De Chirico, 3. I ritratti fantastici, a Montepulciano

di Romano Maria Levante

Si conclude la visita alla  mostra “Giorgio de Chirico. Il Ritratto, figura e forma”, aperta alla storica Fortezza di Montepulciano dall’8 giugno al 30 settembre 2013, con 44 dipinti, 7 sculture e 17 disegni e acquerelli, 68 opere selezionate tra le tante custodite dalla  Fondazione Giorgio e Isa  de Chirico che l’ha realizzata. Katherine Robinson ha curato la mostra e il Catalogo bilingue di Maretti Editore. Promotrici le istituzioni locali,  Rotary club con il Comune, in fase operativa ha collaborato alla realizzazione la Fondazione Cantiere Internazionale d‘Arte, e gli organismi vinicoli sono stati molto attivi nel creare un ambiente ricettivo e coinvolgente. Dopo averne descritto impostazioni e motivi e aver illustrato il ritratto classico, passiamo al ritratto fantastico che fa entrare nel mondo enigmatico e intrigante della metafisica di de Chirico.

Siamo negli anni ’70, è trascorso più di mezzo secolo dopo l’esplosione metafisica degli anni ’10. L’artista riprende i temi rivoluzionari sessant’anni dopo, si parla di “Neometafisica”, ma non è solo una ripetizione a furor di popolo, tale era la richiesta di opere di quella temperie artistica; intervengono differenze considerevoli, frutto non di un inevitabile logorio, ma di un’evoluzione ideale. Ne danno conto le “enclaves” con queste opere, la prima con ripetizioni vicine agli originali, ma in una luce diversa che crea un’atmosfera di serenità laddove si provava profonda inquietudine; la seconda con un’innovazione molto creativa che si innesta sulla novità rivoluzionaria iniziale; l’ultima con un mix suggestivo di dipinti e sculture che riassumono la poetica dechirichiana.

Ma andiamo con ordine, la prima “enclave” metafisica presenta subito immagini ben conosciute, le opere sono state realizzate tra il 1970 e il 1974 anche se alcune di esse sono retrodatate tra il 1924 e 1938, secondo quanto era uso fare l’artista in quel periodo, seguendo un impulso che univa al motivo commerciale quello psicologico e nostalgico, non esclusa la propria ironia dissacrante.

In “Ettore e Andromaca”, 1970, e “Le maschere”, 1973, i volti che abbiamo visto curati nei dettagli fisionomici con il ritratto classico, diventano le classiche teste ad uovo senza fisionomia, alla ricerca dell’universalità. Sono busti di manichini, tra elementi geometrici evocativi delle squadre degli interni ferraresi, e occupano l’intera superficie del quadro: su un fondo scuro o con la finestra da cui risalta il cielo azzurro e l’edificio turrito con gli archi sulla destra.

Anche “Le Muse inquietanti”, 1974, presentano il solo busto del manichino classico, il resto del corpo è il fusto di una colonna, mentre la figura seduta ha una corposità diversa dal manichino: il tutto nell’enigma della piazza con tanto di statua, ombre lunghe e palazzi sullo sfondo. La  magia metafisica prosegue in “Piazza d’Italia con statua di Cavour”, 1974, la statua guarda l’osservatore, troviamo tutti i canoni del genere: dagli archi alle ombre, dalle figurette in lontananza allo sfondo paesaggistico con il cielo che trascolora dal viola scuro al verde e al giallo; in più, una particolare luminosità, come se le ombre del mistero e non solo quelle della notte si fossero dissolte.

Dalle piazze agli ambienti chiusi in “La meditazione di Mercurio”, gli oggetti e biscotti ferraresi su fondo blu in primo piano, il busto della divinità pensosa in fondo; e nell’“Interno metafisico con testa di Mercurio”, 1973, nella cornice di squadre, con l’ampia apertura sull’esterno dove spicca la statua, questa volta di spalle, con la fuga di arcate e il cielo nelle stesse tre gradazioni ora citate. In “Vita silente metafisica con busto di Minerva”, 1973, la statua della divinità, assorta com’era Mercurio, è tra due arcate dietro alla natura morta con grappoli d’uva e mele, banane e cocomero.

E’ un ritorno all’antico rassicurante, al punto di stimolare la creatività ad andare ancora oltre l’innovazione metafisica consolidata. In “Trovatore”, databile 1972, ritroviamo il manichino finalmente a figura piena, in posizione eretta con le squadre in evidenza, tra due arcate ai lati e il treno sbuffante sullo sfondo dello stesso cromatismo nel cielo; notiamo che, mentre è senza braccia, le gambe assumono un aspetto corporeo non più inanimato, fino ai piedi perfettamente modellati.

