Hokusai, il maestro dell'”ukiyoe” giapponese, con Eisen, all’Ara Pacis

di Romano Maria Levante

Un evento la mostra aperta a Roma, dal 12 ottobre 2017 al 14 gennaio 2018, all’Ara Pacis, “Hokusai, sulle orme del maestro”, con esposte  oltre 300 opere, tra quelle di Hukusai e di Eisen grande anch’egli,  sulle origini della moderna scuola di pittura giapponese fondata dal maestro sulla base di quella cinese nella prima metà dell’800.  La mostra celebra il  150° anniversario delle relazioni tra Giappone e Italia, è organizzata da MondoMostre Skira con Zétema, a cura di Rossella Menegazzo che ha curato pure il monumentale e raffinato catalogo edito da Skira.

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La mostra fa entrare in un mondo molto diverso dal nostro, quello dell’esotismo orientale, nel quale l’espressione artistica su avvale di tecniche molto particolari ed è manifestazione di una società e di costumi altrettanto speciali. In questo contesto, che ne accresce l’interesse e il fascino, vanno inquadrate le opere  presentate.L’esposizione merita una speciale attenzione data la sua spettacolarità che rende la visita un vero evento: la penombra delle sale accresce l’emozione dinanzi all’elevatissimo numero di opere esposte, che spiccano per la luce che le colpisce come fosse un occhio di bue sulla star nel palcoscenico immerso nell’ombra, e le star sono le straordinarie immagini della natura di bellezza incomparabile soprattutto di Hokusai, e di  donne misteriose e intriganti avvolte nei loro sontuosi kimono soprattutto di Eisin.

L’ “ukiyoe” nell’arte e nella società giapponese

Cominciamo dalla tecnica, il primo elemento caratteristico dell’arte orientale e giapponese in particolare, si tratta della “ukiyoe”, sono stampe artistiche su carta  da matrici di legno incise da intagliatori provetti sulla base dei disegni dei maestri pittori, matrici sfruttate in multipli di centinaia di pezzi fino alla consunzione, con la possibilità di modificare i colori anche limitandoli per motivi economici. Anche in occidente alcuni tipi di opere d’arte sono state frutto di collaborazione tra l’artista e  coloro che traducevano materialmente la sua creazione utilizzando materiali come l’argento e altro, nell’ “ukiyoe” oltre all’artista, l’intagliatore e lo stampatore c’era l’editore che si occupava della parte economica e della vendita sul mercato, per questo aveva voce in capitolo anche in alcune scelte come la forma e la dimensione dell’opera. L’intagliatore aveva un ruolo importante in quanto la resa della creazione artistica dipendeva anche dalla sua abilità nel tradurla in incisioni sul legno della matrice; altrettanto lo stampatore che per ognuna passava i colori indicati dall’artista con l‘abilità di renderne le sfumature differenziando in modo appropriato la pressione della matrice a secco sul foglio. .

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Il risultato era notevole, tanto da conquistare anche il pubblico europeo,  particolarmente francese,  dalla seconda metà dell’800, nell’ambito di una crescente predilezione per “giapponeserie” d’importazione di ogni tipo, compresi kimono e ceramiche, lacche e armature.  Ciò avvenne dopo l’apertura del mondo giapponese – chiuso per due secoli, dal 1641, ad ogni contatto con l’esterno per volere del despota Tokugawa -, apertura che avvenne nel 1854 su pressione della flotta americana; poi, nel 1867, il Giappone presentò un padiglione all’Expo di Parigi, e fu un successo strepitoso.

Nella seconda metà dell’800  il genovese Edoardo Chiossone, chiamato nell’antica Edo, l’odierna Tokyo, nel 1875,  come incisore di banconote, e vissutovi 23 anni fino alla morte nel 1898,  divenne ritrattista ufficiale e raccolse una vasta collezione della pittura “ukiyoe”, come rievoca il saggio di Donatella Failla.

Ma quello che ci interessa è vedere come questa produzione artistica si inserisse nella società giapponese dell’epoca Edo, che termina nel 1868, vent’anni dopo la morte di Hokusai e di Eisin.  .

