaroscuro e a ridurre al minimo la prospettiva, nonché a preferire le immagini assorte all’azione in una sacra rappresentazione che esclude i conflitti e i contrasti, e la stessa storia.

Tutto questo nelle grandi Pale d’altare, nei dipinti per loro natura e destinazione palesemente rituali, mentre in altre pitture e soprattutto nelle “predelle” alle Pale, emerge l’“alba del Rinascimento” in tutta la sua portata, con le storie fatte di azione e sentimenti, prospettiva e naturalismo.

Del resto, nel Rinascimento l’impegno civile veniva a prevalere su quello religioso e anche in questo versante l’artista si trovò su un difficile crinale. Li fece coesistere dando alla sua opera di pittore il carattere della sacra rappresentazione; inoltre impegnandosi nell’attività monastica tralasciando anche la pittura, tanto che negli ultimi anni ridusse la sua produzione, rifiutandosi anche di affrescare il coro del Duomo di Prato, per impegnarsi come Priore nel convento di Fiesole.

E’ stato ritenuto ancora più grande di quanto emerge dalle sue opere ritenendo i suoi limiti frutto di scelte volontarie dovute alla propria posizione; tuttavia, se non avesse avuto quella vocazione interiore forse non ci sarebbe stata l’ispirazione superiore che lo ha alimentato e, nell’incredibile non tornare sulle pennellate neanche per ritocchi, c’è una parte non secondaria della sua grandezza.

Il suo influsso fu notevole, chiuse gli spazi ad altri artisti “angelici”, dato il livello di eccellenza raggiunto, e con la soluzione del rapporto tra spazio e luce incise negli sviluppi del Rinascimento nordico accelerandoli; rallentò invece, almeno a Firenze dove era considerato l’artista più eccelso, l’interesse per la visione realistica e naturalistica del Rinascimento e per la centralità della figura umana nella sua sostanza anche anatomica.
Il suo si può considerare un vero ingresso nell’arte rinascimentale cercando di portarvi il senso trascendente della spiritualità. Censurava gli aspetti troppo naturalistici e laici della nuova visione sostituendoli con il trionfo della luce e del colore, l’immagine idilliaca della natura e l’intensità di sentimenti e una grande chiarezza nella composizione delle immagini circonfuse di oro splendente.

Qualcuno ha parlato di una sua complementarità con Masaccio tale che il Rinascimento, nella compresenza di visione religiosa e insieme naturale, si può comprendere soltanto considerandoli congiuntamente: il Beato Angelico come espressione di vita interiore devota e sincera, ricca di spiritualità; Masaccio come espressione di vita esteriore forte e dignitosa, ricca di realismo. Anzi, molte sue opere sono viste come una trasposizione della concezione plastica e prospettica di Masaccio attraverso la luce e il colore, soluzione geniale che lo conferma “alba del Rinascimento”.

Le miniature e i disegni come prologo

Abbiamo voluto avere il primo contatto con il Maestro dalle miniature che si incontrano entrando dal lato opposto rispetto a quello indicato, dove approda il percorso normale di tipo circolare, una specie di “ronde” la cui fine coincide con l’inizio.

Perché vi si trovano le sue espressioni iniziali, come conferma Sara Giacomelli: “Pensare all’Angelico miniatore significa, in qualche modo, indagare sulle origini della sua formazione confrontando le prime opere pittoriche realizzate dall’artista con quella prima testimonianza della sua attività di miniatore rappresentata dal ‘Graduale 558’ ormai comunemente attribuito all’Angelico”.

Prima però, si trova l’“Antifonario” del 1419-23, agli inizi della sua attività di pittore che risale al 1417, un libro liturgico per il canto corale nell’ufficio divino quotidiano, con dei bellissimi fondi blu e figure che spiccano nei colori rossi e oro; non mancano figurazioni diverse come mazzi di tulipani.

Ed ecco il “Graduale 558”, grande codice miniato del 1424-25, con trenta miniature, undici iniziali ed altre lettere illustrate dal fratello dell’Angelico, fra’ Benedetto del Mugello. Sono tonalità cromatiche delicate in una certa libertà compositiva con fuoruscita della figura dallo spazio della lettera. La figura più bella è quella di San Domenico, mentre guarda estatico in alto, con un piccolo frate che gli chiede di intercedere. Ci sono raffigurazioni con fregi, elementi fantastici, decorazioni fitomorfe.

