D’Annunzio, 2. L’arte contro il potere, fino all’esilio in patria al Vittoriale

di Romano Maria Levante

Nel 150° anniversario della nascita di Gabriele d’Annunzio, avvenuta il 12 marzo 1863, ne ricordiamo la figura inimitabile seguendo il filo rosso dei rapporti tra arte e potere, evocati dalle mostre romane sui “Realismi socialisti” e “Deineka”. Abbiamo già parlato dell’artista superuomo nell’umiltà, con la gente che “s’ingigantiva” in lui; quindi del suo carisma, per la forza trascinatrice del pensiero e della parola, attraverso la sua partecipazione attiva alla prima guerra mondiale e l’impresa di Fiume; infine dell’artista osservato speciale, l’ispirazione e l’azione sotto gli occhi del potere. Dopo i suoi primi accenni alla pacificazione davanti alle vittime negli scontri fratricidi a Fiume, si passa al suo disegno per l’Italia ispirato alla pacificazione nazionale. Ne parliamo adesso, anche nei suoi rapporti con Benito Mussolini, fino all’esilio dorato al Vittoriale sul Lago di Garda.

In divisa da generale di aviazione con il pugnale dei Legionari fiumani

Conclusa la prova di Fiume, il vero confronto tra arte e potere si ebbe nei riguardi del movimento fascista, non ancora entrato nelle istituzioni, ma sempre più minaccioso, aggressivo e impaziente.

Il confronto tra artista e potere emergente: il disegno di pacificazione nazionale

D’Annunzio, che si trovava a Milano per motivi editoriali presso l’albergo Cavour, il 3 agosto ‘22 fu chiamato perché parlasse dal balcone di Palazzo Marino dai fascisti che avevano occupato il Municipio nella mobilitazione contro lo sciopero generale; Finzi e Teruzzi, racconta Umberto Foscanelli, lo convinsero dicendo: “Non siamo noi che vi reclamiamo, ma il popolo milanese, Comandante”. Tenne il discorso “Agli uomini milanesi per l’Italia degli italiani”: “O fratelli, siete l’unanimità del fervore innumerevole; siete la concordia del consenso innumerevole. Mentre la passione di parte tuttavia arde, mentre tuttavia fumano le arsioni e sanguinano le ferite, mentre il volto della Patria è tuttavia velato, noi qui invochiamo la pace e onoriamo la bontà. Sento fremere intorno a me la giovinezza generosa che tende la mano aperta non più in atto di sfida ma in atto di promessa, non più in atto di minaccia ma in atto di protezione. Quando mai, nel travaglio del mondo, la bontà ebbe forza e pregio come in questa nostra vigilia tormentosa e turbinosa?” E ancora: “La bontà ha le sue faville, e tutte le faville secondano la fiamma grande. Vedo in voi sfavillare la bontà efficace e militante, la bontà affermatrice e creatrice, la bontà dei lottatori e dei costruttori: la bontà vittoriosa”. “La folla – si legge nel “Libro ascetico” – dopo un grido confuso e prolungato… erompe in acclamazioni senza fine. Tutte le bandiere e tutti i gagliardetti si agitano”.

Sono bandiere e gagliardetti fascisti trascinati verso un itinerario di “bontà vittoriosa” che non era solo un messaggio spirituale da artista sognatore, quanto un disegno lungimirante di pacificazione nazionale inserito in un progetto politico non inerte e imbelle, dato che pensava di realizzarlo con la spinta di un’adunanza di ex-combattenti di ogni parte politica: “Essi imporranno al Paese – diceva – la loro volontà di unione e di pace. Dove? Quando? Fra due mesi, forse. Vi saranno migliaia di bandiere. Tenetevi pronti. E poi? Un governo provvisorio, la fine della guerra civile, le elezioni in un regime di libertà. ‘Sine strage vici'”. Per questo disegno tesseva una trama complessa della quale citiamo due aspetti in cui spicca l’impronta dell’artista insieme alla strategia del politico.