La mutazione della Neometafisica

Assistiamo, quasi in diretta, alla vera e propria mutazione prodotta dalla Neometafisica: riaffiora la carne viva tra le forme inanimate del manichino, gli stessi volti ad uovo non sono più inespressivi, appaiono molto umani. Così “Il pittore di cavalli”, 1974, addirittura guarda verso l’osservatore con il volto a uovo dal fare interrogativo, braccia e gambe di carnagione rosea, per il resto “il quadro nel quadro”, con il cavallo che sta dipingendo rendendo vivo il modello scultoreo, e la finestra su uno sfondo di templi e ruderi.

Un “quadro nel quadro” anche in “Il Contemplatore”, 1976, raffigura un castello su uno sperone di roccia con un albero in primo piano, questa volta il manichino non lo dipinge ma lo contempla; è di nuovo senza braccia come “Trovatore” e le gambe sono tornate inanimate, ma il collo è carne viva e la testa ad uovo esprime sentimenti.

La “reincarnazione” del manichino va ancora avanti in “Il Pensatore”, 1973, petto e braccia, mani e piedi sono umani, la testa ad uovo quasi non si nota, anche perché nel corpo sono affastellati gli oggetti espressivi del “vissuto”, busti e colonne, libri e altri elementi caratteristici dell’archeologia umana di de Chirico; ai due lati un’arcata e un tempio con il praticello verde fiorito e la scritta interrogativa nella mano sinistra del “pensatore”: “Sum sed quid sum”:

Sono figure sedute, come gli originari “Archeologi”, ma il fardello del “vissuto” costituito dagli oggetti in grembo è molto più leggero, e in alcuni manca del tutto quasi se ne fossero liberati.

In questa “escalation” di umanizzazione, “Edipo e la Sfinge”,1968-69, ha il corpo fatto di carne esposta alla vista, del manichino resta solo la testa ad uovo ma espressiva al punto da poggiare sulla mano quasi come nel primo autoritratto alla Nietzsche, e il petto fasciato da una corazza con il “vissuto” di templi e case sopra il peplo che avvolge i fianchi; addirittura la Sfinge alata ha il seno nudo su uno sfondo di rocce con uno squarcio di cielo azzurro percorso da sottili striature di nuvole.

Restando nel mito, “Il rimorso di Oreste”,1969, presenta la massima umanizzazione del manichino: il corpo è interamente nudo, la carne viva ha i muscoli ben modellati, la testa è a uovo ma dello stesso incarnato del corpo, tra le squadre lignee degli interni metafisici, con un’ombra frastagliata che ricorda i soli spenti di altre sue celebri opere, come “Sole sul cavalletto”, dello stesso periodo; ancora con finestre colore del cielo in una prospettiva esterna quasi liberatoria.

Al culmine del “ritratto fantastico”

Dopo avere toccato in precedenza il culmine del ritratto classico con le incarnazioni maschili e femminili della sua ritrattistica tradizionale, abbiamo ora rievocato il ritratto strettamente metafisico, quello dei manichini inanimati. Stiamo per toccare il culmine del ritratto fantastico.

Vediamo due figure in coppia, la prima è “Il Figliuol prodigo”: mostra un giovane in piedi, il corpo nudo in un incarnato roseo, mentre appoggia la mano sulla spalla della figura inanimata e inespressiva seduta con il sovraccarico di templi e colonne, che ne paralizzano il corpo e le braccia bloccate e irrigidite; ci ha ricordato la trasfigurazione di Pinocchio da burattino a ragazzo in carne e ossa, sembra che la figura seduta sia inanimata perché la forza vitale ne è uscita materializzandosi nel giovane aitante, novello Ebdòmero. Un suo precedente “Figliuol prodigo”, di un anno intenso, il 1922, abbinava il figliuolo, che in quel caso era un manichino metafisico, alla figura paterna trasformata in statua marmorea ottocentesca scesa dal piedistallo per abbracciarlo.

La seconda coppia è “Oreste ed Elettra”, 1974, del manichino ha solo la testa a uovo, si vede il petto dalla carnagione rosea, cinge con il braccio destro una figura completamente umana, il cui volto è addirittura incorniciato da baffi e barbetta nera; entrambi hanno un abito molto elaborato.

Così si è compiuta la mutazione, dopo la rivoluzione della figura umana trasformata in manichino per eliminarne l’individualità e farne un archetipo universale, il processo inverso, graduale, come abbiamo visto nella sequenza delle opere esposte: l’umanità, e quindi l’identità torna nel manichino dove la vita pulsa con la forza della carne che ne fa sentire tutto il calore riconquistato.

Il constatare che ciò è avvenuto nella tarda età dell’artista, a ottanta anni e oltre, fa riflettere sulla straordinaria creatività e soprattutto vitalità e freschezza giovanile che lo ha sostenuto fino all’ultimo facendogli compiere un percorso stilistico e di contenuti, artistico e umano,  stupefacente.

