Guggenheim, 2. Dall’Espressionismo astratto alla Pop Art, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Abbiamo commentato – sulla scia della mostra celebrativa della rivista “Qui Arte Contemporanea” e del ruolo della Galleria Nazionale d’Arte moderna nell’astrattismo italiano in corso alla Gnam –  il mecenatismo lungimirante di Salomon e Peggy emerso con forza, al Palazzo delle Esposizioni “, nella mostra “Il Guggenheim – L’avanguardia americana 1945-1980”, dal 7 febbraio al 6 maggio 2012,  sul museo che ha promosso forme avanzate di sperimentazione artistica negli Stati Uniti.

Frank Stella, “Harran II”, 1967 

Vale la pena di ripercorrere la mostra che ha presentato  60 opere tra dipinti, oggetti scultorei,  sequenze fotografiche nelle 7 sale, in altrettante  sezioni  dedicate ai  momenti cruciali dell’arte  contemporanea americana tra il 1945 e il 1980. Dopo aver dato conto dell’istituzione raccontiamo attraverso le opere esposte le Avanguardie dall’Espressionismo alla Pop Art, con la Scuola di New York e l’“Hard Edge”. Tratteremo prossimamente le sezioni dal Minimalismo al Fotorealismo.

Abbiamo ricordato come gli sviluppi dell’arte contemporanea nel fervore creativo delle avanguardie  negli Stati Uniti coincidano con l’azione di Salomon Guggenheim e della nipote Peggy i quali favorirono il movimento di forte innovazione che dall’Europa si trasferì nel nuovo mondo attraverso gli artisti che, come fu per Peggy, dovettero abbandonare il vecchio continente per l’occupazione nazista. Ne fa fede la stessa denominazione iniziale del Museo istituito nel 1939, che solo nel 1959 ha assunto il nome del suo fondatore,  per vent’anni si è chiamato “Museum of Non-Objective Painting”, cioè della pittura non-oggettiva, ispirata all’arte astratta del russo Kandinsky.

L'”Espressionismo astratto”

La mostra è iniziata con l’“Espressionismo astratto”, denominazione che identifica una serie di tendenze pittoriche sviluppatesi nel dopoguerra dai primi impulsi europei verso direzioni originali. Viene aperta, nel 1942, da parte di Peggy Guggenheim, una galleria-museo dedicata all’arte contemporanea, “Art of This Century”, con il programma di “servire il futuro anziché documentare il passato”  per offrire non solo una sede espositiva che realizzava  mostre d’avanguardia, ma anche un centro di incontro e discussione, confronto ed elaborazione artistica; e mediante  acquisti  e speciali contratti, come con Pollock,  prestava i mezzi di sussistenza ai giovani artisti emergenti.

Nasce la New York School, che dopo il realismo sociale promuove la pittura astratta passando per l’espressionismo: attinge all’inconscio per portare alla luce ciò che ristagna nella psiche profonda con lo spontaneismo e la gestualità, in una soggettività opposta all’oggettività preesistente.

Con la mostra del 1943 “Spring Salon for Young Artists”, tra i 33 pittori selezionati fu “scoperto” il valore di Pollock, segnalato da Mondrian, membro della giuria con Duchamp ed Ernst.  Tra le 13 opere esposte nella 1^ sala, datate per lo più nella prima metà degli anni ‘40, ne abbiamo viste 3 di questo artista caratterizzate da una “caotica profusione di linee e di colori contrastanti”, secondo le parole di Lauren Hinkson, che dirige il Peggy Museum di Venezia ed è curatrice della mostra. I titoli:  “Circoncisione”, “La donna luna” e “Senza titolo”, tra il 1942 e il 1946. La sua “pittura sgocciolata” rendeva massimi spontaneismo e gestualità, lui stesso sul numero unico della rivista “Possibilities” dell’inverno 1947-48 scrisse che dipingeva con la tela a terra per sentirsi “letteralmente in essa” e spiegò: “Quando sono nella mia pittura non so esattamente cosa stia facendo. E solo dopo un certo periodo di contatto con essa mi accorgo del punto in cui sono. E non ho paura di apportare cambiamenti, di distruggere l’immagine o altro, perché la pittura vive di una vita propria. Voglio che questa vita affiori”.

