Mirò, Poesia e Luce, da Roma a Genova

di Romano Maria Levante

A Genova, nel Palazzo Ducale, Appartamento del Doge, la mostra “Mirò! Poesia e Luce”, dal5 ottobre 2012 al 7 aprile 2013 con 80 opere:50 oli, molti di grandi dimensioni, disegni e acquerelli, bronzi e  terracotte,  provenienti dalla Fundaciò Pilar i Joan Mirò, che ha collaborato attivamente all’organizzazione con Arthemisia, Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura, 24 OreCultura.

La mostra è la prosecuzione ideale di quella svolta a Roma, dal 16 marzo al 10 giugno 2012 al Chiostro del Bramante, per il quale il Dart partecipò all’organizzazione come ora Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura. Curatrice sempre la grande esperta di Mirò Maria Luisa Lax Cacho. Il bel Catalogo rilegato, edito da “24 OreCultura” riporta, oltre alla splendida galleria delle opere, saggi della direttrice della Fondazione Mirò, Elvira Càmara Lòpez  e della curatrice Maria Luisa Lax, uno scritto dell’artista e tre interviste nelle quali rivela i segreti della sua arte.

Due “location” prestigiose quanto diverse quelle prescelte per lo sbarco di Mirò in Italia: dopo il Chiostro del Bramante a Roma nella prima metà del 2012, il Palazzo Ducale a Genova nell’ultimo trimestre dell’anno fino al primo del 2013. Mirò, che cercava poesia e luce al sole abbagliante di Palma di Maiorca, ritrova la luce nell’Appartamento del Doge; come aveva ritrovato la poesia nelle nove salette del Chiostro del Bramante dove erano esposte le sue opere piuttosto in penombra. Ma la luceera riflessa nell’atelier ricostruito al secondo piano con gli oggetti e le suppellettili che usava, e alcune tele sul cavalletto in una composizione essa stessa opera d’arte; e c’era poesia nella cornice rinascimentale del Chiostro nella quale veniva incorporato il suo linguaggio multiforme nei materiali e nelle espressioni con la costante di un sicuro equilibrio compositivo.

L’atelier era il culmine della mostra, seguito dalla vasta sala finale: ci ha ricordato lo studio di Georgia O’ Keeffe  in un ambiente luminoso come era quello nel New Mexico, ricostruito nella mostra della Fondazione Roma insieme ad alcuni luoghi della vita della pittrice. Per Mirò l’ambiente era reso anche da un filmato nell’apposita saletta all’ingresso, che lo faceva vedere intervistato tra i suoi dipinti, prodigo di spiegazioni sulla propria arte: non solo offriva una chiave di lettura preziosa per capire le sue opere, ma faceva entrare il visitatore nel clima e nello spirito in cui erano state create, e accostava alla sua disarmante semplicità nell’ispirazione e nella realizzazione.

Anche nella mostra di Genova ci sarà questa “total immersion” nell’arte di Mirò. La prepariamo parlando dell’artista e raccontando la nostra visita all’esposizione romana che di emozioni ne ha date tante dinanzi alle opere collocate in un ambiente particolare. Si ripetono di certo a Palazzo Ducale in un altro scenario, anch’esso incomparabile, che non cancella la memoria dell’evento apripista di Mirò in Italia, anzi ne valorizza il significato come guida e premessa a quello genovese.

L’arte di Mirò

La ricerca dell’essenziale si nota sin dall’intitolazione, la maggior parte delle opere sono “Senza titolo”, parecchie anche senza data. Pura espressione visiva, dunque, “poesia e luce” sono i soggetti; la forma e il colore vengono creati quando l’artista ha “tra le mani i pennelli e la pasta”, e se non ne dispone, “penso a nuove forme, le immagino, le creo e le ‘ricreo'”. Inizia con il nero e mette mano anche a più opere contemporaneamente, però in numero dispari, “il pari mi mette tristezza”; lascia asciugare e il giorno dopo aggiunge al nero alcuni segni, anche incisi, possono diventare un tridente o altro, poi ricorre ai colori per bilanciare  la composizione. Dice di muoversi “come un pianista”.