Consideriamo in quest’ottica “Gladiatori dopo il combattimento”, 1968, il fatto che sia di qualche anno anteriore a quelli ora commentati indica che si è trattato di un processo prolungato e non episodico: tanto sono forti e umane queste figure da far pensare che la spinta verso l’umanizzazione fosse irresistibile. E’ l’impulso che aveva prodotto sin dal 1948 la serie dei “Bagni misteriosi”, le cui figure nude, maestose e statuarie rispetto ai dimessi omini vestiti, si possono associare a questi gladiatori, per null’affatto minacciosi e battaglieri, i volti freschi di gioventù sono ripresi nella loro umanità: con i corpi pronti alla lotta i gladiatori, immersi nel lavacro dei bagni misteriosi gli altri.

Negli spettri non solo la tragedia, anche la visione di un mondo migliore

De Chirico resta sempre metafisico, secondo Lorenzo Canova, “con lo sguardo del vaticinatore che scopre realtà ignote non solo nelle cose, ma anche negli stessi esseri umani”. Mediante la trasformazione degli uomini “in statue e spettri” l’artista vuol far percepire che sono immagini generate “da uno sguardo che oltrepassa le apparenze per scoprire una verità drammatica”. E’ l’enigma del ritratto, attiene al più generale aspetto delle cose che – come abbiamo già sottolineato citando lo stesso artista – si può penetrare al di là dell’apparenza che è sotto gli occhi di tutti, solo con l’astrazione metafisica di “rari individui in momenti di chiaroveggenza”.

Canova collega il ritratto alle altre opere della metafisica, abbinando la spettralità al meriggio, dove la mezzanotte coincide con il mezzogiorno, come la luce con l’ombra nella congiunzione nietzschiana dei contrasti “che mantiene però la complementarità degli opposti”; in questo facendo eco alle parole di de Chirico sul “senso notturno della luce, il senso della mezzanotte al meriggio”.

Non vi è solo il “senso della tragedia” evocato dal critico che cita la scritta “nulla sine tragoedia gloria”. De Chirico nel “Discorso sulla materia pittorica” pone gli “spettri” in una luce diversa definendo l’elemento metafisico in pittura “quel fenomeno misterioso e sacro che ci mette di fronte al Talento Universale e ci permette di vedere un mondo migliore, un mondo che consola delle miserie e delle banalità degli uomini: un mondo superiore, eterno e perfetto, dove regna il genio”.

Forse ha voluto esprimere anche questo nell’ultima fase della sua parabola creativa, parallela alla parabola umana: “In tarda età – sottolinea Katherine Robinson –  l’artista sembra aver risolto il mistero del Tempo, dimostrando una potenza creativa e una straordinaria giovinezza di spirito. Ora il Manichino si umanizza, con un corpo in carne e ossa e delle mani e braccia ‘vere’ che gli permettono di agire”. Tanto più – sempre per la curatrice – che “la lunga attività ritrattistica di Giorgio de Chirico può essere letta come un ‘ritratto’ della propria arte, una biografia della forma”.

A questa visione artistica e filosofica si riferisce il titolo della mostra: “Il ritratto, figura e forma”.

I disegni metafisici e  le sculture, l’accoppiata finale

Anche qui, come nei ritratti classici, il disegno con gli acquerelli ha accompagnato la pittura. “Minerva e l’oggetto misterioso”, 1973, fa da “pendant” con “Vita silente metafisica con busto di Minerva”, in entrambi lo stesso busto della divinità, un tendaggio invece dei templi, uno scampolo della sua oggettistica simbolica al posto della natura morta di frutta; come “Il mistero di Manhattan”, sempre 1973,  associato a “Interno metafisico con testa di Mercurio”, la divinità è la stessa, dalla finestra invece della piazza metafisica si vedono i grattacieli newyorkesi. Così l’acquerello “Il segreto delle Muse”,1972, sembra addirittura un fotogramma in sequenza con il “racconto” del dipinto successivo “Le Muse inquietanti”, 1974: la Musa che nell’acquerello è in piedi, nel dipinto si metterà a sedere, e il manichino che invece è seduto, salirà sulla colonna, restano la statua e lo sfondo di edifici che nel dipinto sono più vicini e vistosi.

Negli acquerelli c’è la sublimazione, “Trovatore in cielo”, 1975, è sempre senza braccia ma si libra nell’azzurro tra le nuvole. Di qualche anno prima “I ballerini”, 1971, dedicato “a Isa con tanti auguri”: si può constatare subito come siano leggiadre le loro movenze e come siano espressivi i loro volti sebbene costituiti dal caratteristico uovo senza lineamenti né fisionomia; i corpi sono umani, si vede e si sente la carne, con l’anima e il cuore, la dedica è quanto mai eloquente.