Il primo aspetto sono riguarda gli obiettivi, così definiti da Paolo Alatri: “Ciò a cui D’Annunzio mirava era di porsi come pacificatore al di fuori della mischia, che in quel periodo, con l’offensiva squadristica, era feroce… quest’opera di pacificazione implicava il coinvolgimento del mondo del lavoro e delle sinistre, quindi una presa di contatto con i loro rappresentanti, il che spiega i colloqui dell’aprile-maggio ’22 [con gli esponenti della Confederazione generale del lavoro, Valdesi in aprile e D’Aragona in maggio] e, subito dopo, la protezione accordata alla Federazione italiana lavoratori del mare di Giulietti”; e, forse, spiega anche l’incontro del 27-28 maggio dello stesso anno con Cicerin, il Commissario agli esteri della Russia, che dopo il colloquio disse: “Fui sorpreso di trovare in D’Annunzio un sentimento vivo di simpatia per le lotte sociali degli oppressi”.

L’altro aspetto riguarda i modi con cui intendeva attuare questo disegno, e basta riportare quanto scrive Foscanelli: “Il rifugio di D’Annunzio a Cargnacco era diventato una specie di tempio delfico cui si accostavano tutti coloro che sentivano come il fascismo si facesse ogni giorno più forte e aggressivo”. Sembra addirittura che, prendendo atto della situazione, lo stesso Mussolini lo sollecitasse a un impegno politico diretto. Lui accoglie soltanto l’invito che veniva da Nitti per promuovere l'”unione delle forze più sane” della democrazia, del socialismo, del fascismo nella linea della pacificazione nazionale, antitetica alla linea perseguita dal fascismo: “Tu vedi il pericolo e tu puoi agire sulla gioventù, infiammarla e riportarla sul buon sentiero”, gli scriveva Nitti proponendo un “programma di salvezza per l’Italia” e superando il risentimento per le vicende di Fiume dove il Comandante gli aveva rifilato l’epiteto dispregiativo di “Cagoja”.

Con Cicerin, Commissario agli Affari Esteri della Russia, in visita al Vittoriale, maggio 1922 

Un primo successo del potere: il progetto di pacificazione è neutralizzato

Ora la parola passa alla dura logica dei fatti, a una realtà che sconvolge tutti i programmi. Mussolini mostrò di aderire al progetto di pacificazione, presumibilmente per controllarlo e cercare di vanificarlo come aveva fatto con l’impresa di Fiume, chiedendo solo che prima dell’intesa a tre si incontrassero Nitti e D’Annunzio. Questo incontro, fissato per il 15 agosto ‘22, non ci fu mai. Mentre Nitti stava partendo per l’appuntamento con un salvacondotto di Mussolini a protezione dalle violenze squadriste, alle ore 23 del giorno 13, praticamente la vigilia di ferragosto, ecco il “deus ex machina”: la misteriosa caduta dalla finestra che tenne D’Annunzio per molti giorni tra la vita e la morte per le ferite alla testa, descritte poi in modo romanzato nel “Libro segreto”.

Non ci soffermiamo sulle versioni e le ipotesi fiorite intorno a questo giallo, dalla caduta accidentale al gioco erotico alla baruffa per questioni di gelosia; e neppure sulle conclusioni – “casualità” senza escludere il “fatto colposo” – dell’indagine del Commissario Dosi, spacciatosi da pittore di farfalle e paesaggi per entrare al Vittoriale e gratificato dell’appellativo di “lurido sbirro” appena la sua identità fu scoperta. Nino Valeri si è chiesto: “Fu un gioco del caso? Ancor oggi gli elementi non ci consentono di dar corpo alle ombre accumulatesi sul fosco episodio”. E questo per la cronaca può bastare.

Dal nostro angolo di visuale ci interessano le parole, riportate nel “Libro ascetico”, che l’artista scrive nel “Commento meditato a un discorso improvviso”: “C’è chi tuttora allude, presso il mio letto… non già a una mia caduta mistica di arcangelo esiliato o d’angelo mutilato ma a non so qual mia caduta d’uomo”, che più avanti definisce causata “da non so che tradimento o da non so che provvidenza”; e le parole scritte nel “Diario della volontà delirante e della memoria preveggente”: “Veramente io sono stato precipitato dalla rupe tarpea. E la lupa capitolina non ha forzato le sbarre della sua gabbia, né Marco Aurelio è disceso dal suo cavallo e dal suo piedistallo”. Alla data del 20 agosto descrive la sua caduta così: “Non sono caduto come un arcangelo folle né come un angelo stanco. L’Italia m’ha gettato dalla rupe tarpea, m’ha precipitato dal monte della cieca giustizia”, frase riferita anche da Tom Antongini che la sentì pronunziata da lui “nei primissimi giorni della convalescenza presenti almeno una ventina di persone”.

