Padiglione Italia, 2. Artisti contemporanei nel Lazio

di Romano Maria Levante

Si conclude il racconto della visita alla mostra di Roma, a Palazzo Venezia, aperta dal 24 giugno al 22 settembre 2011, con le opere degli artisti della Regione Lazio del periodo 2000-2010, che hanno espresso la creatività contemporanea della regione, nel quadro del Padiglione Italia all’Arsenale di Venezia, che ha coinvolto tutte le regioni e tutti gli Istituti di cultura italiani all’estero. La manifestazione, curata da Vittorio Sgarbi per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, e organizzata da Arthemisia con l’apporto della Fondazione Roma Arte-Museiè stata innovativa: gli artisti selezionati da una Commissione di intellettuali e non dai critici d’arte.

Riprendiamo il racconto della visita dinanzi al quadro di impronta classica di Giovanni Tommasi Ferroni, che sembrava uscire dalla contemporaneità nella forma e nel contenuto:  l’“Aurora boreale a Roma” era un cocchio celeste con sopra le divinità, il cavallo ricordava quelli famosi di Paolo Uccello, l’Aurora ci richiamava la sua dea, Eos, e la sua eterna storia d’amore con Titone,  un rampollo della famiglia di Priamo che per sua intercessione ebbe da Giove l’immortalità, ma la dea dimenticò di chiedere per lui l’eterna giovinezza. Qui, però, il cocchio era affollato, mentre Eos, nella storia narrata dal romanzo spettacolare di Paolo Andreocci, “Eos e Titone”, sul proprio  cocchio era sempre sola, libera nei suoi amori.

Si affollavano i ricordi di quella appassionante lettura, mentre lo sguardo andava sul quadro vicino, dal titolo “Per quel che ricordo”, di Coralla Maiuri, un’immagine altrettanto serena e liliale: due grandi fiori dalla corolla azzurra e blu che fluttuavano nell’aria.

Una scultura  molto particolare ci riportava sulla terra, “Il mimo” di Mario De Luca, in pezzi di materia, ottone, rame e bronzo, tenuti da fili metallici, notevole il dinamismo reso dai materiali.

Altri ambienti, altre espressioni fotografiche della contemporaneità, di Michele Zara, “Corpo iniziale”,  due riprese di un viso intenso dipinto come una maschera, su fondo nero altrettanto intenso;  di Claudio Valenteun nudo erotico, “Sogno”; ben diverso da “Doppio sogno” di Barbara Salvucci, una sorta di tunnel lungo due metri fatto di spirale di ferro, che si allargava alle estremità. Vicino all’eccitante  sogno due paesaggi molto diversi, “Respiro” di Claudio Valenti, un figurativo con il verde della campagna fino all’orizzonte, e “Transito” di Franco Viola, tre livelli cromatici molto netti, giallo, rosso arancio e blu, molto netto ed efficace.

Mentre il “doppio sogno” rimandava a certi incubi notturni, anche se il tunnel non era opprimente essendo la spirale aperta tutt’intorno, non si aveva tale l’impressione dinanzi al grande albero intitolato “Senza ombra di dubbio”, di Teresa Emanuele, in tecnica varia. Fosse stato o meno l’albero della vita, nella sua centralità da protagonista ci ha ricordato l’albero del film “Alamo” , che John Wayne additava alla donna ammirandone l’imponenza, la notte prima della battaglia in cui è destinato a soccombere con gli eroici difensori del forte americano assediato dalle forze preponderanti messicane. Un parallelo personale il nostro, il quadro evocava  i tanti alberi scolpiti nella memoria o immortalati dall’arte, ricordiamo le stilizzazioni progressive di Mondrian. Molto indovinato metterci vicino “Il folle volo” di Stefano Piali, diversissimo in tutto, essendo un grande cerchio in resina e bronzo, ma altrettanto poetico nell’ispirazione e nella fattura  che delineava in modo appena percettibile le sembianze di Icaro.

