Apocrifi nell’arte, 1. La mostra a Illegio, Udine

di  Romano Maria Levante

Le basi religiose e culturali in mostra a Illegio, nel cuore della Carnia, fino al 4 ottobre 2009

“Apocrifi. Memorie e leggende oltre i Vangeli”. Intrigante e misteriosa mostra su una materia controversa per la Chiesa. Anche perché è sostenuta dalla Conferenza Episcopale Italiana ed è organizzata dal Comitato di San Floriano, presieduto da mons. Angelo Zanello, espressione della piccola comunità cristiana di Illegio, il paese montano in provincia di Udine dove l’esposizione resterà aperta fino al 4 ottobre 2009.

Il mistero della sede si può chiarire subito, il Comitato che coinvolge studiosi friulani in Italia e all’estero, dal 2004 propone appuntamenti culturali e spirituali di respiro internazionale nel nome del Santo al quale si ispira, martire del IV secolo venerato nell’Europa centrale, soprattutto nell’alta Austria, a Cracovia e a Roma, patrono di Illegio della cui pieve è stato titolare. La Mostra del 2005, “Mysterium. L’Eucarestia nei capolavori dell’arte europea” fu ospitata a Bruxelles nei Musei Reali d’Arte e di Storia e quella del 2007, “Apocalisse. L’ultima rivelazione” nei Musei Vaticani. Il Comitato motiva la scelta di Illegio richiamandosi al Monte della Trasfigurazione e a Betlemme, il primo come sede ideale di bellezza e rivelazione, la seconda come fonte di irradiazione della fede.

L’interesse della Chiesa e il significato della Mostra

Entriamo subito nel mistero principale, quello dell’inconsueto interesse della Chiesa per un tema rimosso in passato, dimostrato dal sostegno, e non semplice avallo o patrocinio, dell’istituzione ecclesiale italiana più autorevole qual è la Cei, nonché dall’affollata presentazione, alla quale abbiamo partecipato il 23 aprile 2009, nell’artistico Palazzo Borromeo sede dell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, con gli interventi del Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura Mons. Gianfranco Ravasi e del sottosegretario al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, On. Francesco Giro, oltre che di mons. Zanello e di don Geretti, parroco di Illegio curatore della Mostra.

L’inaugurazione del 24 aprile da parte del cardinale Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali e del Ministro dei Beni e Attività culturali Sandro Bondi, ha visto la partecipazione dell’ambasciatore d’Italia alla Santa Sede Zanardi Landi, del direttore generale del Ministero Cecchi e del soprintendente per il Friuli-Venezia Giulia ai beni storico-artistici Magani. Ci sono stati anche intermezzi musicali del “Gruppo ottoni della Bassa friulana” diretto dal maestro Fasso.

Da Mons. Ravasi un’interpretazione autentica, nel sottolineare il significato iniziale di “nascosto” piuttosto che quello successivo di “proibito” degli Apocrifi, collocati in un “orizzonte molto vasto che reinventa il Nuovo testamento, spesso da non essere distinguibili dai dati canonici”. E ancora: “Questo mondo che ricrea in modo fantastico il Nuovo testamento nasce dal desiderio di sapere di più delle figure amate. Hanno la caratteristica popolare che affascina l’arte: l’eccesso”. Il ministro della cultura del Vaticano va ancora oltre: “C’è nobiltà in questi testi, sono preziosissimi, importanti perché conservano frammenti storici della memoria, non solo tradizioni popolari”.

E fa una serie di esempi, sottolineando che vengono considerati soprattutto i periodi estremi della vita di Cristo: l’infanzia, anche quella della Madonna, e la Passione. Nell’infanzia si incontra “un Gesù ragazzo con potenza divina e carattere infantile, di qui prodigi eccessivi che sconcertano”. Nella Passione c’è “l’incrocio tra temi teologici e colore”, come nel Vangelo di Nicodemo, anzi fra tragedia e farsa nell’episodio di “Giuda tornato a casa dopo il tradimento, va dalla moglie che sta cucinando un gallo arrosto, le dice che teme la resurrezione del figlio di Dio, alle parole di lei ‘c’è la stessa probabilità che questo gallo canti’, il gallo arrosto cantò più di tre volte”.