Un concetto analogo lo troviamo sulla stessa rivista nelle parole di Rothko che scrisse di pensare ai suoi dipinti “come a opere teatrali”, di cui “non è possibile prevedere e descrivere in anticipo quale sarà l’azione e chi saranno gli attori”.  Lo stesso spaesamento di Pollock: “Tutto ha inizio come in un’avventura sconosciuta, in un mondo mai veduto prima”. Il risultato? “E’ solo nel momento del compimento di questa avventura che ci rendiamo conto, come per un’illuminazione improvvisa, che ciò che si è concretizzato sulla scena è proprio quello che deve concretizzarsi”.

Una vera e propria trance creativa senza temi e soggetti emerge dalle parole dei due artisti dell’espressionismo astratto di cui danno l’interpretazione autentica. Daniela  Lancioni, nel riportare queste citazioni, precisa che, a differenza dell’astrattismo italiano, grazie al “filtro del surrealismo” anche nella pittura astratta di Pollock e Rothko emergono vaghe immagini che riportano alla pittura figurativa come “la Medusa e altre terrifiche presenze”, sagome  che rimandano a qualcosa. Così anche in “Senza Titolo” di Gorky e“In un luogo indeterminato” di Tanguy, con una serie di oggetti in un’atmosfera metafisica,  che accostiamo a “Luce buia” di “Sebastiàn Matta Echaurren cogliendovi alcune evidenti analogie compositive; e in “I paracadutisti”, di Baziotes, si intravedono le sagome dei paracadute. Così l’espressionismo filtra l’astrattismo puro nella formula americana dell’Espressionismo astratto.

Prosegue nella  2^ sezione con 10 opere soprattutto degli anni ’50 nelle quali la transizione appare superata per un  astrattismo senza riferimenti e richiami, molto coloristico. La fa di nuovo Pollock con 3 opere esposte, “Argento verde”, “Numero 18” e “Grigiore dell’oceano”: nella prima si vede chiaramente l’effetto della “pittura sgocciolata”, i colori sono stesi come macchie e scie, mentre negli altri due si avverte una maggiore presenza sotto il profilo compositivo, in un crescendo anche cronologico dal 1949 al 1953. In  “Senza titolo”, 1949, di  Rotko, vediamo un’evoluzione in senso cromatico rispetto alle altre due sue  opere del 1942 “Senza titolo” e del 1946 “Sacrificio”, di tonalità chiare e smorte: qui ci sono colori forti, marrone e rosso prevalenti con macchie di un blu molto intenso. Colori forti e rosso dominante anche in “Composizione, diDe Koonig,, e in“Dipinto giallo” di Reinhardt, dove domina il colore del titolo,  mentre in “Rosso e nero” di Francis, il giallo è accennato tra macchie rosse molto più grandi sotto un’oppressiva cascata di macchie nere. Il  nero profondo incombe con le cupe barriere in “Elegia per la Repubblica spagnola n. 110”  di Motherwell; mentre  contorna come un nastro la schematica geometria rettangolare con angolo in “Senza Titolo”. di Kline, e interrompe con piccole macchie l’ocra sbiadito in “Guerriero” di  Marca-Relli.  Grande varietà cromatica, quindi, oltre che compositiva.

Jackson Pollock, “Grigiore  dell’oceano”, 1953

L'”Hard Edge”

Cambia tutto con l’“Hard Edge” negli anni ’60, l’astrazione pura si afferma con uno stile “post pittorico”, in forme geometriche su superfici di colore piatte. Il nome della tendenza,  “bordo rigido”, riflette la “fredda precisione” nelle parole della Hlnkson, è l’opposto dell’immediatezza e della spontaneità gestuale di Pollock. Nella 3^ sezione sono esposte 7 opere dai forti colori.

