Guido Montauti, nel centenario: 2. L’uomo e l’artista

di Romano Maria Levante 

La mostra “Guido Montauti.‘Un percorso di creatività’. Cento opere nel centenario della nascita”  a Roseto degli Abruzzi (Te) dal 6 giugno al 6 luglio 2018, consente di rievocare le varie fasi del suo itinerario artistico attraverso le opere esposte, integrandole con le opere più significative di mostre precedenti, in parallelo con le vicende della sua vita tutta dedicata all’arte. Nel nostro primo inquadramento generale riporteremo quanto sottolineato dal pensiero critico più recente. Questa rievocazione, nel centenario della sua nascita, è ispirata dalla mostra antologica molto curata delle varie fasi di un quarantennio di pittura in cui, nella continuità stilistica e di contenuti, si nota un’evoluzione evidente, frutto di una maturazione personale senza alcuna adesione alle tante avanguardie incontrate lungo il percorso.

La locandina della mostra 

Continuità ed evoluzione è una compresenza apparentemente contraddittoria nell’artista, ma ce ne sono altrettante nell’uomo. Schivo e riservato ma capace di improvvise fiammate, dedito esclusivamente alla amata pittura ma con la repentina apertura all’insegnamento a 50 anni, remissivo ma con manifestazioni di spirito indomito,  tendente all’isolamento ma protagonista di iniziative plateali dalla più vasta risonanza.

L’interpretazione delle compresenze artistiche spetta alla critica, per quelle umane il cronista registra che alla base di svolte clamorose ci sono valori superiori: il valore della libertà che lo fece partigiano in Francia, la difesa dell’arte dalle degenerazioni moderniste che gli ispirò “Il Pastore bianco”, la testimonianza da lasciare ai giovani  che lo indusse all’insegnamento di “Figura disegnata” al Liceo Artistico Statale di Teramo.

La qualità umana e la formazione dell’artista

Emerge il carattere dell’uomo, ben noto a chi – come il sottoscritto –  lo ha frequentato a lungo, osservatore della realtà  contingente con il distacco di chi guarda lontano, ma senza intellettualismi, anzi con l’umiltà di chi sente di far parte di uno scenario naturale considerato il soggetto principale, il  vero protagonista. 

Il suo guardare lontano era ammirare la natura,  nella sua essenza sostanzialmente immutabile nel  tempo, ma mutevole nelle sue espressioni visibili, come le mutazioni stagionali, nelle quali manifesta la sua incessante vitalità: un’apparente contraddittorietà anche nella natura, dunque, che è alla base dell’evoluzione stilistica, cambia l’angolo di visuale quando passa dall’essenza immutabile alla mutazione, per penetrare alla fine nella struttura esteriore e rivelarne l’anima invisibile.

“I mietitori (studio)”, 1949 

E quando poteva immergersi nella natura – lo ricordiamo come gli altri paesani  che condividevano con lui le lunghe estati nel “natio borgo selvaggio” – si rianimava dalla “routine” delle conversazioni nella piazzetta del paese, preso dalla visione della vegetazione che saliva nei declivi erbosi con tante sfumature di verde da lui colte con la vena dell’artista come coglieva le forme delle rocce inquadrandole con le dita incrociate. 

A chi gli era vicino faceva vivere il momento magico della creazione artistica anche se non ne parlava esplicitamente, con un riserbo fatto di modestia e di sensibilità lontano mille miglia dalle esibizioni come dal  narcisismo che non ha fatto mai parte del suo carattere; sempre aperto a scherzare con i paesani nelle sue annuali vacanze estive a Piietracamela.   

Però era pronto a “scattare” quando veniva toccata la sua arte. Come avvenne allorché un amico, Gianni Pirocchi, gli fece notare che un manifesto della “Nutella”, affisso nel Corso San Giorgio a Teramo, imitava in modo pedestre le forme caratteristiche dei suoi dipinti; allora si procurò il manifesto e lo ritoccò correggendone  le storture  sulla carta stampata facendone così  un proprio quadro, debitamente firmato. E’ un “unicum”, lo abbiamo visto a casa dell’amico, una variante della Pop Art che si ispira ai miti del consumismo, era avvenuto l’inverso ma lui aveva sentito il bisogno di ripristinare la superiorità dell’arte.  

“Crocefissione”, 1949

Aveva una profonda cultura artistica, da autodidatta scrupoloso e appassionato che tutto conosceva degli stili e dei maestri antichi e contemporanei. Per noi è stato un momento di grande emozione quando, seguendo il suo percorso di vita in parallelo con quello nell’arte, abbiamo scoperto un’elevazione spirituale evidenziata nell’evoluzione artistica che lo porta  a raggiungere la “perfezione dell’Empireo” come, per altre vie, Mondrian raggiunse la “perfetta armonia”.