Niente di cerebrale, tutto all’insegna della semplicità, le sue fonti di ispirazione sono nella natura, “nulla è banale, tutto si può trasformare”, afferma; combina le forme naturali quasi da alchimista e le trasforma, una conchiglia la vede come un’architettura di Gaudi, “sarebbe bello vivere in forme simili, altro che le scatole dei grattacieli!” Anche per questo lo affascinano i graffiti, mette sul dipinto anche le impronte delle mani, nate per caso ma lasciate impresse perché ricordano pitture preistoriche,  da lui apprezzate come vere opere d’arte.  Come quella trovata in una grotta dagli speleologi, vista di recente nella mostra “I colori del buio” al Vittoriano: impronte rosse di mani.

Il suo atelier è come un giardino, lui si definisce il giardiniere che cura la crescita di  fiori, erbe e arbusti, con le potature e sradicando le erbacce. Un giardino aperto al sole e alla luce, pervaso di poesia. “Lo spettacolo del cielo mi sconvolge – esclama – Mi impressiono quando vedo la luna crescente e il sole in un cielo immenso”, come un bambino, del resto si ispira alla semplicità infantile. Ma dice anche: “Il quadro deve essere fecondo. Deve far nascere un mondo”.

Perché questo avvenga non basta essere infantili e neppure estemporanei o trasgressivi: “L’incontro di fantasia e controllo, di oculatezza e di generosità, che forse si può considerare una caratteristica della mentalità catalana – ha scritto Gillo Dorfles –  può spiegare, in parte almeno, la base fondamentale dell’arte e della personalità di Joan Mirò”: questi ossimori ne sono il sigillo.

Le sue radici le sente a Maiorca, terra della madre e della moglie, vi si trasferisce nel 1956 nell’atelier disegnato dall’amico architetto Josep Lluìs Sert, una costruzione su due livelli per meglio inserirsi nella conformazione del terreno con tetti arcuati che gli davano una forma sinuosa, colore bianco e argilla con serramenti gialli e rossi, una cromia a lui consueta; l’architettura diventa scultura, ma Mirò non lo concepì come un Museo, bensì un laboratorio creativo, per questo lo riempì di una grande quantità di oggetti, i più svariati, animali e piante, cartoline e ritagli di giornali, conchiglie e giocattoli.

Poi verranno altri due studi nello stesso luogo, ne donerà una parte alla cittadinanza e nel 1981 sarà creata la Fondazione a lui dedicata.  “Mi sento come una pianta”, dice del suo radicamento in quella terra.  A Maiorca si allontana dallo stile figurativo, al culmine di un percorso che lo ha visto nella fase iniziale –  la prima opera esposta in mostra risale al 1908 – avvicinarsi all’impressionismo e al fauvismo, al futurismo e al cubismo e dopo il viaggio a Parigi del 1920 al dadaismo e successivamente al surrealismo. Un “en plein”!

Arriva la folgorazione dagli espressionisti astratti americani, cui si aggiunge l’attrazione per il senso calligrafico dell’arte orientale, da loro prende “il vuoto e il nero”, l’essenzialità nel modellato, nel colore e nel soggetto: lascia il cavalletto e dipinge sul pavimento, cammina sui dipinti, vi spruzza il nero e poi il colore, negli ultimi anni lo stende con la pasta nelle dita e nelle mani in una “pittura materica” anche su compensato e cartone, materiali da riciclo che nobilita con il suo tocco. Non ci sono “cose morte, da museo”, vengono trasformate dall’arte: di qui  collage e “dipinti-oggetto”; e anche bronzi e terracotte: sono  sparsi nelle salette, il “clou” nell’ultima sala dove sono allineati.

Poesia e luce tra il nero, il vuoto e i forti colori

La  mostra consente di approfondire la sua forma di espressione artistica soprattutto nel periodo di Maiorca, dopo il 1956, ma non mancano opere precedenti. C’è anche il paesaggio originale del 1908 sul quale incollò ritagli di giornale dipingendovi nel retro, scoperto per caso durante un restauro: siamo nel 1960, allorché dopo il trasferimento a Maiorca distrusse molte tele e disegni precedenti, folgorato dalla nuova temperie artistica che lo aveva preso in quella luminosità.

Si inizia con gli schizzi per le pitture murali, 1946-50, da quello per il Gourmey Restaurant del Terrace Palace Hotel di Cincinnati, la prima commissione pubblica, a quello per l’Università di Harward, nonché l’ultimo per il progetto non realizzato destinato all’Aula dei delegati all’Onu, . Seguirono altrecommesse che eseguì  con schizzi preliminari a inchiostro nero o dipinti a guazzo. Di una sua “Pittura murale” era così orgoglioso da temerne il deterioramento fino  a proporne la sostituzione con una in ceramica.