Da questa visione poetica alla rude realtà il passo era breve, l’immagine del volto di bimba in bianco e nero con una corona di spine e la scritta “sinite parvulos venire ad me”, “I’m raped”  il drammatico titolo, autore Guido Fabrizi.  Edificante, invece, nel titolo, “Fede, speranza, carità”, posto a lato, ma le tre immagini di Lara De Angelis contorte e dai colori violenti esprimevano esse stesse sofferenza. Altro tipo di violenza nelle immagini fotografiche ravvicinate di un doppio Tyson, proposto da Stefano Mezzaromacon il titolo “Don’t look at me”. come diverse le delicate “Monocromie di ritmi viola” di Renata Rampazzi e “Silenzi” che Mario Moretti esprimeva in un arancio omogeneo con appena visibile il profilo di una montagna, il colore spegneva il suono.

Impressionante il “Deus absconditus” di Giovanni Gasparro, viluppo di corpi nudi tenuti dai fili di un burattinaio di cui si vedevano solo le mani, inquietante come lo era “La sposa” di Lithian Ricci, sospesa nell’aria in posizione yoga con a lato la misteriosa figura nuda efebica dalla testa di animale del presunto sposo. L’ambiente era ravvivato dal rosso di “Islands” di Renzo Bellanca, come dall’azzurro del cielo su “Corso d’Italia” di Giulio Catelli, e soprattutto dal“Notturno di Roma dipinto dal vero”, di Giovanni Di Carpegna Falconieri,  in giallo ocra alternato al nero.

Enigmatico e festoso il  “Sorriso per la speranza” di Augusto De Romanis, metà di un viso che sbocciava dal verde sullo sfondo rosso, ricordava una fisionomia inconfondibile ma senza occhi non si può esserne sicuri, poi non vorremmo buttarla in politica. Altrettanto festoso, quasi naif, ma forse amaro in chiave femminista, “Come tu mi vuoi” di Giovanna Picciau, una galleria della donna nelle diverse incarnazioni e ruoli in cui la confina la sopraffazione operata dal maschio.

“Noi” di Teresa Coratella una tavolozza di colori con forti pennellate, al suo fianco “Lungomare” di Mariano Filippetta uno specchio di un blu profondo. Come lu lo sfondo del bel “Ritratto di Marcia Teopphilo poetessa” di Aldo Turchiaro, il fascino della donna, quasi una matrioska, e il mistero del gatto sulla sua spalla, intorno il volo degli uccelli; enigma e fascino, mito e mistero.

L’incomunicabilità era espressa da Silvia Codignola con “La cena primaria”, le due persone agli estremi della  lunga tavola avevano le braccia conserte che esprimevano chiusura in se stessi e lo sguardo spento e perso nei visi che non si distinguevano nel buio era senza espressione. Mentre “Il ragazzo seduto in terra” di Marco Cola, pur nel suo isolamento, aveva lo sguardo vivo.

Niente era buio come “Magik (negative and positive pole)” di Orazio Battaglia, uno specchio di un nero profondo e null’altro; al quale accostiamo, per associazione cromatica, lo specchio blu visto in precedenza. Altrettanto nero “Il più ignobile e macchina del tempo con immagine virtuale” Gabriella Di Trani, in video galleggiava in rilievo l’immagine colorata dipinta nel quadro vicino,  una bocca che afferrava un oggetto a strisce.

Erano neri  anche gli “Alberi” di Lorenzo Cardi, in nove fogli e “L’eterno cammino in salita” di Lughia, quattro pannelli con una lunga teoria di figure incolonnate, quasi verso il nulla, o chissà dove. Le “Strutture per un vortice” di Sinisca, tecniche miste in acrilico e acciaio davano, in bianco e nero, una diversa dimensione, con uno spettacolare  grande occhio metallico centrale. Mentre Giorgio Galli ammoniva che “Nessun futuro è per sempre”,  con un grande ovale dai bordi rossi che contrastava con lo specchio nero esposto al suo fianco.