Nei cinque anni successivi abbiamo il “Messale” del 1925-30, di piccole dimensioni perché per seguire la messa e non per celebrarla, con figure molto espressive, come la “Crocifissione” su fondo blu e le due donne con vesti rossa e celeste,
Poi la sorpresa, quasi a voler percorrere un intero ciclo di vita artistica anche nelle miniature troviamo due codici con antifone del convento di San Marco, “Salterio I” e “Salterio II”, del 1450, cinque anni dalla morte, nel periodo romano nel quale, evidentemente, non mancava di restare legato alle sue radici.

Rispetto agli esordi si nota l’evoluzione che ha caratterizzato le opere pittoriche e l’influenza della maniera fiamminga dei codici miniati. Ci sono elementi naturalistici e la luce illumina le vesti e dà corpo alle figure, secondo la sua concezione sviluppata nel tempo; nella coloritura predominano il blu e l’oro con un grande effetto di contrasto.
Concludiamo con un foglio staccato, tempera e oro su pergamena, anch’esso intorno al 1450, con una splendida “Crocifissione”, il Cristo sanguinante dal costato con la Vergine e San Giovanni a lato, figure dorate, salvo il mantello della Vergine su cui si posa la luce con un notevole effetto cromatico, su fondo blu in una cornice a tinta oro, finemente istoriata con fregi e motivi floreali.

Sono esposti anche alcuni disegni che incorniciano, per così dire, la sua opera, collocati come sono nella fase iniziale (1424-25) e finale (1440-50) della sua vita. Hanno la caratteristica comune di essere a penna e inchiostro su acquarellature marroni che danno alla carta l’aspetto della tela.

Della prima fase abbiamo “Cristo crocifisso”,“Cristo giudice” e “Angelo tubicino”, della seconda “La chiamata degli apostoli” e lo “Studio di un edificio colonnato e diagramma prospettico”. Poi delle opere di incerta attribuzione, in passato riferite a lui e ora piuttosto alla sua scuola : a un “seguace” la “Figura allegorica della Giustizia”, a Benozzo Gozzoli “L’evangelista Marco” e “sul verso “L’evangelista Luca”, infine “San Lorenzo che distribuisce l’elemosina” con sul verso un “Cinghiale”. Si tratta di opere molto delicate e differenziate stilisticamente nel tempo, le ultime hanno un evidente stile classicheggiante con chiaroscuri che evidenziano volumi e panneggi. Il fatto che provengano rispettivamente dai musei di Vienna e Firenze, New York e Parigi, Cambridge e Berlino sottolinea il notevole impegno di ricerca e di organizzazione dei curatori della Mostra.

La prima fase del suo percorso

Terminata la rapida deviazione tra i segni precisi con i fregi delle miniature policrome e i contorni sfumati su sfondi pastello dei disegni monocromatici, torniamo sui nostri passi ed iniziamo il percorso tra le opere dell’Angelico pittore rientrando dall’altro lato.
Attira subito la nostra attenzione l’opposto di una miniatura, la “Tebaide”, Uffizi di Firenze, lunga oltre due metri, opera giovanile del 1420 dove nulla riporta all’artista degli ori e delle Madonne, è una composizione orizzontale disseminata di piccole figure in diversi atteggiamenti, di colore ocra sul verde dove la natura è ben presente, con le rocce e gli alberi, e l’azione dell’uomo visibile nelle costruzioni, storie del deserto della vita monastica. Vicini come posizione e come anno di realizzazione il “San Girolamo penitente”, Princeton University, in un paesaggio roccioso e inospitale, con rettili e scorpioni, e la “Madonna dell’Umiltà”, o “di Cedri”, museo di Pisa, una tavola a cuspide con la Vergine seduta umilmente su un cuscino per stare a contatto con la terra, l’“humus”, ma glorificata dal sole raggiante .