Siamo ancora ai preliminari, per così dire, entriamo presto in un mondo luminoso con 4 grandi tele dove spiccano il rosso e il blu e 4 più piccole. E’ l’antipasto del primo piatto, la sala sui  maestosi “Monocromi”, 7 opere di grandi misure dove c’è solo il segno nero con tanto vuoto, in forme e composizioni di grande fascino che la maestria espositiva valorizza al massimo.  

Dirà “tre forme sono diventate un’ossessione per me: un cerchio rosso, la luna e una stella”,  aggiungendo che dai suoi mezzi espressivi si sforza di ottenere “il massimo della chiarezza, della forza e dell’aggressività plastica”: ed è questo aspetto che è stato sottolineato dalla curatrice Maria Luisa Max Cacho nella presentazione in cui sono intervenuti Iole Siena presidente di Arthemisia Antonio Scuderi, Amministratore delegato di 24 Ore Alinari, il quale ci ha tenuto a ricordare che “mentre si sollecita tanto la collaborazione tra pubblico e privato, questa mostra nasce  dall’accordo di tre strutture private”; può essere una strada nuova per fronteggiare i tagli ai fondi per la cultura.

Tornando all’artista, suo intento dichiarato è “provocare innanzitutto una sensazione fisica per poi arrivare all’anima”, lo diceva già nel 1933. Lo proviamo personalmente nel passare da una all’altra delle nove salette, siano attirati in un labirinto che si apre alla visione di opere di cui si avverte la grandezza: le dimensioni sono le più diverse, c’è anche un dipinto  molto lungo e stretto con un’immagine filiforme, per lo più segni marcati in nero e forti colori rosso e giallo, verde e blu.

Saliamo al secondo piano del Chiostro, 37 bassi scalini in pietra conducono alla ricostruzione dell’atelier di Maiorca con le suppellettili, gli strumenti di lavoro, i dipinti sui cavalletti: si sente la luminosità che doveva esserci, con i colori che l’artista maneggiava. Colori che vediamo nei 6 grandi dipinti della saletta seguente: “Adesso dipingo bagnando le dita nel colore”, diceva nel 1974.

Non ci si è ancora ripresi dall’uno-due dell’atelier e dei dipinti a forti colori successivi, che c’è il botto finale dello spettacolo pirotecnico delle opere di Mirò: la galleria si apre in una grande sala, spettacolare negli 8 dipinti grandissimi, in 4 sculture di tipo arcaico e 2 visibilmente totemiche.

E’ un approdo magistrale sul piano artistico che l’allestimento ha saputo valorizzare creando una sorta di crescendo sotto il profilo coloristico, con i due poli costituiti dalla sala delle grandi monocromie poco dopo l’ingresso e dal salone finale delle grandi policromie sempre con il nero e il vuoto che ne sono le costanti dalle quali è fortemente segnato il suo stile.

Ci vengono in mente come mera associazione di idee gli stessi colori inseriti nelle composizioni geometriche di Mondrian, viste nel gennaio 2012 al Vittoriano, dove la grafica con il segno nero aveva pari rilevanza, pur nella totale diversità: in Mondrian  era solo rettilineo, in Mirò curvilineo, i colori lì in precisi riquadri, qui  a macchie o segni senza alcuna regola, l’opposto della simmetria.

E’ l’arte allo stato puro che punta all’essenziale e lo trova in una ricerca – positiva nei due artisti- in cui gli opposti finiscono per incontrarsi nel tanto che lasciano nell’immaginario del visitatore.

Info

Genova, Palazzo Ducale, Appartamento del Doge. Tutti i giorni, martedì-domenica ore 9,00-19,00; lunedì 14,00-19,00; la biglietteria chiude un’ora prima. Biglietto con audioguida euro 13,00 intero, euro 12,00 ridotto, euro 5,00 scuole. Tel. 010.5574004; biglietteria@palazzoducale.genova.it

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Chiostro del Bramante alla presentazione della mostra romana, si ringrazia l’organizzazione, in particolare il Dart, Arthemisia e 24 Ore Cultura, la Fundaciò Pilar i Joan Mirò, con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.