Un camion carico di piante in uno sfondo di colline, dove trionfava il verde colore festoso, segnava il ritorno della vita attiva, per così dire, era “On the road” di Amodeo Savina Tavano. “Lux – Lex Io sono un altro te stesso” veniva visualizzato da Alessandro Fornari in due complessi monumentali, verde e rosso contrapposti i cui guerrieri armati di lancia sembravano voler combattere l’uno contro l’altro.

L’umanità tornava con Daria Paladino, che in “Enzo Cucchi” mostrava un grande viso espressivo in un bianco e nero di straordinaria intensità. Spiccava ancora di più a lato del trittico “Il viaggio” di Francesca de Angelis, macchie viola su fondo bianco, nelle quali si intravedevano dei volti umani, uno richiamava lo sguardo di Cucchi.

Nell’altro lato di Cucchi i colori squillanti di Antonio Fiore, squarci cromatici  tricolori e non solo con delle lane ed alabarde rosse che inquadravano il piccolo testo della Costituzione quasi fosse una reliquia da proteggere, il titolo era “Unità d’Italia – 150 anni”.

Di fronte “Ternario, silenzi provvisori” di Alberto Abate, due giovani seduti agli estremi dello stesso divano ma lontani anni luce, la forma del quadro li divideva anche con una cesura, alla mano protesa di lei corrispondevano le mani raccolte di lui, gli sguardi spenti nel vuoto. Ben più vivo, pur nella sua solitudine, il “Ragazzo seduto per terra” di Marco Cola, gli occhi vivi da scugnizzo pronto a scattare.

Poi la “Pentecoste”  di Mario Verolini, in uno sfumato sull’arancio molto espressivo, alberi scuri in primo piano, una costruzione dai contorni indefiniti e nuvole a strisce sul cielo azzurro.. A lato le nere piramidi dei “Riverberi” di Giovanni Papi,e i colori della composizione geometrica “Alla frontiera dell’essere”, di Manlio Amodeo, dove l’armonia e le forme  davano un’immagine liberty, sembrava un lego montato con cura e precisione.

Colpivano diverse immagini fotografiche, la fotografia è considerata una forma d’arte primaria. Di Piergiorgio Branzi diverse immagini in bianco e nero, una natura morta e un grande pesce, una coppia di sardine e una finestra a Parigi con dietro una figura indistinta; e due foto in tinta pastello con il cine club Las Vegas, una fila di sedie vuote e una panca con sopra un vecchio quadro di una diva. Mentre di Andrea Papi cinque piccole immagini del suo studio sul movimento, i fiotti di luce rompevano l’oscurità in modi diversi, creando un movimento luminoso. Vicino “Autoritratto” di Gino Guida, tutto giocato sul nero con risalto dato dalla luce alla faccia e alle mani, leggermente arrossate, il bianco della luce segmentava anche l’ambiente oscuro.

Come non citare infine il teatrino dei pomodori di Giacarlino Benedetto Corcos, il sipario si apriva su 42 macchie di colore con schizzi, lettere e simboli, a terra pietre dipinte, la fantasia pura di un’infanzia felice resa dai tocchi di colore e dai segni fine a se stessi, senza intenti simbolici. ‘enclave della Fondazione Roma Museo

Erano poi esposte opere dei 14 artisti selezionati direttamente dalla Fondazione Roma Arte-Musei, ai quali era riservata la sala centrale, ne parliamo a conclusione del nostro racconto della visita.

Ricordiamo due opere diAlberto Di Fabio, ci avevano colpito i titoli molto diversi, “Spazio curvo” e “Neurone rosa”, sebbene i dipinti si differenziavano più nel colore che nella forma e contenuto, erano delle ramificazioni, la prima su sfondo celeste, la seconda rosa.

Mentre spiccavano come esplicite e molto espressive le tre opere di Massimo Giannoni, due intitolate “Libreria”, la terza doppia, “Interno di Borsa Nyse”: colpiva la realizzazione minuziosa e sapiente, nella materia e nel colore, come nella composizione, veramente rimarchevoli.

