Warhol, tra la quotidianità e il mito, alla Fondazione Roma

di Romano Maria Levante

Si conclude il nostro racconto della visita alla mostra su “Warhol” della Fondazione Roma al Palazzo Cipolla in via del Corso, aperta  dal  18 aprile al 28 settembre, con circa 110 opere e 40 ritratti, organizzata da “Arthemisia”, e da “24 Ore Cultura” a cura di Peter Brant con Francesco Bonami, che ha curato il  catalogo di “24 Ore Cultura” dalla  copertina argentata ispirata al rivestimento della “Silver Factory”, con l’analisi critica di Francesco Bonami e l’intervista a Peter Brant. Dopo la trilogia Hopper-O’ Keffee- Nevelson, e la raccolta del Guggenheim, il presidente della Fondazione Roma Emmanuele F.M.Emanuele aggiunge un altro tassello al mosaico di artisti americani, mentre diviene sempre più ricco il suo mosaico dell’arte classica che fa perno su Roma.

In precedenza abbiamo ripercorso la prima fase della vita di Andy Warhol e illustrato le opere di quel periodo esposte in mostra. Dopo le prime grafiche della metà degli anni ’50, dalle scarpe ai disegni di fiori, visi e animali, i principali motivi della sua arte più celebrata: le “Campbell’s Soup” nelle molteplici versioni con prodotti similari e le particolari immagini serigrafiche di Marilyn, Liz Taylor e altre star, le rappresentazioni dei “Disaster” e  le  foto segnaletiche dei “Most Wanted Men”, le serigrafie a multipli con figure o foto, dalle banconote del dollaro alla “Gioconda” a Elvis Priesley, fino ai “Flowers”. E’ un caleidoscopio di creatività e versatilità con il denominatore comune della notorietà di soggetti che hanno un forte impatto emotivo sull’opinione pubblica. E la banalizzazione anche delle immagini dei “disastri” e della stessa “sedia elettrica”  privati di ogni tragicità.

Ora continuiamo la carrellata sulle successive  fasi della sua vita e sulle opere esposte in mostra di questo periodo per poi concludere con le riflessioni che ne emergono sulla sua caratura artistica.

L’attentato alla vita, nell’arte i ritratti su commissione

Nel 1968 la scena si anima, dalla Silver Factory si trasferisce  in Union Square, un semplice ufficio, spinto forse dal desiderio di cambiamento. Ma nella nuova sede avviene l’imprevedibile: poco dopo il trasferimento, il 3 giugno, viene ferito gravemente dai colpi di pistola sparatigli all’improvviso da una esponente del movimento “Society for Cutting Up Men”, Valeria Solanas. Entra in coma, dopo un mese e mezzo di ospedale tra la vita e la morte, ne esce molto segnato nel corpo e nello spirito.

Si sente scosso profondamente, e sembra spegnersi la vena pittorica anche se la sua creatività trova altre forme per esprimersi: nel 1969  il romanzo “A.A. Novel”, tratto dalle registrazioni  di un frequentatore della Factory, poi fonda con due soci la rivista delle star del cinema “Interview”, dal terzo numero vi entra Peter Brant che ricorda di averla poi rilevata, rivenduta ad Andy alla fine degli anni ’70 e ricomprata dagli eredi dopo la sua morte, con lui produsse anche due film. Warhol inizia a raccogliere negli scatoloni, le “Time Capsules”, fotografie, cartoline e disegni, tutto accuratamente datato.

I suoi collaboratori ne proseguono l’attività in forma di business, con stampe raccolte in cartelle dei suoi motivi preferiti, a partire dalle serigrafie di Marilyn e dai “Flowers”. Questa attività crescerà molto negli anni, per impulso di Frederick Hughes, che dal 1967 cura  i suoi affari, estendendosi ai ritratti su commissione, per 25.000 dollari: la sua “impresa” ne sforna 50-100 l’anno, 60 scatti con la “Polaroid” tra cui se ne sceglie uno che viene poi stampato in formato 40×40.