Con l’emergere della classe mercantile borghese dopo il dominio aristocratico avvennero radicali mutamenti in campo sociale e urbanistico e negli stili di vita. Tale classe non era condizionata né dalla  rigorosa etica imposta a samurai e nobili, né dal gravoso lavoro dei contadini e pescatori, inoltre acquisiva crescenti disponibilità economiche. Era molto dinamica con i continui spostamenti nel paese,  la voglia di conoscere i  luoghi caratteristici, la ricerca di divertimenti nel tempo libero. Le maggiori città si svilupparono, ed Edo raggiunse un milione di abitanti.

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Si moltiplicarono così i luoghi di intrattenimento  e di svago, dai teatri alle case di tè e di piacere, sempre più  frequentati e, in relazione a questa evoluzione del costume, nacque il desiderio di conservarne la memoria con ricordi visivi: piccole immagini che li facessero rivivere, fossero essi paesaggi e immagini ambientali o figure evocatrici della vita quotidiana Nella tradizione precedente  le immagini pittoriche erano invece riservate ad arredare castelli e residenze aristocratiche, con grandi pannelli scorrevoli e paraventi per riaffermare il potere della classe dominante. 

Inizialmente si riproducevano vedute cittadine e attività correnti, poi si passò all’evasione rappresentando i teatri e le case da tè. “Le prime grandi scuole dell”ukiyoe’ –  ricorda la curatrice Rossella Menegazzo nel suo saggio “Hokusai ed Eisen. Sulle orme del maestro” – erano specializzate nei ritratti di attori di teatro kabuki (“yakushae”) e di beltà femminili (“bijnga”), generi che continuarono  a rappresentare nel tempo una grossa fetta di mercato delle immagini del ‘Mondo Fluttuante’, dato che rappresentavano i volti e i nomi  più noti dell’epoca, i beniamini del popolo, gli ideali di bellezza cui tutti aspiravano anche se  irraggiungibili”.Il “Mondo fluttuante” era quello tutto particolare creato dall’isolamento del Giappone.

Soggetti, quindi, comuni in queste rappresentazioni pittoriche sulle stampe artistiche dell’ “ukiyoe”, nei quali divennero prevalenti, a parte i paesaggi, le cortigiane e le geishe di ristoranti e case da tè, nonché donne di alta classe. Soprattutto l’abbigliamento è particolarmente curato con kimono dai colori sgargianti, gonne sovrapposte e una serie di elementi ornamentali quasi codificati per le donne delle case di piacere. Anche la capigliatura in queste stampe era molto curata ed elaborata.

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Le immagini ritraggono queste bellezze nelle più diverse situazioni, a figura intera, sedute e mentre leggono, quando camminano,  brillanti decorazioni con motivi geometrici o floreali  negli abiti e atteggiamenti spesso sensuali. Vi sono anche “‘immagini pericolose’ (“abunae”), che lasciano intuire la scelta amorosa senza esplicitarne l’aspetto sessuale, come è invece tipico delle stampe erotiche (“shunga”).

La vita del maestro Hokusai

Premesso il contesto in cui si colloca la sua arte, in particolare la formula particolare dell’ “ukiyoe”, possiamo cercare di delineare il profilo caratteristico di Hukusai che ne è stato il massimo esponente, precisando subito che cambiò il proprio nome più volte, in corrispondenza con le diverse fasi evolutive della propria vita artistica, quasi a volerne marcare le svolte.:

Il suo nome era Tokitarò, nacque a Edo nel 1860,  fu adottato e, dopo essere stato da adolescente fattorino in un biblioteca, entrò come apprendista in una bottega di intaglio xilografico, di qui nasce l'”ukiyoe”, Poi entra nello studio artistico di  Shunsho Kawamura, fondatore della scuola omonima, dal 1779 al 1794 firma le sue prime opere come Shunro la cui parte iniziale evoca il nome del maestro, raffigura soprattutto attori di teatro  e illustra libri di narrativa popolare nello stile della scuola Kawamura, con pose fisse e poca  attenzione ai dettagli. . .

