Arte e potere, 1. Dispotico o illuminato

di Romano Maria Levante

Abbiamo parlato dei rapporti tra arte e potere, nelle sue varie forme – politico, religioso, spirituale –   con riferimento a Gabriele dAnnunzio nel 150° della nascita. Ora intendiamo approfondire il tema in termini generali, dopo le mostre romane di Aleksandr Deineka e dei “Realismi socialisti” al Palazzo Esposizioni, da noi commentate a suo tempo con sei ampi articoli, che ci hanno fatto conoscere la sottomissione dell’arte alla propaganda del regime; anche se in Deineka c’era un’esaltazione del lavoro e della persona come valori universali pur se dal forte contenuto ideologico. Prendendo lo spunto da queste mostre trattiamo i rapporti tra arte e potere, ricostruendo la loro convivenza nel tempo per capire se e come l’opera degli artisti ne è condizionata o addirittura  compromessa.

“Libro dei morti dello scriba Hunefer”, 2400 a. C.,  pittura

L’arte nella società

Il binomio arte e potere fa parte dell’intreccio di rapporti che caratterizzano le società in ogni latitudine. Tra loro vi sono interrelazioni che ne qualificano la convivenza nelle varie epoche e nei singoli paesi e si presentano in modo mutevole nel tempo e nello spazio. D’altra parte non potrebbe essere altrimenti, dato che l’arte è anche il prodotto delle situazioni sociali, economiche e politiche sulle quali il potere ha un’incidenza diretta oltre ad agire indirettamente sulle loro trasformazioni.

Ne parla Giulio Carlo Argan nel suo saggio del 1969, “La storia dell’arte”, considerato un vero e proprio manifesto del grande critico, pubblicato sul primo numero della rivista “Storia dell’arte” da lui fondata: “La nostra cultura ha sostituito il concetto di arte con la nozione dell’intera serie fenomenica dell’arte: esiste dunque un piano sul quale tutti i fenomeni che chiamiamo artistici debbono apparirci collegati tra loro da un fattore comune e formare un sistema”. Pertanto occorre valutare non “un tipo di opera ma un tipo di processo, un modo di mettersi in relazione. In altre parole il dinamismo o la dialettica interna di una situazione culturale nella quale l’opera… si lega ad un contesto… In ogni oggetto artistico si riconosce facilmente un sedimento di nozioni che l’artista ha in comune con la società di cui fa parte”.

Argan indica “una lunga lista di nessi culturali: d’influenza, di reazione, di combinazione, di tangenza, di filtrazione e via dicendo”, tale che “accanto a sorprendenti anticipazioni, vi siano inattesi recuperi da culture che tutto avrebbe fatto credere ormai tramontate. Evidentemente la cultura artistica non si sviluppa secondo il diagramma paradigmatico di altre discipline, per le quali è essenziale la continuità ascendente del progresso”. Viene spiegato inoltre che “nell’ambito della civiltà europea, classico-cristiana, l’arte ha certamente avuto uno sviluppo storico corrispondente alla struttura storicistica di quella civiltà stessa. Si è fatta l’arte con l’intenzione e la consapevolezza di fare arte e con la certezza di concorrere, facendo arte, a fare la civiltà o la storia. L’intenzionalità e la consapevolezza delle funzione storica dell’arte sono indubbiamente i fattori principali della relazione che si stabilisce tra i fatti artistici di uno stesso periodo, tra i successivi periodi, tra l’attività artistica in generale e le altre attività dello stesso sistema culturale”.

Da queste chiare enunciazioni si può avvertire immediatamente l’incidenza che ha il modo di esplicarsi del potere sul fenomeno artistico come processo, al di là di isolate manifestazioni individuali. Perché il potere agisce sulla civiltà, sulla storia, su quanto concorre a formare il sistema che ne è l’espressione, sui nessi culturali come sopra definiti, d’influenza, di reazione, di combinazione, di tangenza, di filtrazione. Di qui le anticipazioni favorite dalle aperture e i recuperi resi possibili dall’allentarsi di vincoli preesistenti che il potere può aver costituito. E anche il fecondo contributo dell’arte alla civiltà e alla storia in un rapporto intenzionale e consapevole.

