di Romano Maria Levante
Si conclude, a un anno dall’apertura, la nostra rievocazione della visita alla grande mostra “Tintoretto” , svoltasi alle Scuderie del Quirinale dal 25 febbraio al 10 giugno 2012, con esposti 50 quadri, di cui 35 dell’artista i cui tratti salienti sono riassunti in tre parole: teatralità, gigantismo, arditezza. Il “clou” sono le opere su temi sacri, dipinti di dimensioni notevoli con un’impostazione teatrale negli spazi e nelle architetture, resa mediante drammaticità e realismo compositivo, scorci arditi, effetti di luce. Dopo aver tratteggiato la sua figura e averne descritto la ritrattistica e le opere profane, ci immergiamo nel cuore della sua attività artistica, le grandi pitture sacre.
“Miracolo dello schiavo”, 1547-48
La mostra inquadrava la sua opera nella Venezia del tempo, “crocevia di genti, lingue, idee”, capitale di uno stato piccolo ma al centro di traffici di merci pregiate, sede di industrie e con un grande prestigio. In questa Venezia aveva un ruolo di spicco il suo carattere libero e ribelle, la sua arte spettacolare e insieme penetrante, innovativa rispetto allo stile tizianesco e al mero manierismo.
Il primo “colpo di teatro” lo dava, all’inizio della visita, la grande tela che impresse il più forte impulso alla sua vita artistica, il “Miracolo dello schiavo”, 1547-48, di circa 4 metri per 5,50. L’irruzione dall’alto della figura di San Marco che salva dalla morte lo schiavo a lui devoto sottoposto al supplizio è di un realismo onomatopeico, se ne avverte quasi il rombo di tuono, la scenografia è monumentale e drammatica, la luce ne marca con i suoi guizzi i diversi momenti.
Qui inizia la nostra rassegna delle pitture sacre di Tintoretto nella ricerca concreta degli elementi caratteristici che abbiamo sottolineato nel presentare “il più terribile cervello che abbia mai avuto la pittura”. Dopo i pittori veneti si ispirò a Parmigianino e Michelangelo, Raffaello e Giulio Romano, ma con uno stile del tutto personale che lo allontanò dal Tiziano imperante e dal manierismo puro.
Prima dell’opera appena citata ne abbiamo una giovanile, “La disputa di Gesù con i dottori nel tempio di Gerusalemme”, 1540-41, non meno straordinaria, e non solo perché aveva 22 anni ma per la composizione su molti piani prospettici, quasi in un imbuto spaziale dove gli imponenti primi piani laterali che fanno da quinta sono di figure secondarie mentre la figura principale, Gesù, è in un piano lontano sia pure al centro, tra colonne e pulpiti, in una scenografia fantasmagorica.
Ma fu il “Miracolo dello schiavo” a lanciarlo verso le grandi commissioni; fino ad allora aveva prodotto soprattutto dipinti ornamentali minori, di cui erano esposti in mostra due “ottagoni” pregevoli. Gli anni ’50 del 1500 lo vedono impegnato sui temi sacri, come “Sant’Agostino risana gli sciancati”, 1549-50, e “La creazione degli animali”,1550-53: nel primo la luce sembra portare in alto il santo e il Padreterno su campi lunghi per la profondità e l’altezza, nel secondo vi sono livelli scenici successivi con figure michelangiolesche in primo piano.
Poi nel 1553-55 due opere: “Il viaggio di sant’Orsola”, a differenza degli altri di forma alta e stretta, con la santa librata in cielo e il corteo delle vergini vestite in un opulento sfarzo orientale, disposte in file che vanno verso l’osservatore discese dalle lontane navi alla fonda, è cinema da mille e una notte più che teatro; e “San Giorgio uccide il drago”, anche qui effetti di luce e il primo piano della fanciulla salvata che corre verso l’osservatore, mentre il santo a cavallo in lotta con la fiera è in secondo piano in uno scenario fiabesco, una reiterazione della brillante idea compositiva che inverte la posizione dei soggetti.
