Nevelson, le grandi composizioni lignee, alla Fondazione Roma

di Romano Maria Levante

A Palazzo Sciarra, uno dei due spazi espositivi romani della Fondazione Roma, esposte dal 16 aprile al 21 luglio 2013  80 opere di “Louise Nevelson”, la scultrice americana autrice di imponenti composizioni con l’assemblaggio monocromatico di legno prodotto artigianalmente e già utilizzato, quindi “vissuto”, portato a nuova vita con significati tutti da decifrare  Il presidente della Fondazione Emmanuele F. M. Emanuele ha ricordato l’attenzione all’arte americana con le mostre sulla Collezione Ludwig, su Edward Hopper e Georgia O’ Keeffe; nello stesso filone americano il presidente ha promosso la mostra del “Guggenheim” al Palazzo Esposizioni e, con un’attenzione bipartizan, anche il filone sovietico dei “Realismi socialisti”  con il campione “Deineka” sempre al Pala Expo.  La mostra della Nevelson,  organizzata dalla Fondazione Roma Arte-Musei con Arthemisia, è a cura di Bruno Corà che ha curato anche il Catalogo  Skira. In parallelo vengono tenute 7 conferenze sulla Nevelson, di cui 4 in maggio e 2 in giugno.  

“Homage to the Universe”, 1968

Se conoscere l’artista prima di guardarne le opere è buona norma per apprezzarne meglio ispirazione e stile, nel caso di Louise Nevelson è doveroso perché si scoprono aspetti altrimenti non  percepibili. Le sue composizioni  monocromatiche, di solito nere, tranne serie minori bianche e  oro, fatte di legni assemblati, che si differenziano per dimensione e forma  egli scomparti, hanno molto da rivelare una volta che entrati nella  poetica dell’artista che ha precorso o affiancato svolte radicali nell’arte moderna. Ne daremo qualche cenno  prima di parlare delle sue opere. 

La formazione e le avanguardie

Di origine russa, nata presso Kiev nel 1899 ed emigrata negli Stati Uniti con la famiglia, aveva tenacia e  spirito femminista: suo l’orgoglio di esprimere la propria sensibilità femminile, quindi dichiaratamente diversa da quella maschile cui si contrapponeva al più alto livello artistico. Le sue parole: “Ritengo che le mie opere siano decisamente femminili… il mio lavoro è la creazione di una mente femminile, non c’è dubbio… Sono un artista a cui è capitato di essere donna”.

Il presidente Emanuele  ha ricordato che lei diceva di sentirsi “donna, tanto donna da non voler portare i pantaloni”, e sul lavoro: “In esso c’è tutta la mia vita, e tutta la mia vita è al femminile”. Non occorre sottolineare come fosse forte il pregiudizio sulla donna  in veste di artista. Per questo sia per la sua arte e le sue battaglie, sia per la sua vistosa presenza pubblica anticonformista e disinibita nell’abbigliamento e nei gesti, è  diventata una vera icona per il mondo femminile.

La prendevano momenti di inquietudini e sconforto, fino a meditare il ritiro dall’attività artistica, ma poi li superava  in virtù di un imperativo che poneva a se stessa, e chiamava “Blueprint”. Nel lavoro sentiva di realizzarsi e la emozionava  il fatto di “mettere insieme le cose” e come farlo. “Questo – diceva – lo chiamo energia del vivere o essenza della vitalità, perché si è pienamente vivi quando si lavora. Si toccano le vere fibre del significato della vita”.

Si è parlato di “sapienza alchemica” e di ritualità del Centro e Nord America per spiegare le sue espressioni artistiche e gli stessi comportamenti, dall’abbigliamento agli atteggiamenti  quanto mai estroversi. Richiama in qualche modo Georgia O’ Keeffe e la sua evasione creatrice nel New Mexico, come altre grandi donne  che hanno dato lustro al XX secolo.