Quando si parla di potere ci si deve riferire a un’accezione ampia del termine, comprendendovi il potere delle forze economiche e delle aggregazioni sociali in grado di orientare le spinte culturali in un verso o nell’altro e quindi di influenzare indirettamente la produzione artistica. Ma ancora di più si deve prestare attenzione al potere che esercita la sua pressione direttamente sull’arte come strumento da utilizzare ai propri fini, e nei casi estremi da asservire.

Per meglio definire queste forme di pressione si possono citare diverse situazioni, nel tempo e nei contenuti, e gli effetti che ne sono derivati.

“Sarcofago di Maherpra”, 1500 a. C., pittura 

L’arte e il potere nell’antichità

Il primo riferimento è alla lontana arte egizia sviluppatasi sotto il potere assoluto dei Faraoni per più di tremila anni prima di Cristo. Ebbene, per questo lunghissimo periodo l’espressione artistica è rimasta immutabile e, caso forse unico nella storia umana, non si è evoluta restando legata ai canoni iniziali. Nessuno spazio alla creatività, anzi il valore dell’opera risiedeva nella sua conformità ai canoni prefissati. Che dal canto loro non lasciavano margini, essendo definiti con una precisione minuziosa: nella figura la fissità frontale del busto e degli occhi, l’immancabile visione di profilo nel viso e nelle braccia, il tutto con proporzioni fisse; nella scultura la forma eretta o seduta in posizioni e posture prestabilite anch’esse legate a canoni precisi. Mettendo a confronto dipinti o sculture a distanza di un millennio, dall’Antico Regno della IV dinastia, al Nuovo Regno della XVIII  dinastia, posizioni  e posture non mutano. 

Può darsi che in parte queste raffigurazioni esprimessero il rispetto che i soggetti rappresentati dovevano all’osservatore, sempre della casta dominante. Ma è ancora più vero che l’immutabilità della rappresentazione era di per sé legata a una precisa concezione del rapporto tra arte e potere. L’arte doveva esprimere l’immodificabilità nel tempo e nello spazio che il potere riaffermava costantemente perché non fosse messo in discussione il dominio assoluto del Faraone, in un regime dove al dispotismo del sovrano, capo religioso e dio in terra e poi nell’al di là, si saldava una casta religiosa altrettanto dispotica. Neanche a parlarne di libertà personale e di visioni individuali in un sistema arcaico intento a perpetuarsi nel tempo, e lo ha fatto per tre millenni senza nulla mutare, per cui l’arte diventava veicolo di un messaggio politico di potere e di controllo delle coscienze. Soltanto al di fuori dell’arte aulica anche nel rigido mondo egizio poteva spuntare qualche rara apertura nell’arte popolare al di fuori dei canoni imposti dalle rappresentazioni ufficiali.

Questa concezione che annulla la storia perché il potere non si affida alla celebrazione delle conquiste ma all’assoluta immodificabilità delle condizioni iniziali ha caratterizzato altre civiltà dell’Oriente e non solo quella egizia.

In Occidente si è avuto il fenomeno opposto: al consolidamento e alla perpetuazione del potere è stata funzionale la narrazione delle vicende storiche positive celebrate attraverso l’arte. E qui si deve accennare all’arte greca e soprattutto all’arte romana, alla celebrazione dei fatti epici e dei grandi personaggi con i poemi, gli archi trionfali e le colonne celebrative, i templi, le figure di condottieri immortalati per le loro imprese, più che per il potere trasmesso su basi dinastiche o di altro tipo. Le esemplificazioni non mancano, dalle omeriche Iliade e Odissea all’Eneide di Virgilio, con le loro rappresentazioni plastiche, per arrivare alla Colonna Traiana, con l’inanellarsi del racconto storico lungo le fasce del bassorilievo.

Il rapporto del potere con l’arte si esprimeva, appunto, nella valorizzazione dell’opera degli artisti in funzione di superiori esigenze apologetiche. Alla figura di Mecenate si fa risalire la creazione di un vero e proprio sistema celebrativo dell’ideologia augustea all’interno del principato, con la partecipazione dei maggiori intellettuali e artisti nell’elaborarla oltre che nel diffonderla.

