Giorgio Morandi, visita alle 150 opere esposte, al Vittoriano

di  Romano Maria Levante

Visitiamo la mostra “Giorgio Morandi 1890-1964”  aperta al Vittoriano dal   28 febbraio al 21 giugno 2015, con circa 100  dipinti e  60 disegni e acqueforti, incisioni e litografie, che provengono dal  Museo Morandi, dalla Fondazione Longhi e  da altri grandi musei. La mostra, realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, e curata da Maria Cristina Bandera, che dirige la Fondazione Longhi,  è la prima antologica esauriente presentata a Roma dopo l’esposizione del 1973 alla Gnam. Catalogo Skirà  con testo della Bandera e schede di Stella Seitun.

 Abbiamo cercato in precedenza di descrivere i caratteri salienti dell’arte di un grande del  ‘900,  la cui mostra segue quelle su Guttuso e Modigliani, Cézanne e Sironi, realizzate negli ultimi anni al Vittoriano in un importante ciclo sull’arte moderna molto curato.

Si può sintetizzare dicendo che la sua è stata una ricerca dell’essenza nella semplicità e nella sincerità, dopo un percorso formativo nel quale è stato attratto dai grandi innovatori, Giotto tra gli antichi, Cézanne tra i moderni, con vivo interesse per tendenze quali  il futurismo e la metafisica, senza però seguire alcuna scuola o corrente stilistica, restando la sua un’arte del tutto personale.

La base è stata la realtà, ma  lontano da ogni naturalismo, perché la continua ricerca dell’essenza lo ha portato  a distinguere l’essere dall’apparire; per questo ha scelto  soggetti semplificati al massimo, senza presenza umana, riassumibili nei temi soprattutto dei “Paesaggi”, “Nature morte”; anche  “Fiori” sia pure  in tono minore, in piccoli dipinti di cui faceva dono.

Per tendere alla semplificazione nella ricerca dell’essenza eliminava ombre e prospettive in composizioni dominate da un ordine geometrico studiato di volta in volta cambiando la disposizione spesso degli stessi oggetti.  Anche Mondrian ha ricercato l’essenza pur se in modo molto diverso, con la mera geometria senza oggetti e un cromatismo particolare, per raggiungere “perfetta armonia”.  

Nel raccontare la visita alla mostra cercheremo di rendere la galleria di dipinti e di acqueforti-incisioni, i cui titoli fissano invariabilmente uno dei suoi temi, distinti soltanto dall’anno di realizzazione. Anche in questo l’artista ha raggiunto la massima semplicità; l’essenza, appunto.

I paesaggi

Sono 25  i dipinti esposti in mostra sul tema  “Paesaggio”, del quarantennio dal 1922 al 1963, e  6 le  acqueforti  sullo stesso tema in matrici di rame e zinco,. realizzate tra il 1922 e il 1936, .con le caratteristiche dei dipinti ma una maggiore definizione data dal bianco e nero molto marcato.

In tutti i paesaggi c’è – aspetto che va sottolineato –  la dominante dell’abitazione, salvo nel primo, del 1922, in cui il primo piano è dedicato  alla vegetazione, ma  si erge ugualmente un edificio con un traliccio di ferro definito “la piccola Tour Eiffel dei bolognesi”.

Riprendono località di campagna della provincia da lui frequentate o dove si era rifugiato negli anni di guerra e dove tornava d’estate per villeggiare, come Grizzana,  e riproducono volumi abitativi inseriti nel verde  con vera maestria nell’accostamento cromatico; paesaggi “intorno ai quali si chiudeva l’orizzonte”, secondo l’allusione leopardiana di Roberto Longhi che li definì “inameni” aggiungendo però: “Morandi cresceva instancabilmente e io lo vidi salire fino al culmine che mi pare fosse il più alto da lui raggiunto, dei paesaggi del 1943”.

Negli anni della guerra, secondo la curatrice Maria Cristina Bandera, “ricompaiono le mute strutture geometriche delle case, blocchi di pietra ridotti a solidi essenziali, talora parzialmente celate da quinte frondose”, o “una sequenza concitata di alberi sfibrati dal vento, quinte per una casa che appena s’intravvede” come in due  “Paesaggi” del 1942; “oppure distribuite sulla tela con spazi e interspazi calcolati, quasi fossero semplici parallelepipedi, moduli di proporzione, così  “Strada bianca”, 1941,anch’esso esposto.  

