Berengo Gardin e Giacomelli, due mostre fotografiche, al Museo di Roma

di Romano Maria Levante

Al Museo di Roma in Trastevere due mostre fotografiche molto diverse, tra le straordinarie esposizioni permanenti sulla romanità con un’ampia selezione dai 120 acquerelli di Ettore Roesel Franz, la galleria di dipinti e annessa ricostruzioni di scene di Roma sparita con manichini e ambienti tipici. Sono la mostra di Gianni Berengo Gardin, 65 fotografie su “L’Aquila prima e dopo”, apertadal 26  settembre all’11 novembre 2012e quella di Mario Giacomelli, “Fotografie dall’archivio di Luigi Crocenzi” dal 12 settembre  al 20 gennaio 2013 , 90 scatti dei 250 dell’archivio acquistato dal Craf, immagini che coprono un ventennio, dagli anni ’50 agli anni ’70.

di Gianni Berengo Gardin

Berengo Gardin: la cronaca documentata con “L’Aquila prima e dopo”

Cominciamo da Gianni Berengo Gardin per dare la precedenza all’attualità, la sua mostra ha inaugurato l’VIII edizione di “FotoLeggendo”, promossa e organizzata da “Officine Fotografiche”. che si protrae per un intero mese . L’esposizione è nei primi ambienti del Museo, sono immagini della città martoriata dal terremoto, le fotografie di devastazione  sono poste a confronto  con quelle riprese nei medesimi luoghi 16 anni fa dallo stesso fotografo.. Ora vi è tornato tre anni dopo il sisma e nulla di visibile fa salutare il ripristino ambientale, i raffronti sono tra l’integrità e la distruzione.

Bastano poche note per ricordare chi è Berengo Gardin: un “testimone della nostra epoca” come lui stesso si è definito, impegnato a documentarne i diversi aspetti perché ne resti una traccia fedele per la storia. La sua arte fotografica si è ispirata all’inizio al cinema e alla televisione, sempre in bianco e nero al quale resta legato, il colore secondo lui distrae l’osservatore sviandone l’attenzione dai contenuti. Gli scatti della sua assidua opera di registrazione di luoghi, situazioni ed eventi, superano di gran lunga il numero di un milione, i libri fotografici e le mostre più di 200, i premi tanti, ricordiamo due estremi prestigiosi, il “World Press Photo” del 1963 e il “Lucie Award” alla carriera del 2008.  Sempre senza ricercare effetti speciali, con la cronaca viva della realtà presente.

Sulla sua “missione” aquilana ha detto: “Ciò che mi ha più impressionato è il silenzio che c’è per le strade. Non passa nessuno, non c’è nessuno. Non ci sono i bambini che giocano, le donne che fanno la spesa, la gente che va in ufficio. C’erano solo quattro cani abbandonati che giravano”. La stessa atmosfera desolata che ricorda dopo il bombardamento del quartiere di San Lorenzo a Roma.

Poche le persone da lui ritratte, per lo più operai impegnati nella messa in sicurezza. Si nota subito un elemento comune a tutti gli scatti, come suo costume neppure ora Berengo Gardin cerca effetti speciali nelle inquadrature o nelle esposizioni: il risultato è una cronaca scarna ed essenziale, più che un reportage per impressionare, le dimensioni delle immagini sono ridotte quasi per un senso di discrezione. Si avverte un certo pudore nelle riprese di luoghi colpiti e di ambienti martoriati, per non penetrarne più che tanto l’intimità; le uniche fotografie di grandi dimensioni sono quella delle macerie di palazzi distrutti su cui svetta soltanto la chiesa, unico edificio integro e quella della griglia di tubi d’acciaio per impedire lo sgretolamento di un edificio, diviene la metafora della foresta impenetrabile che finisce per soffocare la città, sembra un quadro astratto ma è vero e reale.

Delle chiese devastate dal sisma ce ne sono diverse, innanzitutto Santa Maria di Collemaggio, prima e dopo il sisma, la volta dell’abside squarciata con la copertura provvisoria trasparente dei vigili del fuoco e la chiesa di San Bernardino. Le  foto delle rovine dei palazzi distrutti o gravemente danneggiati,dei monumenti mutilati, vicine a quelle sui piccoli danni familiari nella chincaglieria andata in frantumi ripresa dall’obiettivo, discreto e penetrante insieme, che fruga negli interni delle case terremotate.  Un esterno tragico, la Casa dello studente crollata con le sue giovani vittime, il Palazzo del Governo  con un sorta di timpano imbragato, un segno dell’impotenza delle istituzioni. 