“Royal Tide III“, 1960

Una formazione non solo nel disegno e nella pittura, ma anche nel canto,  teatro e danza, quest’ultima esperienza la si ritrova nella plasticità delle sue prime opere. Frequentò l’ambiente intorno all'”Art of  This Century” di Peggy Guggenheim , con i capifila del Dada e Surrealismo, da Duchamp a Ernst, da Man Ray a Picabia, con André Breton, tra ready made e collage, fotomontaggi e altre innovazioni, fino a Mondrian e al cubismo, soprattutto Picasso ebbe influenza su di lei; e a lei guardarono i minimalisti,  da Judd a Serra, dopo la Pop Art e il Nouveau Realisme.

Siamo, dunque, nel crocevia delle  avanguardie, e non dobbiamo dimenticarlo quando vediamo le sue opere, da quelle iniziali alle opere mature allorché affermò il suo stile personalissimo.

Del primo periodo sono esposte  le sculture in terracotta  e i disegni cubisti, con una plasticità che non troveremo più, almeno in questa forma: sono gli anni ’30  e’40.

Si tratta di 8 piccole sculture, tutte “Untitled”, di cui due in una forma totemica che vedremo anche in alcune opere in legno della sua produzione matura; nulla di figurativo e riconoscibile, la consistenza plastica è l’elemento tangibile che colpisce maggiormente.

I disegni esposti sono 7, tra il 1930 e il 1933, tutti intitolati “Female Nude”, di chiara ispirazione cubista:  la solidità delle forme  riafferma la sua sicurezza non solo a livello stilistico, le donne delineate sembrano avere la consapevolezza di una femminilità non sottomessa. Va sottolineato che, pur da grande scultrice, il disegno era per lei pratica quotidiana: “Non ho mai lasciato le due dimensioni – diceva –  Se esaminate attentamente le mie opere, vi potete trovare sempre il disegno”: la linea e il segno definiscono piani e forme.

“City Series”, 1974 e “Tropical Lanscape I”, 1975

Il  legno “vissuto” e la forma espressiva modulare dell’artista

Cambia tutto  nell’espressione artistica della Nevelson negli anni ’40 allorché inizia a usare il legno, dopo la terracotta e la ceramica. Non è soltanto un fatto materico, è una rivoluzione, non si tratta di modellare una materia diversa, bensì di riutilizzare il legno recuperato nelle strade che la affascina  per la sua valenza di “vissuto”. “Mio dio, è magnifico! Lo porterò a casa”, disse quando fu colpita dalla vista di un pezzo di legno abbandonato nel fango.  Forse il legno la attraeva per i ricordi d’infanzia, il nonno aveva boschi e legname in Russia e tra i primi lavori il padre, da emigrato negli Stati Uniti, faceva il taglialegna e il rigattiere.

Ma non è questa la “memoria” che l’artista trasmette con le sue opere, piuttosto è l’esperienza del suo “vissuto”, un mondo interiore che si proietta nello spazio e nel tempo con il recupero di oggetti la cui storia nascosta viene fatta rivivere  nel momento in cui li trasforma in opera d’arte.  Non si tratta della materia plasmata dall’artista, sono altri che l’hanno plasmata inizialmente, gli artigiani del legno, facendone cassapanche, cassetti, e altri oggetti d’uso comune, poi abbandonati dagli utilizzatori. Il “vissuto” di questi oggetti viene recuperato in forme nuove che superano quel passato per un presente quanto mai vivo e qualificato, senza escludere il futuro che l’arte saprà conquistare.

C’è un confronto serrato dell’artista con la materia, tanto che lei dice: “A volte il materiale prende il sopravvento, altre io. Permetto un gioco come un’altalena. Uso l’azione  e il contrappunto, come nella musica, per tutto il tempo. Azione e controazione”. Non c’è progettazione quanto volontà di trasformare la materia: l’impegno è nella trasformazione piuttosto che nel risultato compositivo.

