Africa? 2. Le opere non pittoriche, e non solo, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Si conclude la descrizione della mostra al Complesso del Vittoriano a Roma, fino al 17 gennaio 2010, con le forme espressive diverse dalla pittura della Collezione Pigozzi; e con le 15 opere pittoriche di 9 artisti selezionati dai Ministri della cultura delle singole nazioni africane in un rapporto proficuo, da coltivare ancora, con il nostro Ministero per i beni e le attività culturali.

Continua la nostra visita alla bella mostra sull’arte contemporanea africana, dopo aver descritto le opere pittoriche in senso stretto della Collezione Pigozzi. Questa volta, sempre provenienti dalla collezione, abbiamo video e fumetti, progetti di macchine fantastiche e soprattutto sculture di diversi materiali, da quelli metallici di risulta al legno variopinto, ad altro ancora.

Opere non pittoriche e sculture con materiali di varia natura

Passando alle opere non pittoriche troviamo molti tipi di materiali, spesso di recupero: la carta-cartone e il polistirene, il ferro e la plastica, la ceramica e il rame; ma soprattutto il legno dipinto. Sono di carta-cartone, polistirene e plastica i “plastici architettonici”, come lui li definisce, di Bodys Isek Kingelez, nato nella Repubblica democratica del Congo nel 1948, dove vive e lavora a Kinshasa. Ha prodotto anche opere monumentali, come il “plastico” del villaggio natale di Kimbembele Ihunga, la “Città fantasma” e la “Città del futuro”; in mostra ci sono tre altre opere tra il 1985 e il 1992: “L’Onu”, “Papiteca, progetto per una Biblioteca nazionale”, “Aeromoda”, più che i plastici di edifici ci ricordano nella forma particolare le prime macchine calcolatrici a manovella.

Ha invece la forma e il nome della macchina che riproduce perfettamente nei suoi due metri di lunghezza, la “Mercedes” del 1993 di Samuel Kané Kwei, nato nel Ghana nel 1922 a Teshie dov’è deceduto nel 1991. C’è una storia molto singolare dietro quest’opera, in legno e vetro, metallo e tessuto: ha tutto l’aspetto del veicolo, ma è una bara, produzione in cui l’autore si era specializzato secondo l’usanza di dare una forma particolare a seconda della professione e gruppo sociale; sono sculture funerarie molto ricercate prodotte ora dai figli proseguendo nella sua tradizione.

Si cambia totalmente genere e forma nonché materiale con Caliate Dakpogan, conterraneo di Hazoumé, anche lui del Benin, nato nel 1958 a Porto Novo dove vive e lavora. Discendente dal fabbro all’antica Corte reale di Porto Novo, non lavora più su commissione ma crea sculture artistiche assemblando materiali metallici recuperati “per dare forma a figure antropomorfe” con teste e corpi. I materiali di recupero hanno un invecchiamento naturale per lui necessario, poi ci associa oggetti di uso comune e monili. “Grazie all’intelligente mix di cultura africana ed occidentale, commenta Magnin, le sue creazioni piene di talento, umorismo e di storie, esprimono una creatività contemporanea e una stupefacente inventiva”. Di queste figure, in mostra ce ne sono cinque, che partono dal 2002: hanno la stessa forma, si direbbe una testa di cavallo, con titoli ai quali si associano accessori in carattere assemblati alla testa, come squadre e righelli in una “Geometria” quasi metafisica, e siringhe in “Operatrice sanitaria”, entrambi del 2007.

Tornano i colori squillanti della pittura in George Lilanga, nato in Tanzania nel 1934 e deceduto a Dar es Salaam nel 2005 del quale sono esposte sette opere. Due di queste, realizzate nel 2000, sono dipinti di vernice industriale su compensato dai titoli molto particolari: “Il compleanno e il giorno del bagno del loro padre” e “Non ridere, ti sto dicendo la verità”, grandi composizioni con lo sfondo in tinta unita, blu l’uno, rosso l’altro, dove si stagliano figure grottesche in disegni surreali. Le altre cinque sono sculture in legno dipinto a colori brillanti con soggetti diversi, da “Domenica in chiesa” a “Lavori urbani”, da “Esercizi muscolari” a due “Senza titolo”. I volti sono maschere quasi disneyane o dall’espressione allucinata, si ispirano alla cultura Makonde riferendosi a storie ancestrali, ma hanno il gusto della caricatura.