Ciascuno poteva avere un proprio “Ritratto” prodotto da  Warhol, in mostra ce n’è una vasta galleria, dal 1972 al 1982, un decennio nel quale i personaggi famosi ritratti sono innumerevoli: a cominciare dai ritratti del suo amico e collezionista Peter Brant, e di Leo Castelli, il gallerista, ecco i grandi stilisti da lui raffigurati, da Valentino a Yves Saint Laurent, ad Armani, gli attori da Liza Minnelli a Joan Collins, da Sylvester Stallone a Jane Fonda, da Farah Fawcett ad Arnold Schwarznegger, gli sportivi dal calciatore Pelè ai tennisti Gerulaitis e Chris Evert, gli artisti da Nureyev a Mick Jagger, i protagonisti della politica, da Jimmy Carter a Ted Kennedy, e del jet system da Carolina di Monaco a Grace Kelly, i divi della televisione, tanto che disse: “Credo che nessuno, per quanto sia famoso, possa sentirsi come una star televisiva”, fino allo scrittore Truman Capote nonostante la sua allergia per la lettura che lo portò ad affermare: “Non leggo mai, guardo solo le figure” e “Odio le domeniche: è tutto chiuso eccetto i fiorai  e le librerie”.

Considera i personaggi degli oggetti di consumo, come quelli in vendita nei supermercati, infatti ha detto: “Alcune persone passano tutta la vita pensando a un particolare personaggio famoso… e ci si fissano. Consacrano interamente la loro persona al pensiero di chi non hanno mai in contrato”, e lui glieli offre come le scatolette di zuppa. Di se stesso dice argutamente ma con un fondo di verità:: “Liz Taylor ha cambiato la mia vita, anch’io ora ho i miei parrucchieri personali”, che sono i componenti il suo staff,  l’effetto imitazione-emulazione dei miti del suo tempo è irresistibile.

Dagli anni ’70 al finale nel 1987,  l’opera “L’ultima cena” e la morte

All’inizio degli anni ’70, nel 1972 e 1973 abbiamo gli storici ritratti di “Mao” che segnano un ritorno all’ispirazione del 1962 con Marilyn: sono in  inchiostro serigrafico e pittura acrilica su lino preparato, li vediamo in diversi cromatismi, con dominante di volta in volta rossa o arancio, gialla o verde, ce n’è uno gigantesco rispetto agli altri, di metri 2 x 1,60, in cromatismo celeste, con la stessa immagine. Del 1972  un ritratto di “Nixon”, 1 metro x 1, con la scritta di senso opposto “Vota Mc Govern”, il candidato democratico. Anche questi personaggi sono spogliati di ideologia, la notorietà li accomuna ai beni di consumo.

Nel 1972 muore la madre, non andrà al funerale; la sua vita è sempre più immersa nel consumismo mediatico,  è impegnato nella pubblicità, anche in spot televisivi, frequenta gli ambienti dello star system. Cambia di nuovo studio nel 1975 per un lussuoso palazzo nella 66^ strada, produce la serie “Ladies and Gentlemen”, pitture polimeriche di busti dal cromatismo violento e  contrastato, in mostra due particolarmente rappresentative.  

Il 1976 è l’anno di nuove innovazioni pittoriche: tali sono le serie “Skulls”, dipinti di teschi che vediamo in mostra in cromatismi contrastati con sfondi bicolore, dal rosso al giallo, dal verde al blu, quasi come del “gadget”, nulla di tragico; e la serie “Oxidations Paintings”, cioè i “Piss Paintings” dipinti orinando sulla tela. È esposto un pannello gigantesco,  2 metri per 5, confusa composizione  in “pigmento rame e urina su tela”.

La sua creatività prende altre direzioni, nel 1979, con i “Reversals”,  collage sulle tematiche Pop in cui gioca tra i colori e il nero del negativo, nel 1980-81 con opere ispirate ai graffiti dal forte cromatismo: vediamo esposte “Diamond Dust Shoes”, una pittura con varie scarpe femminili a forti colori su fondo nero viste dall’alto, una di esse richiama quelle da lui disegnate negli anni ’50; e “Dollar Sign”, non più la banconota ma il simbolo del dollaro, la S barrata su fondo verde. Si ispira anche ad altri temi come la Venere di Botticelli, vedremo che non è l’ultima icona dell’arte;  nel 1984 le “Collaborations”, opere collettive a 6 mani con i giovani Basquiat e Clemente. “Jean Michel Basquiat” sono intitolati due ritratti in Polaroid e uno dipinto in pigmento metallico.  Dello stesso anno “Rorschach“, ispirato alle macchie di inchiostro usate nei test psichiatrici che hanno preso il nome dal loro ideatore, spesso inquietanti per quanto vi associa chi è sottoposto al test, nei sui suoi dipinti sono semplici arabeschi, cercava di allontanare in ogni modo il dolore e l’ansietà.  E nel 1986 le “Camouflage”, pitture polimeriche ispirate nella grafica e cromatismo alla tenuta mimetica militare, è esposto un gigantesco pannello alto 3 metri, lungo 10 metri,  nel segno del Kolossal.