Nel 1795 passa nella bottega di Sori Tawaraya, fondatore di un’altra scuola omonima, e firma con il nome Sori quando ne prende la guida fino al 1798, muore la prima moglie lasciandogli tre figli piccoli, si sposa di nuovo ed ha altri due figli. Il suo stile ora si avvicina a quello di un altro maestro particolarmente in voga, Utamaro, comincia a dedicarsi al paesaggio nel quale è destinato ad eccellere, inizia ispirandosi alla prospettiva occidentale sull’esempio di un altro maestro, Shiba Kokan, ma mantenendo i caratteri orientali della sua arte.

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In tal modo, allontanatosi dallo stile della scuola Tawaraya e sentendosi in grado di operare in modo autonomo,  prima dell’inizio del 1800 cede il nome Sori  a un allievo e si mette in proprio con il nome di Hokusai, letteralmente “studio del nord”, riferito non più a un maestro ma a una divinità collegata con la stella polare. Può approfondire la conoscenza delle diverse correnti artistiche, come quella dominante di Kano che innestava elementi dell’arte cinese classica nella tradizione giapponese, divenendo  più libero nell’esprimersi, è il periodo di maggiore impegno artistico. Il suo stile diviene più penetrante nelle figure umane che tende ad inserire in  paesaggi e ambienti naturali.

Di questa fase si narrano episodi apparentemente sconcertanti, che mostrano come fosse creativo, eclettico, e anche d’avanguardia: si va dalla pittura su un granello di riso – un volo d’uccello – ai duecento metri quadri di carta dipinti a terra in pubblico con l’immagine del fondatore del buddismo, l’intero dipinto poi fissata su un supporto ligneo di pari dimensioni, sembra cronaca contemporanea. Come  appare d’avanguardia la sua inventiva in una gara pittorica allorché, dopo aver tracciato delle strisce blu sulla carta stesa a terra, vi fece passare un gallo al quale aveva  intinto le zampe di rosso.

Tutto ciò fa capire anche l’irrequietezza nei cambi di nome, nel 1810 lascia anche questo nome, con cui è divenuto celebre e che oggi viene citato  per l’intera sua opera, a un allievo, pur usandolo ancora saltuariamente, e prende il nome di Taito, l’abbreviazione di Taihokuto, una stella dell’Orsa minore. Si dedica alla didattica con un corso di disegno basato su forme geometriche, con i  “Manga”, che sarebbero i fumetti asiatici, ma li interpreta diversamente, 15 volumi  con un’infinità di immagini di persone  animali, divinità e architetture;  e una serie di altre opere educative, dalla danza alla pittura alla spiritualità. Non disdegna il genere erotico, con il libro “Spasimi d’amore” e l’immagine della donna rapita da un polipo.

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Alla fine del 1819; al compimento dei sessant’anni, con cui i giapponesi concludono un ciclo astrologico, cambia di nuovo il nome con cui si firmava in Jitsu, “nuovamente uno”, in effetti sentiva l’ansia del rinnovamento, si dedica anche ai “surinomo” in contatto con gli ambienti letterari e a lavori di grande abilità tecnica e di notevole creatività.  I suoi animali sono sempre più il riflesso di caratteri umani mentre per la figura umana torna allo stile iniziale della scuola Katsukawa.

E’ la fase dei maggiori capolavori, come le “Trentasei vedute del monte Fuji”,del 1830,  tra cui il clou del cono rossastro del monte  e l’icona della “grande onda” – il cui successo fece estendere il programma a cento opere, ma  ne furono prodotte 46. In questo modo il paesaggio tornò ad essere dominante come era stato nel passato, e seguirono molte serie di grande importanza di vedute delle località più rinomate e degli ambienti naturali più spettacolari come le “Cascate”. Combinò le immagini paesaggistiche anche con le storie  e le immagini di poeti in scene di grande effetto.