Suscitavano inquietudine,  come certi sogni, le due opere di Angela Pellicanò, del resto il titolo era “Dream Experience, trilogia di agosto”.suo anche il “Sonno di Greta”, immagini allucinate,

L’inquietudine raggiungeva il diapason dinanzi ai tanti volti e figure femminili  disperate e anche sanguinanti, dal titolo “This humanity series circle of sinners, the collector, di Matteo Basilè, 54 fotografie, tante quanti i volumi della “Treccani sott’olio”, stesso numero per contenuti così diversi. 

Di fronte alle 54 figure dolenti, 20 stoffe come cuscini con sopra impronte di mani rosse, non sappiamo se insanguinate o colorate, e anche blu, un “pendant” anch’esso intrigante, è “Schone Traume” di Bruno Ceccobelli.

In tela anche “Lenzuolo” di Gianfranco Goberti, a righe nere verticali, appeso al lato del quadro dello stesso autore “Camicia”, tessuto ripreso in primo piano in acrilico su tela, una bell’immagine.

A questo punto la scena era occupata dal  “Cielo rovesciato”  di Tommaso Cascella, grande installazione dal diametro di quattro metri con le costellazioni sopra il grande cerchio planetario.

Torniamo alla pittura con Innocenzo Odescalchi, tre opere in tecnica mista, scritture perdute, grandi caratteri grigi tra l’arabo e il cirillico posti in verticale su sfondo neutro e quattro con la stessa tecnica, dal titolo “Corsa araldica”, meri contrasti cromatici tra lo sfondo e i motivi indistinti ma con figure animali disegnate ai margini.

Contrasto cromatico tra la parte inferiore rossa e quella superiore grigia con richiami rossi in “Il senso del dentro” di Enrica Capone, le pennellate rosse centrali evocavano l’impronta digitale; suo anche “Strappo”,  un binomio cromatico, questa volta pastello, color avorio e nocciola.

I tre “Senza titolo” di Emanuele Diliberto meritano di essere ricordati per i colori e le figurazioni, alcune come improvvise apparizioni che è difficile qualificare, li associamo agli spiritelli o peggio che Echaurren mette nei dipinti per esorcizzare il maligno. E’ un’associazione del tutto personale, la visione non era inquietante, invitava ad approfondire il significato nell’assenza del titolo.

Una sezione di questa parte dell’esposizione valorizzava l’espressione fotografica con tre grandi opere di Jonathan Guantalmacchi, British black great target”, “British black my home”, e “British black battersea power”, quest’ultimo su tre livelli, in tecnica mista su tela, visioni dall’alto di ambienti metropolitani che lasciavano stupefatti per la loro imponenza, segnata dai forti contrasti volumetrici in bianco e nero.

Nella parete accanto tre opere molto diverse di Enrico Benetta, grammaticalmente perfetto, “Acrobazie” e “Il sacro Graal”, lettere in ferro applicate a sporgere confusamente su un fondo con raffinate scritture corsive in oro.

Mentre trionfavano i colori è in “Vento, fuoco, vapori” di Mikel Gjokaj, tre oli su tela spettacolari per il modo con cui era espressa cromaticamente la forza della natura. “Afa” e “Rispecchiamento”  dello stesso autore rendevano in un cromatismo più sfumato altri fenomeni naturali.

Concludiamo con Maurizio Savini, la sua “Sindrome di Pilato” era una scultura in fiberglass e ferro, un uomo in rosa, giacca e cravatta, camicia e scarpe in tinta se ne lavava… il tricolore, a lato uno stendipanni con la bandiera Usa e arboscelli coralliferi.

Con “Gente d’Italia” l’unità nazionale nelle identità regionali

Vogliamo chiudere ricordando le immagini di artisti che si sono ispirati al sentimento nazionale nell’anno della celebrazione del 150° dell’Unità d’Italia. Le abbiamo già descritte, dal tricolore lavato dal novello Ponzio Pilato fino alla raffigurazione fortemente simbolica del piccolo testo della Costituzione tra bagliori cromatici dove spicca il tricolore. Anche nell’estrema libertà dell’arte contemporanea espressa dalle opere esposte c’è stato spazio e modo di celebrare valori fortemente sentiti. In un modo originale e non scontato, certo, ma  non per questo meno espressivo. 