Ma non è questo il finale, per la sua arte il canto del cigno è “The Last Supper”, la sua interpretazione dell””Ultima Cena” di Leonardo, datata 1986 ed esposta nella sua mostra di Milano del gennaio 1987: ne vediamo una serie di versioni su tela, dal gigantesco pannello 3 metri per 10 con i soli contorni delle figure del “Cenacolo”, ai due duetti serigrafici uno sul celeste, l’altro bianco-nero, al particolare ingrandito della figura di Cristo. Sarebbe temerario vedervi una conversione all’arte classica in una sorta di crisi artistico-esistenziale, si deve pensare invece che come avvenne per la “Gioconda” anche il “Cenacolo” viene considerato oggetto familiare e soprattutto di largo consumo; non c’è fervore nè pathos, anche se il senso di profondo rispetto è innegabile. 

Resta la coincidenza con la fine della sua vita, che avviene il mese successivo, il 22 febbraio 2007, quando dopo molti rinvii decide di farsi operare alla cistifellea al New York Hospital: non sopravvive all’intervento di routine, sembra a causa dell’eccesso di anestetico, quasi un contrappasso o una metafora del suo voler allontanare il dolore: la morte lo ha preso a 59 anni, l’aveva sfiorata quando era stato ferito gravemente da una esagitata femminista, a parte lo shock dello sparo al suo dipinto di “Marilyn”, ed era rimasto impressionato dalla morte nel disastro aereo del marito di Liz Taylor; per questo motivo non voleva più prendere l’aeroplano e fece molta fatica a tornare a volare, lo fece per essere presente a Milano all’ultima mostra sull'”Ultima cena”.

La modernità consumistica, da Warhol a Pasolini, gli Autoritratti

Anche quello che lo spaventava faceva parte della modernità consumistica in cui era immerso e che voleva rappresentare,  in questo il pensiero va a Pasolini, il cui anniversario della morte è stato celebrato da una mostra a Roma al Palazzo Esposizioni che si è svolta nello stesso periodo. Nei confronti del grande poeta, scrittore e regista italiano c’è la similitudine del rapporto esclusivo con la madre e il tremendo impatto con la contemporaneità violenta: per Warhol le pallottole della fanatica che lo hanno mandato in coma, per Pasolini la notte conclusa tragicamente con il suo omicidio. Warhol della contemporaneità aveva evidenziato anche i “disastri” e messo in primo piano la morte, pur volendola esorcizzare banalizzandola,  tanto che alcuni personaggi lo hanno interessato proprio alla loro scomparsa; Pasolini della contemporaneità urbana nei suoi “Scritti corsari” vide in anticipo, e denunciò all’opinione pubblica, la deriva violenta nei ragazzi di borgata, quasi profetico della propria tragica fine.

Tutto questo ci fa sentire Warhol più vicino, ci sembra di averne compreso la  creatività e anche le ansie e i timori che cercava di allontanare, in definitiva la profonda umanità. La mostra antologica la sentiamo ora come una carrellata sulla contemporaneità, resa in un linguaggio da tutti comprensibile, in grado di  imporsi  per la sua semplicità che non è banalità, ma essenzialità. In una nuova forma di arte aperta a tutti.

Vogliamo accomiatarci da Andy Warhol dopo l’immersione nel suo mondo che, ripetiamo, è il nostro mondo, il mondo di tutti noi, con i suoi  “Autoritratti” esposti in mostra: da quelli del 1964  in occhiali scuri, collo sbottonato e cravatta allentata, diversa posizione della testa, uno su fondo verde chiaro, l’altro rosa, una autorappresentazione nella normalità; a quelli del 1980-82,  con parrucche ed espressioni sempre diverse, in qualche caso inquietanti, nei 7 esposti il solo colore sono le labbra rosse;  fino al celeberrimo autoritratto del 1986 “Self Portrait (red on black)”, il volto spiritato con l’esplosione di  capelli in un rosso da allucinazione su un fondo nero da incubo, ma lui sdrammatizzò definendolo “un ananas a cui hanno dato fuoco”; alcuni sono “Self-Portrait”  fotografici, in Polaroid, come nei “Ritratti” di personaggi, ma questi autoritratti ne fissano il viso in atteggiamenti e travestimenti stravaganti, anche “in drag”.