Negli anni trenta – sono ancora le sue parole – la scultura era mettere  e togliere in tre dimensioni, la quarta dimensione, manca una definizione migliore, non è ciò che si vede ma la facoltà di completare ciò che si sta vedendo. Il cubismo ci ha dato tale dimensione e quindi le basi”.  Non per questo va nell’astrazione, resta legata alla realtà e aggiunge: “Non ho masi lasciato il mondo a due dimensioni. Se esaminate attentamente le mie opere vi potrete trovare sempre il disegno”.  

Ha scritto il curatore della mostra Bruno Corà: “Come un ‘minatore’ che scava per estrarre minerali preziosi e portarli alla luce, così la Nevelson trae dalla ‘massa del dimenticato’ non solo i reperti altrimenti destinati  all’oblio, ma soprattutto i loro segreti contenuti poetici.”.

Poi precisa: “Il lavoro più essenziale concepito e svolto dall’artista, insieme a quello del componimento dei frammenti necessari alla sua creazione pittorico-plastica, è il risveglio mnemonico esercitato su di sé e sulla coscienza collettiva”. Ecco come si svolge il processo creativo: prima il riconoscimento dei frammenti, cioè degli oggetti “vissuti” da utilizzare, quindi l’assemblaggio con una pittura monocromatica che li rende omogenei, fino alla composizione in forma verticale e frontale.

L’assemblaggio determina una geometria solida semplice ed essenziale. Con le forme scatolari vengono definiti moduli spaziali cui le ombre danno segretezza e intimità, accentuando l’aspetto di “vissuto” evocato dagli elementi lignei di base:  si tratta infatti di armadi e cassapanche, secretaire e cofanetti che per loro funzione rimandano a immagini di un uso molto personale. “Tutte le opere di Louise Nevelson – secondo il presidente Emanuele –sono accomunate dalla ricerca di armonia: l’occhio non è disturbato dalla folla di forme o oggetti  che popolano le sue scatole, scaffali o contenitori, ma viene rassicurato dall’equilibrio delle masse”.

Sono state accostate alle nature morte, sebbene non ci siano frutta né animali, vasi o bottiglie, perché le componenti lignee derivate dalla frammentazione di mobili e suppellettili fanno parte della natura, essendo il legno vegetale; e sono morte perché scartate e destinate alla distruzione prima di venire recuperate dall’artista che le salva e le fa rinascere a nuova vita Altri accostamenti vengono fatti tra i suoi assemblaggi e  le icone russe, e anche con gli antichi sistemi di memoria.

Non ci sono intenti simbolici, ma non si possono non sottolineare gli influssi della pittura metafisica, e del suo creatore, de Chirico, che ebbe ad osservare,: “Noi che conosciamo i segni dell’alfabeto metafisico sappiamo quali gioie e quali dolori si racchiudano entro un portico, l’angolo di una strada, o ancora in una stanza, sulla superficie di un tavolo, sui fianchi di una scatola”. Proprio le scatole assemblate dalla Nevelson che , come gli oggetti metafisici bidimensionali della pittura di de Chirico e Morandi o gli oggetti “ready made”, quindi reali, di Duchamp e Arp ,   nascono “nella dimensione della memoria trattandosi di oggetti obsoleti e dimenticati che l’atto artistico rivitalizza, immettendoli nell’opera “, così scrive  Corà:

Per i due italiani, de Chirico in particolare, gli oggetti rappresentati nella loro consistenza reale ma del tutto avulsi dal contesto naturale , per questa straniamento diventano elementi di un enigma. Mentre,  è sempre il curatore che parla, “le forme contenute nelle ‘cassette’ di legno della Nevelson, alla stregua di un linguaggio geroglifico ancora non svelato, conservano modi ‘memorabili’ che nessuno è in grado di decifrare e che malgrado il loro significato incognito si prestano a essere riempiti di senso dell’immaginario individuale”.

Tre  “Untitled”, anni ’80 

Le  opere degli anni  ’50 e ‘60

Abbiamo già commentato le prime opere in ceramica e i disegni cubisti, ora passiamo all’antologica delle sculture lignee di cui abbiamo cercato di esplorare motivazioni e forma espressiva. L’esposizione è cronologica, articolata per decenni nell’elaborata configurazione dello spazio espositivo di Palazzo Sciarra, tra corridoi, anditi di disimpegno e grandi sale in grado di accogliere opere monumentali, come alcune della Nevelson che vedremo.