Fatto si è che per la conquista del potere da parte del fascismo la neutralizzazione dell’artista che ne stava sconvolgendo le mire, e quindi il sabotaggio al suo disegno, fu provvidenziale. Tre giorni prima, il 10 agosto, c’era stata la drammatica denuncia di Treves alla Camera: “Il fascismo vuole il potere, tutto il potere. Mentre dice che non ha ancora risoluto l’equivoco, se esso è totalitario o insurrezionale, l’insurrezione è vittoriosa. Può darsi che oggi o domani si decida a violare le porte del Parlamento come ha violato quelle dei Municipi”. Quasi a volergli rispondere, in un’intervista pubblicata l’11 agosto sul “Mattino” di Napoli, Mussolini definì un’eventuale “marcia su Roma… non ancora, politicamente, inevitabile e fatale… Che il fascismo voglia diventare ‘Stato’ è certissimo, ma non è altrettanto certo che per raggiungere tale obiettivo si imponga il colpo di Stato. Bisogna però noverare questa tra le possibili eventualità di domani”.

E il domani, anzi il dopodomani essendo il 13 agosto, dopo la richiesta al Governo del Comitato centrale del partito fascista di sciogliere le Camere per convocare le elezioni, Mussolini dichiara: “Per diventare Stato noi abbiamo due mezzi: il mezzo legale delle elezioni e il mezzo extralegale della insurrezione. Bisogna ponderare prima di prendere una decisione e questa decisione non potrà essere presa che tenendo conto di molti fattori di ordine pratico, politico, ed anche degli imponderabili. Il momento è molto delicato, e occorre pensare bene a tutte le evenienze”.

Nella tarda serata dello stesso giorno si verificò l'”imponderabile”, l'”evenienza” della caduta dalla finestra che impedì l’incontro di D’Annunzio con Nitti bloccando il disegno di pacificazione nazionale e di unione delle forze sane sotto la guida dell’artista. Nino D’Aroma scrive che D’Annunzio aveva confidato a lui, parecchio tempo dopo, che in quel fatale agosto ’22 Mussolini gli aveva proposto di “capeggiare tutte le forze nazionali e di dare insieme vita e sostegno a un governo nuovo che raccogliesse tutte le correnti politiche di buona volontà”; e che lo stesso Mussolini aveva rivelato, sempre a lui, incontrandolo a Piazza Venezia all’indomani della morte di D’Annunzio, che prima dell’estate ’22 gli aveva detto: “Noi siamo fortissimi oggi, ebbene andiamo al governo con i socialisti più comprensivi e, con le leve del potere, imporremo sicuramente, in quarantott’ore, la pace a tutti, rinnovando con adeguate riforme le vacillanti e tarlate strutture dello Stato. Voi dovreste prendere la Presidenza e l’iniziativa, noi vi seguiremo, assistiti questa volta da una nostra forza immensa pronta a tutto!”.

Con Mussolini nella visita del maggio 1925, con loro l’on. Alessandro Chiavolini e, al balcone, Luisa Baccara

La vittoria definitiva del potere: la pax romana della Marcia su Roma

Una pace siffatta, imposta “in quarantott’ore”, non può essere che una “pax romana”, il contrario della pacificazione perseguita da D’Annunzio, imperniata sulla fraternità; e simile invece a quella evocata da Mussolini rivolgendosi ai fascisti il 24 agosto ’22, con l’artista ancora in gravi condizioni: “Il momento per noi è propizio anzi direi fortunato. Se il governo sarà intelligente ci darà il potere pacificamente; se non sarà intelligente lo prenderemo con la forza. Dobbiamo marciare su Roma per toglierlo ai politici imbelli ed inetti”.

Pur con questi precisi intendimenti la strategia dei fascisti resta accorta e attendista, cerca di prendere tempo e di controllare le mosse degli altri due protagonisti: il barone Avezzana in una lettera a Nitti del 26 settembre conferma la disponibilità di Mussolini ad un incontro a tre, sempre dopo un preventivo colloquio di Nitti con D’Annunzio, già d’accordo, anzi assicura una scorta per proteggere il viaggio del primo dalle violenze squadriste; il 14 ottobre Schiff Giorgini scrive a Nitti che Mussolini, alla presenza di Tom Antongini in rappresentanza di D’Annunzio, ha precisato che gli incontri fra loro tre si sarebbero potuti tenere tra il 25 e il 30 ottobre dello stesso 1922.