Avviciniamo idealmente a queste figure le cinque sculture de Demba Camara, nato in Costa d’Avorio nel 1970, vive e lavora ad Abidjan. Sono opere su commissione di un artista dalla produzione eterogenea che, tuttavia, con i “Feticci contemporanei” riesce a proporre motivi moderni del mondo tecnologico, come i robot della fantascienza e della televisione, in chiave antica; quasi fossero i feticci statuari della tradizione, e in questo c’è anche un gusto umoristico della caricatura. Tali sono le cinque sculture “Senza titolo”, con colorazioni uniformi e diverse, molto decise, c’è anche il robot con il figlio e quello automobilistico, come la grande bomba d’aereo verde e rossa.

Siamo sempre più addentro alle forme tradizionali con i cinque totem di legno dipinto alti quasi due metri di Efiaimbelo, nato nel 1925 nel Madagascar ad Androca dove è vissuto e ha lavorato fino al decesso avvenuto nel 2001. Si tratta di sculture tradizionali funerarie dette “Alouals”, disposte a quadrato intorno alla tomba, ciascuna con un fusto fatto di otto elementi geometrici e astratti, l’ultimo una luna piena, sovrastato da una scena scolpita in pieno rilievo, in cui il nostro artista faceva valere la sua fantasia. Nelle opere esposte realizzate dal 1993 al 2000, le scene richiedono una vasta piattaforma con molte figure scolpite in legno. Nei titoli che le descrivono si va dal “Cuore di pietra, cuore di catena”, alla “Circoncisione”, dalla “Sfida tra Dio e Andrianopolisy” a “L’uomo solitario” e allo “Spirito della foresta cura le malattie”.

Un posto a sé, nel nostro viaggio a ritroso verso le forme della tradizione, occupano le sculture modellate in terracotta da Seni Awa Camara, nata in Senegal nel 1945 a Bignona dove vive e lavora. Hanno un aspetto arcaico, ancestrale, forse per influsso della misteriosa iniziazione che ebbe l’artista sparita da piccola nella foresta della Casamance con i due fratelli gemelli; i volti sono deformi, così i piccoli che si aggrappano alla madre, un segno dell’antico trauma, c’è un popolo di queste figure nel cortile della sua casa. In mostra sono tre, dal 1980/90 al 1999, tutte “Senza titolo”, inquietanti con i piccoli mostruosi in grembo nella prima, che diventano rettili nella terza, per non parlare della presumibile mamma, alta quasi un metro e mezzo, letteralmente coperta da piccolissime figure con volti mostruosi e mani che si attaccano al suo corpo. Forme ancestrali. “La sua riflessione, commenta Magnin, prende spunto da verità rivelate, da storie fuori dal tempo e dalla realtà, dall’osservazione del mondo degli umani e dalla sua condizione di donna Wolof”, l’idioma speciale in cui risponde. “La sua idea è che tutto questo è più grande di lei e la inquieta, e la sua missione è quella di conciliare passato e presente”.

Gli altri artisti africani selezionati dai Ministeri della cultura di nove nazioni

Fin qui le 75 opere dei 20 espositori della Collezione Pigozzi”, ne abbiamo apprezzato l’estrema varietà di stili e motivi, come di personalità e ispirazione artistica. Jean Pigozzi dà atto a chi ha avuto l’idea risolutiva nel realizzare il proposito del Ministro per i Beni culturali Bondi: “Sono profondamente grato ad Alain Elkann che ha avuto l’idea di portare a Roma la mia collezione”. Ora è il momento dei nove artisti, selezionati in base alle segnalazioni dei Ministri della cultura dei singoli paesi, interessati direttamente dal nostro Ministro per i beni e le attività culturali. Facciamo lo stesso processo a ritroso dal figurativo verso stili che se ne allontanano sempre più, con una eccezione, lasciamo per ultime le opere che per noi sono il “clou” di questa sezione.

