Giosetta Fioroni, monocromie e ceramiche, alla Gnam

di Romano Maria Levante

Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna dal 26 ottobre 2013 al 26 gennaio 2014 l’opera di Giosetta Fioroni in due  esposizioni strettamente collegate: “L’argento”, curata da Claire Gilman, sulle pitture monocrome e i disegni; e “Faience”, curata da Angelandreina Rorro, sulle ceramiche con Teatrini e Vestiti,  le figure femminili policrome dal titolo tra il sostantivo e il participio. Per la mostra è uscito il libro “My story, la mia storia”, con le sue confidenze sui 60 anni .di vita artistica.

Due mostre in una per la doppia  espressione di Giosetta Fioroni,  che riflette motivi legati alla sua arte e anche alla sua vita. Argento e ceramica come mezzi espressivi della sua passione per le forme teatrali,, considerando che il padre modellava figure in argilla per il teatro di burattini allestito dalla madre:  figlia d’arte con i genitori che si erano conosciuti all’Accademia delle Belle Arti di Roma.

La sua vita artistica incrocia molto presto le  avanguardie americane della Pop Art insieme agli artisti che con lei animavano la galleria “La tartaruga” e la scena artistica romana, dal gallerista Plinio De Martiis con il collezionista Giorgio Franchetti agli artisti Mario Schifano e Tano Testa, Franco Angeli e Jannis Kounellis, uniti nella cosiddetta “Scuola di Piazza del Popolo”, dal luogo dei loro incontri quotidiani.

Ci fu un forte influsso americano, ma non tale da far abbandonare il figurativo né a lei né agli altri artisti romani, loro tra gli elementi della Pop Art inserivano sfondi o contorni legati a immagini familiari. La Fioroni visualizzava queste immagini con un montaggio di simboli quasi geometrici mentre  la spinta dell’arte informale in Europa traduceva l’espressionismo astratto d’oltre Atlantico. Vi erano  resistenze a recepire la Pop Art  in un rapporto quasi di amore-odio; attrazione per la sua carica innovativa e senso di repulsione per l’incultura artistica del mondo che l’aveva generata.

La risposta fu di cogliere la sfida recependone le novità rivoluzionarie, ma senza accettare la spersonalizzazione del soggetto dominato dall’oggetto  per il consumismo alienante: l’oggetto è sempre protagonista ma vi è la costante presenza del soggetto, quella che conta è la percezione che ne ha. In questo l’artista è stata esemplare, come ha scritto Renato Barilli: “In un’epoca in cui il valore visivo è fortemente screditato, Giosetta Fioroni coraggiosamente afferma la sua fedeltà alla vista”, e aprecisa:”Abbiamo qui una sfida costante a quelle correnti che oggi credono  sia impossibile per l’artista lavorare secondo i normali atti della percezione”.  E anche se la vista rischiava di essere “sedotta e dominata dal suo oggetto”, costituiva pur sempre “le basi della consapevolezza critica e del giudizio”.

C’era molta sensibilità su questo piano, perché se il “regime del consumo” sembrava aver sostituito il regime politico abbattuto dalla guerra, si sentiva il bisogno di costruire qualcosa di solido, come espressione di esattezza e geometria, per raggiungere un risultato di armonia. Lei stessa nel 1960 dice: “Cercavo la leggerezza , qualcosa che proprio trascorre, qualcosa che potrebbe essere immaginato come una serie di inquadrature… Sono tutte pose congelate… miravo proprio a creare una sensazione di fissità, di fissazione intesa come immobilizzazione del movimento”.

Così nasce, nel 1959 la sua “pittura argentata all’alluminio”, cioè il suo “Argento”.

“Argento”,  i volti nella pittura monocromatica

Claire Gilman, curatrice della mostra “Argento”, cita la definizione data dalla stessa artista: “Un ‘non colore'”  tale da cancellare  i colori di cui si era abusato fino ad allora, e che “avrebbe attirato l’attenzione, la percezione, delle persone che osservavano le mie tele”. Ed ecco  l’interpretazione della Gilman: “L’‘argento’ di Giosetta Fioroni rappresentava una sorta di evacuazione, una rimozione, che la condusse dai primi disegni a una serie di immagini spoglie in cui l’artista isolava i singoli oggetti ritratti nei primi lavori, come un letto, una lampadina o un cuore, e li posizionava su superfici che per il resto erano vuote”. 

