D’Annunzio, 3. Il potere politico e il potere religioso contro il Vate

Romano Maria Levante

Prosegue la rievocazione di Gabriele d’Annunzio, nel 150° anniversario della nascita,  ripercorrendone la vita nei rapporti tra arte e potere. Dopo averne ricordato a figura eroica e insieme umile nel crogiuolo della prima guerra mondiale e di Fiume con il suo carisma e la forza trascinatrice del pensiero e della parola, abbiamo parlato  del disegno politico, nato dalla sua mente di artista, di pacificazione nazionale, neutralizzato con la “pax romana” imposta dalla marcia su Roma. Il prezzo della vittoria del potere fu il regime e l’esilio al Vittoriale. Accenniamo agli ultimi aspri confronti con il potere politico fino all’altro intrigante rapporto dell’artista con un potere penetrante dal duplice aspetto: il potere religioso legato all’alta gerarchia ecclesiastica e il potere spirituale..

D’Annunzio notturno al Vittoriale

Al Vittoriale D’Annunzio è solo con se stesso e i suoi fedeli, i Legionari fiumani tra i primi. Ormai è rimasto soltanto l’artista che volta le spalle al potere. Fino all’ultima sfida, dopo le espressioni irridenti contenute nella lettera di Mussolini dell’inizio del ‘23 in una fase in cui continuava a lottare per la gente del mare: “Attendo i tuoi libri e ti ricordo che gli italiani attendono da te la poesia”, alla quale rispose tra l’altro: “Nessuno può influire… sopra la minima delle mie opinioni e delle mie risoluzioni. Fin dalla nascita io sono il solo conduttore di me stesso”. L’aspro contrasto culmina nella dura lettera del 23 aprile ‘24: “Fui tratto in inganno, di frode in frode, d’ipocrisia in ipocrisia, per due anni, quasi. Fu simulata la ‘firma’ del Patto marino; e nessuna applicazione, nessuna conciliazione, nessuna pacificazione fu compiuta”. La conclusione è secca e sdegnata: “Basta. Rimani dall’altra parte. Io resto di qua. E tu sai – come il mondo intiero sa – che io ho nel mio cuore e nel mio cervello ‘ogni specie di coraggio’. M’avevi promesso la tregua… M’imponi la lotta. Ma tutto ricada su di te, anche il sangue”.

E’ il grido dell’artista che rifugge dai compromessi e dai sotterfugi della politica e si oppone al potere, armato solo del suo orgoglio e della sua volontà. Lo fa quando, dopo le elezioni dell’aprile ‘24, il fascismo dilaga dopo avergli dato ipocritamente, il 15 marzo, il titolo platonico di “Principe di Montenevoso”. In questo anno cruciale, che vede la sua Fiume annessa all’Italia, con il delitto Matteotti del mese di giugno il potere getta la maschera dando la spallata decisiva alle istituzioni in senso autoritario. D’Annunzio si ritira definitivamente nella “gabbia d’oro” del Vittoriale attuando il proposito espresso nell’orgogliosa lettera a Mussolini del 1° dicembre ’22: “Se non potrai togliermi da questa tristezza e da questo disagio spirituale, con fraterna sollecitudine, io me ne andrò nuovamente in esilio… Preferisco l’esilio allo strazio cotidiano. ‘Non veder, non udir…'”.

Il volontario esilio è vissuto con la sua arte e i suoi cimeli, che evocano le imprese e l’impegno patriottico, fin dall’inizio assoluto e rigoroso: “Io sono ridivenuto il solitario ed orgoglioso artista dell”11 e per fermo proposito non mi curo di sapere quel che accade fuori del Vittoriale. Scrivermi è inutile, venire alla mia porta è inutile”, risponderà il 2 settembre dello stesso anno al direttore della “Provincia di Brescia” per smentire la sua adesione a una “Lega italica antifascista”. Intendimento che ribadirà il 28 maggio ’25, a conclusione della visita di Mussolini in occasione della donazione del Vittoriale agli Italiani: “Nel Vittoriale un uomo si è rinchiuso a riscolpire crudamente e pazientemente se stesso… Il motto ‘suis viribus pollens’ oggi deve essere resuscitato e rinnovellato. Aspettando questa concordia, ogni italiano deve rinnovellarsi e riscolpire se stesso. Io do l’esempio. Io ho strappato dalle mie caviglie le catene dell’azione e sono ritornato alla mia arte”. E il messaggio del ritorno definitivo all’arte la getta proprio in faccia al potere!

