Pierfranceschi, architetto dell’uomo nella natura, al Museo Bilotti

di Romano Maria Levante

La mostra “Maurizio Pierfranceschi. L’uomo e l’albero” espone al Museo Carlo Bilotti di Roma, dal 18 ottobre 2017 al 14 gennaio 2018  una selezione di 50 opere dell’artista, pitture e sculture,  sul rapporto tra uomo e natura, architettura e paesaggio. La mostra, promossa da Roma Capitale, Assessorato alla crescita culturale, si avvale dei servizi museali di Zétema, Progetto cultura, ed è a cura di Fabio Cafagna, catalogo delle edizioni Solfanelli.

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Una mostra con diverse facce, che compongono l’immagine di un artista poliedrico, legato alle sue radici, coerente con la sua formazione.

E’ un artista che in un colloquio del 2005 con Carlo Alberto Bucci si è definito “muratore”,  dando questa spiegazione: “A me interessa la costruzione architettonica del quadro, che cresce con un’orizzontale, una verticale, un pieno e poi un vuoto”. Come una muratura, dunque,  una  composizione le cui parti si sostengono tra loro.

Ma per noi è anche un architetto,  come emerge dalle sue parole successive secondo cui nel quadro “c’è una forza costruttiva che lo anima e una forza psichica che deve abitarlo”.  E lo paragona a “un chiostro che è aperto e riparato al tempo stesso, costruzione e natura”. :Solo un architetto può fare tale progettazione  che poi il muratore tradurrà in vani costruiti con l’accortezza spiegata all’inizio.

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La visione della natura, l’uomo e l’albero

Costruzione e natura sono abbinate non solo in modo simbolico, in alcuni suoi dipinti è la natura con i rami degli alberi a fornire l’architettura della costruzione compositiva.  Mentre non lo interessa il paesaggio con gli orizzonti lontani che può scoprire, “sa troppo di racconto, ed io voglio fare pittura, e non letteratura”. E per lui la pittura è costruzione:  “Dipingo rami e rovi perché sono strutture architettoniche”.  

Questa visione della natura ispiratrice dell’arte viene da lontano, dalla tesi di laurea che, come ricorda il curatore Fabio Cafagna, concepì come una lettera ad Alberto Burri, forse in omaggio ai suoi “sacchi” artistici che gli ricordavano il lavoro dei contadini nelle Marche, di cui descriveva la mappa agreste  paragonandola a un “intarsio di piccole tarsie dalle sottili variazioni cromatiche”.

E’ una natura legata all’uomo dal duro lavoro dei campi,  binomio riassunto  nella sua prima opera, “L’uomo e l’albero”, un piccolo dipinto che nel 1985 fu esposto alla galleria romana “Ferro di cavallo”, nel quale la figura umana ha un che di primordiale e insieme di primario, come del resto l’esile alberello.

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Questo quadro apre la mostra con  un “ouverture” altamente simbolico ed evocativo nella sua icastica essenzialità che riporta  a sculture classiche, pure  al centro della sua attenzione. “La schematicità della composizione – commenta Alberta Campitelli – ci comunica  l’essenzialità della vita, la vita che è natura in tutte le sue espressioni”.

Anche  nel recentissimo bassorilievo in terracotta bianca  “Et in Arcadia ego”, 2017, le figure umane sono  primordiali ed essenziali  e non manca neppure l’albero, altrettanto evocativo.

Nell’ anno precedente, il ritorno esplicito al motivo del suo primo dipinto sopra citato, in “L’uomo e l’albero nuovo”,  2016, un’opera spettacolare di quasi 2 metri e mezzo di altezza per oltre 3 metri di larghezza, costituita da otto pannelli in legno uniti percorsi da venature che compongono una trama  variegata, le “piccole tarsie”  dei campi arati della sua regione di origine, lo stesso ambiente contadino che il curatore trova nella fotografia dei genitori e dei nonni, con la natura scabra e arida della campagna marchigiana e la rigidità alla Rousseau delle persone.

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E aggiunge, citando la tesi di laurea dell’artista, che oltre al “Doganiere”, nel suo “albero genealogico” ci sono Sironi e Morandi, Campigli e Piero della Francesca, Wiligelmo, Klimt e “il maestro Burri”. “E’ un universo – per la Campitelli – il cui perno è sempre l’uomo e il suo rapporto con la natura”.  Non è la riproduzione della fotografia in cui le figure sono allineate la scultura in terracotta rossa “Gruppo di famiglia“, 2017, ma di certo il pensiero torna al gruppo di allora, come per “L’uomo e l’albero nuovo”.