L’irrequietezza non si placa, a 75 anni nel 1934 cambia di nuovo nome, da Jitsu passa a “Manji”, di origine buddhista, lo mantiene fino alla morte del 1849. Non si placa neppure la straordinaria vitalità artistica, tra il 1835 e il 1849 abbiamo le “Cento vedute del monte Fuji”, questa volta non sono stampe policrome, ma in nero e grigio ma con toni suggestivi.

Nonostante si impegnasse molto nel lavoro artistico e godesse di un’alta consideraazione, nell’ultimo quindicennio di vita finì nelle ristrettezze, anche per la crisi economica che colpì il Giappone; perciò  si trasferì nella penisola di Miura, a 50 chilometri da Edo, ma  vi tornò nel 1836, poco prima della grave carestia del 1837 che seminò miseria e fame. Non solo, ma l’incendio scoppiato in città nel 1939 distrusse la sua casa  con i dipinti che conteneva, una “summa” della sua lunga attività. 

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Riuscì  tuttavia anche  a produrre le stampe di “Cento poesie per cento poeti”, poi negli ultimi anni si dedicò ad opere singole, spesso aventi per con soggetto degli animali cui attribuiva significati particolari. L’ultima sua opera fu il “Libro illustrato sull’uso del colore”, aveva 88 anni, tre volumi di cui due pubblicati nel 1848. Vi si raffigura con  pennelli tra le dita di mani e piedi e in bocca. Con questa immagine si piace passare dopo la sua vita alla sua arte.   

Hokusai, l’ispirazione dalla natura e dalla poesia

Cominciamo con  le parole di Henri Focillon, il critico francese che nel 1914 in una biografia rivelatrice ne sottolineò la popolarità assunta in Francia analizzandone personalità, motivazioni e stile pittorico, dicendo che  Hokusai riusciva a vedere nella natura “uno splendido scenario ricco di apparenze”.  Ciò perché fa parte di quegli artisti che, a differenza di coloro per i quali l’arte si circonda di mistero, “non li incalza il senso della vita, ma la vita stessa che passa. Cercano di captarla senza pietrificarla. Né si affaticano a sovraccaricarla di simboli o di pensieri”.

In termini positivi: “La vita inebria l’ispirazione di questi pittori senza ottunderne l’osservazione. Ciò che li attrae non è il fatto che la vita sia misteriosa e profonda, ma che sia istantanea e diversa.. Un’attività instancabile li spinge ad essere duttili e rapidi come la vita  che assumono a modello”.  Ed è stato proprio instancabile Hokusai con le 3000 silografie policrome, i 1000 dipinti e i 200 libri illustrati, migliaia di opere prodotte in 70 anni di attività, del resto nella mostra a lui dedicata nel 2014 a Parigi sono state presentate 540 sue opere, a cura del suo grande conoscitore Nagata Seiji che nel 20015 aveva presentato  a Tokyo 490 opere del maestro e anche la mostra attuale è molto ricca.

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Focillon non colloca Hukusai tra i pittori realistici, bensì tra i “pittori dei fenomeni terrestri attuali. Infatti, proprio alla varietà dei fenomeni essi applicano tutte le risorse di un’arte che ha come principio la curiosità e come fine una sintesi espressiva”.

Una sintesi che la Menegazzo identifica nella serie di “Trentasei vedute del monte Fuji”, considerata il suo capolavoro, in cui anche se protagonista assoluta è la montagna sacra, “Hokusai incorpora come tema principale l’azione umana quotidiana, descritta in modo vivido e vivace, e una spazialità drammatica”. Ed ecco come ciò avviene: “In primissimo piano, ma decentrato rispetto al centro dell’immagine, c’è l’uomo, che lavora, si diverte, immerso nel paesaggio di una qualche provincia riconoscibile per un particolare luogo, ponte, scoglio, monte, fiume, per la presenza di una locanda, una casa da te, un tempio o santuario, o per uno scorcio da cui si può scorgere in lontananza la silouette del monte Fuji”.

 Il significato che assume è questo: “Una presenza costante, un punto di riferimento che segna il limite tra l’umano e il sacro ma che trasmette anche una prima consapevolezza di unità nazionale sotto il simbolo del Fuji”.