“La disputa di Gesù con i dottori nel tempio di Gerusalemme”, 1540-41
I dipinti per le Scuole Grandi, Piccole e Devozionali
Sia pure a distanza di 14 anni dall’exploit del “Miracolo dello schiavo”, nel 1562 arriva la commissione di un medico mecenate per una delle “Scuole Grandi” – che avevano funzione assistenziale e politica in termini di potere finanziario dei confratelli benestanti – quella di San Marco: i risultato è la grande tela del “Trafugamento del corpo di san Marco”, dove colpisce la straordinaria scenografia architettonica, quasi un fondale teatrale con tanti livelli prospettici e un primo piano in cui il corpo nudo del santo e chi lo sostiene per le gambe sono rischiarati dalla luce.
Ad una “Scuola Grande” era dedicata un’apposita sezione, tanto che Melaina Mazzucco chiama “l’avventura della scuola di San Rocco” un episodio singolare ma espressivo della sua personalità: quando la scuola chiese a 4 pittori – Tintoretto, Paolo Veronese, Zuccari, Salviati – un bozzetto per l’ovato del soffitto nella sala dell’Albergo, lui presentò a sorpresa il dipinto ultimato esprimendo l’intenzione di donarlo alla scuola, facendo così annullare il concorso; ebbe poi altre committenze.
Di queste, svoltesi tra il 1565 e il 1567 per una sala con il ciclo della Passione e tra il 1575 e il 1588 per altre sale, erano esposte due grandi tele, restaurate per l’occasione, di dimensioni inconsuete, alte più di 4 metri e larghe poco più di 2 metri dipinte nell’ultima fase, il 1582-83, che la Mazzucco definisce “uno dei frutti estremi, il più intimo e lirico di questa monumentale impresa” nella quale, conclude, “ha consegnato il suo capolavoro d’artista”. Sono “La Vergine Maria in meditazione” e “La Vergine Maria in lettura”, gemelle anche come cromatismo e composizione: ambiente naturale scuro con alti alberi e prospettiva, la Vergine è una piccola figura in entrambe le tele, scolpita dalla luce come i contorni delle piante e alcuni particolari del paesaggio con un lirismo riposto e sommesso, per cui l’immersione nella natura sembra proteggere il raccoglimento.
Ma se le “Scuole Grandi” erano le più ambite per l’importanza della committenza, fu molto attivo anche con le “Scuole Piccole”: a Venezia erano cento, formate dai membri di arti e mestieri – tintori e acquaioli, sarti e tessitori – che mettevano a concorso la pala d’altare della loro chiesa. Tra i suoi dipinti per loro la “Benedizione dell’agnello pasquale” e la “Comunione di san Pietro”.
Anche le “Scuole devozionali del Santissimo Sacramento” commissionavano dipinti, in particolare “Ultime cene” per far rivivere il momento eucaristico. Tintoretto fece una diecina di Cenacoli, tra il 1547 e il 1592, dei quali ne erano esposti due di grandi dimensioni, oltre due metri di altezza per 4-5 di larghezza, del periodo intermedio, a distanza di circa dieci anni. L’“Ultima Cena” per la chiesa di san Trovaso è del 1561-62, quella per la chiesa di san Polo è del 1574-75. Nel primo la mensa a forma di losanga è al centro della sacra rappresentazione dello sconcerto degli apostoli espresso nel dinamismo delle posizioni dei loro corpi, che però restano ancorati ai posti intorno alla tavola con al centro Cristo la cui figura è incorniciata dalla luce e da una fuga di colonne, il solo elemento composto in un ambiente in cui anche gli oggetti sono investiti dalla concitazione. Il secondo dipinto, al dinamismo delle posizioni sostituisce il convulso protendersi delle figure, con il Cristo tutt’altro che composto: apre le braccia prefigurando la croce mentre gli altri si affollano in piedi in una scena altamente drammatica dove ci sono anche la carità al povero, il paesaggio e l’architettura; è sconvolgente la raffigurazione in un cromatismo intenso con sciabolate di luce.
“Incoronazione della Vergine o Paradiso”, 1564 con modifiche 1582
Le pitture votive e il culmine spirituale: il Paradiso e Cristo nel sepolcro
Continuò a dipingere per la Scuole Piccole e Devozionali con un linguaggio semplice e un forte realismo per avvicinarsi alla sensibilità della gente comune anche dopo aver avuto le importanti committenze della Scuola Grande di San Rocco ed essere divenuto pittore della Repubblica veneta, ritrattista del Doge, impegnato nei grandi dipinti con eventi storici e opere votive per Palazzo Ducale, sede del Doge e del Governo e per i palazzi dei Ministeri, in particolare il Palazzo dei Camerlenghi, nei quali venivano inseriti anche personaggi del momento.