Un avvertimento e un’epigrafe ideale hanno concluso l’intervento di Mons. Ravasi. L’avvertimento: “Il mondo degli apocrifi ci fa capire che la fede è passione, però attenzione alle degenerazioni. I testi degli Gnostici sono alti intellettualmente ma pericolosi, raffinati ma non popolari”.
L’epigrafe ideale: “Nel Nuovo Testamento c’è un detto di Gesù che non è nei Vangeli canonici ma è ugualmente canonico, perché si trova negli Atti degli Apostoli, cap. 20 vers. 35, è un messaggio lasciato da Paolo: ‘C’è molta più gioia nel dare che nel ricevere’”. Ci torna subito in mente il motto dannunziano “Io ho quel che ho donato”, ci sembra un altro segno dell’unione tra l’arte e la fede.

Una chiave interpretativa laica molto intensa è venuta dal sottosegretario Francesco Maria Giro che, dopo l’omaggio al popolo d’Abruzzo colpito dalla tragedia del terremoto, ha parlato della “Crocifissione come evento traumatico che impose di preservarne la memoria prima orale poi scritta, quindi va prestata molta attenzione all’uso del linguaggio per mantenere viva la tradizione. C’è il problema che mancava l’audizione di chi trasmetteva la tradizione linguistica, e anche quando arrivò la parola scritta insorse il problema interpretativo di carattere ermeneutico ed ontologico”. Giro lo precisa ulteriormente: “Il linguaggio è fondamento dell’essere, e l’ontologia – cioè l’essere nella sua coerente e profonda esistenza – diventa ermeneutica. L’essere si manifesta nel linguaggio”. Poi lo riferisce al tema della Mostra: “L’Apocrifo esprime l’atto contrario, che resta nascosto e non si rivela.

E’ nascosto perché non esprime la potenza dei testi canonici”. Perché allora gli Apocrifi hanno tanto fascino? “La discussione su Apocrifi e Gnostici è stata collegata all’impostazione che fossero testi iniziatici, motivo questo per tenerli segreti, di qui mistero e suggestione”. E sulla Mostra: “Attraverso la pratica artistica, che è sempre linguaggio, avvicina a un tema che è di filosofia, teologia, ermeneutica con uno spessore e un rilievo evidenti. Fa capire, con opere introvabili, come la sensibilità popolare risponda al collegamento tra arte, cultura e fede”. Una citazione di Heidegger a metà intervento può costituirne degno sigillo: “Solo dove c’è la parola c’è il mondo e solo dove c’è il mondo c’è la storia”. Ecco dove porta il linguaggio, molto lontano.

Nel mondo controverso degli Apocrifi

Per valutare meglio l’inedito interesse della Chiesa è bene inquadrare storicamente la questione degli Apocrifi partendo dalla constatazione che non hanno le caratteristiche negative generalmente attribuite a tale termine. Divenne dispregiativo e sinonimo di“falso” (Tertulliano) o “falsificato” (Ireneo) e almeno di “proibito”, mentre stava per “nascosto” e “segreto”, come i libri degli Gnostici (Clemente Alessandrino). Vi appartengono per esclusione tutte le storie di Cristo e della Madonna diverse dai Vangeli cosiddetti canonici, essi soltanto riconosciuti autentici.