Passano pochi anni e troviamo la “Madonna con Bambino, l’Eterno e otto angeli”, del 1427, museo San Marco di Firenze, dove il suo manto blu e la veste rossa del bambino sono in uno sfondo dorato con sospese le altre immagini. Solo dell’anno dopo, la “Natività” e l’“Orazione nell’orto”, dalla pinacoteca di Forlì, che rimandano direttamente a Masaccio sia nella posizione e vicinanza delle figure sia nella loro forza psicologica. A Masaccio si pensa anche dinanzi alla coeva “Decollazione del Battista e Banchetto di Erode”, Louvre di Parigi, per il rigore prospettico e la razionalità degli spazi, con dei colori tardo gotici. Si accentua la forza plastica masaccesca con il passare degli anni, siamo al 1428-29, “San Francesco riceve le stimmate”, Pinacoteca Vaticana, in un contesto di forte realismo, con raggi che partono dal costato di Cristo in volo e trafiggono il santo quasi di spalle inginocchiato a braccia alzate; la natura è presente con alberi, erba e fiori.

Un’immagine tradizionale ci colpisce con la bellissima “Annunciazione” di San Giovanni Valdarno, museo della Basilica, dove le due figure della Vergine e dell’Angelo, con gli ori dell’aureola e delle ali che spiccano sul blu e sul rosso delle vesti, sono inserite in due arcate a tutto sesto e in una cornice dorata la quale fa da collegamento con la predella recante cinque comparti di scene della vita di Maria. Il senso della prospettiva, con le immagini esterne di un ambiente naturale e delle persone che si intravede dietro l’angelo, e l’architettura della stanza, con una porta recante una finestrella dalla quale filtra una luce danno modernità alla scena arricchita da elementi simbolico-teologici. Altre sue “Annunciazioni”, non esposte in Mostra, presentano interessanti varianti di tipo architettonico e nell’ambiente naturale che si vede ugualmente all’esterno.

La sempre maggiore predilezione per l’iconografia decorativa è espressa nel cosiddetto “Trittico di Cortona”, Museo diocesano, la grande tavola raffigurante la “Madonna con Bambino” e quattro Santi e una predella nella parte inferiore con storie di vita degli stessi Santi e scene miracolose; ci sono gli angeli reggifiori e dei vasi con rose rosse e bianche. Si nota nella parte superiore il panneggio con molte pieghe pronunciate, che danno un senso di plasticità rinascimentale; nella predella scene realistiche con figure che gesticolano, l’opposto della staticità di Madonna e Santi.

Di pochi anni successivo è “Beati, Dannati”, del 1430-32, museo di Houston, due piccole tavole contrapposte a foggia di sportelli, esposte per la prima volta, una successione di figure di beati, biancovestite e simmetriche che s’innalzano su un fondo oro scortate da un Serafino in veste azzurra in basso e due cherubini in veste rossa in alto; e, come “pendant”, su un cupo sfondo nero, la confusa ammucchiata di dannati, con vesti di diverso colore, che precipitano a testa in giù verso le fiamme dell’inferno. I due sportelli, visti in successione, hanno un moto rotatorio ascensionale nei beati e discendente nei dannati.

Di dimensioni ancora minori è la piccola tavola “I santi Cosma e Damiano”, del 1424-35, Kunsthaus di Zurigo, che proviene da una predella, raffigura il trapianto miracoloso della gamba nera di un etiope in un diacono, dove spicca la donna in primo piano che, prostrata dal dolore, si accascia sulla base lignea del letto.

La fase intermedia della vita artistica

A questo punto la Mostra ci fa trovare al cospetto del “Paradiso”, Uffizi, che raffigura l’Incoronazione della Vergine” – così venne ribattezzato il dipinto – su una base sollevata da terra da una raggiera dorata che prosegue verso il cielo, circondata e quasi tenuta sospesa da una schiera di angeli su più piani con una sinfonia di trombe. Non vi sono motivi architettonici, gli angeli sono in ordine decrescente per dare il senso della prospettiva fino alla sensazione di formare un vortice al centro dell’episodio principale con un’incoronazione inconsueta, dato che la Madonna .ha già il diadema sul quale il Figlio deposita una gemma, C’è anche Sant’Egidio in abito vescovile blu con stola dorata. Nessun elemento naturalistico, si sente la trascendenza anche per l’oro zecchino.