Ci sono i “camerlenghi”, cioè tesorieri, raffigurati mentre venerano la Madonna con Bambino e dei santi, nella “Madonna dei Tesorieri”, 1566-67, un esempio di pittura votiva e insieme celebrativa del potere. I tre tesorieri sono visti come una reincarnazione dei Magi, recano un sacco gonfio, forse di monete d’oro; diversamente dalla natività la Madonna ha un Bambino cresciuto in braccio, a fianco san Sebastiano trafitto, san Teodoro in armatura e san Marco in tunica rosa, come nel “Miracolo dello schiavo”; la luce dipinge i contorni e rischiara l’ambiente e lo sfondo in modo suggestivo.
L’opera a cui teneva tanto, per la Sala del Maggior Consiglio, era “L’incoronazione della Vergine o Paradiso”: al concorso del 1582 gli era stato preferito Paolo Veronese, che però morì nel 1588. Fu richiamato, ma per la tarda età il grande dipinto venne consegnato dal figlio Domenico, con notevoli differenze rispetto all’idea originaria, avendo eliminato ciò che non si adattava più a un ambiente modificato e ciò che non era stato accettato. In mostra era esposto non questo dipinto, ma quello del 1564, di cui nella presentazione dell’artista abbiamo rievocato la storia, con i ritocchi e le modifiche del 1582; non è un bozzetto, misura m 1,70 di altezza per 3,60 di larghezza: Si resta senza fiato dinanzi a una composizione e una forma espressiva diverse da tutte le altre sue e di qualunque artista. Non ci sono primi e secondi piani, l’effetto prospettico è superato da una dimensione arcana con le figure immerse in un moto avvolgente che sembra elevarle da un livello all’altro nei cerchi ascendenti di un empireo dantesco fino alla dissolvenza verso un qualcosa che risucchia in alto, sempre più in alto. L’artista riesce a evocare la magica fascinazione del Paradiso.
Termina il “flash back” sugli anni ruggenti del Tintoretto e le sue opere maggiori. Vi era un ultimo passaggio a conclusione della mostra. Nella sezione “il commiato” la “Deposizione di Cristo nel sepolcro”, un “compianto” struggente: siamo nel 1594, l’anno della morte, è una sacra rappresentazione in tre atti, momenti collegati da due diagonali che dal corpo di Cristo in primo piano rimandano alla Madonna con le pie donne in secondo piano, entrambi accomunati dalle braccia aperte, con le croci del Golgota nello sfondo lontano; c’è la figura di Giuseppe d’Arimatea in cui dei critici hanno visto l’autoritratto del Tintoretto, identificazione contestata da altri ma la cui ipotesi, almeno sotto il profilo simbolico, ci fa considerare il dipinto un vero testamento pittorico.
E’ proprio il commiato di un grande artista poliedrico, fortemente ancorato alla pittura religiosa nella quale ci ha dato delle “sacre rappresentazioni” nel significato stesso del termine. Per questo il titolo che dà Vittorio Sgarbi al proprio commento di presentazione della mostra da lui curata, “Tintoretto regista”, rende bene il senso della sua opera pittorica di impostazione teatrale.
Info
Catalogo: “Tintoretto”, a cura di Vittorio Sgarbi, Skirà, febbraio 2012, pp. 254, formato 24 x 28; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I primi due articoli sulla mostra sono usciti, in questo sito, il 25 e 28 febbraio u.s.
Foto
Le immagini, tutte dei dipinti di Tintoretto, sono state fornite cortesemente dall’Ufficio stampa delle Scuderie del Quirinale, che si ringrazia con gli organizzatori della mostra e i titolari dei diritti. In apertura, “Miracolo dello schiavo”, 1547-48; seguono “La disputa di Gesù con i dottori nel tempio di Gerusalemme”, 1540-41, e “Incoronazione della Vergine o Paradiso”, 1564 con modifiche 1582; in chiusura “Autoritratto”, 1588-89.
“Autoritratto”, 1588-8