Riprendiamo con “Il cavallo bianco” di Idrissa Diarra, nato in Costa d’Avorio nel 1969, dove vive e lavora ad Abidjan, autodidatta comincia dipingendo insegne. Un pittore dallo stile “naif” che già venti anni fa partecipò alla mostra “Peinture naif africane” al Museo d’Art Naif di Parigi. Un’arte popolare in affreschi e dipinti, tratta temi attuali come il contrasto tra la natura pacifica e ubertosa e la violenza e i mali della sua terra. Il grande cavallo bianco del 2001 in un ridente ambiente, verde la vegetazione, candidi i muri, scalpita per l’assedio di soldati lillipuziani che spianano i loro fucili.

Un figurativo dove le immagini si sovrappongono in un magma pittorico lo vediamo in Shine Tani, anch’egli impegnato su temi ispirati alla vita della sua città. Nato nel Kenua nel 1967, dove vive e lavora a Nairobi, una storia di povertà che lo vede acrobata e vagabondo fino alla consacrazione artistica. Non dimentica le origini, fonda il “Banana Hill Group” per aiutare gli artisti in difficoltà, oggi ne ospita oltre cinquanta. Nei due quadri esposti, entrambi del 2009, gli “Abitanti delle baracche” sono volti che spuntano in un magma di oggetti, nel “Concerto annullato”, di grandi dimensioni, il volto e le mani emergono da un magma più indistinto fatto di macchie che evoca confusione e sconcerto.

Rarefatto anche il figurativo di un altro autore, è quello che teniamo per la conclusione. Ora incontriamo gli indumenti stesi sul filo di Abdul Naguib, sono ben distinti come i disegni che adornano T shirt e pantaloni, sottovesti femminili. L’autore è nato nel 1955 in Mozambico, dove vive e lavora a Maputo; ha studiato pittura anche in Europa, più di cento mostre al suo attivo. Ha dipinto edifici istituzionali, l’Assemblea nazionale e il palazzo presidenziale; l’opera esposta, “Karingana”, del 2005, di grandi dimensioni, è dipinta in acrilico, vinile e olio su tessuto.

Unisce figurativo ad altre forme espressive nello stesso dipinto Chikonzero Chazunguza, nato nel 1967 in Zimbabwe, vive e lavora in Canada, ad Ottawa, diplomato all’Accademia belle arti di Budapest, docente di discipline artistiche all’Università del suo paese. Ha fatto mostre ed avuto riconoscimenti, le sue opere scavano nell’identità nazionale e trattano i mali e i problemi che affliggono il suo paese. “Determinazione” presenta un’auto scoperta carica di persone in tre riquadri nei quali cambia il colore di fondo, sotto disegni infantili o istantanee lontane; “Virtualità” ripete in forma molto diversa la stessa auto con persone, in un collage affollato di immagini trasversali immerse nel rosso e nel nero.

Soly Cissé, nato nel 1969 nel Senegal, dove vive e lavora a Dakar, artista noto a livello internazionale per aver rappresentato il suo paese in Biennali e aver fatto mostre personali all’estero, a Parigi e in Italia a Prato. Si sentono influssi occidentali, da Bacon a Basquiat, la tradizione africana si fonde con elementi occidentali, anche la tecnica adotta forme come i graffiti. Temi catastrofici si esprimono attraverso ambienti foschi e torbidi, il personale si fonde con il collettivo. Due opere del 2008 di grandi dimensioni in mostra: “Montagne 1”, una sorta di palizzata che evoca una barriera invalicabile; “La stagione delle piogge”, una tavolozza dove emergono ringhiere e confuse figure di animali.

Ancora più ampia la prospettiva in cui si colloca Abdoulaye Konaté, nato nel 1953 nel Mali, dove vive e lavora a Barnako, studi di pittura anche a Cuba, dirige il “Conservatoire des Arts et Métiers Multimédia” del Mali. Le sue opere, spesso installazioni, affrontano i temi del suo paese, come guerre e siccità. Quella in mostra del 2008, “Generazione biometria n. 1”, è un grandissimo pannello di sei metri per tre con figure che sembrano mummie distese tutte uguali su molti piani paralleli, diverse soltanto nella tinta, unita o variopinta. Esprimono l’immigrazione africana dominata dalla politica con relativo controllo dall’alto, nell’angolo superiore sinistro il busto della Statua della Libertà con il braccio alzato sembra evocarlo.