Nino D’Aroma commenta così: “Ora accadeva – e si può capirne l’amarezza – che il padre, il suggeritore autentico di quest’Italia vittoriosa dopo la Marcia, era costretto – non certo dagli uomini che lo amavano – ma dalla stessa essenza delle cose, a viverne lontano e separato, poiché una collocazione, nello Stato o nel nuovo regime che s’insediava, per D’Annunzio era assai difficile, per non dire impossibile”.

Quanto ciò gli costasse lo mostra la “tristezza color di cenere” delle sue giornate al Vittoriale, pur tra le spericolate corse nel lago sul MAS 96 della Beffa di Buccari, che Mussolini gli fece avere il 27 gennaio ‘25, seguito due mesi dopo dall’idrovolante. In una lettera del 16 febbraio ‘32 ad Alfredo Felici confidava di provare “la più cupa malinconia, che gli studi gravi o sottili non alleviano”, definendola così: “Questa forzata clausura è la più miserevole delle condizioni per un Italiano che fu l’interprete sommo della bellezza d’Italia”. Fino allo sfogo che ne svela la triste condizione di esiliato: “Perché non posso correre per una via piana, attraversare una città popolosa, entrare in una biblioteca o in una pinacoteca, sostare in meditazione o in estasi dinanzi alle opere che illustrai ed amai?”. Ricorda con nostalgia il profeta Giona e la Sibilla dèlfica nella Cappella Sistina, la “cornucopia simbolica” del console Flavio Aerobindo nel Duomo di Lucca, l’Annunciazione di Donatello a Siracusa, il pulpito di Giovanni Pisano in Sant’Andrea a Pistoia, Guidarello Guidarelli a Ravenna che “qui nell’angusto letto funebre del Lebbroso raffigura l’effigie della mia ultima pace”. Per rivederli, è la conclusione, “darei questo avanzo di vita solinga”.

L”arrivo  a Cargnacco

Arte e potere a confronto: la conclusione più amara

Così anche l’arte veniva mortificata nel confronto impari con il potere. Era stato emarginato brutalmente chi avrebbe potuto far valere ancora il suo carisma di artista con l’aggiunta dell’animo e della figura di soldato, un poeta-soldato dalla forza trascinatrice che faceva ombra al fascismo.

Forse in D’Annunzio si è consumata la possibilità che l’arte riesca a convivere serenamente con il potere nella sua espressione autoritaria; e in determinate condizioni possa essere chiamata a prenderne il posto per il bene della nazione. D’Annunzio, delineata la sua costruzione a Fiume nella Carta del Carnaro, iniziò a svilupparla sul piano politico ricercando l’unione delle forze sane e la pacificazione nazionale. Non si pensi alle costruzioni fantasiose della “Repubblica” di Platone, della “Città del sole” di Tommaso Campanella, di “Utopia” di Tommaso Moro; non si tratta di sogni e fantasie letterarie, bensì di un progetto lucido e concreto che avrebbe evitato al Paese la dittatura.

Così arte e potere a conclusione della vicenda politica dannunziana rimasero separati. Il potere aveva vinto. E non fu certo un bene, fu un danno per tutti.

Anche se con il senno del poi, e dando corpo a ipotesi precluse allo storico ma non al cronista, lo si può affermare con una certa consapevolezza e a ragion veduta. Perché la pacificazione nazionale con l’unione delle forze sane, proclamata e ricercata concretamente nell’intreccio dei contatti politici da D’Annunzio, avrebbe potuto sbarrare la strada al fascismo proprio nel fatale 1922. E avrebbe fatto il resto il suo feroce spirito antihitleriano, il totale disprezzo per Hitler definito fin dagli inizi “un ridicolo nibelungo truccato alla Charlot”, poi “despoto plebeo” e bersaglio di irrisioni tra il 1933 e il 1934: “Su l’acciaio dell’elmo ti gocciola il pennello d’imbianchino dai di bianco all’umano et al divino”.