Di questa grande dipinto vogliamo mettere in luce la straordinaria continuità artistica e compositiva con la prima opera di cui reitera il titolo attualizzandolo, anche se la scena è più animata, non si vede solo una figura umana e un albero spoglio, ma altre presenze e ombre  in  un’atmosfera velata. “C’è la forza della natura e quella di alcuni legami familiari evocati da figure animali  e umane – osserva Carlo Alberto Bucci – c’è una pittura fatta di molte, lente velature e c’è, all’opposto, ma lì accanto, colore spesso steso a corpo. La sintesi (forse volutamente non cercata) delle diverse  anime è ardita in questa grande metafora della vita”.  Il colore esplode al centro dove, collocata su un ramo da una sorta di elfo dei boschi, una arancia  gialla dà luce al dipinto. E’ lo stesso artista a farcela notare  durante la visita alla mostra, dicendo che l’approdo all’aranciera di Villa Borghese del suo quadro con l’arancia in bell’evidenza  è stata una fortuita quanto significativa combinazione.

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Il “Ninfeo” pittorico e l’autoritratto rivolto verso il ninfeo barocco dell’aranciera

Non è stata una combinazione la realizzazione dei 4 grandi pannelli del “Ninfeo”,  un trittico  con i due pannelli laterali a forma quadrata di 2 metri di lato, quello centrale largo 2 metri e mezzo come il fregio alto 1 metro, veramente monumentale.  Li ha dipinti nel 2016  per la sala dove sono esposti dirimpetto  al ninfeo barocco dell’aranciera,  da cui sono separati dalla grande vetrata che fa da parete:  “Il  ninfeo, come il chiostro – commenta Cafagna – opera dell’uomo ma perfettamente integrato nella natura, della quale imita e sviluppa le forme, diviene la metafora perfetta del modo di lavorare dell’artista, il “luogo assoluto”. E conclude: “L’incessante instabilità che si crea tra interno ed esterno, tra artificio e natura, è la chiave di volta della poetica di Pierfranceschi”.

Guardiamo il suo “Ninfeo”,  si sente una profondità ancestrale, arcaica nei tre ambienti oscuri che sembrano penetrare nell’essenza della materia,  quasi ci fosse Diogene con la lampada che si può intravedere nella forma sulla destra, nel fregio forme sfumate di pellicani che si muovono nel buio.  Ci voltiamo dalla parte opposta della sala per guardare il ninfeo barocco oltre la vetrata e abbiamo una sorpresa, non lo guardiamo soltanto noi ma anche il viso dell’artista in terracotta bianca, l'”Autoritratto con passero” rivolto all’esterno  in un muto collegamento, quasi a dimostrare “l’incessante stabilità” tra “artificio e natura” di cui parla Cafagna, è recentissimo, del 2017.    

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Ma c’è di più, i due occhi guardano ma non vedono  perché quello destro spalancato è svuotato, senza pupilla come nelle statue antiche, il sinistro è socchiuso:”E’ l’occhio del sognatore – ha detto l’artista – più pronto ad ascoltare i richiami e i suggerimenti della natura”, sussurratigli all’orecchio sinistro  dal passero con le piume colorate, che della natura è un simbolo, poggiato sulla sua spalla.

Il salone diventa così un set teatrale con la grande tavola “L’uomo e l’albero nuovo”  nella parete di fondo più corta, il trittico del “Ninfeo”  nella parete adiacente molto  più lunga, al centro l’autoritratto che guarda senza vedere verso il  ninfeo barocco all’esterno. Così Cafagna: “Nello scarto tra i due occhi della scultura sta il doppio registro estetico dell’arte di Pierfranceschi: romantica e ponderata, riflessiva ed estroversa, aperta verso orizzonti infiniti e racchiusa nei meandri della coscienza”.

Bucci parla di “doppio sguardo”, di “Giano bifronte che segna l’inizio e la fine, il passato e il futuro”;  e immagina che – a somiglianza di Rubin scultore e Arkin storico dell’arte,  personaggi descritti da Bernard Mahamud in “Il cappello di Rembrandt”, opposti di carattere ma uniti nell’insegnamento e non solo –  “nel lavoro (se non proprio nella persona) di Pierfranceschi vivano due anime in contrasto, anche violento, eppure complementari. L’una è mondana, colta, suadente cittadina. L’altra è silenziosa, rude, ‘ignorante’, contadina”.