Siamo nel 1959-60: in “Il cancello” di  Hofmann, si vedono due riquadri giallo e rosso con fondo striato di verdi intensi, e in “Senza titolo” di Held ai due quadrati, questa volta bordati, si aggiunge un cerchio con forti contrasti di colori puri.

Nello stesso periodo nasce l’attenzione per l’ambiente architettonico superando la bidimensionalità pittorica  con il “Systemic Painting”: in “Rilievo rosso arancio” di Kelly il quadrato diviso a metà dai due colori affiancati è reso da due pannelli uniti aggettanti rispetto alla parete che costituiscono “un rilievo non figurativo”. Altra particolarità nel 1962, con “I 68” di  Louis la policromia a strisce verticali è data da un metodo che ricorda la pittura “sgocciolata” ma è controllato, si tratta del “soak stain”, “macchia per assorbimento”: il colore diluito viene fatto colare dall’alto in basso. Con “Lunga marcia II” di Youngerman, del 1964,  torniamo al monocromatico, un rosso cremisi intenso appena sfumato in un quadrato frastagliato.

Il clou sono due artisti molto diversi nella fase della maturità della tendenza, il 1967-69, con la loro ricerca sui fondamentali della pittura, linea e colore, campitura e forma: di Stella con “Harran II” viene presentata un’opera spettacolare, una tela fluorescente di 3 metri per 6, con sezioni curvilinee contrapposte dai colori contrastanti accostati in una sorta di arcobaleni in successione; di Noland è esposto “Canzone di aprile”,  una tela lunga 3 metri in un campo unico giallo intenso con  piccole bordature variopinte ai margini superiori e inferiori. Sembra di essere giunti all’essenziale, vedremo in seguito che si può ancora semplificare.

La “Pop Art”

L’ulteriore semplificazione verrà con il “Minimalismo”, ma prima la 4^ sezione presenta un’altra tendenza, la “Pop Art”, che all’inizio coesiste con l'”Hard Edge”. E’ una sorta di reazione dell’arte alla società dei consumi resa sempre più invadente dalla crescita economica, come accennato nella presentazione della mostra: non chiudendosi in una elitaria torre d’avorio, bensì compenetrandosi nel consumismo e facendo uscire l’arte popolare dal ghetto del genere “basso”. Ne viene assecondata solo in apparenza la deriva culturale ispirandosi ai mass media della pubblicità commerciale a imitazione delle tecniche di produzione industriale da cui si desumono metodi e soggetti e la produzione seriale contro lo spontaneismo estetico. Non più espressioni del sentire interiore ma riflessi del mondo esterno in chiave commerciale, pubblicitaria e mediatica; spesso con l’accentuazione caricaturale dei toni e dei motivi che rende il prodotto così concepito una critica ironica e graffiante.  Sono esposte 7 opere di tre grandi, molto diverse per stile e contenuto.

Di Warhol  c’è “Disastro arancione n. 5”, 1963, una composizione fotografica con 15 immagini di una piccola sedia elettrica  in un ambiente spoglio in cui il nero si aggiunge al colore, peraltro cupo anch’esso, indicato nel titolo. Sono affiancate come fotogrammi in sequenza nella rappresentazione seriale dell’orrore e anche del suo sfruttamento scandalistico. La ripetitività è insita nelle comunicazione pubblicitaria e commerciale cui si ispira la “Pop Art”, Warhol ne farà un sigillo personale anche nei ritratti di personaggi popolari reiterati affiancati con colori diversi, persino i manichini metafisici di De Chirico. Questo aspetto – scrive la  Hinkson “sembra svuotarla di ogni significato e contenuto emotivo”. Aggiunge, citando lo storico dell’arte Thomas Crow, che “allo stesso tempo, mentre affronta gli orrori nascosti sotto la superficie della società contemporanea, il quadro allude all’ethos populista del giornalismo scandalistico”; la critica ironica diventa denuncia.