Il 20 ottobre, però, Mussolini si esprimeva con queste parole incompatibili con quelle di una settimana prima: “O il fascismo si afferma e allora sarà un bene per il Paese. O non saremo capaci di affermarci e allora il pallone fascista sarà sgonfiato e il paese troverà un’altra via”. Un’alternativa che Roberto Farinacci traduce in termini di emergenza: “Dunque, bisogna far presto, bisogna cogliere l’attimo felice perché questo stato di eccezionale favore del popolo italiano per il fascismo e di sfavore per il governo e per il regime non può durare a lungo”.

D’Annunzio con il gen. Italo Balbo al campo di aviazione di Desenzano nel 1927 

La rottura degli indugi da parte di Mussolini, trascorso qualche altro giorno, sembra fosse dovuta al timore che il carisma di D’Annunzio desse la spinta decisiva per una inarrestabile marcia su Roma quasi a ripetere quella su Fiume. L’evento avrebbe potuto verificarsi il 4 novembre, sull’onda del discorso celebrativo del quarto anniversario della vittoria che, con l’accordo del governo, l’Associazione dei mutilati alla cui testa c’era il grande mutilato Carlo Delcroix aveva chiesto all’artista di tenere nell’adunata di ex-combattenti che sarebbe culminata con la sfilata dei mutilati.

D’Annunzio, in  mezzo a pressioni da ogni parte, già il 25 ottobre, dopo quattro giorni dal solenne annuncio del 21 ottobre, aveva rinunciato  alla manifestazione per non essere strumentalizzato; la notizia della rinuncia fu diffusa il 27 ottobre, ma sin dall’adunata fascista a Napoli del 24 ottobre sembra che Mussolini avesse deciso di anticipare la Marcia su Roma per prevenire la temuta iniziativa dannunziana del 4 novembre, e la rinunzia non cambiò il programma. Oreste Cimoroni  fu molto esplicito: “I fascisti saputo ciò che si svolgeva attorno a Gardone, chiusero bruscamente il congresso di Napoli e precipitarono la Marcia su Roma. Cadeva così il Ministero Facta e Mussolini assumeva il potere”.

D’Annunzio fu avvertito a cose fatte soltanto il 28 ottobre, sebbene la marcia fosse iniziata il giorno prima in Emilia e Lombardia, Toscana e Umbria, con un messaggio perentorio di Mussolini, in palese contrasto con quanto era intercorso nei colloqui per combinare l’incontro a tre all’insegna della pacificazione nazionale e dell’unione delle forze sane: “I giornali e il latore vi diranno tutto. Abbiamo dovuto mobilitare le nostre forze per troncare una situazione ‘miserabile’: Siamo padroni di gran parte d’Italia, completamente e in altre parti abbiamo occupato i nervi essenziali della nazione”. Poi le espressioni ultimative: “Non vi chiedo di schierarvi al nostro fianco – il che ci gioverebbe infinitamente: ma siamo sicuri che non vi metterete contro questa meravigliosa gioventù che si batte per la ‘vostra’ e nostra Italia. Leggete il proclama! In un secondo tempo, Voi avrete certamente una grande parola da dire”.

Con Mussolini nell’ultima visita del novembre 1932 

Il prezzo della vittoria del potere sull’arte: il regime, l’esilio al Vittoriale

D’Annunzio rispose lo stesso giorno, insistendo sul disegno di pacificazione che gli sembrava soltanto interrotto: “E’ necessario radunare tutte le forze sincere… Dalla pazienza maschia e non dall’impazienza irrequieta, a noi verrà la salute. I messaggeri vi riferiranno i miei pensieri e i miei propositi, immuni da ogni ombra e da ogni macchia”. Una rassicurazione, seguita da una presa di distanza: “Il Re sa che io sono tuttavia il più devoto e il più volenteroso combattente d’Italia. Rimanga egli tuttavia levato contro le sorti avverse, che debbono essere affrontate e superate. La vittoria ha gli occhi chiari di Pallade. Non la bendate. ‘Sine strage vincit – Strepitu sine ullo'”.