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Per la prima anima vale una biografia ricca di mostre.. Dopo la prima mostra del 1985, negli anni ’80 e ’90 esposizioni a Roma e Milano, Mosca e Leningrado, nel 1992 è uno dei dieci artisti italiani selezionati per la mostra “Giappone Italia Giovani generazioni” alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, nel 1993 è a New York e nel 1996 alla XII Quadriennale d’Arte di Roma. Poi a Bologna e Treviso, Cagli e Rimini, Copparo (Ferrara), Virgilio (Mantova) e  San Gabriele (Teramo) alla “Nona Biennale di Arte Sacra”. Soprattutto a Roma le mostre sono  sempre più numerose, da Ciampino alla “Galleria Il Segno”, dalla “Temple Gallery” al Chiostro del Bramante.

Questa anima mondana e cittadina convive con l’anima silenziosa e contadina espressa dalla fotografia dei genitori con i nonni, una vera e propria carta d’identità del nostro artista specchio della sua terra di origine, la campagna marchigiana.

Gli altri dipinti, interno-esterno, i rami come strutture antropomorfe

Uno sguardo verso l’esterno anche nel “Dittico”, 2017, questa volta è un dipinto con una figura femminile appena abbozzata,  la testa da manichino metafisico rivolta verso un esterno oscuro con forme indistinguibili. Torna la famiglia,  sembra si tratti della figlia dell’artista, che dalla finestra della sua stanza guarda fuori; al chiarore dell’interno si contrappone l’oscurità all’esterno.. Pure in “Vista sui naufragi”, 2015, la contrapposizione interno-esterno è del tutto evidente.

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Torna l’albero  in un altro dipinto, “Agnus Dei”, 2016,  al centro  di una scena notturna ancora più indecifrabile con una dissolvenza  nella quale  si percepisce un oggetto dalla forma e l’aspetto di un televisore,  forse anche qui l’interno giustapposto all’esterno, e un albero stilizzato i cui rami sono dei filamenti che si aprono verso l’alto, è molto più esile del primo albero del 1985.

Sono passati oltre trent’anni, è come se  l’artista stesse sconfinando nell’astrazione, ma prima, nel 2012, ci sono state le “Metope”, dal richiamo classico nel nome quanto mai eloquente:  nei 6 dipinti esposti, numerati in ordine progressivo, dove i rami sono invece le strutture portanti della composizione progettata dall’architetto con una visione antropomorfa  in cui uomo e natura, e precisamente uomo e albero con i suoi rami, sono assimilati e uniti nella concezione  panica.

Alcuni rami prendono forme umane, altri costituiscono l’architettura del dipinto, in una evoluzione che, nelle opere esposte, parte dal “Paesaggio convulso” del 1990 e  si sviluppa nella “Deposizione”, la “Melanconia” e “Dopo la battaglia”, tutti e tre del 2009, in cui non si avverte ancora la compenetrazione antropomorfa ma i rami diventano  protagonisti che sembrano parlare.

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Andando indietro nel tempo, nel 1995 vediamo come per la solidità compositiva il “muratore” non ha bisogno neppure dei rami, basta il colore, ed ecco “Architettura in rosso” e “Architettura in giallo  e blu”.

Le metamorfosi scultoree delle “cose ultime”

Un “architetto” dell’arte come Pierfranceschi, oltre ad esprimersi in pittura non poteva non farlo anche nella scultura dove le forme e i volumi sono ancora più dominanti, quindi richiedono particolare attenzione alla solidità della struttura compositiva. Abbiamo visto finora 3 opere in terracotta, in due bianca, in una rossa, tutte con un grande equilibrio nei loro contenuti evocativi.

Ma c’è un altro filone nel lavoro scultoreo dell’artista, lo vediamo nell’angolo della mostra dove sono presentati molti oggetti di vari materiali, soprattutto legno e ferro, marmo e gesso, forse troppo affastellati  in uno spazio ridotto per avere il rilievo che meritano. Alla base di questa scelta espositiva alquanto riduttiva,  ci potrebbe essere l’idea che anima l’artista in questa serie di sculture: poiché si tratta di dare nuova vita a materiali ed oggetti di uso comune che sono stati abbandonati e destinati  a scomparire, il loro recupero per un uso diverso non deve enfatizzarne l’umile contenuto.