Sotto il profilo formale “Hokusai studia le sue composizioni secondo linee di forza precise, lasciando tra il soggetto in primissimo piano e il lontano monte Fuji  uno spazio decorativamente pieno, ma allo stesso tempo libero e vuoto (‘yohaku’) per lasciare libertà d’interpretazione all’osservatore”.

Koike Makiko ricorda l’emozione provata da bambina durante un’escursione sul monte Fuji in cui non solo riconobbe “i colori del celebre Fuji rosso’ di Hokusai”, ma percepì “la sacralità della montagna” e la suggestione del rito che “insegna a raggiungere la purezza attraverso la liberazione delle illusioni che riceviamo per mezzo di occhi, orecchie, naso, bocca, corpo e coscienza”. E commenta: “Credo che siano esperienze come queste ad alimentare in maniera spontanea la reverenza nei confronti della natura. La sapienza necessaria alla quotidiana convivenza con la natura ha edificato la cultura spirituale  degli uomini, ed è grazie a questo contesto culturale che riusciamo a percepire il sacro nella raffigurazione di un paesaggio quale quello del monte Fuji”.

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Ci siamo soffermati su questo particolare soggetto della sua ispirazione per entrare nella spiritualità dell’artista prima di visitare la sterminata  galleria di opere di cui le vedute fanno parte insieme a tante altre. La visione dell’umano in un alone di spiritualità non è ispirata soltanto dalla maestosa montagna sacra, si alimenta anche di influssi poetici come nella serie “Cento poesie per cento poeti in racconti illustrati della balia” del 1935, peraltro rimasta incompleta perché non ebbe successo.

La Makiko osserva come in “Sangi Takamura” di tale serie,  sul poeta destinato all’esilio, “le splendide gradazioni di blu delle acque sembrano sottolineare la bellezza del paesaggio e la fecondità del mare; mentre la nostra attenzione indugia sulle quotidiane fatiche in cui sono impegnati uomini  e donne in questo scenario maestoso”. Sono compresenti  l’impegno delle pescatrici e la gioia dei pescatori per l’abbondante pesca, insieme al dramma del poeta, pur indomito, il che fa concludere: “Questa immagine non si limita a rappresentare il paesaggio cantato nella poesia: è un paesaggio dell’anima in cui si rispecchia la vicenda umana del poeta”.

Dal punto di vista stilistico, una particolarità dell’artista sottolineata da Kawai Masatomo, direttore del Chiba City Mueseum of Art, è  l’avere innestato in modo assolutamente originale sulle tecniche tradizionali elementi della cultura pittorica occidentale come la prospettiva e il chiaroscuro utilizzati in modo, però, del tutto personale,  in quanto vi “sovrappone elementi non presenti in occidente prima del XIX secolo come le forti modulazioni tipicamente orientali della linea, il contrasto tra le campiture di colori scelti all’interno di una limitata gamma cromatica, la rappresentazione deformata dei soggetti”.  La stesura del colore come la pennellata è leggera, in punta di pennello.

L’artista ha utilizzato il “Berlin blue” (“berorin ai”)  dal 1831 al 1834 insieme ad altri colori rendendo più brillanti acqua e cielo con la  tecnica del “bokashi”. A questo punto, nel 1835, Hukusai  a 75 anni lascia le silografie policrome prodotte in ampie tirature e si dedica alla pittura prediletta più intima e personale in esemplari unici.

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Sono tanti i soggetti rappresentati da Hokusai, anche se abbiamo voluto sottolineare in modo particolare le due serie che ci sembrano rappresentare motivi particolarmente intensi e profondi. Lui stesso dice che a 73 anni “ha cominciato  a intuire la struttura di animali e uccelli, insetti e pesci e la natura di erbe e piante”, infatti  non mancano nella mostra queste raffigurazioni.  Come non mancano immagini femminili, anzi “le cortigiane di Hokusai” erano rinomate, ben prima che il suo epigono, Eisen, di cui parleremo al termine, divenisse specialista nella rappresentazione della beltà femminile nel “bjinga”.