Il naturalismo è del tutto assente, c’è invece interesse alle forme e ai volumi, come disse l’artista nell’intervista radiofonica del 1955 a Magravite citando Galileo: “Il libro della natura è scritto in caratteri estranei al nostro alfabeto. Questi caratteri sono triangoli, quadrati, cerchi, sfere, piramidi, coni e altre figure geometriche”. Di qui  la radicata convinzione che “le immagini e i sentimenti suscitati dal mondo visibile, che è un mondo formale, sono esprimibili solo con grande difficoltà, in quanto sono determinati appunto dalle forme, dallo spazio e dalla luce”; e in questo riecheggiava analoga affermazione di Cézanne.

Sono  paesaggi  ben definiti, mentre quelli successivi tendono a dissolvere la forma nel colore, senza più la struttura compositiva e il riferimento descrittivo ai luoghi;  nell’estrema semplificazione è l’impasto cromatico del verde il vero soggetto.

Negli ultimi 5 “Paesaggi” esposti, realizzati tra il 1959  e il 1963,  sono i volumi delle  abitazioni i soggetti, con le loro facciate bianche prive di prospettiva, solo in quello del 1963 schermate dal verde. Si ispira alla località di Grizzana, dove torna dopo molti anni di assenza –  nei quali per i paesaggi si era ispirato a quanto vedeva dalla finestra della casa bolognese, di qui la serie “Cortili di via Fondazza” degli anni ’30 –  e si fa costruire una casa a forma di cubo in un ambiente disadorno.  I dipinti rendono la scena,  si sente  vuoto e silenzio, e perdono la consistenza materiale, i luoghi sono  assimilati alle nature morte, tanto che la Bandera scrive: “Le case di pietra, muri senza porta e finestre, nella loro struttura ridotta all’essenzialità, sono ormai apparentate alle bottiglie”, ne vedremo un esempio concreto.

Le nature  morte

E siamo giunti così al principale soggetto della sua arte,  la “Natura morta”, la mostra espone 60 dipinti del quarantennio tra il 1924 e il 1963, e  30 incisioni all’acquaforte su basi di rame e zinco, con 8 matrici di rame inciso tra il 1921 e il 1956, dove i motivi dei dipinti sono espressi con la diversa tecnica ma cercando di mantenersi in linea con le varianti anche notevoli inserite nelle opere ad olio nel segno dell’inesausta ricerca che ha accompagnato l’intera sua produzione.

Preparava le composizioni  nel suo piccolo studio utilizzando oggetti semplici di uso comune: . “Li selezionava – nota la Bandera –  li raggruppava, li aggiustava tra loro, li riaccostava, li scalava in profondità e in alzato, li trasformava in figure distribuite su un palcoscenico in combinazioni che variano con il procedere degli anni”; e in questo consiste il suo processo evolutivo, oltre che nella rappresentazione grafica che diventa prima sempre più precisa, poi sempre più evanescente. “Come un architetto che studia la pianta di un edificio, delimitava la base degli oggetti circoscrivendoli con una matita su fogli di carta. Li avrebbe poi guardati da vicino, ad altezza d’occhio, con il  suo guardo penetrante e riflessivo”.  Abbiamo già ricordato che per non mutare il punto di vista segnava sul pavimento la sagoma dei propri piedi, e per allontanare gli oggetti dall’uso quotidiano aspettava che la polvere li velasse, così diventavano forme e volumi nella pura espressione geometrica.

La definizione di architetto viene da Ragghianti, che coniò il termine di  ” pittore di architetture”, l’artista gli rispose condividendo questa sua interpretazione.

Nella sua visione di “architetto”,  gli oggetti consueti, dalle bottiglie alle caraffe, dai lumi alle tazze, sono disposti in vario  modo in base alla loro altezza e ai diversi piani prospettici;  nella sua visione pittorica la luce e il colore modulano con tonalità differenti le diverse composizioni..

Seguiamo la sua evoluzione nella composizione e nello stile mediante la sequenza di opere esposte.

Le prime dieci Nature morte, degli anni ’20 e ’30,  si differenziano dalle successive per la dominante cromatica scura.