Così nascono i primi tre monocromi argentati  del 1960,  tele argentate che incorporano disegni, linee che interrompono la superficie continua,  torna al figurativo con figure in argento e grafite isolate. In “Tre bambini”, 1961, le figure non rappresentano tanto la propria realtà quanto il modo con cui ne è percepito il ricordo in un esercizio della memoria che attraversa il tempo e lo spazio.

Negli  anni ’60 si moltiplicano le immagini di volti, riprese da fotografie di  varia provenienza, familiari, anonime, storiche; e soprattutto modelle prese da riviste di moda  e dipinte in color alluminio sulla base di disegni dai contorni netti ma schematici e abbozzati, senza alcun precisionismo. Citiamo l’anonima “Ragazza con occhiali” (1965) e “Lo sguardo”, 1966, stessa  persona;  poi l’attrice Elsa Martinelli, molto in voga in quel periodo, un’eccezione  tra i volti sconosciuti dipinti dall’artista: la vediamo  nei due “Libertà”, del 1964 e 1965, che ricordano l’immagine da una lente telescopica , e nel grande “Glamour”, 1965, in cui il viso emerge  tra un groviglio di linee, “come un sole all’orizzonte”, commenta la Gilman, aggiungendo: “A dire il vero, da sotto queste linee i volti dipinti di Giosetta Fioroni appaiono sospesi, i loro toni argentei ricordano emulsioni fotografiche trasferite sulla superficie della tela”..

L’origine è  fotografica  e le immagini sono quasi incorporee, dall’espressione intensa, triste.  A differenza dei ritratti di Andy Warhol, che ebbe molta influenza su di lei, i suoi non riguardano celebrità – a parte l’eccezione ricordata – e sono realizzati con incisioni su superfici monocrome in cui i ritratti si incorporano. Le diverse versioni dello stesso soggetto non sono mere ripetizioni  come in Warhol ma presentano varianti, come si vede in “Maschera” e “Doppia Maschera”, 1966.

Nel citare “Libertà” e “Glamour” abbiamo sottolineato l’effetto da lente telescopica nel primo, e l’emersione da un groviglio di linee del secondo. Ebbene, questo processo visuale fu portato avanti nell’esposizione “Teatro delle Mostre” presso  “La tartaruga” con una lente telescopica rovesciata in uno spioncino da cui si vedeva  la propria stanza da letto nella galleria, un’attrice simulava i suoi movimenti nella giornata. Abbiamo ritrovato lo spioncino  nella mostra di Duchamp, la Fioroni è stata inclusa tra gli artisti italiani a lui collegati, titolodell’installazione “La spia ottica”.

Non fu un  caso isolato, l’idea dello spioncino l’ha utilizzata per la visione di teatrini o di set su eventi trasformati in scene teatrali visibili con questo accorgimento. Alla base di tutto ciò c’è il racconto, con l’intento di osservare la realtà e riprodurla trasformata offrendola alla visione. La Gilman ricorda le parole dell’artista secondo cui disegnare è servito da “impalcatura o supporto'”, e vi vede ” un terreno per le sue impressioni passeggere e un mezzo per avvicinarsi a un mondo sempre sfuggente”.

“Faience”, Teatrini e Vestiti in ceramica

A questa incursione nel teatro si collega la seconda mostra, “Faience”,  che presenta la serie  “Teatrini” in ceramica, insieme  alla serie “Vestiti”,  ispirate al periodo presso la Bottega Gatti di Faenza, esperienza che ci ricorda quella di Sebastian Echuarren, anche’egli approdato nella stessa bottega faentina alle sculture in ceramica in aggiunta alla sua produzione pittorica e a tutto il resto.

Questa esperienza della Fioroni risale a vent’anni fa, e  a differenza dei disegni e dipinti della serie “Argento”  degli anni ’60, evanescenti o solo abbozzati, mostra, soprattutto nel “Vestiti”,  una forza pittorica precisa e ben definita, dai colori molto intensi.

La precisione delle sculture policrome e l’evanescenza monocroma dei disegni e dipinti  non vengono visti come contrapposti da Maria Vittoria Marini Clarelli, soprintendente della Galleria: “‘Argento’ e ‘Faience’ possono ritenersi i due versanti di un unico evento: l’apparizione”.