Arte e potere nei dispotismi del ‘900

Ma torniamo alle rappresentazioni emblematiche dell’asservimento dell’arte al potere in senso stretto, passando a tempi recenti. E a questo riguardo nulla può essere così eloquente e di ammonimento come il nazismo  e la posizione di Hitler, che incarna il potere ottuso e assoluto. Nel 1935, al Congresso sulla cultura, lanciava l’avvertimento che “l’arte deve proclamare imponenza e bellezza e quindi rappresentare purezza e benessere”, un programma non ispirato di certo a criteri estetici e culturali, a stare alla cupa premessa che il regime nazionalsocialista avrebbe innovato e migliorato in poco tempo i risultati “degli ultimi anni del regime giudaico”. Dopo le parole, purtroppo i fatti: ottobre 1936, fu chiusa la Sezione di arte moderna della Galleria nazionale di Berlino e istituito un tribunale per il censimento e l’epurazione dell’arte definita “degenerata”. Poi, nel 1937, messe all’indice 16.000 opere ed epurate dai musei tedeschi 6.000 di esse, fu organizzata a luglio a Monaco la mostra “Entartete Kunst”, “Arte degenerata”, esponendo senza cornici 650 opere confiscate, di 110 autori quali Beckmann e Chagall, Dix e Grosz, Kandinsky e Kirchner, Klee e Munch, mentre Picasso veniva chiamato “il più degenerato degli artisti” (ed era l’anno di “Guernica”!).      

Josef Tharak, “Cameratismo”, 1937, scultura

In contemporanea, nella stessa sede, fu aperta la “Prima grande esposizione dell’arte tedesca”, tra colonne imponenti, introdotta dalla gigantesca scultura alta 7 metri, “Cameratismo”, di Josef Tharak. Con la superiore purezza delle opere classicheggianti ed apologetiche avrebbe dovuto schiacciare l'”arte degenerata” di espressionisti e cubisti, dadaisti, astrattisti e primitivi, esposti al ludibrio popolare con raggruppamenti tematici all’insegna del giudaismo, del bolscevismo e di altre falsificazioni, slogan e intitolazioni irridenti, fino ad affiancarli ai disegni di internati nelle case di cura psichiatriche chiamando “malati mentali” gli artisti d’avanguardia. Ebbene, con i suoi 400.000 visitatori la mostra dell’arte tedesca fu surclassata dalla straordinaria affluenza di pubblico alla mostra dell’arte “degenerata”, 2 milioni di persone che con le lunghe file dinanzi alla “Casa dell’arte” costrinsero a prolungarne l’apertura.

Nell’inaugurazione del 19 luglio, Hitler aveva tuonato il suo proclama: “La Germania nazionalsocialista vuole di nuovo un”arte tedesca’, ed essa deve essere e sarà, come tutti i valori creativi di un popolo, un’arte eterna. Se invece fosse sprovvista di un tale valore eterno per il nostro popolo, allora già oggi sarebbe priva di un valore superiore… Perché l’arte non trova fondamento nel tempo, ma in un popolo. L’artista perciò non deve innalzare un monumento al suo tempo, ma al suo popolo. Perché il tempo è qualcosa di mutevole, gli anni sopravvengono e passano. Ciò che vivesse solo in grazia di una determinata epoca dovrebbe decadere con essa”.

Chi sta pensando di trovare al massimo una somiglianza con la fissità e immutabilità dei Faraoni e lo considera ancora un punto di vista come un altro, nonostante la premessa del 1935, deve ricredersi, nel seguito del proclama c’è qualcosa di ben peggiore: “Sappiamo dalla storia del nostro popolo che esso si compone di un certo numero di razze più o meno differenziate, che nel corso dei secoli, sotto l’influsso plasmante di un nucleo razziale dominante, hanno prodotto quella mescolanza che oggi noi abbiamo dinanzi agli occhi appunto nel nostro popolo. Questa forza che un tempo plasmò il nostro popolo, che perciò tuttora agisce, risiede nella stessa umanità ariana che noi riconosciamo non solo quale depositaria della nostra cultura propria, ma anche delle antiche culture che ci hanno preceduto”. Fino all’escalation conclusiva: “Tuttavia noi, che viviamo nel popolo tedesco il risultato finale in questo graduale sviluppo storico, auspichiamo un’arte che anche al suo interno tenga sempre più conto del processo di unificazione di questa compagine razziale e di conseguenza assuma un indirizzo organico ed unitario”.