E’ un disprezzo manifestato pubblicamente con espressioni quali “il marrano dall’ignobile faccia offuscata sotto gli indelebili schizzi della tinta di calce o di colla ond’egli aveva zuppo il pennello, o la pennellessa, in cima alla canna, o alla pertica, divenùtagli scettro di pagliaccio feroce non senza ciuffo prolungato alla radice del suo naso ‘nazi'” (lettera a Mussolini del 9 ottobre ‘33) e con epiteti come “Attila imbianchino” e “Attila della pennellessa” (telegramma ad Alfredo Felici e lettera a Riccardo Gigante dell’agosto ‘34). Questa profonda avversione lo avrebbe tenuto certamente mille miglia lontano dall’Asse Roma-Berlino del 24 ottobre ‘36, e successivamente dal Patto d’acciaio con la Germania hitleriana, per la quale sentiva la stessa avversione che verso il “Fuhrer”.

Con i membri del Comitato nazionale dell’Istituto nazionale per la pubblicazione di tutte le opere di Gabriele d’Annunzio nel 1936, a sin. Tommaso Monicelli

La prova regina è l’estremo tentativo che fece recandosi alla stazione di Verona il 30 settembre ‘37 per incontrare Mussolini di passaggio sul treno che lo riportava in Italia dopo i cinque giorni di colloqui con Hitler, iniziati il 25 a Monaco e conclusi a Berlino. Accolto freddamente dal Duce, “attaccò con voce ferma qualunque legame con la Germania”, ha scritto Maroni nella sua relazione; chissà se ricorse anche alle espressioni usate dopo il precedente incontro di Venezia del giugno ‘34, sempre tra Hitler e Mussolini, allorché, come ricorda Momigliano, “a Rizzo che gli chiedeva per conto di Mussolini quale fosse la sua impressione aveva risposto: ‘Mussolini dovrà ben lavarsi le mani prima che possa incontrarmi con lui, ma fortunatamente ben scarso è stato l’entusiasmo del popolo veneziano per quell’incontro, per evitare che il leone di San Marco dovesse arrossire'”.

Sebbene fosse malato, e morirà dopo appena cinque mesi il 1° marzo ’38, era andato a incontrare Mussolini impegnandosi strenuamente per dissuaderlo dall’alleanza con la Germania; nel fare ciò confidava nell’antico ascendente che aveva su di lui e nell’adesione data all’espansione coloniale con messaggi esaltanti, culminati nell’aprile ’37, cinque mesi prima dell’incontro a Verona, quando gli aveva scritto: “Il Vittoriale è tuo. Di qui si partirono verso di te le prime grandi profezie della tua grandezza e della tua gloria. Di qui si partirono le prime parole degne delle tue sorti. Non dimenticare quel che fu bello, e coraggioso e verace. Caro caro, sempre più caro compagno, a te raccomando ogni mio bene ideale”.

L’intervento in extremis su Mussolini fu l’ultimo atto politico nel confronto dell’artista con il potere, l’ultimo gesto generoso animato dal suo grande amor di patria. Nonostante gli si fosse riavvicinato il tentativo risultò vano, il Duce proseguì imperterrito per la sua strada che inesorabilmente doveva portare all’epilogo tragico: trascorso poco più di un mese dall’incontro, il 6 novembre, firma il “patto anticominform” con Germania e Giappone; dopo un altro mese, l’11 dicembre, l’Italia esce dalla Società delle nazioni; i rapporti con la Germania di Hitler si faranno sempre più stretti fino al Patto d’acciaio del 22 maggio ’39; poi la catastrofe della guerra, in una drammatica, inarrestabile sequenza.

La conclusione più amara del confronto tra arte e potere nella vicenda dannunziana è che il potere aveva prevalso anche questa volta. Altrimenti la storia del nostro paese forse avrebbe potuto avere un altro corso. Forse…

Con Tazio Nuvolari nella Piazzetta Dalmata

Il confronto con il potere religioso: 4 volte all’Indice

Furono ben quattro i decreti di condanna  che misero le sue opere nell’“Indice dei libri proibiti”, il primo dei quali, dell’8 maggio 1911, relativo a “Romanzi e Novelle e tutte le opere drammatiche e le poesie scelte”; severità inconsueta dato che  veniva condannata una sola opera (“Leila” per Fogazzaro), mentre ne rimanevano fuori il Decamerone e i sonetti del Belli,  Stecchetti e Carducci. Dopo 17 anni, il 27 giugno  ’28, alle opere vietate con il primo decreto furono aggiunte tutte quelle scritte successivamente, elencando “tragedie, commedie, misteri, romanzi, novelle, poesie”., ritenute “offensive  della fede e dei costumi”. Tracorrono 7 anni, e il 3 luglio ’35  viene inserito il “Libro segreto”, perché in esso “gareggia la sfrontatezza della immoralità con affermazioni di errori spesso empi e blasfemi”.  Fino alla condanna postuma  del “Solus ad solam”, comminata il 21 giugno ’39, più di un anno dopo la sua morte.