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L’utilizzazione di materiali recuperati in vario modo lo troviamo in molti artisti, ne citiamo tre presentati a Roma negli ultimi anni, l’americana Louise Nevelson, il libico Wak Wak, l’italiano Alessio Deli: la prima assembla in vario modo tavole e parti di mobili in legno traendone  pannelli spettacolari, il secondo recupera materiale bellico per sculture evocative, il terzo prende nelle discariche gli elementi soprattutto di ferro con cui compone sculture di piccole dimensioni,  come piante e altro, e grandi statue. Pierfranceschi, invece, non si serve del materiale recuperato come materia prima ma come oggetto della sua scultura con interventi minimali volti più che altro a innestare un materiale sull’altro per dargli un significato avendo perduto del tutto quello originario.

“Queste cose – precisa Enrico Castelli Gattinara – possono aprirsi ancora a un’utilizzabilità altra, del tutto estranea a quella che le aveva destinate alla fine, eppure intrinseca ad essa. L’artista le usa per quello che sono, per come sono, proprio in quanto non respinti e consumati, vale a dire come cose ultime”. Lo fa così: “Le usa come un materiale quasi grezzo, e le sceglie solo se possiedono questa qualità. Per questo esse non sono ‘qualsiasi cosa’, ogni tipo di rifiuto o di scarto, ma solo quel particolare materiale di scarto, pezzo, residuo o frammento che in qualche modo ancora parla, o colpisce nel segno”. Ecco come li trova: “Li scorge, li raccoglie e li osserva con attenzione, con cura  (la cura che si riserva alle cose fragili), per leggerne la virtualità ancora presente in essi prima di essere definitivamente distrutti”.

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Ma non è una fragilità materiale, essendo duri e resistenti, bensì la fragilità intrinseca di chi è stato abbandonato perché divenuto inutile, quasi in un’antropizzazione degli oggetti inanimati. In fondo ci sembra di ritrovare  Geppetto che dal tronco di legno ricava il burattino che si anima e vive.

Anche gli oggetti recuperati da Pierfranceschi prendono vita dopo il suo intervento alla Geppetto, e come sia altamente nobile, e non soltanto dignitosa questa vita lo vediamo soprattutto dal Catalogo, dove ognuno di loro, a piena pagina, può esprimere appieno una forza espressiva che non appare nella stessa evidenza nella mostra dove sono affastellati numerosi in uno spazio troppo piccolo per valorizzarli come meritano.

C’è un altro aspetto intrigante che può evocare altre situazioni e correlazioni inaspettate, lo sottolinea lo stesso Castelli Gattinara: “Prima delle cose ultime, c’è infatti la loro relazione ancora aperta, la promessa di rapporti insospettabili e inimmaginabili, mai progettati e mai stabiliti: una risonanza e un’assonanza con altre cose  per cui non erano fatte e a cui non erano destinate. Qualcosa di fragile e di potente al tempo stesso, di cui l’artista si fa sensore, interprete e artefice”.

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Tre aggettivi  che  ci fanno sentire le varie fasi interconnesse in cui si svolge la creazione artistica, l’individuazione dell’oggetto, la comprensione del significato che può assumere, l’intervento minimale di adattamento e connessione ad altri oggetti. L’artista, prosegue il critico,  “raccoglie facendosi raccogliere, lasciandosi chiamare da questi oggetti dispersi e ponendoli in relazioni che la loro forma, la loro materia  e la casualità degli interventi subiti richiamano e talvolta pretendono”.

Di qui la presenza di più materiali, negli innesti di residuati diversi che li fanno rivivere in una forma composita nuova e con una funzione rinnovata, anzi rilanciata nell’arte: “Nessuno di questi pezzi era destinato all’altro, eppure adesso sembrano fatti per restare così, insieme in un equilibrio delle differenze e delle possibilità. Tutto si gioca nei punti di appoggio e nel gioco delle forze reciproche, dei pesi e dei materiali”. .

E tutto  avviene – afferma ancora Castelli Gattinara – “senza che prima ci sia stato  un progetto, un’intenzione, una pianificazione strategicamente elaborata”.   La Campitelli aggiunge la sua definizione evocativa di “materiali assemblati sapientemente per comporre un immaginario inedito che permette a chi guarda di proiettarvi le proprie visioni e suggestioni”.