Con un brivido si scopre che, sotto l’ipocrisia del termine “auspichiamo” riferito all’eufemistico “indirizzo organico ed unitario”, nell’orribile razzismo che viene proclamato con la teorizzazione della superiore “umanità ariana” si profila la “soluzione finale” per l’arte, avviata con l’olocausto delle 6.000 opere soprattutto di stile espressionista confiscate, disperse e in parte bruciate sul rogo con la qualifica di “degenerate” essendo molte di esse di artisti ebrei; che ha anticipato, nel tempo e nell’ossessiva matrice ideologica, il ben più tragico e sconvolgente crimine dello spaventoso olocausto nei campi di sterminio.

Nello stesso periodo il fascismo in Italia ha cercato di diffondere le immagini di romanità e di forza date da un’arte soggiogata dallo stile littorio come strumento di propaganda e specchio della volontà di potenza; un’arte, però, non completamente degradata e in certi casi, come il Foro italico e l’E 42 per l’architettura e le opere di Sironi per la pittura, dotata di un’indubbia capacità evocativa e di un’intrinseca validità che ha resistito alla caduta del regime.

Mario Sironi, “Il soldato  e il lavoratore”, 1940

Della situazione sotto l’altro grande potere dispotico del novecento europeo insieme al nazismo e al fascismo – il comunismo in Unione sovietica – è interessante evidenziare alcuni connotati del tutto particolari che esprimono la forza incoercibile dell’arte. Il “Realismo socialista” – egregiamente rievocato nell’illustrazione della mostra al Vittoriano, con tanti dipinti monumentali – fu la cappa soffocante, il canone al quale nella Russia comunista l’arte dovette assoggettarsi diventando strumento celebrativo del regime: al Congresso degli scrittori nel 1934 Zhdanov impose alle arti un carattere partitico, un contenuto socialista e radici nazionali, con direttive che avrebbero dovuto trasformare gli artisti in propagandisti di Stato. Ma, al di là dell’adesione forzata, non sempre gli artisti si assoggettarono, ed emersero fulgidi esempi di coraggio e dedizione all’arte.

In campo letterario Pasternak fece uscire in Italia la sua opera, rifiutata dall’Unione degli scrittori russi come “libello” antisovietico, richiudendosi poi nel suo isolamento tra le persecuzioni del potere, Solgenitsin pagò di persona la sua protesta contro il potere dispotico con l’internamento nei gulag di cui denunciò tutti gli orrori, Sinjavskij e Daniel si opposero con fermezza al “Realismo socialista” difendendo strenuamente in tribunale l’autonomia dell’artista, e dell’opera d’arte, rispetto al potere e scontarono il carcere, fino a Evtushenko, il poeta del dissenso e poi del disgelo.

In campo figurativo, nel dilagare di opere del regime rigurgitanti di vigorosi eroi di guerra e operai, contadini e minatori, fino agli astronauti, tutti  con i volti assorti e lo sguardo rivolto lontano verso un orizzonte luminoso, emergevano immagini di ispirazione autentica, espressione di arte vera.

Ne ha parlato Astemio Serri, nel portare alla luce l’iceberg di creatività artistica rimasto vivo sotto quello che chiama “il contenitore del ‘Realismo socialista‘”, nel commento alla mostra “L’arte nell’URSS” organizzata a Bologna nel dicembre 2000: “Certo la Rivoluzione aveva trascinato nella discarica della storia tutto un mondo, aveva cambiato radicalmente tutto un popolo, ma era evidente anche da noi che non aveva distrutto del tutto la grande anima russa, le sue tradizioni, le sue capacità artistiche… tutto quello che sapevo, vedevo erano enormi opere celebrative, statuoni dei grandi del comunismo, manifesti di propaganda. Il mio occhio si infrangeva inesorabilmente contro il muro della denominazione: ‘Realismo socialista’. Ma dalle pieghe bronzee dei cappotti di Lenin, dalle mani dei minatori, dai Kalashnikov dei combattenti, dalle bocche dei piccoli Pionieri traeva forza la mia curiosità: chi c’era dietro quel loro essere così vive anche se immobilizzate dalle coordinate statali? Di chi erano le mani che servendosi di pennelli e spatole o plasmando la creta dei bozzetti, che manovrando gli strumenti dell’arte riuscivano a farlo in maniera tale da rendere artisticamente interessanti anche i proclami di quell’ideologia che, la Storia dimostrò poi, era destinata ad implodere e crollare sotto il peso dei propri fallimenti?”

