Tiziano Terzani al Palazzo Incontro: Clic! 30 anni di Asia e oltre

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di  Romano Maria Levante

Al Palazzo Incontro, dopo l’omaggio a Pertini con “Paz e Pert”, l’omaggio a “Tiziano Terzani, Clic! 30 anni di Asia”, mostra aperta dal 23 marzo al 29 maggio 2011. Organizzata da Fandango, è stata curata da Folco Terzani che l’ha presentata con Nicola Zingaretti, il quale ha sottolineato il successo della sede prestigiosa e funzionale messa a disposizione dalla Provincia di Roma di cui è presidente, per intrattenimenti culturali e incontri di eccellenza: dal cinema alla musica, dalla letteratura alle arti in genere. Questa volta è una mostra fotografica che espone le immagini del celebre reporter e scrittore andando oltre l’aspetto espositivo per qualcosa di ben più intenso.

Tiziano Terzani

Cominciamo a raccontare la mostra dall’ultima sala, in una specie di cronaca alla rovescia. Perché è quella dove ci sono fotografie non sue ma scattate dalla moglie; non sono ripresi gli altri ma è ripreso proprio lui; non sono in bianco e nero come tutte le altre ma a colori intensi. E’ questo, a nostro avviso, il “clou” della mostra perché segnano il culmine della sua esistenza, quando lascia la macchina fotografica e anche il giornalismo per concludere il percorso di vita nell’Asia misteriosa avvicinandoci a qualcosa di indefinibile ma di superiore, in una sublimazione ascetica. Espressa anche nell’aspetto, una barba bianca lunga e folta da Mosè, il saio e gli atteggiamenti da santone indiano che vede lontano. Come il mago che ha incontrato e fotografato lui stesso: idealmente lo consideriamo come l’ultimo scatto, dopo sembra tramutarsi totalmente, nel corpo e nello spirito.

Parla del suo percorso spirituale Folco Terzani, il figlio curatore della mostra e soprattutto testimone di molti episodi, che ha vissuto con lui nell’Asia misteriosa dove Tiziano è stato per decenni con la famiglia, prima di rientrare in Italia, nell’isolamento di un paesino di montagna dove sembrava avere ritrovato parte dell’atmosfera e del fascino dell’ultimo eremo himalayano.

Oltre 80 ingrandimenti fotografici in un bianco e nero che ha un sapore antico prima dei 7 a colori che non li fanno dimenticare ma li “colorano” di profonda spiritualità, come tappe di un’ascesa mistica. Nei 7 scatti a colori protagonista non è la figura esteriore del fotografo che questa volta viene ritratto, ma il suo spirito e la sua anima che hanno trovato la pace dopo la ricerca, anzi la rincorsa di una intera vita. Immagini che sovrastano la pur straordinaria forza documentaria dei diversi volti dell’Oriente perché trasmettono qualcosa di indefinibile e insieme irresistibile. Ma proprio per questo ne parleremo dopo aver raccontato il percorso fotografico della mostra, che ripete passo passo il suo percorso di vita di grande inviato nelle terre lontane del continente asiatico.

La galleria di immagini di un’Asia inquieta e contraddittoria

Corrispondente di grandi giornali, in particolare Der Spiegel, ha percorso per decenni quelle terre lontane con taccuino e macchina fotografica, gli scatti parlano per lui e non necessitano di parole, tanto sono evidenti. Di parole ne ha spese tante nei numerosi libri, di reportage e di denuncia, di colore e di impegno civile che hanno punteggiato la sua intesa attività professionale. E anche a corredo delle immagini c’è qualche parola di commento, e vale la pena di riprodurla perché non illustra ciò che viene ripreso, ma ciò che avviene nell’anima dell’autore, mentre sente venir meno certezze e svanire speranze. Non tutte, però: quelle legate alla spiritualità attingono una dimensione superiore, quelle invece toccate dall’ideologia vacillano, travolte dalla realtà che vede dinanzi a sé.