Con tecnica mista su tela sono realizzate le due grandi composizioni di Herman Mbamba, nato in Namibia nel 1980, vive e lavora in Norvegia, a Oslo dove ha studiato all’Accademia delle Belle arti. Nelle sue opere si sentono gli strascichi dell’“apartheid” vissuta sulla pelle del suo paese all’epoca della dipendenza dal Sudafrica razzista. Tratta temi scottanti, ricerca un’identità personale e nazionale. “Il Circo, atto I” e “Il ritorno del Circo, atto II”, del 2008, mostrano un viluppo sottile di linee e di colori, con cerchi, volute, forme minute per esprimere il magico intreccio circense.

Siamo giunti così agli ultimi due artisti, dalla forma espressiva diversissima pur se entrambi uniscono alla formazione africana una vita artistica internazionale che si svolge anche in Europa. Lilion Mary Nabulime è nata nel 1963 in Uganda, dove vive e lavora a Kampala. Dottorato in arte contemporanea alla Newcastle University, mostre e workshop in Inghilterra, impegno sulle problematiche femminili. L’opera del 2002-03, “Vagliatura”, si impone all’attenzione per essere fatta di una serie di elementi, dodici cestini come guantiere che recano chiodi o conchiglie, semi o altro, poi una statua di donna che solleva con le braccia in alto un altro cestino ricolmo: è la denuncia della “spulatura”, che affatica e danneggia la salute delle donne ugandesi affette da Aids.

Ed ora quello che per noi è il “clou” di questa sezione, i tre acquarelli su carta di Rashid Diab, che abbiamo tenuto appositamente per ultimi. L’autore è nato nel 1957 nel Sudan, vive e lavora a Khartoum, studi di pittura nel suo paese e a Madrid, espone in Europa. Gli acquerelli su carta sono la sua forma espressiva, con squillanti accostamenti cromatici; i soggetti sono presi dalla vita, come animali e beduini, donne al mercato, oppure da motivi di decorazioni popolari della tradizione araba. Le tre opere esposte, tutte del 2009, intitolate “Donne”, sono di un figurativo quasi impressionista, di grande effetto pittorico e forza nel contenuto. Le figure femminili che si assiepano sono macchie di colori contrastanti, dai volti neri, ma che colori, che linee! C’è da sognarle, sono dei capolavori.

Le scoperte e il valore della mostra fino alle due immagini simbolo

Dopo l’escalation di emozioni vissuta nel vedere le opere in mostra basta sottolineare alcuni aspetti peraltro già evidenti. “Dove vive e lavora” è la notazione ricorrente: ebbene, salvo due eccezioni che confermano la regola, si tratta sempre del proprio paese. E’ un aspetto importantissimo, diremmo fondamentale, significa che restano ancorati alla loro terra, al proprio territorio e alla rispettiva cultura, per questo è un’arte che continua ad essere alimentata e aggiornata; e la Collezione Pigozzi che si accresce annualmente ne rende conto con la sua raccolta sempre più vasta. L’altra notazione, che viene sempre dalla loro biografia, è il campionario completo di provenienze, non solo dai diversi paesi, ma anche da località urbane o isolate, come anche di età per lo più giovanili ma con presenze di artisti in età avanzata o scomparsi. Un campionario di stili e forme espressive, le più varie sempre nel segno dell’arte; è lontano il folklore tribale cui eravamo abituati.

In questo contesto, il giudizio artistico finale è giusto sia quello di André Magnin, il citato mattatore della valorizzazione dell’arte africana, artefice anche delle tante mostre che abbiamo richiamato. Conosce così bene i singoli autori da aver fatto per ciascuno ampie ed approfondite note biografiche e critiche nel bel Catalogo di Gangemi Editore.
Ecco le sue parole: “Le scelte estetiche di ciascun artista sono altrettanti manifesti di una creatività, di una potenza e di una bellezza straordinarie. Essi sono riusciti a fondere sapientemente, ciascuno nel proprio ambito, il carattere individuale delle creazioni e quello collettivo della percezione delle loro opere”. Così prosegue: “L’arte africana si rivela un mezzo espressivo universale, condiviso da individui di origini diverse, le cui sensibilità si manifestano tuttavia attraverso gli stessi stratagemmi, lo stesso sistema di rappresentazione da un capo all’altro del pianeta”.