Nelle  tre  realizzate tra il 1924 e il 1929,  gli oggetti sono pochi, in più ci sono panni che cadono dal bordo del piano dando il senso della profondità; nelle  7  dal 1929 al 1937  gli oggetti sono numerosi,  posti su un piano orizzontale e   hanno una composizione architettonica e un cromatismo  deciso.  Fa eccezione  una “Natura morta” del 1929,  definita dalla Bandera “tragica, con poche forme contorte e sfaldate”, ma  contemporanea  a una ben diversa  presentazione di 5 oggetti su diversi piani prospettici e in differente cromia; e seguita pochi mesi dopo  da un’opera monumentale per l’imponenza della composizione  posta su due piani,  come sfondo  una quinta scura di brocche e altri oggetti più alti, in primo piano bottiglie più basse ma evidenziate dal colore chiaro, come quella gialla al centro e la bottiglia bianca sulla destra, prima di successive versioni.

Con gli anni ’30  abbiamo una verticalità scossa da “tensione emotiva”, la curatrice dice che le due “Nature morte”  del 1932 e 1936 “colpiscono per lo smagliarsi della composizione e per l’agitarsi delle forme inquiete e allungate che paiono sfaldarsi, come colte da un fremito, con un crescendo della tensione emotiva sottolineato dall’ispessirsi della pasta cromatica degli oggetti sovrapposti”

Tra il 1940 e il 1943, gli anni della guerra,  nella “Natura morta” entrano le conchiglie, diventando gli “oggetti” esclusivi di piccole  composizioni in cui non compaiono bottiglie, caraffe e lumi. E’ come se l’artista cercasse un guscio protettivo, ed aveva ragione se consideriamo che il 23 maggio del 1943 provò l’angoscia del carcere, pur se solo una settimana, come abbiamo già ricordato;  per questo fece ricorso ai  gusci con le volute  cui aveva dedicato già disegni e acqueforti negli anni ’20, stimolato da un’incisione di Rembrandt. I gusci, però, sono contorti e irregolari,  rappresentati in modo  monocromatico e spento, sono stati definiti  “ossi di seppia abbandonati su un litorale deserto”  da  Pasquali e  sfiorati da una “luce come lontana, filtrata, misteriosa affatto” da  Vitali.

Bottiglie, caraffe e lumi restano pur sempre nelle opere del periodo, assumendo di volta in volta una luce dorata o un grigiore di fondo. La luce dorata,  “come in uno specchio ustorio” nelle parole di Cesare Brandi, avvolge una “Natura morta” del 1941, con gli oggetti su diversi piani prospettici,  il bianco della bottiglia  a torciglione e della base del lume al centro e il blu della bottiglie e della boccetta di profumo agli estremi, il critico dice che così “il colore acquista la materia dura e lucida del minerale”.

Il grigiore di fondo è in altre “Nature morte” dello stesso 1941, su un tavolo tondo e non rettangolare, con le bottiglie allineate come soldatini su un unico piano, illuminate frontalmente  in modo da ridursi a mera espressione geometrica senza spessore e volume, con le bottiglie ridotte ad etichette rettangolari e due sole forme tondeggianti, una luce che,  nelle parole di  Brandi, “per la nostra vista diviene indistinta, ma non evanescente”.

Nell’anno successivo, il 1942, allorché realizzò oltre 60 opere, troviamo una diversa scelta compositiva, le altezze vengono azzerate, come nella “Natura morta” che donò a Ragghianti il quale racconta che la tagliò  materialmente con le forbici dinanzi a lui. In tal modo, eliminata la variabilità delle altezze, la composizione si può inquadrare in un rettangolo.

Così nelle due “Nature morte” del 1952 esposte,  esemplari per la leggera variazione dello stesso assetto compositivo di 7 oggetti, caraffe  e parallelepipedi iscrivibili nel rettangolo, con l’aggiunta nella seconda di una piccola sfera; nella “Natura morta” del 1953,  con tre bottiglie dinanzi  a tre parallelepipedi, Luigi Magnani  vede “la solennità ieratica di un’apparizione”. In due “Nature morte”  del 1953-54,  l’altezza delle bottiglie non supera quella delle tazzine e delle forme a parallelepipedo o cubiche allineate con esse; mentre le  forme cubiche accompagnano la classica bottiglia a tortiglione anche in due “Nature morte” del 1954 senza allineamento verticale.

E’ questo uno dei momenti evolutivi, ma lungi da noi  considerarlo un punto fermo. La verticalità è compresente a questa sperimentazione, e riprende di volta in volta il sopravvento, come il cromatismo.