Morirà dopo pochi mesi, nel febbraio dell’anno successivo, per una malaugurata complicazione operatoria, quasi una metafora della realtà che può contraddire la normalità. Non c’è nichilismo in lui, aveva detto: “Ognuno ha il suo proprio tempo  e luogo per accendersi. E io dov’è che mi accendo? Io mi accendo quando mi spengo per andare a letto. E’ il mio grande momento, quello che attendo sempre”.  E ancora: “Alla fine dei miei giorni, quando morirò,  non voglio lasciare scarti e non voglio essere uno scarto”.

Possiamo dire che è stato più che esaudito, la sua fama non conosce confini,.la sua arte  ha avuto i massimi riconoscimenti, all’inizio abbiamo citato quelli di Francesco Bonami. Ha ritratto il suo mondo e il nostro mondo,  come maggiore interprete della contemporaneità: “Il  mondo dell’arte – e anche la Storia dell’Arte più recente – è ancora Bonami –  lo mettono in paradiso, vicino a Picasso. Mi pare una collocazione giustificata e meritata. Come Picasso, Warhol oggi è un marchio”,  e aggiunge che ogni suo manifesto,  alla portata di tutti,  “è un frammento dell’idea originale che Warhol aveva dell’arte, della sua riproducibilità, della sua accessibilità”.

L’ idea dell’arte di Warhol

Quale è, dunque,  la sua idea dell’arte che possiamo percepire  dopo aver visto la carrellata delle sue opere esposte in mostra rripercorrendo in parallelo le principali vicende della sua vita?

E’  un’arte all’opposto di quella che, sullo stesso terreno della contemporaneità,  presentavano gli Espressionisti astratti, con l’artista introverso e tormentato che esterna la propria interiorità e i propri dubbi fuori da ogni forma figurativa; con Warhol l’arte è tutta esteriore, ma non come rappresentazione della bellezza bensì della quotidianità più banale senza pregi estetici. “In realtà l’arte per la prima volta si presentava come una realtà comprensibile a tutti”, spiega Bonami, e i critici allora impegnati a elucubrare sull’indecifrabile lo presero come provocazione, non erano più chiamati a spiegare le astrazioni, era comprensibile a tutti, apprezzato o meno che fosse.

“Il misterioso, oramai eterno successo, dell’arte di Andy Warhol sta proprio nel fatto di non essere misteriosa affatto. Un’opera di Warhol ci pone davanti al mistero della nuda e semplice realtà delle cose”. E sono tutte cose a noi familiari, di uso quotidiano come i prodotti di consumo e gli stessi fumetti per non parlare delle banconote, e di uso consumistico come i miti dello star system e della fama mediatica, fino a ciò che produce  shock emotivi come i disastri e la criminalità, le tragedie personali e la morte: “Con il suo geniale candore Warhol riesce a rappresentare  tanto la celebrità quanto la morte, tanto il denaro quanto oggetti di consumo quotidiano”. In tutti c’è la celebrità in diverse forme  espressive: i suoi occhi sono spalancati come quelli del bambino, e come il fanciullo cerca di allontanare tutto quanto può disturbare il suo mondo fantastico, i suoi idoli, i suoi miti, e lui che vi è immerso.  

D’altra parte, l’artista dell’omologazione consumistica, americano per eccellenza anche se di origini slovacche, ha detto: “L’idea dell’America è meravigliosa perché più una cosa è uguale più è americana”. E, sulla romantica nostalgia per la campagna dinanzi all’alienazione metropolitana: “Io sono un ragazzo di città. Nelle grandi città hanno fatto in modo che si possa andare al parco e trovarsi così in una campagna in miniatura, ma in campagna non hanno neanche uno scampolo di grande città, e a me viene così tanta nostalgia di casa”. Consideriamo anche quest’altra sua affermazione: “La cosa più bella di Tokyo è McDonald. La cosa più bella di Stoccolma è McDonald. La cosa più bella di Firenze è McDonald. A Pechino e a Mosca non c’è ancora niente di bello”. Perché non c’era ancora McDonald, parole rivelatrici più di un saggio sul consumismo.

Alla domanda di chi conoscesse dei pittori italiani rispose che dell’Italia conosceva solo gli spaghetti, e questo ha fatto dire a Kounellis nel 1988: “E’ un idiota senza talento, è un pubblicista e non un artista”. Replica  Bonami: “Tra un artista come Kounellis e uno come Warhol c’è la stessa differenza che c’è tra l’enciclopedia Treccani e Google. Nella Treccani c’è molto, ma in Google c’è tutto. Warhol e la sua Factory hanno fatto di tutto e questo ‘di tutto’ lo hanno fatto in modo così stravolgente da giungere a rappresentare il presente e la contemporaneità in modo unico”.