Erano le mani degli artisti, e la scoperta anche delle “opere che gli artisti sovietici dipingevano per sé, ha permesso di far capire come quegli stessi autori che lavoravano per lo Stato fossero in realtà artisti completi, artisti veri, la cui sensibilità li rendeva simili all’idea che noi abbiamo di artista”.

Dalle opere emergono figure di “artisti certamente, quasi sempre sotto controllo, costretti da un regime ma pur sempre artisti e quindi capaci, nel privato che sveliamo, di essere liberi come l’arte, che non può essere di destra o di sinistra, ma solo arte, libera come solo l’arte sa essere”

Samuil Adivankin, “Uno dei nostri eroi (lavoratore d’assalto)”, 1930

L’arte e il potere illuminato: il mecenatismo

Ma al di là delle aberrazioni, ammonitrici per evidenziare fino a che punto il potere può colpire l’arte, va sottolineato che quando è stato esercitato senza dispotismo, pur se con mano ferma, non ha avuto effetti di compressione e di depauperamento dell’espressione artistica oltre il normale riflesso fisiologico.

Ricollegandoci a Mecenate, citato prima di descrivere le degenerazioni naziste e comuniste nel campo dell’arte, possiamo dire che il mecenatismo fu attuato su larga scala nel Medioevo da Carlo Magno, ispirandosi ai fasti augustei. La sua Corte divenne il luogo d’incontro di artisti e letterati d’ogni nazionalità, impegnati a promuovere la rinascita dei valori dell’antichità nelle lettere e nelle arti in modo da far emergere il ruolo che si era attribuito di erede degli antichi imperatori d’occidente. Le Corti furono così, anche nei secoli successivi, veri e propri centri di produzione artistica, intorno alla figura del sovrano che ne veniva nobilitata. L’arte era utilizzata orientandone contenuti e forme espressive alle superiori esigenze di dominio. Soprattutto nelle Corti europee del trecento era diretta emanazione del potere.

Altre forme di potere si aggiungeranno al potere imperiale e feudale: il potere ecclesiastico e della nobiltà; il potere delle confraternite e della borghesia. E il loro impatto sull’espressione artistica sarà molto diverso. L’artista avrà benefici variabili, da compensi modesti per una vita agiata e rispettata a gratificazioni notevoli, e la sua creatività potrà godere dei necessari margini di libertà per dar vita a vere opere d’arte senza vincoli paralizzanti e comunque senza imposizioni assolute.

L’Ariosto, che è stato in diverse Corti fino a quella di papa Leone X, nella prima delle “Satire” descrive con versi icastici i limiti entro i quali l’artista si mobilitava per la gloria del potente. Prima la disponibilità: “Io, stando qui, farò con chiara tromba/ il suo nome sonar forse tanto alto/ che tanto mai non si levò colomba”; poi l’orgogliosa riaffermazione della propria dignità: se “mi debba incatenare, schiavo tenermi/…non gli lasciate avere questa credenza:/ ditegli che più tosto ch’esser servo/ torrò la povertade in pazienza”; infine la sdegnata ribellione: “Or conchiudendo, dico che, se ‘l sacro/ Cardinal comprato avermi stima/ con li suoi doni, non mi è acerbo ed acro/ renderli, e tòr la libertà mia prima”.

Il mecenatismo della Chiesa

Si entra così nel potere della Chiesa sull’arte, un mecenatismo che ha prodotto l’universo di capolavori che tutti ammirano:  una committenza illuminata ma esigente e ben presente, spesso con delle specifiche precise e comunque con un controllo penetrante che fosse rispettato il messaggio da trasmettere, prima di ammettere l’opera nelle Chiese o nei sacri palazzi. Sono ben noti i “rifiuti” che dovette subire Caravaggio, per citare il più bersagliato, fino a rifacimenti completi dell’opera quando il suo realismo sublime portava a risultati ritenuti inaccettabili, come per i modelli utilizzati o le positure e altri aspetti della raffigurazione. “San Matteo e l’Angelo” dovette ridipingerlo del tutto perchè le gambe in vista del santo e l’angelo che gli teneva la mano nella scrittura gli toglievano la maestosità richiesta rendendolo simile  a un popolano; nel rifacimento tutto cambia, ma resta l’impronta inconfondibile di  Caravaggio.