E’ vero anche ciò che dice sulle opere in mostra: “Al primo impatto si prova uno shock visivo e solo in un secondo tempo se ne percepisce il senso”. Ma quando questo avviene torna alla mente la galleria colorata nelle sue diverse espressioni e si ripete l’emozione del primo impatto, mentre la consapevolezza dei contenuti e dell’itinerario personale e collettivo si fa più completa e matura. Nel lasciare la mostra abbiamo negli occhi le due immagini simbolo. Quella ufficiale, lo abbiamo detto, vede il mondo amorevolmente racchiuso tra due mani delicate attente a non stringerlo troppo, che lo prendono come in un’offerta votiva. Ci guardiamo intorno, ci sono manifesti con scritto “Giù le mani dall’acqua”, lo stesso mondo è strattonato e strizzato da due mani che se lo contendono, è una polemica politica nei confini del Lazio, niente a che fare con la mostra. Però che coincidenza!

L’altra immagine, lo ricordiamo, per noi quella delle taniche di benzina affastellate su un’esile motociclo, ci riporta al nostro dopoguerra, allorché equilibri impossibili di un popolo che cercava di arrangiarsi per sopperire alle carenze consentivano trasporti e produzione; furono insomma gli strumenti della ripresa, che poi divenne miracolo economico. Ci sentiamo di fare l’augurio che lo siano anche per il continente africano: per i suoi talenti, le sue iniziative, la sua volontà di crescita che la mostra ha avuto il grande merito di far conoscere e valorizzare.

1 Commento

  1. Francesco Ascani

Postato gennaio 20, 2010 alle 10:32 PM

Il dott. Levante porta a compimento la sua esposizione della mostra d’arte africana trattando video, fumetti e sculture, sempre “alla Romano Maria Levante”, con assoluta originalità e con “il valore aggiunto dell’approfondimento e possibilità di integrare con il proprio commento”.
Fornisce ampie notizie su materiali utilizzati e descrizioni e citazioni di vario genere su alcuni autori, con richiami di personalità e ispirazione artistica, e dopo l’escalation di emozioni vissute nel vedere le opere in mostra, conclude rilevandone il duplice aspetto creativo: l’essere ancorati alla loro terra, quale arte che continua a crescere, e le provenienze da diversi paesi, da varie località urbane o isolate, e di età per lo più giovanile.
Nel ritenere giusto il giudizio artistico finale di “André Magnin”, che riporta anche nei concetti più interessanti, l’autore rivolge un augurio al continente africano, affinché trovi gli strumenti della ripresa “per i suoi talenti, le sue iniziative, la sua volontà di crescita che la mostra ha avuto il grande merito di far conoscere e valorizzare”.
Annotato quanto sopra, al solo fine di focalizzare i vari concetti sviluppati e ritenendo che la possibilità di commento, per singolarità del dott. Levante, non possa essere utilizzata, come già evidenziato per la parte prima, manifesto ancora qualche considerazione personale, sempre per le sensazioni avute ed i sentimenti sviluppati dalla lettura dello scritto.
Convinzione mia è, comunque, che i suoi scritti, tutti abbastanza estesi, non stancano assolutamente, ricchi come sono di notizie culturali, artistiche, storiche e letterarie, ma offrono “conoscenza” e quindi creano cultura.
Del suo metodo capillare ed efficace ho pure già detto, o forse tentato di dire, ma voglio aggiungere che i suoi testi forniscono notizie specifiche d’argomentazione, con approfondimenti su tanti temi e tutti pertinenti e sono un esempio, un modello ed una guida per tutti.
Non avrei mai pensato di trovare in una Rivista, simili trattati che più li leggi e più accrescono le tue conoscenze, la stima per chi li scrive e la gratitudine per “Abruzzo Cultura”.