Come per contrasto troviamo subito dopo il “Miracolo del corpo di San Marco”, museo San Marco, una predella del monumentale Tabernacolo dei Linaioli, lungo più di cinque metri per quasi tre, che conclude le storie della vita del santo: dal carcere con la visita di un angelo, al martirio mediante trascinamento del corpo, fino al prodigio della tempesta di neve che impedisce di profanarlo e consente ai fedeli di seppellire il loro vescovo. C’è realismo nello sconvolgimento dei persecutori per la tempesta, mentre i fedeli in piedi davanti al corpo del santo attendono pazienti in pio raccoglimento.

Incontriamo ora, siamo intorno al 1435, un’altra “Annunciazione”, museo di Dresda, che mostra realismo e plasticità con la torsione del busto dinanzi all’inatteso annunzio. I mantelli rossi presentano riflessi dorati dati dallo sfondo, dalle aureole e dalla ali dell’angelo. L’analisi radiografica ha evidenziato restauri soprattutto nelle parti scure, come la tenda blu, mentre le parti dorate ed i vestiti rossi ne sono stati immuni. Di Annunciazioni se ne contano poco meno di venti, questa viene esposta per la prima volta.
Dello stesso periodo la “Madonna col Bambino e cinque angeli”, museo di Barcellona, un’altra Madonna “dell’Umiltà” perché non siede in un trono ma su un cuscino posto sopra un gradino coperto dalla veste celeste. E’ l’immagine realistica del Bambino che le si stringe porgendole un giglio che fa “pendant” con il fiore nell’anfora da lei tenuta nella mano destra. L’influenza di Masaccio si trova nella rappresentazione naturalistica di gradino e cuscino in prospettiva e nel drappo sorretto dagli angeli dietro la Vergine, che ricorda quello di Sant’Anna Metterza; e anche nelle figure, da quella monumentale della Vergine ai due angeli musicanti in basso, all’angelo che regge il drappo in alto, in un gioco di forme scultoree, di luce e di colore.

Contemporanea la “Madonna con Bambino in trono”, dal museo di Boston, una serie di santi, angeli e un donatore, e il “Volto di Cristo”, collezione privata, due piccole tavole poligonali che costituivano i lati di un unico “desco da parto”, una sorta di vassoio su cui si offrivano cibi e doni alle partorienti altolocate. Sono inconsuete le immagini sacre per questo uso e lo è anche l’abbinamento di Madonna con Bambino e Volto di Cristo; qui è insolito anche il volto del Signore, frontale e ieratico, preso soltanto fino alle spalle. Altro fatto insolito l’asimmetricità del primo dipinto per dare rilievo a San Giorgio a destra. Ma l’aspetto che più interessa è lo scarso realismo nel modo con cui tiene il Bambino e nelle figure di angeli, caratteristiche dell’arte tardo gotica cui l’artista ancora indulge, pur se ha già acquisito quei caratteri di maggiore plasticità e realismo che diverranno stabili e costanti nella maturità.

E’ coeva un’altra “Madonna con Bambino”, Pinacoteca Vaticana, nella gloria degli angeli che pregano, con i santi Domenico e Caterina d’Alessandria anch’essi in posa adorante. Si tratta di un dipinto dove abbandona il chiaroscuro del primo periodo e usa il colore, non ancora la luce della maturità, per modellare forme e volumi. Le piccole dimensioni fanno adottare la tecnica delle miniature con la punta di pennello su un fondo dorato graffito di alto effetto decorativo.

Il periodo della maturità fino al termine

Dopo il 1936-37 troviamo le “Stimmate di San Francesco e Martirio di San Pietro martire”, museo di Zagabria, opera esposta per la prima volta. Lo stile pittorico oltre che le dimensioni, ci rimanda alla predella dove l’artista si sentiva libero dai vincoli agiografici e rituali che invece doveva rispettare nelle Pale e nei grandi dipinti. Ritroviamo la forza espressiva e il realismo di altre storie prima commentate, anzi per San Francesco viene riprodotta la medesima scena, qui collegata a quella adiacente del martirio di San Pietro, inserito nella natura e con un contenuto cruento del tutto estraneo all’immagine liliale di altre sue rappresentazioni, ma segno della sua capacità di affrontare i temi della realtà con spirito rinascimentale, cioè nella loro crudezza e plasticità.