Non si tratta dell’“ipse dixit” aristotelico moltiplicato per quattro, se mai per uno in quanto i quattro evangelisti erano portatori della storia e del Verbo di Cristo. La scelta forse fu obbligata per dare riferimenti certi codificando i principi fondamentali in un preciso canone: canone “della verità”, “della fede”, “della Chiesa”, in cui rientrano, appunto, i Vangeli canonici

Scrive Luigi Moraldi, il più noto studioso degli Apocrifi del Nuovo Testamento: “Dei Vangeli canonici si suole dire che sono talmente profondi che a volte ci inducono a dimenticare che sono anche ‘storia’. Di questi Vangeli ‘apocrifi’ possiamo dire che sono realistici, graziosi, attraenti e naturali, ma nel leggerli non si può dimenticare che sono pieni di dottrina e che la prima predicazione cristiana era di certo più vicina a questi vangeli che non alle quattro sintesi dei vangeli canonici”. Tra i quali c’è la netta differenza fra i tre “sinottici” e quello più teologico di Giovanni.

In realtà non c’è solo la distinzione, quasi una dicotomia, tra Canonici e Apocrifi, vi sono anche i libri “deuterocanonici”, contestati ma anche accolti da molti e, tra gli Apocrifi, gli “adulterati” che circolano nelle chiese data l’ortodossia del loro contenuto, ma non possono essere utilizzati nelle cerimonie liturgiche, e i libri di carattere “eretico” per il contenuto dissonante dai canonici ai quali vengono contrapposti.

Questa distinzione, che risale ad Eusebio di Cesarea si ritrova nel cosiddetto “Frammento dei , Muratori” (anno 200), mentre Agostino non fa classificazioni ma dice esplicitamente che “un diligente studioso della Sacra Scrittura sarà colui che l’avrà letta per intero e l’avrà conosciuta… almeno attraverso la lettura sia pure soltanto dei libri cosiddetti canonici, giacché gli altri li leggerà con più sicuro metodo, quando, in fatto di dottrina, si sarà munito di fede vera, affinché essi non creino preconcetti nella sua ancor debole mente”. Per la scelta dei testi detta il criterio elementare di preferire i libri accettati da tutte le chiese rispetto a quelli accettati solo da alcune, e tra i libri che non tutti accettano preferire quelli “che hanno il gradimento del maggior numero di chiese autorevoli a quelli che hanno il gradimento di un minor numero di chiese se queste sono meno autorevoli”, mentre se dei libri sono graditi “al maggior numero di chiese e non a quelle autorevoli penso che tutti quei libri debbano ritenersi di uguale autorità”.

Non ci si è limitati alle enunciazioni di carattere generale come quelle sopra citate, sono state fatte delle vere e proprie liste di proscrizione, una sorta di “Indice” ante litteram con tanto di nome dei testi proibiti. Comincia papa Innocenzo I che in una lettera di “consigli” (“Consulenti tibi”) afferma (anno 405): “Tutti gli altri scritti che vanno sotto il nome di Mattia e di Giacomo il Minore, sotto il nome di Pietro e di Giovanni (scritti da un certo Leucio), sotto il nome di Andrea (scritto dai filosofi Xenocaride e Leonida) od ancora sotto il nome di Tomaso e tutti gli altri scritti che ci sono, non soltanto si devono ripudiare, ma sappi che devono essere condannati”.

Dopo 75 anni tornano questi stessi nomi negli scritti di Turribio di Astorga contro i manichei (anno 480) e trascorsi altri 16 anni si ha l’elenco più completo dell’epoca nel cosiddetto “Decreto Gelasiano” (anno 496) riferito al papa Gelasio ma sulla cui autenticità ci sono forti dubbi. Le opere “che i cattolici devono evitare” sono 60, indicate nei titoli e nomi, numero uguale a quello delle opere elencate in diversi Manoscritti del VII secolo nella “Lista dei sessanta libri canonici”.

Passano tre secoli e abbiamo il “triplice elenco di Niceforo patriarca di Costantinopoli (anni 806-818) dei libri canonici, non ‘canonizzati’ e discussi, e dei libri Apocrifi”: quelli non canonizzati sono soltanto 4 e gli Apocrifi del Nuovo Testamento solo 8, gli altri pur esistenti non figurano.