James Rosenquist, “Il nuotatore dell’Econo-mist (dipinto 3)”, 1997-98

Assemblando un’accozzaglia di fotografie in bianco e nero  Rauschenberg, nel 1962-63, ha composto in sole 24 ore la sua tela lunga quasi 10 metri per 2, “Chiatta”, una sorta di arca di Noè con le immagini e gli oggetti più disparati, dallo svincolo autostradale a quadrifoglio alla partita di baseball, dallo scaffale  all’ombrello aperto, dal camion al traliccio, dal dipinto classico di nudo al solido geometrico,  tra striature di vernice sgocciolata.  Con l’altra sua opera esposta, Senza titolo”, compie nello stesso anno un diverso assemblaggio di immagini fotografiche, con bottiglie e figure, in un forte cromatismo, a differenza del precedente: è un impasto pittorico su elementi di metallo e plastica, di 2 metri di altezza per 1,20 di larghezza, con chiazze di intensi colori dal blu al rosso.

Radicalmente diverso Lichtenstein, con due opere anch’esse dissimili tra loro. In ordine cronologico viene prima “In”,  1962, lettere in caratteri cubitali gialli a rilievo su fondo cremisi, un olio su tela che per pochi centimetri non arriva ad 1,5 metri di altezza  per 2 di lunghezza. Stesse misure, ma a posizioni invertite, per “Grrrrrrrrrrr!!”, 1965, grugnito dell’animale in posizione frontale aggressiva e minacciosa; una tigre di carta, ci verrebbe di dire, un ironico innocuo bau bau.

Sono esposte anche le opere di due artisti che 35 anni dopo, alle soglie del 2000, fanno rivivere la “Pop Art”.  Sono Ruscha con Parking for Tower Rcds. Book Soup”, titolo sovrimpresso a una foto di montagna innevata, e Rosenquist con “Il nuotatore nell’Econo-mist”, dipinto  monumentale di 4 metri per 6 che occupa la parete di fondo della 4^ sala espositiva: superfici e punte inossidabili con un inquietante rosso violento sparso, quasi l’apertura di un vaso di Pandora.

Siamo nel 1997-99, i temi da Pop Art riaffiorano dopo le altre tendenze affermatesi nella variegata avanguardia americana. Ad esse sono dedicate le ultime 3 sezioni della mostra, Minimalismo e Post minimalismo, Concettualismo e Fotorealismo. Ne parleremo prossimamente.

Info

Catalogo della mostra: “Il Guggenheim, l’Avanguardia americana 1945-1980”,  a cura di Lauren Hinkson, Ed. Guggenheim, Palazzo Esposizioni, Skirà, 2012, pp. 140, formato 28×30 cm; dal Catalogo sono tartte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il 22 novembre, il terzo e ultimo uscirà l’11 dicembre 2012.  Le illustrazioni del presente articolo riguardano opere di espressionismo astratto, hard edge e pop art; immagini di queste tendenze, e delle altre descritte nel terzo e ultimo articolo,  sono state inserite nel primo articolo nel quale si descrive la genesi della prestigiosa istituzione e si fa un excursus completo delle principali  correnti artistiche nell’Avanguardia americana.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Palazzo delle Esposizioni alla presentazione, si ringrazia l’Ufficio stampa del Palaexpo, il Guggenheim con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.  In apertura, Frank Stella, “Harran II”, 1967, m 3,05×6,10; seguono, Jackson Pollock,“Grigiore  dell’oceano”, 1953, m 1,47×2,30, poi James Rosenquist, “Il nuotatore dell’Econo-mist (dipinto 3)”, 1997-98, m 4,01×6,10; in chiusura, Roy Lichtenstein, “Grrrrrrrrrrr!!”, 1965, m 1,73×1,42.

Roy Lichtenstein, “Grrrrrrrrrrr!!”,1965