Cercheremo di rendere quest’evoluzione fino al  culmine incommensurabile raccontando semplicemente l’evoluzione artistica espressa dalle sue opere in parallelo con le vicende di una vita tutta vissuta nell’arte. 

Dall’uomo all’artista secondo Paola Di Felice 

“Un maestro abruzzese del Novecento” lo definisce Paola Di Felice, e analizza il suo processo creativo che lo ha portato a una produzione “di una vastità impressionante: centinaia di dipinti, da tele di grandi dimensioni ai minuscoli foglietti, da disegni di pochi tratti a vaste composizioni”. 

Nonostante la definizione di “maestro”,  nulla di accademico né di costruito: “Non è stato quello del dipingere un tempo alla ricerca di se stesso, è stato piuttosto una parte essenziale nell’espressione creativa di un uomo che non ha conosciuto argini, la cui dilagante vitalità espansiva  (fatta di esperienze, incontri, viaggi, impegno) ha avuto anche bisogno di pause di silenzio, di solitudine, di intimità di fronte alla tela”.

“Pastori seduti sulle rocce”, 1962

Spinto da un incessante impulso creativo, ha manifestato di volta in volta il sentire del momento nella spontaneità più assoluta con svolte stilistiche e di contenuto apparentemente  improvvise, ma frutto di una maturazione senza soluzione di continuità: “Così dinanzi alla superficie pittorica egli ha potuto confrontarsi con se stesso offrendo, nel suo lungo tempo dedicato al dipingere, una sorta di autoritratto ininterrotto e diffuso. La sua biografia si riflette direttamente sulla sua arte sin dagli esordi, allorché pur nelle vicissitudini del servizio militare nei fronti di guerra europei non poteva fare a meno di dipingere piccoli oli e acquerelli, e al termine del conflitto cercò nell’arte un recupero vitale dopo la sofferta esperienza dei combattimenti, della prigionia e della lotta partigiana: Come se, reso diverso dalla ‘brutta’ guerra, Guido sentisse il bisogno di circondarsi della forza cosmica della natura, di quelle rocce, che avevano nutrito l’immaginario della sua infanzia, fino ad assimilarle ad esseri viventi chiusi nella ‘opacità’ del male”. 

Il suo recupero vitale supera la dimensione personale per divenire un messaggio: “Energia vitale e solidità non come rifugio privato ma come condizione diffusa, sparsa a piene mani, accessibile a tutti, parte integrante della vita di ciascuno di noi”.

“Famiglia di Pietracamela”, 1968 

Sul piano strettamente artistico  la Di Felice sottolinea la sua  “ricerca pittorica” non nel senso dell’affinamento stilistico ma della “dimensione dell’evento emotivo”  in cui trovano espressione le sue “percezioni, sensazioni, memorie, pulsioni emotive, liberamente inseguite, evocate, registrate”, in una “mobilità immaginativa”  del tutto evidente all’insegna della “libertà di determinazione”.

In questo contesto si collocano le varie fasi del suo percorso artistico riflesso diretto di “una situazione esistenziale tracciata da un osservare in continuo aggiornamento, aprendosi a continue sperimentazioni, di tecniche e di espressioni. Ma quando si cerca di inquadrare questa sua evoluzione, il  nostro artista fa un passo più in là, si sposta, inafferrabile… Perché la sua mente e il suo gesto sono sempre in movimento, e appaiono già altrove, avanti di un passo o di un secondo,  a inseguire un pensiero che frulla via…”.    

“Rocce e cespugli”, 1971

La Di Felice si chiede “come si fa a ingabbiare entro i canoni, i binari, le sbarre della critica, una pittura così  libera, pura, sincera?”,  e spiega:  “Montauti respira e dipinge, passa per la casa e aggiunge una nuova pennellata a un vecchio quadro, ci ripensa e cancella quello che aveva già fatto”, seguendo “l’accavallarsi delle emozioni”. Definisce tutto ciò “nostra pittura quotidiana, in margine ad un vissuto assai ricco e fecondo di suggestioni e trasalimenti”, con una peculiarità: “A varietà di tecniche, formati, dimensioni, soggetti non corrisponde una deliberata scelta poetica ma la libera scelta di uno spirito senza dogmi se non quelli dell’indipendenza e dell’intelligenza che, proprio nel campo della pittura, sente di non avere obblighi da adempiere”.  Di qui “la continua richiesta di un’arte ‘altra’, spogliata dai lacci inibitori della forma, e quindi in grado di esprimere l’inesprimibile, il pulsante lavoro dell’inconscio, come pure la coscienza vigile di un tempo storico e di una posizione sociale, accompagnato dal costante franare del concetto dell’unità dell’arte”. 