E’ evidente il motivo della moltiplicazione degli Apocrifi. Nel periodo più antico coesistevano con quelli poi divenuti Canonici perché adottati dalla Chiesa, e sviluppavano aspetti fantastici e straordinari del divino senza distaccarsi dalle narrazioni correnti negli aspetti fondamentali. Quando lo facevano, ed è il caso degli Gnostici, ciò dipendeva dalla volontà di far aderire il cristianesimo alle istanze e caratteristiche di quei territori spesso lontani.

Gli sviluppi successivi dipesero dalla volontà di tramandare le storie di Cristo e del Nuovo Testamento con una passione che portava a calcare le tinte della divinità esagerandone le manifestazioni. I varchi lasciati dalla laconicità ed essenzialità dei Vangeli canonici offrivano lo spunto per riempire i vuoti sia per la vita di Cristo, soprattutto l’infanzia e la Passione, sia per quella della Madonna, San Giuseppe e Sant’Anna, temi sui quali gli Apocrifi si esercitarono sempre più.

La forma utilizzata spesso era dedotta dalle fonti canoniche, per i Vangeli apocrifi ci si ispirava a quelli sinottici. In altri casi si seguiva lo schema di riportare le parole di Cristo tornato tra gli apostoli dopo la Resurrezione attraverso domande e risposte per chiarire i misteri, con una sottolineatura del sacro e divino rispetto al terreno e all’umano. Un’ulteriore forma era l’enfatizzazione di alcuni aspetti della vita di Cristo con particolari presi dalla tradizione o leggendari. Normalmente erano le tradizioni locali a dare l’impronta alla narrazione.

Moraldi scrive: “Esisteva una diversità di tradizioni orali, di situazioni e di esigenze che, più o meno felicemente e problematicamente, riuscivano dialetticamente a convivere e a comporsi. Queste diversità comportavano spontaneamente diverse presentazioni del vangelo, di atti apostolici, di lettere apostoliche, di apocalissi, ecc., corrispondenti alle tradizioni, al modo di vivere e di pensare della comunità. Non era, ad esempio, uguale la relazione tra Cristo e mondo redento, per il fatto che i termini erano considerati con prospettive diverse.

Comportarono anche una certa varietà di espressioni della fede, della dottrina e della vita comunitaria che inizialmente non erano affatto considerate come separatrici dalla Chiesa”. Ed ecco le inevitabili conseguenze: “Ma a mano a mano che si stringevano di più i vincoli dell’unità e che si imponevano i libri canonici, la letteratura apocrifa venne marginalizzata e diventò, coscientemente o meno, sempre più tendenziosa”. Così conclude: “Molti cristiani conoscevano il Vangelo solo sotto quella forma che noi oggi chiamiamo apocrifa e non v’è dubbio che le opere più antiche furono scritte da persone che erano in perfetta buona fede”.

Questo viatico di uno dei maggiori esperti in materia – autore di molti volumi sugli Apocrifi, con particolare riguardo ai testi Gnostici, i più “proibiti” – ci riporta alla benevola interpretazione attuale di Mons. Ravasi. Se la paragoniamo agli anatemi papali che abbiamo prima riportato, ci accorgiamo che anche in questo campo la Chiesa ha dato prova della capacità di ammettere i propri errori del passato. Con la Mostra lo ha fatto in modo eclatante, e bisogna dargliene atto.

I temi della Mostra

Siamo ora attrezzati culturalmente per cogliere i contenuti della Mostra non limitandoci alla bellezza estetica ma penetrandone i significati che nascono da una vicenda così antica e controversa.

La prima constatazione riguarda le immagini rappresentate: ci sono le storie di Cristo che partono dalla nascita fino alla fuga in Egitto e poi saltano alla Passione, morte e Resurrezione; quelle della Madonna che trattano della sua nascita e della sua educazione; le vicende della figura di Giuseppe, trascurata dall’iconografia rituale; anche Sant’Anna è al centro di opere di grandi autori.