Degli anni ’50 vediamo opere dalla struttura molto diversa, caratteristica che non si attenuerà in seguito quando la forma espressiva sarà stabilizzata. Prosegue nella lavorazione plastica dei materiali del decennio precedente ma inserisce sempre più frammenti già realizzati artigianalmente e da lei recuperati, in particolari rapporti pieno-vuoto e luci-ombre.

Così parla del colore nero: “Quando mi sono innamorata del nero, conteneva tutti i colori. Non era una negazione del colore, al contrario, era un’accettazione. Perché il nero comprende tutti i colori. E’ il colore più aristocratico di tutti. L’unico colore aristocratico. Per me è il massimo”.

Sono nere le opere che vediamo esposte della serie“Moon Spikes”, con punte aguzze che non ritroveremo; come “Moon Garden Reflections”, con elementi irregolari uniti in alveoli per formare una struttura regolare; e “Night Sun” nonché quelle “Untitled”: accomunate dall’essere costituite da elementi verticali a punta o parti ovali, sferiche e altre forme geometriche, poste su degli assi. Una “geometria solida a base lignea e dalle definizioni formali casuali, priva di ogni volontà simbolica, nonostante le titolazioni evocative di ciascuna opera”, scrive il curatore citando Mirò.

Ed ecco la sorpresa degli ultimi anni del decennio, compaiono  opere molto diverse, in verticale, di tipo totemico, ispirate alla cultura dei nativi d’America. Vediamo opere in bianco molto diverse dalle precedenti anche nella struttura. “Dawn Host”  è una sfera su una colonna liscia, che raccoglie elementi sempre lignei di varia forma, mentre le due “Column from Dawn’s Wedding”  sono alte quasi 2 metri e mezzo, formate da assemblaggi minuti come dei totem.  Facevano parte di una installazione celebrativa di grandi dimensioni lungo le pareti, la “Dawn’s Wedding Feast”  dedicata alle nozze, con le due colonne centrali come sole e luna. Con il monocromatismo bianco nuovi rapporti tra ombra e luce, la Nevelson  da “Architetto dell’ombra” diviene “Architetto della luce”.

Abbiamo riportato la sua definizione del nero, ora quella del bianco: “Il bianco è un colore più gioioso. Credo che i bianchi abbiamo contenuto il nero, che esprime maggiore libertà e non uno stato d’animo. Il bianco si muove un po’ più nello spazio cosmico”. Nella sua particolare visione rappresenta il “risveglio”, cioè l'”albedo” che segue la “nigredo”, la fase di morte della materia.

Con gli anni ’60 la sua scultura lignea viene ricoperta addirittura del colore dell’oro. Lei stessa  lo spiega così: “Volevo dimostrare che il legno recuperato nella strada può essere oro”, colore del quale dà questa definizione, completando il trittico cromatico: “L’oro è un metallo che riflette il grande sole… Di conseguenza penso che sia giunto naturalmente dopo il nero e il bianco. In realtà era per me un ritorno agli elementi naturali. Ombra, luce, il sole, la luna”.  L’ispirazione è nata dalle icone russe e dai riti ebraici, ma anche dalle leggende dell’emigrazione che favoleggiavano dei marciapiedi laminati d’oro nell’America dove il padre approdò dalla natia Russia. In mostra sono esposte tre opere, “Royal Winds” e due imponenti, “Golden Gate”, alta m 2,40,  e “The Golden Pearl”, alta 2 m, composta di 24 scomparti, ciascuno con assemblati elementi sferici o tondeggianti.

E’ l’inizio del decennio, non abbandona gli altri due colori, tutt’altro;  il suo studio è diviso in stanze dedicate al singolo colore del trittico, e così nelle mostre personali, parla di “environment”; alla XXXI Biennale d’Arte di Venezia nel 1962 nei tre spazi il bianco è al centro, ai lati nero e oro.