Nel Cristianesimo il ruolo dell’arte è nella venerazione della divinità all’interno di case di Dio all’altezza della sua onnipotenza, dalle imponenti cattedrali alle chiesette di montagna, tutte impreziosite da dipinti, affreschi, statue: dalla crocifissione alla vita di Cristo, dalla Madonna alla Sacra famiglia, dalle figure dei Santi ai miracoli in una sconfinata produzione di opere. Le immagini dipinte e scolpite dovevano diffondere la conoscenza della dottrina cristiana e della storia biblica a plebi analfabete, con un ruolo quasi catechistico.

Tuttavia, il mecenatismo pontificio – che si è avvalso dei più grandi artisti nella pittura, scultura, architettura, fino all’apoteosi michelangiolesca – aveva anche e forse soprattutto lo scopo di rafforzare e imporre, con la suggestione e la grandiosità dell’espressione artistica, il potere della Chiesa e del papato per rivaleggiare con l’impero anche in questo campo; con l’arte sacra emanazione di un potere da riaffermare, oltre che di una fede da trasmettere e diffondere. Il risultato è stato, comunque, quello delineato da Argan, un contributo consapevole dell’arte alla civiltà e alla storia di cui il Cristianesimo è stato protagonista in Occidente, in particolare in Europa.

Anche la Chiesa d’Oriente ha raggiunto il culmine nella promozione del divino con le icone bizantine soprattutto nelle iconostasi, oggetti e luoghi di culto dove il potere religioso si unisce a quello politico nell’uso dell’arte mista a regalità e fede al fine di perpetuare la propria dominanza.La mostra a Palazzo Venezia alla fine del 2009, “Il Potere e la Grazia”, è stata illuminante nel testimoniare con le opere d’arte le molteplici  forme in cui tutto ciò si è manifestato nella storia della Chiesa, dedicando apposite sezioni alle singole fasi. Una di queste era dedicata ai “Cavalieri di Dio, Santi Regnanti  e Patroni d’Europa”, la quint’essenza del potere anche se commisto alla Grazia. 

Dopo questo accenno, forzatamente sommario, al tema vastissimo dell’arte legata alla Chiesa, ci proponiamo di tornare prossimamente sui rapporti dell’arte con i poteri dei nostri tempi, fino al potere democratico in una visione costruttiva per il futuro.  

Info

Il secondo e ultimo articolo sul tema uscirà, in questo sito, il 2 aprile 2013.  Per il rapporto tra arte e potere (politico, religioso, spirituale) riferito a D’Annunzio, cfr. i nostri sei articoli, usciti in questo sito, il 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013, ciascuno con 6 immagini. In merito alle mostre citate nel testo, cfr. i nostri articoli in “cultura.abruzzoworld.com”: per “Il Potere e la Grazia” i due articoli  il 28, 29 gennaio 2010 e  per “Realismi socialisti” i tre articoli alla stessa data del 31 dicembre  2011; e i nostri tre articoli in questo sito per “Deineka” il 20, 21, 22 gennaio 2013. 

Foto 

In apertura, pittura dal “Libro dei morti dello scriba Hunefer”, 2400 a. C; seguono pittura dal ““Sarcofago di Maherpra”, 1500 a. C. e scultura di Josef Tharak, “Cameratismo”, 1937, poi Mario Sironi, “Il soldato  e il lavoratore”, 1940, e Samuil Adivankin, “Uno dei nostri eroi (lavoratore d’assalto)”, 1930;  in chiusura Caravaggio, “San Matteo e l’Angelo”, 1602, a sin. la prima versione rifiutata dal committente, a dx quella definitiva.  

Caravaggio, “San Matteo e l’Angelo”, 1602, a sin. la prima versione rifiutata dal committente, a dx quella definitiva