Inoltre l’artista si è dedicato a un altro tipo di lavori per la gente comune, come le silografie policrome del gioco del “sugoroku” con disegnate località a lui  note in una sorta di gioco dell’oca in cui si va avanti e si torna indietro con il lancio dei dadi, sembra incredibile dopo quanto abbiamo detto sui motivi ispiratori di fonte spirituale  e poetica. Ma tale era la sua  curiosità e la sua ricerca instancabile volta ad approfondire “il senso recondito delle cose”  penetrandone l’essenza, fino ad affermare: “A cento anni avrò forse veramente compreso la dimensione del divino. Quando ne avrò centodieci anche un punto o una linea saranno dotati di vita propria”. Per concludere: “Spero che quelli che godranno di lunga vita potranno verificare se quanto affermo sarà vero”. 

Toccò quasi i 90 anni, e non possiamo dire se riuscì ugualmente a realizzare questi desideri. Ma tutti hanno potuto constatare la sublime capacità di sintesi del suo capolavoro, l’icona della sua arte, “”La [grande] onda presso la costa di Kanagawa” rappresenta la titanica lotta dei marinai su fragili barchette per non essere travolti dai giganteschi marosi, sintesi raggiunta dopo una serie di opere sul tema, anche di trent’anni prima.  “In questa immagine .- commenta la Makiko – Hokusai fissa tutta la bellezza e la tensione di un singolo istante”.

E’ un’immagine ben diversa da quelle della montagna sacra, anche se fa parte del ciclo “Trentasei vedute del monte Fuji”. Il monte che, lo diciamo in conclusione, è stato riconosciuto dall’Unesco patrimonio culturale dell’umanità come “luogo sacro e di ispirazione artistica”, per aver alimentato la religiosità popolare da un lato, la creatività di scrittori, poeti, pittori dall’altro. E di certo, gli “ukiyoe” di Hokusai hanno avuto un ruolo significativo per come ne hanno fatto sentire l’intensa spiritualità anche in occidente. Ne parleremo prossimamente nel raccontare la visita alla mostra.

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Info

Museo dell’Ara Pacis, Lungotevere in Augusta, Roma. Tutti i giorni, ore 9,30-19,30, la biglietteria chiude un’ora prima.  Ingresso solo mostra: intero euro 11, ridotto euro 9, gratuito per le categorie previste dalla legislazione vigente. Tel. 060508, www.arapacis.it.  Catalogo “Hokusai. Sulle orme del Maestro”, a cura di Rossella Menegazzo, Skira, ottobre 2017, pp. 350, formato 24 x 30, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. I due successivi articoli sulla mostra usciranno in questo sito l’8 e 27 dicembre p. v., con altre 12 immagini ciascuno.  Per gli altri nostri articoli sull’arte giapponese cfr., in questo sito,“Giappone, la spiritualità buddhista nelle sculture liignee alle Scuderie del Quirinale”  24 agosto 2016, e “Giappone, 70 anni di pittura e decori ‘nihonga’ alla Gnam”  25 aprile 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’Ara Pacis alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. Le prime 8 sono opere di Katsushika Hokusai della serie “Trentasei vedute del monte Fuji”, 1830-31: in apertura, “La [grande] onda presso la costa di Kanawaka” , seguono,”Ushibori nella provincia di Hitachi” , e “Ruota idraulica a Onden”; poi, “Il pino a cuscino nel parco di Aoyama”, ed “Ejiri nella provincia di Suruga”; quindi, “Il Fuji da Gotenyama presso Shinagawa”, e “Il passo Mishima nella provincia di Kai”; noltre, “Temporale sotto la cima”. Le ultime 4 sono opere di Keisai Eisen: la prima, “Mode delle donne delle quattro classi sociali: samurai, contadini, artigiani, mercanti”, 1828.30, seguono “Atayoyama. Donna dall’aspetto annoiato” 1822-23, e “Beltà sotto le luci serali ad Akiba”, 1818-30; in chiusura, “Monakanotsuki del negozio di dolci Takemura” 1818-30. 

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