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Forse per questo la serie del 1916 si intitola “Prima delle cose ultime”  senza titoli per le 15 opere che la compongono, se non il numero d’ordine. Vediamo un gancio di ferro arrugginito conficcato in un cuneo di legno poggiato su una lastra di travertino (# 1) e un tubo lungo e contorto di rame innestato su una pietra rotonda (# 2);  un piccolo pezzo di tubo di piombo fissato con un sottile fil di ferro a una base di marmo (# 3), come per un pezzo di legno posto in orizzontale (# 10); una base simile regge un pezzo di legno di quercia in verticale sorretto da un grosso fil di ferro (# 4) e  tiene anche una sorta di nastro metallico che s’innalza a volute (# 5), il pezzo di legno in piedi con il fil di ferro lo troviamo anche su una base di legno (# 11)  e di nuovo di marmo (# 12);  un legno stretto e alto posto in verticale innestato sulla base si ritrova in diverse opere (# 6, 7, 8), ma c’è anche una sorta di lima metallica posta in verticale (# 9);  legno più massiccio in due opere, in una nel blocco ligneo c’è un’apertura (# 13), nell’altra i  pezzi sono uniti da un cerchio metallico su una grossa base lignea ( # 14);  l’ultima opera della serie è una complessa costruzione con colonne di gesso che reggono una ciotola ovale di ferro obliqua, l’artista-architetto è sempre presente  (# 15).

Ci sono altre 11 opere, sempre con assemblaggio di materiali tipo quelli citati, ma con un titolo che questa volta  rimanda al contenuto, quindi ci basta citarlo. Sono  del 2015 “San Sebastiano” e “Paesaggio di sculture”, del 2016 “Urna” e “In colonna”, “Trio”, “Legàmi”, e “Rosa di pietra”, del 2017 “Kronos” e un’altra “Urna”, “Dolmen” e “Albero tra due case”.

Ritroviamo, dunque, anche qui l’albero con cui nel 1985 Pierfranceschi ha iniziato il suo percorso artistico, tornando su questo motivo in modo continuo nella pittura e nel bassorilievo in terracotta.

“Cantore di metamorfosi” lo definisce la Campitelli, e conclude: “Alcuni decenni separano le prime opere dalle ultime realizzate, ma il filo conduttore che le unisce è sempre presente, ed è la ricerca di mettere in luce la capacità della natura, in tutte le sue manifestazioni, di trasformarsi, di dar vita a forme nuove in una incessante metamorfosi”. Ci sembra questo il miglior modo per concludere anche noi la nostra immersione in un’arte così personale ma insieme così coinvolgente.

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Info

Museo Carlo Bilotti – Aranciera di Villa Borghese. Viale Fiorello La Guardia, Roma. Orario, da martedì a domenica ore 10,00-16,00, sabato e domenica ore 10,00-19,00, lunedì chiuso, ingresso fino a mezz’ora prima della chiusura. Ingresso gratuito. Tel . 060608. www.museocarlobilotti.it, www.museiincomune.it. Catalogo “Maurizio Pierfranceschi – L’uomo e l’albero”, Edizioni Solfanelli 2017, pp. 82, formato 24 x 22, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Cfr. i nostri, articoli in questo sito, per gli artisti citati,nel 2013: Nevelson 25 maggio, Deli 26 aprile, Wak Wak 27 gennaio.

Foto 

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al museo Carlo Bilotti alla presentazione della mostra, si ringrazia, per l’opportunità offerta, la direzione del Museo con i titolari dei diritti, in particolare l’artista anche  per avere accettato di farsi ritrarre davanti a una sua opera. In apertura,  “L’uomo e l’albero” 2015, a destra l’autore, l’artista Maurizio Pierfranceschi; seguono il Ninfeo monumentale dell’Aranciera  di fronte all’“Autoritratto con passero” visto dal retro, e “Autoritratto con passero” 2017 visto di fronte in primo piano con dietro “Ninfeo” 2016; poi, “L’uomo e l’albero” 1985 e “Dittico” 2017; quindi, “Vista sui naufragi” 2015 e “Agnus Dei” 2016; inoltre, del 2012,  “Metopa 1″ e “Metopa 4”; ancora, “Metopa 5” e “Metopa 6”; infine, del 2009, “Dopo la battaglia” e “Deposizione”; conclude  uno scorcio dell’esposizione di Sculture 2016-2017, con nella parete il dipinto “Paesaggio di sculture” 2015; in chiusura, “Compianto” 2008.

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