Bonami prosegue: “Viveva in un eterno presente, su una superficie senza confini, senza profondità  ma anche senza limiti”, e questa ci sembra un’osservazione basilare per capire l’ampiezza delle sue forme espressive che possono sembrare stravaganti. “La mancanza, voluta o meno, di qualsiasi spessore filosofico, ha fatto paradossalmente diventare Warhol il filosofo di un mondo in cui i pensieri si sono trasformati in immagini, ovvero il filosofo del mondo in  cui oggi noi tutti viviamo”.  E conclude: “Se Picasso è l’incarnazione del genio moderno chiuso nelle sua torre d’avorio, Andy Warhol è l’incarnazione della contemporaneità, così aperto alle informazioni provenienti dal mondo da essere irraggiungibile”.

Altre parole di Warhol, che sono anche un monito: “Non pensare di fare arte, falla e basta. Lascia che siano gli altri a decidere se è buona o cattiva, se gli piace o gli faccia schifo. Intanto mentre gli altri sono lì ancora a decidere, tu fai ancora più arte”. E’ ciò che ha fatto lui con la sua Factory divenuta una fucina di opere richieste dal mercato e prodotte anche a dispetto della critica.. Dice anche, ed è illuminante: “Non ti preoccupare, non c’è niente che riguarda l’arte che uno non possa capire”.

Richiesto di quali vorrebbe fossero le sue ultime parole famose,  Warhol rispose semplicemente: “Goodbye”. Sono le parole con cui lo salutiamo dopo la “total immersion” nel suo mondo per conoscere, per capire.

Noi abbiamo capito, ci auguriamo di aver aiutato a capire i nostri lettori, in modo che non “storcano il naso”, come ha scritto Bonami, e comprendano un linguaggio dell’arte contemporanea che questa volta è semplice ma non banale tra tante elucubrazioni ben più stravaganti, e per di più criptiche e indecifrabili.

Info

Fondazione Roma, Palazzo Cipolla, via del Corso n. 320, Roma. Tutti i giorni apertura alle ore 10,00, tranne il lunedì alle 14,00; chiusura alle ore 20,00, tranne il sabato alle 22,00; la biglietteria chiude un’ora prima dell’orario di chiusura. Ingresso euro 15,50, ridotti 13,50 (over 65, tra 11 e 18 anni, studenti fino a 26 anni, bambini 4-11 anni 5 euro, ridotti per gruppi e scuole). Tel. 06.98373328. Catalogo ““Warhol”, “24 Ore Cultura”, aprile 2014, pp. 186, formato 28,5 x 31,00, dal Catalogo sono tratte le  citazioni di Peter Brant  e Francesco Bonami.  Il nostro primo articolo sulla mostra, con una serie di immagini,  è in questo sito, il 15  settembre 2014.  Per le precedenti mostre sugli artisti americani citati all’inizio cfr.  i nostri articoli:  in questo sito per Loise Nevelson, il  25 maggio 2013,  per  la collezione del Guggenheim in generale il 22 novembre 2012, dall’Espressionismo astratto alla Pop Art il 29 novembre 2012, dal Minimalismo al Fotorealismo l’11 dicembre 2012;  in “cultura.inabruzzo.it” per Edward Hopper, il 12, 13 giugno 2010 e per Georgia O’ Keffee, 2 articoli entrambi il 6 febbraio 2012.. l   .

Foto

Le  immagini riprodotte, meno l’ultima, sono state fornite dall’Ufficio stampa di Arthemisia, che si ringrazia per la cortesia e sollecitudine, come si ringraziano i titolari dei diritti, e in particolare  l’autore delle fotografie dell’allestimento Giovanni De Angelis;  l’immagine del “Self Portrait” con Polaroid è stata ripresa dal Catalogo di “24 Ore Cultura”, che si ringrazia. In apertura  “Self-Portrait (red on black)”, 1986; seguono “Red Elvis”, 1962, e “Liz # 5 (Early Colored Liz)”, 1963, poi “Mao”, 1972-73, e “Ladies and Gentlemen”, 1975, quindi “Skull”,  1976, e “Dollar Sign”, 1981; inoltre “Camouflage” (a dx) con “Last Supper (a sin), 1986, e “Rorhschach” (in fondo) , 1884, infine “Last Supper (Black and white)“, 1986, e “Detail of Last Supper-Christ”,  1986;  in chiusura, “Self Portrait”, Polaroid, 1974-77.