Tanto calore, dunque, nelle opere di una fase della vita nella quale molti grandi artisti tendono a rabbuiarsi per non dire incattivirsi, ad esprimere freddezza e distacco se non depressione, l’opposto di de Chirico. E l’impegno fino all’ultimo nel “d’aprés” del “Tondo Doni”, 60 anni dopo la sua prima copia d’autore, esprime questa ritorno alla freschezza e alla vivacità giovanile.

Abbiamo parlato dei disegni e acquerelli oltre che dei dipinti. Ma non è tutto, la mostra presenta anche 7 sculture nelle quali esprime plasticamente quanto ha manifestato con la forma e il colore. D’altra parte lui stesso dice che la scultura deve essere morbida come la pittura, e come sempre oltre a fare enunciazioni teoriche si mette alla prova. Nelle “enclaves” dei vari settori espositivi le sculture, tutte tra il 1968 e il 1970,  sono collocate al centro dell’ambiente. Così abbiamo visto “Le Sibille” e “Le Muse inquietanti”, “Trovatore” e “Il Pittore”, “Penelope e Telemaco” e “Manichini coloniali”,quest’ultimo raffigura una coppia seduta con i petti coperti di orpelli. Tutte le sculture meno “Le Sibille” – fedele trasposizione della composizione pittorica –  immortalano il manichino con la testa ad uovo nelle molteplici incarnazioni nate dal genio dell’artista.

Ed è con una scultura associata a una pittura, che vogliamo concludere il nostro viaggio nel ritratto di de Chirico dopo un percorso appassionante che ci ha portati, nella nostra metafora stradale, dal “rettilineo” degli autoritratti e poi del ritratto classico, alle “enclaves” della metafisica e della Neometafisica umanizzata. La scultura è “Il grande Metafisico”, un bronzo dorato del 1970 con il manichino ritto sopra i templi e su altre strutture che fanno da piedistallo del monumento di se stesso, e sostituiscono le squadre lignee e gli altri supporti del dipinto dello stesso nome che risale al 1917; il dipinto quasi contemporaneo è “Il Meditatore”, 1971, una figura seduta con gambe e mani in vista sotto un viluppo che la avvolge di pensieri e di problemi, quasi una smisurata barba bianca; il “pensatore” creato da Renzo Arbore per una lontana trasmissione televisiva della notte aveva una folta selva di capelli arricciati,  chissà se si ispirava al meditatore dechirichiano?

Sono i due estremi tra i quali, in definitiva, si muove la vita, dell’artista e di tutti: la fase volitiva e la meditazione. De Chirico ci ha insegnato che fino all’ultimo entrambi questi momenti possono essere onorati. Nella consapevolezza della propria umanità e per cercare con tenacia una risposta all’interrogativo che si pone il suo “Pensatore”: “Sum sed quid sum”.“Sono, ma cosa sono?  E’ il “conosci te stesso” della filosofia che viene declinato mirabilmente anche nella sua pittura.  

Info

Fortezza di Montepulciano. Lunedì ore 16,00-20,00; da martedì a domenica 10.00-22,00 (ultimo ingresso ore 21,15). Ingresso intero 7 euro, under 25 ridotto 5 euro, under 12 gratuito. On line su circuito prevendita http://www.vivaticket.it/, tel. 0578. 757007. Catalogo bilingue, italiano e inglese, dal quale sono tratte le citazioni del testo: “Giorgio de Chirico. Il Ritratto, figura e forma”, a cura di Katherine Robinson, Maretti Editore, giugno 2013, pp. 192, formato 23×28, euro 30. I nostri due precedenti articoli sulla mostra sono in questo sito il 20 e 26 giugno 2013, con 6 immagini ciascuno. Per le mostre precedenti su de Chirico cfr. i nostri servizi in “cultura.abruzzoworld.com”: nel 2009 “I disegni di de Chirico e la magia della linea” il 27 agosto, “A Teramo de Chirico” ed altri grandi artisti italiani del ‘900 il 23 settembre, “De Chirico e il Museo, il lato nascosto dell’artista incompreso” il 22 dicembre; nel 2010 “De Chirico e la natura. O l’esistenza?”, tre articoli l’8, il 10 e l’11 luglio.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Fortezza di Montepulciano alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti, in particolare la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, per l’opportunità offerta. In apertura “Le maschere”, 1973; seguono “Trovatore”, databile 1972, e “Oreste ed Elettra”, databile 1974, poi “Il rimorso di Oreste”, 1969, segue “Il Pensatore”, 1973, con a destra “Il Meditatore”, 1971, e davanti la scultura “”Manichini coloniali”, 1969; in chiusura un'”enclave”  metafisica, al centro “Edipo e la Sfinge”, 1968-69, e “Il Figliuol prodigo”, 1973, la prima scultura è “Penelope e Telemaco”, 1970, la seconda “Le Sibille”, 1970.