Non è un’eccezione ma una costante che si accentuerà nell’ “Incontro di San Nicola con il messo imperiale. Miracolo del grano. Miracoloso salvataggio di una nave”, Pinacoteca Vaticana, di dieci anni dopo, in un’altra predella dove troviamo accentuato l’elemento naturale con il cielo segnato dalle nuvole e il mare oscuro e minaccioso. C’è l’intercessione del Santo a sinistra e il suo intervento miracoloso a destra per salvare la nave carica di grano in procinto di affondare. E’ una raffigurazione dove la luce riveste le figure creando pieghe plastiche nelle vesti e la visione fantastica si abbina alla raffigurazione realistica.
Ma facciamo un passo indietro, torniamo al 1936-37, alla “Madonna col Bambino”, “Madonna del Giglio”, museo di Amsterdam, un’altra variante dell’“Umiltà”, con il cuscino a disegni geometrici dov’è seduta la Vergine, il Bambino che le accarezza il viso guardato con tenerezza con la torsione del capo, la delicata trapunta del drappo che fodera la nicchia dove sono le due figure e si ricongiunge al cuscino, il fiore nella mano destra, temi ormai noti ma sempre trattati con delicatezza, quasi con pudore.

Andando oltre incontriamo raffigurazioni improntate a crescente realismo. Un “San Tommaso d’Aquino”, collezione privata, che doveva trovarsi in uno dei pilastri laterali della Pala di San Marco, del 1438-43, dove la luce rende statuaria la figura del santo che mostra la penna e il libro ed è rivolto a sinistra data la collocazione sul lato opposto, con assoluto rigore prospettico. Poi un piccolo frammento del “San Giovanni Battista”, museo di Lipsia, esposto per la prima volta. La figura ha una leggera rotazione ed affetto tridimensionale, è posta obliquamente in una nicchia dove la doratura si alterna alle ombre con un effetto chiaroscurale che si nota anche sul viso del Santo ed è di marca rinascimentale. Segno che l‘artista sapeva apprezzare questi effetti realistici ma non voleva utilizzarli, né avrebbe potuto, nelle sue opere rituali di glorificazione popolare.
Abbiamo poi il “Volto di Cristo” in due diverse tecniche e raffigurazioni: un affresco staccato del Museo di Palazzo Venezia, un viso sereno quasi senza barba “avvolto da un bagliore di luce”, come è stato detto, che potrebbe rappresentare l’“unico prezioso cimelio” delle opere di tipo narrativo piuttosto che devozionale dell’artista a Roma; una tempera su pergamena di Assisi del 1449 con un viso sofferente e una lunga barba, “coronato di spine” che lasciano stillare gocce di sangue. E c’è anche l’“Arma Christi”, collezione privata, inchiostro su pergamena, un Cristo sofferente a occhi chiusi, in piedi coronato di spine, con la ferita al costato e le braccia aperte, in una “pietà” molto particolare, dal colore dorato spento su uno sfondo nero con episodi della Passione.
Ma, nello stile del Beato Angelico, vogliamo concludere in gloria la rassegna delle sue opere d’arte pittoriche esposte nella Mostra.

Troviamo subito l’“Ascensione, Giudizio Universale, Pentecoste”, del 1447-48, galleria Corsini di Roma, trittico portatile restaurato per l’occasione. Vediamo Cristo giudice al centro in alto tra i santi e in basso a sinistra gli angeli e i fedeli in raccoglimento, a destra i dannati; nei laterali la Madonna tra i Santi a sinistra nella Pentecoste con due figure orientali che richiamano al sincretismo religioso, e a destra sovrastata dal Cristo trionfante nell’Ascensione. Un dipinto a tinte forti, espressivo della plasticità e del realismo dell’ultimo periodo, esposto per la prima volta.