L’accanimento è evidente, dato che oltre alla condanna postuma ci fu quella preventiva del “Martirio di san Sebastiano”,  all’origine della prima condanna del 1911, pur se generalizzata; infatti  il divieto intervenne all’annuncio dell’opera il 2 febbraio e la condanna all’Indice 14 giorni prima della sua rappresentazione a Parigi avvenuta il 22 maggio. “Civiltà Cattolica” il 4 febbraio l’aveva definita  “insulto sanguinoso non solo alla coscienza morale, ma a quanto vi è di più delicato nella coscienza religiosa”, proclamandone il boicottaggio  con parole di fuoco: “Nessuna donna italiana assista a questa degradazione morale, camuffata di misticismo; e si vergogni, e esca col marchio della pubblica riprovazione colei, se pure vi sarà, che oserà intervenire”.

L’artista si difende come può dinanzi alla violenza del potere, questa volta religioso, usando la forza della parola. Con Debussy, autore della musica, dichiarò: “Quest’opera, profondamente religiosa, è la glorificazione lirica, non soltanto del meraviglioso atleta di Cristo, ma di tutto l’eroismo cristiano”. E aggiunse: “Ho voluto che neppure un particolare avesse ad offendere il più fedele cattolico… nessun a opera è più puramente mistica e più semplicemente ortodossa della mia… Ripeto, il mio ‘Mistero’ è percorso in ogni scena da un ardentissimo soffio di vita. Vi è continua la presenza invisibile di Cristo”. Fino allo sfogo sul periodico francese “Comoedia” : “E ora, proprio quando il mio spirito si volge al Cristianesimo, quando sto per realizzare il mio sogno, accarezzato per molti anni, di esprimere tutta la mia fede, ora si vieta il San Sebastiano”.

Non vogliamo dire che fosse giusto ritenerla degna dell’Imprimatur, come lui afferma citando l’approvazione di “un ecclesiastico”. Tra le luci e ombre che vengono evidenziate, Giuseppe Pecci pone in rilievo che  “la sensualità e la lussuria hanno una evidente prevalenza sullo spirito”, mentre il cattolico Eugenio Coselschi  scrive che “è un’opera di profondo senso e ritmo religioso” e vi trova “sublimi slanci di religiosità e spiritualità come l’appassionata invocazione a Cristo”.

Nella Piazzetta antistante il Vittoriale  ai piedi del palo Dalmata nel 1925 

Era l’inizio di una vera crociata che il 3 ottobre ‘27 si tradusse nell’ostracismo dell'”Ossevatore Romano” con l’articolo su “L’arte dannunziana e le nuove generazioni”, e la successiva messa all’Indice dopo l’“Istruzione contro la letteratura sensuale e sensuale-mistica” emanata dal cardinale Merry del Val, nella quale queste opere venivano definite “facili calici di veleno”.

D’Annunzio fu preso di mira direttamente con l’“Allocuzione” del Pontefice  ai predicatori della quaresima ed ai parroci di Roma del 20 febbraio ’28, quattro mesi prima della nuova messa all’Indice, che condannava “l’apoteosi libraria a un autore, del qual già tanti libri sono espressamente condannati dalla Chiesa, e tanti altri sono già condannati per sé stessi, ad un  autore che, è triste dirlo (tanto più triste quanto meno si possono negare i tanti doni che dalle mani di Dio gli furono concessi di ingegno, di fantasia, di fecondità creatrice) è passato per tante materie e tanti campi raramente non lasciando qualche brutta traccia di empietà, di blasfemia, di profanazione delle cose anche più sacre, forse in parte inconsapevole (giova sperarlo a diminuzione della sua responsabilità)  o di una sensualità spesso rivoltante”.

Non basta, la requisitoria è spietata: “E quando non è l’uno o l’altro di tal genere di cose, quando non si offende un a determinata categoria di moralità, scalza le basi della moralità stessa praticando quella – se tale può dirsi – dottrina di superumanità, di superomismo che lascia la moralità ai piccoli mortali, agli uomini comuni, per riservare ai superuomini di crearsela loro la moralità che risponda alla loro superumanità”.