In particolare: “Nei dipinti d’argento l’apparizione è intesa come illusione del vedere, vaga traccia  di un’immagine che non si sa bene se stia per comparire o per svanire, immersa in quella che Goethe chiamava la ‘chiarezza nebbiosa’ del paesaggio mediterraneo, sfocato per eccesso di luce. Nei ‘Vestiti’ invece l’apparizione è presenza immaginaria, che oscilla fra evocazione e meraviglia, conservando ‘un’aura conturbante di sortilegio’, secondo un’espressione di Giuliano Briganti”.

Alla base c’è un processo speculare: “Nel primo caso è la realtà che perde consistenza, nel secondo è la fantasia che si solidifica, ma in entrambi siamo trasportati in una zona incerta, indistinta, percorribile solo con lo sguardo interiore della memoria o nell’immaginazione”: sono “varianti sentimentali” per la Fioroni, considerate  “sentimenti spazializzati, atmosfere” dalla Clarelli.

Tenendo conto di queste considerazioni va sottolineata la svolta figurativa e cromatica data anche dalla tridimensionalità delle opere in ceramica: bassorilievi nei Teatrini, statue a tutto tondo nei Vestiti, in cui l’artista si cimenta con il corpo femminile, non solo nella forma della figura ma anche nell’abito che lo copre ed ha un ruolo fondamentale con la sua ricchezza cromatica e ornamentale.

I Teatrini sono allineati nella grande sala della mostra, varietà nella ripetizione del tema, un’esposizione suggestiva. C’è “East of Even”, 1993, uno dei primi realizzati, e “Al grandissimo Arturo M.”, dedicato allo scultore Arturo Martini, 1994, poi i più grandi tra il 2000  e il 2005, ispirati ai racconti di Goffredo Parise e ai suoi primi due romanzi. Ci sono anche teatrini più piccoli quasi miniature di 25 cm, realizzati nel 1995 per l’editore Andrea Franchi, sono le “20 ceramiche per William Shakespeare”, ciascuna ispirata a un’opera di cui viene visualizzato l’elemento chiave. Altri teatrini simili a delle scatole sono ispirati a poemi scenici di Auden,  Marcovaldi, e Arbasino.Questa sezione pur spettacolare, è addirittura superata nell’effetto visivo da quella dei Vestiti: una folla di statue di figure femminili elegantissime fortemente colorate, “semplicemente immobili nel loro portamento”, come l’artista scrisse a  Davide Servadei. Così parla la Clarelli dei corpi femminili vestiti: “Più che fermi paiono fermati, come sulla soglia di una sala da ballo o di un palcoscenico, prima di alzare le gonne e inchinarsi. Sono gli abiti che tutte le bambine, prima o poi, hanno sognato, con le gonne danzanti a campana. Sono bambole al contrario, che hanno tramutato in porcellana ciò che di solito è di stoffa e perduto ciò che di solito è di porcellana”.

Oltre alle bambole fanno pensare ai manichini vestiti con gli abiti realizzati dalla sartoria e anche, con maggiore fascino evocativo, al mondo delle favole: d’altra parte c’è anche Cappuccetto rosso, una delle ultime opere di questo tipo dell’artista, che nel 1978 aveva illustrato il libro di favole di Alberto Arbasino dal titolo  “Luisa col vestito di carta”, con in copertina un abito vaporoso senza corpo trattandosi di una storia di fantasmi e, ancora più indietro nel tempo, nel 1967 aveva disegnato i costumi dell’opera “Carmen”, per la  regia dello stesso Arbasino.

Non solo persone anonime o favole come Cappuccetto rosso, otto statue di “Vestiti” sono dedicate a eroine della letteratura, protagoniste di opere di Ippolito Nievo e Goethe, Turghenev e Musil, Wedekind e Henry James, Theodor Fontane e Kawabata: sono la Pisana e Ottilia, Zinalda e Agathe, Lulù e Daisy, Effi e Komako.