Lo vediamo in altre due “Nature morte” del  1942 che, a differenza di quelle dello stesso anno prima citate, la verticalità è particolarmente accentuata, in un cromatismo cupo, mentre una terza “Natura morta”  del 1943 ha le altezze parificate ma con gli oggetti alquanto distanziati e dal cromatismo brillante che pur nella “spazialità disorientata e a tratti convulsa” evidenziata da D’Amico,  indicano che lo sguardo dell’artista “si è disteso di nuovo, avvolgente e inquietante, per ridurre nuovamente i toni, per addolcire le forme”, nelle parole di Gnudi.In una  “Natura morta” del 1946  la caraffa e gli alti recipienti cilindrici dominanti i sono allineati armoniosamente in un equilibrio volumetrico e cromatico giungendo – è sempre Gnudi –  a “un più ricco, pieno, placato accordo”, esprimendo il senso “di una grandiosità contenuta, di una sedata drammaticità”: la guerra è finita, in quell’anno dipinge 45 nature morte.

 Dell’anno successivo, il 1947,  abbiamo una “Natura morta” che ha in comune con la precedente solo gli oggetti meno vistosi,  il vasetto verticale rigato di azzurro e  la piccola ciotola,  mentre è composta da 4 bottiglie, con al centro quella a tortiglione, di un biancore diafano sul grigio dello sfondo.  Scrive Stella Seitun  che il dipinto “proietta la ricerca di Morandi nei suoi più tardi sviluppi per la perfezione tonale  della materia pittorica, per l’articolazione spaziale più nitida e per l’equilibrio dell’immagine, governata non più da una geometrizzazione interna alle forme, ma  da un rapporto più aperto con lo spazio circostante”.

Le due “Nature morte” del 1948 e le due  del 1950-52 confermano queste tendenze all’equilibrio compositivo , con delle varianti negli oggetti utilizzati, casseruole e imbuti rovesciati, recipienti cilindrici, alla ricerca di forme sempre più elementari, espressive dell’essenza geometrica delle cose.  Nei dipinti del 1948 mancano le bottiglie, Briganti  parla di  “una forma perfettamente pierfrancescana nella sua semplice geometria solida”;  nei due successivi si va, secondo Arcangeli, verso “un’ampia dosatura degli spazi intorno alle cose”, la Seitun parla di “rinnovata chiarezza nella visione rigorosamente frontale”, aggiungendo che “la luce diffusa riduce quasi del tutto le ombre, lasciando a pochi ma arditi accostamenti cromatici il rilievo plastico dei volumi”.

Il processo evolutivo procede, dalla moltiplicazione degli oggetti si passa alla ricerca di quella che Arcangeli definisce “semplificazione del comporre, ormai concentrato su poche forme  d’oggetto inesauribilmente, sapientemente, variate”.   Lo vediamo nelle “Nature morte” del 1956 e del 1958, in cui, dice la Bandera, “lo schema compositivo è rigoroso e gli oggetti ‘astratti’ e geometrici”.

Inizia la tendenza a una sempre maggiore evanescenza del tratto, che troviamo nelle altre dieci “Nature morte” dal 1957 al 1959.  Tre con le bottiglie, ma solo nella prima numerose e allungate, nelle altre due c’è soltanto la bianca a tortiglione; quattro nature morte  con altri oggetti in una orizzontalità più mossa e meno vistosa di quella espressa  dall’inquadramento nel rettangolo  di cui si è detto.

Continuano, nelle parole della Bandera, le “calibratissime e talora impercettibili ‘variazioni’ tematiche che si accompagnano a sottilissime differenze di orchestrazione cromatica e di valori tonali, comunque sempre estranee a qualunque ripetitività. ‘Variazioni’ che comprovano come per Morandi il soggetto fosse esclusivamente un pretesto per ricercare l’essenza”. La sua non è una parabola discendente nell’ultima fase, bensì continua “una costante innovazione pur nell’iterazione dei modelli”; diventa “una pittura priva di toni acuti, più chiara e variata, smagrita di consistenza, soffice e quasi impalpabile, che tende sempre più a sublimarsi in gamme cromatiche raffinate con combinazioni e stacchi di colore e di stesure che tendono a smaterializzarsi nella luce”.Queste parole della curatrice possono essere assunte a  descrizione delle ultime otto “Nature morte”due del 1960, tre del 1961-62 e due  del 1963, l’anno prima della morte; e anche dei disegni e  acquerelli presentati in mostra, mentre le incisioni restano ben definite.  C’è una  “tendenza all’astrazione”, secondo “un processo di rarefazione e di spoliazione dei dati del visibile”, tanto che una “Natura morta” del 1963 viene accostata a un “Paesaggio” dello stesso anno dal quale si distingue  a mala pena come dalla citazione fatta a suo tempo dell’osservazione della Bandera secondo cui “le case sono apparentate alle bottiglie”.  E non potrebbe essere altrimenti in questa ricerca spasmodica dell’essenza che porta ad assimilare anche i dipinti agli acquerelli nella massima rarefazione.