Eppure cinque anni prima, il 7 febbraio ’23, il cardinal Gasparri, cui aveva  inviato una foto con dedica, gli aveva scritto che ricambiava “pregando il Signore che le sue annunziate ascensioni spirituali lo innalzino  dalle immagini del  bene e del bello fugace  alla pienezza del bene e del bello infinito ed eterno!”.  Piero Bargellini, scrittore cattolico di vite di santi, gli rende merito affermando: “Forse bisognerà dimenticare l’epiteto di poeta della lussuria, che non gli risponde a pieno. D’Annunzio si è valso della lussuria per una sorta di conoscenza e una sorta d’ascesi. Quel che per altri è piacere, per lui è sacrificio e conoscimento… ‘La carne, non è se non uno spirito devoto alla morte”. Tanto che la cita e la indaga nei suoi “libri erotici. E ha temuto la morte”.

Sono soltanto degli scampoli su temi molto vasti e profondi che richiederebbero di penetrare nel suo profilo interiore, dove si trova l’opposto di tante ingenerose e immeritate accuse: la bontà e l’umiltà, l’angoscia esistenziale, il timore della malattia e il senso della morte rispetto al superomismo al di là del bene e del male che gli viene superficialmente rinfacciato; l’intensa spiritualità, rispetto al materialismo della carne e della sensualità fine a se stessa espresse dalla vita libera e libertina.

Abbiamo voluto evocare lo scontro dell’artista con un potere diverso da quello politico, il potere religioso delle gerarchie ecclesiastiche, che dopo l’Indice dei libri proibiti cercarono invano di impedire la pubblicazione dell'”Opera Omnia” nelle edizioni popolari dell’ “Oleandro” nel 1930.

Quali le ferite rimaste e quelle risanate in chi è stato colpito d’incontro proprio quando –  ripetiamo le sue parole del 1911 – “il mio spirito si volge al Cristianesimo”?  Ne parleremo prossimamente.

Info

L’analisi molto accurata e documentata da citazioni e testimonianze d’epoca è contenuta nel libro inchiesta di Romano M. Levante, “D’Annunzio l’uomo del Vittoriale”, Andromeda Editrice, Colledara (Te), 1998, pp.530, in particolare la parte seconda, “Il personaggio”, pp. 119-293, e la parte terza, “Il mistero”, sulla religiosità, pp. 293-470; la parte prima è su “L’ambiente”, il Vittoriale, pp. 15-118;.  Seguono le “lettere inedite” in facsimile d’autografo, pp. 472-514 e Bibliografia più Indice dei nomi, pp. 515-527. Ciascuna delle tre parti inizia con la testimonianza, prosegue con l’approfondimento, si conclude con il colloquio di riscontro; in  ognuna c’è un ampio corredo di immagini.I primi due articoli, dei sei del servizio, sono usciti, in questo sito, il 12 e il 14 marzo , ciascuno con 6 immagini, i successivi tre articoli usciranno il 18, 20, 22 marzo 2013, con 6 immagini ciascuno. Cfr, .inoltre, l’ intervista di Anna Manna a Romano Maria Levante, in http://www.100.newslibri.it/,  l’11 marzo 1913, dal titolo “Gabriele d’Annunzio, il poeta della perenne inquietudine. A 150 anni dalla nascita”.

Foto 

Le immagini sono foto d’epoca riprese dal volume sopracitato dell’autore (pp. 272-280) che le ebbe dalla Presidenza della Fondazione “Il Vittoriale degli italiani”, cui si rinnovano i ringraziamenti. In apertura: D’Annunzio notturno al Vittoriale; seguono D’Annunzio nell’arrivo a Cargnacco e D’Annunzio con i membri del Comitato nazionale dell’Istituto nazionale per la pubblicazione di tutte le opere di Gabriele d’Annunzio nel 1936; poi, D’Annunzio con Tazio Nuvolari nella Piazzetta Dalmata, e D’Annunzio nlla Piazzetta antistante il Vittoriale  ai piedi del palo Dalmata nel 1925; in chiusura D’Annunzio con i suoi levrieri sulla terrazza del belvedere nei giardini del Vittoriale nel 1932.

Con i suoi levrieri sulla terrazza del belvedere nei giardini del Vittoriale nel 1932