Rispetto alle storie narrate dai testi si nota l’omissione di quelle sull’infanzia di Gesù, le più problematiche, come si è detto, per i poteri divini esercitati in modo paradossale quasi per gioco, ed altre molto delicate sulla Sacra Famiglia, con i presunti fratelli di Cristo, la Maddalena, eccetera.

I più grandi, tra gli artisti rappresentati, sono il Guercino e Durer, il Tintoretto e Andrea del Sarto, poi Pozzo e Amalteo e gli anonimi delle preziose icone russe e bizantine.

Il curatore della Mostra don Alessio Geretti, alla Presentazione a Roma ha detto che molti temi trattati nelle opere esposte sembrerebbero canonici, tanto sono entrati nelle tradizioni e nei riti della cristianità.

Sono della natività, la nascita nella grotta con il bue e l’asinello e l’adorazione dei Magi, immagini non contenute nei Vangeli e tratte dagli Apocrifi; così per la fuga in Egitto con le palme e i frutti. E le scene della Croce, con il Padre che offre il Figlio in sacrificio; nella Resurrezione la chiusura del sepolcro, l’uscita di Cristo che tramortisce i soldati di guardia, il sepolcro scoperchiato sono anch’esse di ispirazione apocrifa. Nelle storie di Maria troviamo la nascita, la presentazione al tempio e la morte, poco sull’infanzia, tema prediletto dagli Apocrifi; c’è l’apparizione di Gesù alla Madre, poi lei che indica il Figlio come fonte di salvezza e ricorda la Madonna di Czestochowa, tutte di ispirazione apocrifa, ma l’apparizione ebbe il riconoscimento di papa Giovanni Paolo II. Nel gruppo di Sant’Anna vi sono alcune opere preziose, le uniche sul tema in Occidente. Don Geretti ha concluso con la rivelazione di un enigma e la confessione di un Apocrifo.

L’enigma riguarda il dipinto più famoso, che ora non è più in mostra essendo stato dato in prestito temporaneo solo per un mese dalla galleria Doria Pamphili di Roma: “Il riposo nella Fuga in Egitto” di Caravaggio, del 1596-97, un olio su tela di grandi dimensioni, dove nel buio dell’aperta campagna la luce si posa a destra sulla Madonna che, stremata dalla stanchezza, dorme seduta stringendo il Bambino e al centro sulla figura di una giovane donna con il corpo seminudo avvolto in parte da un velo, mentre a sinistra nella semioscurità c’è San Giuseppe con in mano uno spartito che mostra alla donna e a chi guarda il quadro. Ecco cosa ha detto al riguardo don Geretti: “Caravaggio rivolge a noi lo spartito perché lo possiamo leggere, c’è la chiave di lettura del Cantico dei Cantici”. E ha fatto balenare la soluzione dell’enigma parlando del rapporto tra vita attiva, contemplativa ed artistica, questa “intermedia tra le prime due e premessa per la vita spirituale”.

L’apocrifo riguarda la scelta di un piccolo, lontano paese per una mostra così importante. Ci si deve andare appositamente lasciando la vita caotica, quindi “ci si prepara psicologicamente in una sorta di purificazione”, favorita dalla trasparenza dell’aria di montagna e dei suoi orizzonti. “Illegio va considerata sede apocrifa rispetto alle sedi canoniche”, ha detto. Che anche da altri apocrifi, ormai sdoganati, come quelli che hanno ispirato le opere esposte, possa venire la stessa purificazione?

Una risposta si può trovare in queste altre parole di don Geretti, un secondo enigma: “Gli apocrifi dicono ma anche tacciono, l’arte ha cercato di tradurre i testi compatibili con la Chiesa cattolica”.
E’ venuto ora il momento della visita alle settantacinque opere esposte, e speriamo di aver creato l’attesa che meritano; ne renderemo conto in dettaglio molto presto, per coloro che non hanno la fortuna di potersi purificare, come ha detto don Geretti, anche per una sola giornata, all’aria tersa e trasparente della Carnia.