Un momento anch’esso intimo, quasi una metafora dell’arte che è stata offesa  oltre che nelle architetture devastate, pitture e sculture sfregiate, nei suoi protagonisti, lo abbiamo vissuto con le due fotografie al pittore aquilano Marcello Mariani nel suo studio in una chiesa sconsacrata: prima del sisma un ambiente raccolto ed evocativo, dopo il sisma è sconquassato e desolato, ricordiamo che il pittore è stato tra i protagonisti della recente mostra per la rinascita “Archè”  nella basilica di Collemaggio. Così per uno storico ristorante e per il giardino di un convento con le suore, il prima e dopo è rappresentato in modo semplice per documentare, senza la ricerca di effetti per stupire.

Eppure è un maestro del quale ricordiamo i virtuosismi estetici, pur sempre aderenti alla realtà, del libro fotografico edito nel 2012 da “Contrasto”. Così nei campi lunghi di Venezia del 1959 e 1960, quest’ultimo con una piazza San Marco allagata e due piccolissime figure al centro di una prospettiva e di un’atmosfera metafisica; e se realtà è il grande albero di “Calabria 1966” con la piccola autovettura sovrastata dalla gigantesca chioma, nel rappresentarla la trasfigura con la sua stessa evidenza pur senza cercare effetti speciali a parte le due dimensioni così contrastanti.

Ma ricordiamo due fotografie di Venezia che ce lo fanno accostare a Mario Giacomelli, e quindi  ci sembrano la migliore introduzione all’altra mostra del Museo di Roma che ci accingiamo a visitare. In  “Venezia 1958” dei ragazzi in gran movimento venivano ripresi dall’alto mentre giocavano a pallone, tra loro un prete, tema consueto nelle foto più celebri di Giacomelli; come sono consuete le immagini mosse e sfuocate, rare in Berengo Gardin che in “Venezia 1956” ci dava un primo piano di donna ripresa di spalle sfuocata in una vasta  composizione con figure molto più piccole sotto l’ombrello e una grande nave alla fonda con a lato una scalinata.  Due accostamenti che ce li fanno sentire vicini nell’arte come nella fama e nell’eccellenza, ora in contemporanea nel Museo di Roma.

di Gianni Berengo Gardin 

Mario Giacomelli: il coinvolgimento emotivo in una realtà trasfigurata

Vicini ma molto diversi nella forma e nei contenuti, come si vede dalla mostra “Mario Giacomelli. Fotografie dell’archivio di Luigi Crocenzi”. Un archivio di 250 foto “vintage” acquistato nel  1995 dal Craf, il Centro di ricerca e archiviazione della fotografia; la raccolta si è formata per la vicinanza dei due personaggi, Giacomelli collaborò con Crocenzi  nella sceneggiatura di “A Silvia”, “Un uomo, una donna, un amore” all’inizio degli anni ’60, fino a “Caroline Branson”intorno al ’70.

Lo mostra, curata da Walter Liva, è antologica e diversificata, non monotematica,  le 90 immagini selezionate dall’archivio coprono venti anni di attività e non due momenti come per Berengo Gardin. Perciò per raccontarla occorre spigolare nella critica che ne sottolinea le peculiarità, partendo dal pittorialismo di chi da pittore è divenuto fotografo di fama internazionale con opere acquistate dal Moma di New York nel 1963, la serie “Scanno”  entrata nel catalogo “Looking at Phptographers”; restando legato alla “Tipografia marchigiana” che ricostruì e gestì con costanza.

Seguiamo il giudizio di Arturo Carlo Quintavalle, suo biografo, che parla di discorso “simbolico”: il suo è “un espressionismo fotografico che esasperava l’aspetto emotivo della realtà sottolineato dai contrasti, dai segni ed inoltre, al pari di Fellini nel cinema, Giacomelli ribaltò completamente il punto di vista del realismo introducendo una nuova poesia tonale anche onirica e realizzando racconti fotografici che si esprimevano sia nei racconti come nei paesaggi, escludendo inutili dettagli e che fecero di lui  il più importante fotografo italiano del Novecento autonomo a quel punto rispetto a ogni scuola”.

Come si manifesta questo orientamento? Antonio Arcari già nel 1965  diceva che con le sue fotografie era tra i primi  a tentare “le vie nuove del racconto e a rinnovare per ogni racconto modi e forme espressive”.  E questo non per un’innovazione fine a se stessa, ma “per un’intima e profonda necessità di conoscere la realtà e di riproporcela secondo un  suo metro, in un’oggettivazione nuova e corrispondente alla sua visione”.

Oggi Roberto Maggiori parla di un formalismo dove “la forma ha un ruolo completamente sganciato dalla realtà e dalle leggi che questa dispensa. Il particolare formalismo del fotografo marchigiano è difatti un modo per allontanarsi dalla verità della forma, è semmai un formalismo che conduce al deforma”. In questa chiave analizza le due serie più famose, “Scanno” e “Io non ho mani che acarezzino il viso” con i seminaristi: “Da una parte c’è il mosso dovuto ai lunghi tempi d’esposizione, dall’altro il bianco e nero si fa veramente tale: le ombre che danno fisicità ai corpi, ai visi, ammantati di nero, e sovraesposti su fondi resi abbacinanti dalla neve o  da lastricati in pietra”.   Giacomelli  disse: “Le foto di Scanno le scattai volutamente con un tempo basso. Utilizzando la tecnica dello sfocato e del mosso riuscii a rendere l’atmosfera del paese ancora più magica”. Per la serie dei seminaristi “volevo che le immagini fossero fuori del reale come a Scanno e questo contrasto dei bianchi dà un’immagine un po’ più magica della realtà”. Non ci sono scale di grigi.