Immediatamente successiva la “Madonna con Bambino” del 1449, una tempera su tela di grandi dimensioni, di Santa Maria sopra Minerva a Roma, l’ultima sua residenza, dove le due figure hanno una posa statuaria accentuata dalla collocazione entro un ciborio rinascimentale dalle colonne tortili dal quale si sporgono, con il manto della Vergine che trabocca la balaustra. L’oro delle aureole spicca sulla tinta scura del mantello e sull’ombra della nicchia, l’insieme ha un effetto rituale accentuato dal globo tenuto in mano dal Bambino per il suo significato simbolico.

Dopo la Madonna, due storie di Cristo, entrambe degli ultimi anni, 1450-52, museo San Marco: “Cristo in pietà fra i santi”, pose statuarie su un fondo dorato, in una meditazione che non è affatto staticità, restaurato per l’occasione ed esposto per la prima volta; e le storie dell’“Armadio degli Argenti”, stessa collocazione, trentasei comparti con altrettanti episodi compreso il Giudizio Universale che ne occupa due. Erano le ante esterne di un armadio ligneo per custodire le offerte e viene ritenuta una delle opere più complesse e affascinanti con cui il Beato Angelico esprime la sua capacità narrativa, fuori dai vincoli delle raffigurazioni rituali da collocare nelle chiese in posizione dominante, quindi secondo certi canoni. Qui, nell’armadio ligneo, mentre nel comparto “L’incoronazione della Vergine” troviamo ancora la raffigurazione rituale con molto oro e gli angeli giustapposti verso l’alto oltre che schierati in modo innaturale, negli altri vediamo la solita chiarezza espressiva, le note cromatiche luminose e soprattutto l’irruzione della natura, con quello che è stato definito il “paesaggio continuo”. Berenson ha detto che l’Angelico “fu il primo a parteciparci un senso delle gioie naturali” trovando una “grazia floreale della linea e del colore”.

La natura e la luce, il creato e il Creatore

Ma la natura, come la luce, ha un ruolo superiore a quello paesaggistico e ha animato per secoli il dibattito con la Chiesa che ha sempre temuto la sua promozione a divinità ritenendola, con Sant’Agostino, “dono di Dio” e non artefice del creato.

Per completare la precedente citazione di Calvesi, dopo aver visto le opere esposte e il naturalismo esistente in esse, possiamo dire che “il suo residuo medievistico è, semmai, proprio nell’adesione a una visione irremovibile della “’Natura naturata’ [e non ‘naturans’], una natura immobile come Dio l’ha creata, esente da mobilità, trasformazioni e assimilazioni alla drammaticità e alle agitazioni turbative della sfera umana (Masaccio, Donatello), a un soverchio razionalismo emulo di Dio o a una presuntuosa aulicità (Brunelleschi, Alberti). A tutto questo egli oppone una sorta di idealismo, che rigenera e ridimensiona in un clima di speculazione umanistica il misticismo medievale”.

E come promuove e alimenta questa rigenerazione, in una sorta di quadratura del cerchio? “Egli può accogliere le inedite proporzioni dello spazio rinascimentale, quella sua cristallina chiarezza… della realtà, rifiutando una recezione puramente mistica, totalmente e passivamente rivelata, di essa”. Ma non può abdicare al suo ruolo di testimonianza e proselitismo cristiano, non può limitarsi alla contemplazione di Dio, vuole dimostrarne l’esistenza : “La sua visione non ha gli accenti perduti dell’estasi, ma quella di una serena meditazione che si pone come tramite fra natura e divinità”. E si serve della “natura naturata” per dimostrarne l’esistenza, e non solo: “Questa dimostrazione è affidata alla luce che colma il terzo telaio dello spazio e fa brillare i colori come gemme, rivelando lo splendore del Creatore e del Creato”.

Per una simile visione ci voleva proprio un beato angelico, nell’accezione lessicale delle parole, e anche nella sublimazione della Beatificazione ecclesiale. Perché, lo diciamo ancora con le parole di Calvesi, “questa limpidità di pensiero, all’apice stesso della sua purezza ideale, si ricongiunge, per l’Angelico, direttamente a Dio”.