E’ stata una sorpresa, certamente positiva, venuta dalla mostra di Palazzo Venezia, varia e multiforme, una carrellata fuori da ogni conformismo sulla creatività contemporanea; in questa sede per la regione Lazio – e forse è l’esposizione locale più ricca, come è stato detto – ma ve ne sono state in ogni regione e anche in più sedi, nelle Marche ad Ancona, Mole Vanvitelliana, e ad Urbino.

Sarebbe l’ideale far seguire a questa ricognizione dei talenti di oggi nell’assoluta libertà dell’arte contemporanea una panoramica di come i talenti di ieri si sono ispirati alla propria terra, anche a questo riguardo a livello regionale, per raffigurarne vita e costumi. Un esempio lo ha offerto la mostra “Gente d’Abruzzo” del 2010 alla Pinacoteca di Teramo, con le opere di artisti abruzzesi dell’800-primi del ‘900 che hanno espresso il “Realismo sociale” della vita di allora, nel lavoro, l’ambiente naturale e non solo. Perché non dare un seguito di questo tipo al “Padiglione Italia” regionale? Le mostre di ogni regione potrebbero essere itineranti nelle altre, dando luogo a un intreccio di culture e costumi trasmesso all’intero paese, evidenziando le radici comuni pur nelle precise identità. Non sarebbe una premessa culturale e popolare per quel federalismo che, come è stato per l’Europa rischia altrimenti di essere un’espressione geografica poco radicata nella gente?

Dopo “Gente d’Abruzzo”, quindi, ogni regione potrebbe mostrare la sua “gente”. I mosaici regionali con le tessere costituite dalle opere degli artisti locali ispirate alla propria terra verrebbero a comporre il grande affresco della “Gente d’Italia”, dando forma visiva a quell’unità nazionale nella diversità regionale evocata nei convegni di studio. Non è mai troppo tardi per un’iniziativa del genere, gli anniversari non mancano se si volesse legare a particolari ricorrenze istituzionali. L’immaginario collettivo ne sarebbe colpito, con la maggiore conoscenza reciproca delle radici artistiche e culturali regionali si accrescerebbe la coesione nazionale e il senso di appartenenza. Per la contemporaneità, invece, le mostre regionali sono state sufficienti, non occorre che siano itinerante, l’ispirazione non è locale ma globale; per fissare le identità, è necessario invece ricorrere  agli artisti che alla formazione dell’Unità d’Italia hanno fissato il volto delle sue componenti.

E con quest’immagine che lega contemporaneità e storia patria e l’auspicio che si possa comporre l’identità della “Gente d’Italia”  quale appare dalle sue componenti regionali espresse nell’arte, termina il racconto della nostra visita a una mostra innovativa e anticonformista. L’emozione e gli stimoli che ci ha dato allora permangono ancora oggi, dopo due anni, per questo abbiamo voluto farne partecipi i nostri lettori.

Info

Il primo articolo sulla mostra è stato pubblicato in questo sito l’8 ottobre 2013, con altre 10 immagini.

Foto

Le immagini sono state riprese alla presentazione della mostra da Romano Maria Levante o fornite dall’organizzazione, si ringraziano Arthemisia e la Fondazione Roma, con i titolari dei diritti. In apertura, Vittorio Sgarbi, con a destra Emmanele F. M. Emanuele, alla presentazione del Padiglione Italia – Lazio; seguono opere di  Barbara Salvucci  e Teresa Emanuele, Mezzaroma e Branzi, Pellicanò e Cascella; infine un quadro con gli eroi del Risorgimento nell’orifiamma intorno alla Coatituzione; in chiusura, di Fantastichini,   “Monumento al caos”, la piramide all’ingresso della mostra a Palazzo Venezia.