“Motivi suggeriti dal taglio dell’albero”  è una serie in cui i tronchi tagliati sembrano, sempre  secondo Maggiori, “figure astratte ricondotte a un vissuto reale. I segni parlano del vissuto dell’opera dell’uomo, partono dall’informe per arrivare alla forma stilizzata.  E figurativa”. Prima di tutto c’è la “La buona terra”,  sin dal periodo iniziale scompare il cielo e i campi non sono come si vedono ma come li sente, marcati da profondi solchi che testimoniano la fatica dell’uomo. Lo stesso Giacomelli ne parla così: “Li potrei fare anche sulla carta, nel mare, ma sarebbero tutti voluti quindi tutti falsi. A me interessano i segni che l’uomo fa senza saperlo ma senza far morire la terra”.

Molta attenzione all’umanità e ai sentimenti: giovanili in “Un uomo, una donna, un amore”, con immagini intense e appassionate; dell’età avanzata in “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” che presenta gli anziani spaesati in un ambiente alienante, nel quale si rischia di perdere anche la dignità quando si è più fragili, le immagini più che la realtà esteriore evidenziano la sofferenza interiore. E poi “Mare” e “Paesaggi”, “Nudi” e “A Silvia”, “Puglia” e “Lourdes” fino all’ultimo periodo con “Caroline Branson”, ne evoca la presenza in una magia resa da effetti di grande suggestione; la serie, del 1971-73, è ispirata da una poesia della “Spoon River Antology” di Edgard Lee Masters.

Ancora Giacomelli sul proprio modo di esprimersi: “Più che quello che avevo davanti agli occhi volevo rendere quello che avevo dentro di me”. Non cerca di documentare per i posteri, come avviene naturalmente a Berengo Gardin, ma di esternare ciò che prova lui stesso: non una finestra sul mondo ma sull’animo del fotografo, la macchina fotografica come il pennello dell’artista che non ritrae la natura nella sua realtà ma cerca di dare l’immagine di ciò che gli trasmette e gli suscita.

di Mario Giacomelli

Berengo Gardin e Giacomelli

C’è qualcosa che unisce i due grandi maestri, entrambi qualificati come i più grandi del Novecento. Nell’ultimo libro di Berengo Gardin “Inediti (o quasi)”, di “Contrasto”, troviamo anche questo suo ricordo di Mario Giacomelli, a commento di una fotografia che lo vede con lui e con Italo Zannier: “Mario Giacomelli è stato un grandissimo amico. Era già famoso quando ci siamo conosciuti. Io, e con me altri della mia generazione, lo guardavamo con rispetto e con invidia per il successo che aveva avuto in America. Con gli anni, durante la nostra amicizia, mi lusingava dicendomi che i migliori fotografi italiani per lui eravamo Scianna ed io”. Il racconto si fa sempre più confidenziale: “Mi telefonava spesso, per chiedere informazioni, per parlare di fotografia o anche solo per farmi gli auguri. E ricordo che mi chiamava sempre Gardin Berengo e a me faceva tanto ridere”. 

Questa amicizia rievocata in allegria ci sembra la migliore conclusione per le mostre di due grandi artisti della fotografia che per motivi diversi fanno meditare: l’una per la forza nel documentare una tragedia, l’altra per i sentimenti espressi nelle immagini sulla natura e sulla vita.

Info

Gianni Berengo Gardin, “L’Aquila prima e dopo”; Mario Giacomelli.” Fotografie dall’archivio di Luigi Crocenzi”, Museo di Roma in Trastevere, pizza S. Egidio 1B, adiacente a piazza di Santa Maria in Trastevere, da martedì a domenica ore 10,00-20,00, la biglietteria chiude un’ora prima, lunedì chiuso. Ingresso: intero euro 6,50, ridotto 5,50, residenti 1 euro in meno, gratuito per le categorie previste dalle disposizioni vigenti. Tel 06.0808, http://www.museodiromaintrastevere/. it

Foto

Le immagini delle foto esposte sono state riprese da Romano Maria Levante al Museo di Roma in Trastevere all’inaugurazione delle due mostre, si ringraziano gli organizzatori, in particolare Contrasto, Craf, Centro di ricerca e archiviazione della fotografia e Zètema, con i titolari dei diritti.  Le prime due foto sono di Berengo Gardin,  le altre due di Giacomelli.

di Mario Giacomelli