In una conversazione con Angelandreina Rorro l’artista spiega con ampiezza e profondità il suo rapporto con la ceramica, iniziato per una circostanza molto particolare: la realizzazione nel 1992 per l’editore Maurizio Corraini di un teatrino in ceramica presso la Bottega Gatti di Faenza dove inserire le 100 copie numerate del libro sull’amico Guido Ceronetti “Marionettista, nell’alchimia figurativa di Giosetta Fioroni”.

Ricorda con emozione “l’iniziatico momento di affondare le mani nella creta fresca, di modellare questa creta come ‘prelibata vivanda’” e la sua successiva frequentazione della Bottega  realizzando una “ceramica iperpittorica” come “un’unione di pittura e scultura”,  ma senza abbandonare il disegno: anzi in alcune sue ceramiche i particolari sembrano più disegnati che scolpiti, e cita i 60 bassorilievi del 1965 sul Cane con tanti elementi “disegnati”, animaletti, scalette ecc.

L’artista tiene a sottolineare che le sue sono serie di opere ma non multipli,  ognuna è un originale diverso dagli altri, anche se spesso le differenze sfuggono ma ci sono in elementi apparentemente simili, come nei “Teatrini” e nei “100 alberi”, intesi come “omaggio alla natura in senso lato… natura umana, sentimenti, eventi dell’immaginario, mondo fiabesco”.

In questo sta forse la chiave dell’evoluzione dalle figure essenziali e monocrome degli anni ’60 al tripudio di forme e di colori delle ceramiche, un’apertura dettata anche dall’immersione nella natura della campagna trevigiana negli anni ’70 con Goffredo Parise che scriveva i  racconti “Sillabari” ,in un ambiente divenuto ancora più suggestivo per le storie e leggende narrate dai vecchi contadini.

La ceramica, del resto, per l’artista “è di per sé adatta  a proporre l’elemento metafisico, il sogno, la fiaba la chimera e tanto altro”. E può rendere con “levità e grazia” la metafora della vita. Questo dice  a conclusione della conversazione con la Rorro, e ci sembra possa essere anche la nostra conclusione: “Io ho sempre avuto il ‘Teatro della vita’ in mente. Mi spiego: ho cercato di dotare il lavoro, i singoli pezzi, le varie serie di opere, di intendimenti che proponessero un sentimento, oltre la pura apparenza, oltre il loro semplice comparire. Ho tentato… e, chissà, speriamo un poco di esserci riuscita a raggiungere una vaga metafisica, ho cercato di raccontare quel lieve senso di Mistero che aleggia intorno e oltre la realtà”. Speriamo anche noi di essere riusciti a rendere qualcosa di questa poetica leggera e insieme profonda che anima il mondo di Giosetta Fioroni.

Info

Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea, Roma, Viale delle Belle Arti, 113. Dal martedì alla domenica ore 10,30-19,30 (la biglietteria chiude un’ora prima), lunedì chiuso. Ingresso: intero euro 10,00, ridotto euro 8,00, scuole euro 4,00. Tel. 06.32298221; http://www.gnam.beniculturali.it/.  Per la mostra è uscito il libro Giosetta Fioroni, “My Story, la mia storia”. Corraini Edizioni, 2013, pp. 304, euro 30,00, formato 16,5×23,6. Per le ceramiche di Echaurren, citato nel testo, cfr. i nostri 3 articoli sulla sua mostra di Roma in questo sito il 23 novembre, 30 novembre e 14 dicembre 2012, in particolare il secondo, “Echuaurren, la natura e la ceramica”. Per la Pop Art e i movimenti d’avanguardia americani cfr. i nostri 3 articoli sulla mostra con opere del Guggenheim, il 22 e 29 novembre  e l’11 dicembre 2012, in particolare il secondo, “Guggenheim, dall’espressionismo astratto alla Pop Art”; infine per i movimenti di  arte contemporanea italiana dal dopoguerra cfr. i nostri 2 articoli in questo sito il 5 e 6 novembre 29012, sull'”Astrattismo italiano”della mostra alla Gnam per il 60° di Editalia.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna all’inaugurazione, si ringrazia la Gnam con  i titolari dei diritti,per l’opportunità offerta.In apertura, una panoramica dell’esposizione di ceramiche “Vestiti” e  “Teatrini” in fondo, della mostra “Faillence”; seguono 4 ritratti femminili di “Argento”, poi due “Teatrini”; in chiusura una visione ravvicinata di “Vestiti”.