Le opere in nero esposte sono quasi tutte di dimensioni considerevoli, accomunate dalla forma scatolare in tanti comparti che in “Royal Tide”, “Dark Prescience” e “Untitled” sono a forma rettangolare ma sfalsati, mentre in “Ancien Secrets” e “Dark Sound” quadrati e allineati regolarmente come tanti ripiani dove collocare le proprie cose, nel primo senza che siano visibili. Sono alte oltre 2 metri, alcune per 2,5 di larghezza, ma “Homage to Universe” le supera tutte per dimensioni: quasi 3 metri di altezza per 9 metri di lunghezza, un’intera parete. In questa e nella altre Corà, riferendosi ai minimalisti,  vede “analoghe tensioni spaziali e costruttive, nonché equivalenti coefficienti di investimento plastico-ambientale”.

Due collages “Untitled”,  1980 circa 

Gli anni ’70 e ’80, fino ai collage e alle serigrafie

Altre sorprese negli anni ’70. Sul piano stilistico  abbandona la struttura scatolare e costruisce la composizione fissando su grandi supporti rettangolari una serie di elementi di forma e natura  diversa come fossero bassorilievi; è ben riconoscibile la loro origine, sono anche grandi, in qualche caso di spessore minimo per creare effetti calligrafici che sottolineano il disegno compositivo, il nero è predominante. E’ esposta la vasta serie di “Untitled”, 14 grandi opere tutte verticali alte oltre 2 metri, dove si distinguono bene arnesi meccanici inseriti sulla base, perfino una pala. Più 2 opere, altrettanto grandi, entrambe oltre 2 metri di altezza per 4 di larghezza:“Tropical Landscape”, con 24 scomparti appena delineati, e “City Series”, una sorta di alveare delicatissimo in rilievo.

Le  6 opere di dimensioni minori sono assimilabili a due  a due: “Sky Totem” e “Sky case” sono dei veri oggetti  identificati dal titolo, quasi “ready made”; , mentre “Sky-Zag” e “Open-Zag”  sembrano quasi dei meccanismi farraginosi con la ruota incorporata; infine i due “End of the day” richiamano l’immagine del pallottoliere.

Un’altra sorpresa sul piano della produzione artistica e della sua notorietà: supera l’ambito artistico per aprirsi al grande pubblico con le installazioni di opere gigantesche all’aperto, non più in legno ma in metallo. Un ampio filmato visibile in mostra riprende l’inaugurazione di “Sky Cathedral”, che si vede stagliarsi alto nello skyline di New York, e la preparazione, con gli assistenti ai quali dà indicazioni per il lavoro manuale ma chiede anche cosa ne pensano mentre crea la composizione.

Siamo agli anni ’80, l’ultimo periodo della sua vita artistica: ha raggiunto la fama, frequenta persone altrettanto famose, i suoi atteggiamenti anticonformisti, il suo modo di presentarsi, lo stesso abbigliamento estroso ne fanno un personaggio di spicco e un simbolo di libertà e di creatività. Le mostre personali e collettive si susseguono,  le sue opere sono nei principali musei del mondo.

Il suo stile si affina, nella costanza del legno dopo le esperienze con il metallo, e del nero dopo il trittico con il bianco e l’oro. Diventa più meditato, cerca maggiormente la forma rispetto all’impulso creativo di un tempo, alterna grandi dimensioni a formati piccoli e raccolti. Sono esposti i formati minori, 11 opere tutte “Untitled”, per lo più strette e mediamente alte. Non più i cassetti e scomparti, ci sono gli elementi fissati su un fondo, come bassorilievi.

Le ultime sorprese sono i “Collages” e le “Serigrafie” tra gli anni ’70 e l”80.