Non c’è ideologia nella sua partecipazione ideale al conflitto nel Vietnam, ci va nel 1972 perché, dice, “volevo capire la guerra e la rivoluzione”. E si trova nel bel mezzo della “contraddizione tra quella società antica, semplice, e la modernità che la guerra impone. Le armi, i carri armati, le bombe, non c’entravano niente, proprio non c’entravano niente”. Tra Davide e Golia sceglie il più debole, che poi diventa più forte perché la resistenza popolare prevale sulla tecnologia bellica, è già una presa di posizione netta contro certo progresso. “Il Vietnam era loro, e ne avevano ogni diritto”. I libri “Pelle di leopardo” e “Giai Phong! La liberazione di Saigon” esprimono i suoi sentimenti.

Così per la Cina, siamo al 1980, il continente è guardato con amore e speranza attraverso scatti che riprendono la povertà dei villaggi ma anche la semplicità e l’autenticità della vita che vi si svolge tra vestigia dell’antichissima civiltà non sfregiate dal progresso. Ma poi la delusione è pari alle aspettative, “la Cina è stata la grande avventura”, scrive, “il più grande esperimento di ingegneria umana che l’umanità abbia mai tentato, la ricerca di una società più giusta e più umana”. Già la parola “ingegneria” è un ossimoro rispetto all’aggettivo “umana”, e se ne accorge ben presto: “Mi fu subito chiaro che la realtà era meno affascinante dei sogni”.

Un’uguaglianza esteriore nella mortificazione, tutti vestiti uguali, incolonnati, rispetto a una mondo tradizionale che nei suoi scatti appare serbare invece i valori e i sapori della vita.. Non segue gli itinerari obbligati e controllati per scoprire la realtà vera, in treno non viaggia negli scompartimenti “a sedili morbidi” per i visitatori, ma in quelli “a sedili duri” dei locali per unirsi a loro, condividere le loro vicende: Così esce da quello che chiama “il labirinto di proibizionismo e tabù che avrebbero dovuto tenermi lontano dalla gente”, ed ecco i risultati: “Era come aprire una tomba egizia. Sentivo che era una cosa che io avevo il grande privilegio di scoprire”. Non poteva passarla liscia, viene arrestato ed espulso, l’oppressione si è abbattuta su di lui dopo quattro anni trascorsi in Cina.

Tra le cose che colpiscono di più sono le distruzioni selvagge e spietate dei templi con la perdita incalcolabile d’arte tradizionale e di memoria in un popolo di alta spiritualità; molte successive ai suoi reportage, le sue fotografie – dice Folco – diventeranno preziose per la loro ricostruzione. Ma non tutto è da respingere dell’esperienza che lo ha scottato: “La Rivoluzione Culturale ha insegnato a un’intera generazione di giovani a ribellarsi, a non rispettare i maestri, a non ascoltare i vecchi”. E lui stesso ha potuto riscontrare sul campo e scrivere di “una Cina non addomesticata” con uno slancio d’amore: “Io amo la Cina, loro la stanno distruggendo”. Di qui il libro “La porta proibita”.

Se Atene piange, Sparta non ride, se ne accorge in Giappone, anche qui allineati ma in modo ben diverso e per motivi opposti: è la frenesia dello sviluppo a portare l’ordine perfetto, altro modo perverso di perdere l’umanità: “La vita è un’altra cosa”, commenta. E le immagini di un mondo quasi militarizzato per produrre lo evidenziano, soprattutto se raffrontate agli spicchi di umanità nella miseria delle zone più arretrate della Cina, ma rimaste vicine ai valori umani della tradizione.

Di nuovo dall’altra parte, vive da vicino la fine dell’Unione sovietica, altro sogno infranto dinanzi alla realtà: “Il solo grande segreto è la miseria e lo squallore”. E nella foto alla grande statua di Lenin abbattuta, sotto il tallone di un islamico, intravede una nuova prospettiva nell’Islam, “l’ideologia dei dannati della terra”; non a caso intitola il suo libro sulle vicende seguite al golpe anti Gorbaciov del 1991, “Buonanotte, Signor Lenin” . Un nuovo shock con gli attentati dell’11 settembre 2001 e l’attacco americano all’Afghanistan: ispirano il libro “Lettere contro la guerra”.

C’è anche l’Asia insanguinata della Cambogia, con immagini da raccapriccio, l’ha descritta nel libro “Holocaust in Kambodscha” del 1981; è bilanciata dal Laos “non un posto ma uno stato d’animo” con la foto della fanciulla che incede leggiadra nella miseria. Il suo non è mai un discorso ideologico, registra i fenomeni e quando si discostano dalle sue speranze e aspettative non esita a dichiararlo, anche riconoscendo di essersi illuso. Questo per i regimi comunisti; ma non viene trattato meglio l’Occidente: del Giappone abbiamo detto, verso gli Stati Uniti mostra un’aperta avversione per le forme smodate di un progresso vuoto di valori, quindi disumano e aggressivo.