Torna a farsi sentire l’artista, e il 1° dicembre ‘22 scrive che “dopo otto anni di azione dura” è “ripreso da un glorioso amore delle belle idee e della mia arte”.Il suo “sono pronto a dare l’opera mia, il mio colpo di spalla risoluto e robusto” va riferito sempre al suo disegno, ben diverso da quello del fascismo: “Prima di ritirarmi vorrei offrire alla Patria l’unione vasta e divota di ‘tutti i lavoratori'”. E richiamava Mussolini al mantenimento degli impegni di fraterna pacificazione (“iuratae foedus amicitiae”) assunti con il Patto marinaro, chiedendogli di liberarsi “dei consigli ‘avversi’, quasi tutti impuri” con una conclusione eloquente: “Io nulla chiedo, e nulla voglio per me. Intendi? Nulla. Se non potrai togliermi da questa tristezza e da questo disagio spirituale, con fraterna sollecitudine, io me ne andrò nuovamente in esilio, come nel 1912. Preferisco l’esilio allo strazio cotidiano. ‘Non veder, non udir…'”.

E andò effettivamente nell’esilio dorato nella  villa Cragnacco  posta in alto sul Lago di Garda,  che trasformò radicalmente portandovi i suoi cimeli e i suoi simboli, e creando il Vittoriale, che definì, sin dal 22 giugno 1923, scrivendo a Giuriati, “Italia degli Italiani più che qualunque altra terra”.

Il potere si era imposto, ma l’artista non si era arreso, aveva salvato i lari e i penati come Enea che lasciò Troia per una nuova sfida su un campo ancora più vasto. All’inizio dell’“Atto di donazione al popolo italiano” si legge: “Prendo possesso di questa terra votiva che m’è data in sorte, e qui pongo i segni che recai meco, le mute potenze che qui mi condussero”.  Nella “Premessa”  scrive: “Già vano celebratore di palagi insigni e di ville sontuose, io son venuto a chiudere la mia tristezza e il mio silenzio in questa vecchia casa colonica, non tanto per umiliarmi, quanto per porre a più difficile prova la mia virtù di creazione e di trasfigurazione. Tutto, infatti, è qui da me creato e trasfigurato”.  Parla anche di “rivelazione spirituale” e di “testimonianza di dritta e invitta fede”, perché c’è un altro “potere” con cui si confronterà sempre di più, ne parleremo prossimamente. 

Info

L’analisi molto accurata e documentata da citazioni e testimonianze d’epoca è contenuta nel libro inchiesta di  Romano M. Levante, “D’Annunzio l’uomo del Vittoriale”, Andromeda Editrice, Colledara (Te), 1998, pp.530, in particolare la parte seconda, “Il personaggio”, pp. 119-293, e la parte prima su “L’ambiente”, il Vittoriale, pp. 15-118;  la parte terza è su “Il mistero”, la religiosità, pp. 293-470.  Seguono le “lettere inedite” in facsimile d’autografo, pp. 472-514 e Bibliografia più Indice dei nomi, pp. 515-527. Ciascuna delle tre parti  del libro inizia con la testimonianza, prosegue con l’approfondimento, si conclude con il colloquio di riscontro; in  ognuna c’è un ampio corredo di immagini.Il primo dei sei articoli del nostro servizio è uscito, in questo sito, il 12 marzo, con 6 immagini, gli altri  quattro articoli usciranno il 16, 18, 20, 22 marzo 2013, con altre 6 immagini ciascuno. Cfr., inoltre,  l’intervista di Anna Manna a Romano Maria Levante, l’11 marzo 2013, in http://www.100newslibri.it/, dal titolo “Gabriele d’Annunzio, il poeta della perenne inquietudine. A 150 anni dalla nascita”. 

Foto 

Le immagini sono foto d’epoca riprese dal volume sopracitato dell’autore (pp. 284-289) che le ebbe dalla Presidenza della Fondazione “Il Vittoriale degli italiani”, cui si rinnovano i ringraziamenti. In apertura, In divisa da generale di aviazione con il pugnale dei Legionari fiumani;seguono,  Visita a D’Annunzio di Cicerin, Commissario agli Affari Esteri della Russia nel maggio 1922 al Vittoriale e Con Mussolini durante la visita a d’Annunzio nel maggio 1925, insieme a loro l’on. Alessandro Chiavolini e, al balcone, Luisa Baccara; poi, Con il gen. Italo Balbo al campo di aviazione di Desenzano nel 1927 e Con Mussolini nell’ultima visita del novembre 1932; in chiusura, Sul MAS-96 nel 1925.

Il Comandante sul MAS-96 nel 1925