Nei “Collages” il legno resta come supporto ma compare la carta e frammenti di varia natura, inoltre sono bidimensionali o appena rilevati, sul nero della base di fonfo irrompono i colori originari degli elementi inseriti che non vengono omologati alla monocromia nera per conservare la propria. Perciò si creano diversi piani cromatici  e prospettici, con forme semplificate non più scatolari ed elementi  pittorici in un rapporto armonioso tra luci e ombre. Meno impeto creativo e più equilibrio compositivo, ne sono esposti 6, tutti “Untitled”, tra il 1975 e il 1980, sul legno dipinto incollate strisce od oggetti sottili.

Le “Serigrafie” in mostra sembrano una dissolvenza di riquadri neri contornati di un viola sfumato: una delle 3 esposte presenta uno squillante rettangolo rosa intenso sulla dissolvenza di fondo.

Ci piace vedervi l’orgogliosa reazione alla dissolvenza dell’arte e della vita dell’indomita eroina che aveva trovato nel lavoro artistico l’energia del vivere o essenza della vitalità”, toccando così “le vere fibre del significato della vita”, come emerge dalle sue parole di profondo contenuto poetico: “La ricerca completamente consapevole della mia vita  è stata quella di un nuovo modo di vedere, una nuova immagine, una nuova percezione. Questa ricerca non include solo l’oggetto, ma i luoghi ‘tra’. Le albe e i crepuscoli, il mondo oggettivo, le sfere celesti, i luoghi tra la terra e il mare”.

E’ quanto si deve leggere tra le fibre del suo legno “vissuto” che diviene monumento.

Info

Palazzo Sciarra, via Marco Minghetti 22, Roma. Da martedì a domenica ore 10,00-20,00, lunedì chiuso (la biglietteria chiude un’ora prima). Ingresso: intero  euro 10,00, ridotto euro 8,00, scuole euro 4,50 ad alunno.  Tel. 06.69205060. http://www.fondazioneromamuseo.it/; www.louisenevelson.it. Catalogo: “Louise Nevelson”, a cura di Bruno Corà, Skira, aprile 2013, pp. 232, formato  25×30. Per le mostre con gli artisti citati cfr. i nostri servizi in “cultura.abruzzoworld.com” : Picasso il  4 febbraio 2009 (con Bellini), de Chirico il  27 agosto, 23 settembre, 22 dicembre 2009 e  l’8, 10, 11 luglio 2010 , Hopper  il 12 e 13 giugno 2010, Georgia O’Keeffe  due, entrambi il 6 febbraio 2012; i Dada e surrealisti il 30 settembre, 7 novembre,1° dicembre 2010 e il 6 – 7 febbraio sempre del 2010;  i capolavori dello Stadel Museum tre tutti il 13 luglio 2011; in questo sito per gli artisti di espressionismo astratto, Pop Art e minimalismo del Guggenheim  il 22 e 29 novembre e l’11 dicembre 2012,  per Mirò il  15 ottobre 2012, per i Cubisti il  16 maggio 2013.  Per il richiamo al filone soviet€ico fatto all’inizio, cfr. i nostri articoli:  per i “Realismi socialisti” in “cultura.abruzzoworld.com”,  tre tutti il 31 dicembre 2011, e per “Deineka” in questo sito il 26 novembre, l’1 e il 16 dicembre 2012.

Foto

Le immagini delle opere di Louise Nevelson sono state riprese da Romano Maria Levante a Palazzo Sciarra alla presentazione della mostra. Si ringrazia la Fondazione Roma – Arte – Musei per l’opportunità offerta. In apertura, anni ’60, “Homage to the Universe”, 1968, seguono, “Royal Tide III“, 1960 e, anni ’70,  a  fronte “City Series”, 1974 e “Tropical Lanscape I”, 1975, poi, anni ’80,  tre “Untitled” e i due collages “Untitled”,  tutti 1980 circa;  in chiusura, “The  Golden Pearl” , 1962, con il presidente della Fondazione Roma Emanuele intervistato sulla mostra.   

“The  Golden Pearl” , 1962, con il presidente della Fondazione Roma Emanuele intervistato