Dal paradiso del “grandissimo niente” all’isolamento ascetico

Il mondo in bianco e nero che ci presenta con immagini sobrie dal tono elegiaco è un mondo in parte sparito, l’onda del progresso ne ha dispersi gli aspetti più suggestivi, che invece si ritrovano nelle sue fotografie, perché li ha fissati prima che fossero cancellati. Ed è questo un grande merito di un intenso giornalista scrittore che ha voluto parlare con le immagini oltre che con gli scritti.

Ma non si è accontentato di fissare gli angoli che avevano conservato il fascino delle tradizioni, è andato a scovare una località sul tetto del mondo, isolata da tutti, per ritrarne l’assetto primordiale. Si tratta di Mustang, un’enclave tra le montagne del Tibet entro i confini del Nepal, perciò la Cina ha dovuto rispettarla. Ci va nel 1995, segue il richiamo dell’“Esploratore” di Kipling: “Qualcosa è nascosto. Vai cercarlo. Cerca al di là delle vette. Qualcosa è stato perso al di là delle vette. E’ stato perso e ti aspetta. Vai!”.

Un villaggio che è un minuscolo, antichissimo regno, a cinque giorni di marcia a piedi e sui muli dopo l’ultimo approdo per aereo o auto, non ci sono strade, ma distese di ciottoli e pietraie, un posto “senza progresso, un mondo antico” dove il tempo si è fermato. Si ferma anche per lui, ritrae il vuoto che non è mancanza, è riempito dalla riflessione, non è desolato perché dove non c’è la materia c’è lo spirito. Non fotografa l’attimo ma la riflessione: attende che i raggi del sole creino un fascio di luce sul medico-mago Amchi, l’immagine è suggestiva, una vera magia.

E’ un “shangri-la”, cioè un paradiso, che si sta per perdere, il turismo pur contingentato lo assedia, già tra le immagini del “grandissimo niente” c’è quella delle bambine che giocano con la “Barbie”, e l’elicottero che atterra con i turisti. Tiziano è ben diverso, sa che solo dopo la lunga marcia “avvicinandosi l’immagine si smitizza, il viaggiatore finalmente capisce: il senso della ricerca sta nel cammino fatto e non nella meta: il fine del viaggiare è il viaggiare stesso e non l’arrivare”.

A parte la ricerca del “paradiso perduto”, la sezione “Indovini” rivela come abbia viaggiato un intero anno da reporter negli spazi sconfinati dell’Asia senza prendere l’aereo, seguendo le parole di un indovino, così ha toccato con mano quanto sarebbe sfuggito a un approccio distaccato. Di qui il capolavoro “Un indovino mi disse”: siamo nel 1995, da un anno lui e la famiglia vivono in India.

Al culmine della sua ricerca è protagonista proprio l’India, dove “Dio ha ancora 1000 indirizzi”. Ne trova uno, c’è l’incontro con un santone, lo fotografa e sembra il suo autoritratto del dopo, intanto è diventato Anam, ha assunto una nuova identità senza nome intrisa della spiritualità asiatica. E’ una folgorazione, si immedesima in quella figura ascetica al punto da isolarsi in un proprio eremo sull’Himalaya, che poi diventerà il rifugio di Orsigna, nell’Appennino piemontese, dove si ritirerà per trascorrere ciò che gli resta da vivere dopo un’intera vita trascorsa nelle terre lontane dell’Asia.

Le 7 immagini con il colore dell’anima

Ed è dopo queste immagini che il bianco e nero fino ad allora protagonista assoluto, cede il posto a un inatteso colore, le 7 immagini citate all’inizio. Cede la fotocamera alla moglie – ci dice Folco – per andare di là dall’obiettivo, si immedesima nell’aspetto, nella veste e nell’atteggiamento di quelli che sono stati i suoi ultimi soggetti, diventa il santone. Il colore è un’illuminazione dopo tanto grigio – che non è grigiore ma è memoria – perché è circonfuso dallo spirito: è il colore dell’anima.