In chiusura, i “Fiori”  

La mostra non finisce qui, al secondo piano c’è la sezione dedicata ai “Fiori”, che Vitali definì “nature morte di fiori”, sono 15 dipinti di piccole dimensioni realizzati tra il 1940 e il 1962, che occupano un posto particolare nella sua produzione, perché li dipingeva per donarli agli amici, per lo più  intellettuali, primo tra tutti Roberto Longhi. Niente a che vedere con le rutilanti fioriture alla Brueghel, sono “bouquet” compatti sulla sommità di vasi che sembrano colonne. Del resto si serviva di fiori secchi, di carta e di seta, non freschi,  per marcare anche in questo caso il suo distacco dalla realtà e dalla funzione dell’oggetto di uso comune rappresentato, come avveniva per le bottiglie che faceva velare dalla polvere rendendole  pura forma e volume; cosa che conferma la definizione di Vitali che li assimila alle nature morte. 

Anche in questo caso  piccole varianti sia nel cromatismo, sempre su tinte pastello,  del “bouquet” floreale, sia nel  vaso ripreso per lo più intero ma anche limitandolo alla sommità.

La ricerca dell’essenza, che ha percorso l’intera sua produzione lungo l’arco della sua vita,  passa anche di qui, da questa compresenza di contrari che è  parte integrante della nostra esistenza. “E’ un artista – osserva la Bandera –  che per l’ambiguità della sua visione, per la lacerazione tra l’essere e l’apparenza, la rappresentazione e l’evocazione, riflette un’inquietudine moderna, la stessa che ammanta di mistero e di enigma le sue opere e che, per questo, sentiamo più vicino ai nostri giorni senza certezze”.   

E se qualcuno, aggiungiamo noi,  lo ha identificato come “il pittore delle bottiglie”, non ha capito quanto di misterioso e di fantastico può esservi nella bottiglia lanciata in mare con un messaggio da interpretare; ed è un osservatore che, è sempre la Bandera, “non ha occhi per ‘vedere’, che non sa indugiare sulle sue opere ed entrare in un dialogo ravvicinato e prolungato con esse”.

Info

Complesso del Vittoriano, Roma, via San Pietro in carcere, lato Fori Imperiali, dal lunedì al giovedì ore 9,30-19,30, venerdì e sabato 9,30-22,00, domenica 9,30-20,30, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso euro 12,00, ridotto 9,00. Tel. 06.6780664, www.comunicareorganizzando.it. Catalogo, “Morandi 1890-1964”, Skira, 2015, pp.272, formato  24 x 28, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Il primo articolo è stato pubblicato in questo sito il 17 maggio u.s. con altre 11 immagini delle opere esposte. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli sulle rispettive mostre dal 2009: in questo sito, Guttuso il 15 e 30 gennaio 2013, Cézanne il 24 e 31 dicembre 2013, Modigliani il 22 febbraio e 7 marzo 2014, Sironi il 1°, 14, 29 dicembre 2914 e il 7 gennaio 2015, Mondrian il  13 e 18 novembre 2012,  Brueghel il 5 maggio 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra nelle Scuderie del Quirinale, si ringrazia l’Azienda Speciale Expo con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Natura morta” 1953, seguono “Paesaggi” 1963, e “Natura morta” 1946, poi “Natura morta” 1947 e ” Natura morta” 1948, quindi “Natura morta” 1950, e “Natura morta” 1957 V. 1027, inoltre  “Natura morta” 1957 V. 1060 e “Natura morta” 1960 V. 1188;  infine, “Natura morta” 1960  V. 1205 e, in chiusura, “Fiori” 1951.