Ci suscita un ricordo e un’associazione d’idee: “Deserto rosso”, di Michelangelo Antonioni, dove anche le foglie avevano perduto il loro colore brillante per unirsi alla foschia dell’ambiente e soprattutto della mente degradati da un progresso inquinante e distruttivo, come quello che Tiziano rifiuta. Nel film, l’angoscia dell’incomunicabilità è rotta dal sogno della “spiaggia dalla sabbia rosa” con i colori brillanti ed evocativi: ecco, la sua spiaggia rosa è nel raggiungimento di un approdo per lo spirito, la conclusione della ricerca diuturna di una vita in virtuale pellegrinaggio.

Tra queste 7 immagini con i colori dell’anima il diapason lo raggiunge, ai nostri occhi, la foto che lo vede di spalle camminare lungo un sentiero innevato, in altre si vede la folta barba bianca da Mosè, indossa un lungo saio: ebbene, l’immagine di Darwin non era diversa, nell’aspetto e soprattutto nelle passeggiate lungo il “Sentiero delle meditazioni”, situato nel retro della sua abitazione lontana dalla città come la località dove Tiziano si era rifugiato per restare solo con la sua anima.

La fine che è un inizio

Così abbiamo voluto raccontare la mostra, ponendo all’inizio e alla fine quello che per noi è il suo momento culminante. Richiede una riflessione entrare nella dimensione che traspare dalle immagini, ci si sente scossi dinanzi a un approdo così apertamente superiore, dalla spiritualità profonda e toccante. Senza ostentazione né elucubrazioni, la visione è semplice e ferma: quando si approda a un punto di arrivo così elevato tutto si fa chiaro, e le immagini lo rendono perfettamente.

Se ne ha conferma dalla lunga intervista che precede di soli due mesi la scomparsa avvenuta il 28 luglio 2004 dopo la lotta con la malattia che non vede in questi termini, ma come un andare avanti insieme al male coesistendovi finché è possibile. Si assiste al filmato nella saletta, presi da una forte emozione nel vedere il santone dalla lunga barba bianca parlare con una serenità disarmante, aprire l’anima senza mostrare turbamenti, consapevole di avere raggiunto la pace dello spirito dopo tanta ricerca. “Anam, il senza nome” è il titolo della sua serena confessione, regista Mario Zanot.

Nel marzo del fatidico 2004 aveva pubblicato un libro-reportage sulla sua malattia e sul mondo circostante: “Un altro giro di giostra – Viaggio nel male e nel bene del nostro tempo”. Due anni dopo, nel marzo 2006, i suoi pensieri confidati in un dialogo-diario al figlio Folco escono con il titolo “La fine è il mio inizio”; il 1° aprile 2011 esce nelle sale il film dallo stesso titolo che ne è stato tratto, distribuito da Fandango, regia di Jo Baier, con Bruno Ganz e altri interpreti.

Con tutto questo che evoca, è molto di più di una mostra fotografica quella che abbiamo visitato, emozionati per la guida di Folco Terzani: in molti momenti sembrava che ci accompagnasse Tiziano Terzani giovane, con tutto il suo entusiasmo. Folco con la grande serenità di aver compreso la quiete raggiunta dal genitore, ne illustrava il percorso fotografico e insieme il percorso di vita.

Come non essere grati a Fandango e alla Provincia di Roma che hanno organizzato l’evento, oltre a Folco Terzani che lo ha curato e ce lo ha illustrato? Un evento che è insieme culturale e umano. Sì, profondamente umano, forse non soltanto terreno. Perché la ricerca di Dio, di un Dio della natura e della vita, si sente nella pelle visitando la mostra e guardando il video. Si possono fare scelte di vita estreme come la ricerca della solitudine nell’Himalaya e guardare la morte senza temerla come ha fatto Tiziano se questa ricerca dà delle risposte: a Tiziano Terzani sono arrivate e ce le ha trasmesse con le parole e le immagini. Le riassumiamo plasticamente nella figura che cammina lentamente lungo quello che identifichiamo nel darwiniano “Sentiero delle meditazioni”.

La “Turtle House” di Tiziano Terzani a Bangkok

Autore: Romano Maria Levante – pubblicato in data 28 marzo 2011 su www.fotografia.guida consumatore.com