E’ un processo che lo allontana nel tempo da quello che sembrava un sigillo  assoluto della sua arte, “quando grumo, graffio, pasta, frego nelle tele sembrano attestare la perdite della propria identità e invece ‘sono’ inconfondibilmente, assolutamente,veramente il Nostro. Proprio lui”. Un’espressione che scolpisce l’evoluzione nella continuità e la saldatura tra l’uomo e l’artista. 

Uliveto”, 1971

L'”essenzialità” secondo Corà, il “caso Montauti” secondo Crispolti

E’ dunque l’artista a far valere la propria impronta personale, e Bruno Corà ne parla così: “La semplicità delle forme concepite da Montauti, ben oltre l’attribuzione conferitagli di ‘art brut’, si rivela ben presto una scelta, una rivendicazione e una orgogliosa conquista, riflesso della comprensione dell’essenza fenomenologica della realtà”.

Ed eccone la matrice primaria: “A ben guardare, l’attitudine di Montauti a ‘semplificare’ la forma è congenita al suo lavoro, cioè sin dagli esordi, secondo quell’essenzialità che nel disegno strutturale delle immagini proviene dal filo rosso che coniuga per grandi segmenti il pittore di Altamira o Lescaux al romanico Wiligelmo, a Giotto e Masaccio fino a Matisse e Fontana. Una vocazione alla riduzione unitaria e materico-massiva che ancor prima che volontà di sintesi formale si pone come volontà etica  testimone di radicalità ontologica”.  Ne spiega così la motivazione: “Questo è pur sempre in Montauti l’esito di un convincimento estetico che, a mio avviso, l’osservazione della realtà a lui circostante negli anni giovanili e nella propria terra d’origine, a Pietracamela, in Abruzzo, e poi le successive drammatiche esperienze negli anni tra la giovinezza e l’età adulta durante il secondo conflitto mondiale – nel cuore d’Europa – concorrono a formare”. 

Gruppo di pastori”, 1973 

Su questa base il critico associa la sua pittura nuda e disadorna, e insieme solida e radicata, a quella di Giotto, come le linee essenziali dei suoi disegni scolpiti ai “tagli” di Fontana.  Nonostante abbia acquisito una cultura artistica a 360 gradi, a prima vista sembra che la sua pittura non si sia distaccata dal proprio ambiente, di qui la visione di Enrico Crispolti che parla del “caso Montauti”: “Un pittore per molti aspetti diverso, e per il quale il legame a una propria matrice antropologica, ecologica e culturale, quale impronta determinante della propria ‘personalità’ artistica, è quanto mai evidente, e tuttavia in una corrispondenza che vale, esattamente, per il pittore di Pietracamela il rinvenimento originale e l’invenzione figurale dei modi stessi di esplicitarsi di tale matrice”. 

L’artista, per il critico, ha proposto, attraverso  una “molto personale declinazione di situazioni di  ‘art brut’, una corrispondenza appunto ad una propria riconosciuta origine antropologica-socio-culturale pagando il tributo a questa nella scelta di una collocazione operativa volutamente marginale e ‘periferica’, recuperandola anzi dopo qualche anno di esperienza (‘centrale’, se ve ne possono essere) a Parigi.  

“Il Giocondo“, 1973

In tal modo ha potuto mantenere l’‘imprinting’ ecologico ed etologico originario”, e questo riconduce “alla sua molteplice ‘diversità’, alla sua posizione indipendente e in certo modo solitaria” come quella di pochi artisti dell’Informale europeo, vengono citati Lorenzo Viani e Gerardo Dottori che portò nel dinamismo futurista la contemplazione del paesaggio umbro.

Se questo è vero, non è tutto, la complessità del suo percorso artistico è tale da comprendere altre componenti al di là dell’ispirazione tratta dagli scenari naturali e dalle sollecitazioni umane del paese d’origine.

La “lettura nuova e aggiornata” di Nerio Rosa

Come  ha scritto Nerio Rosa, “pure nelle prime opere piene di immediatezza e riguardanti i momenti di vita, racconti e prime elegie, l’influenza del Novecento dà a Montauti una caratura non provinciale ed una solennità arcana  che non è bizzarria del momento, ma una precisa scelta  che avvicina il suo mondo quotidiano ad un linguaggio ermetico e primitivo di più ampia portata”. E ancora: “Al riferimento di invenzione, alla matrice popolare tanto evidente, sapeva collegare un aspetto storico culturale e internazionale, tanto che la rappresentazione bidimensionale di partenza appariva subito come un pretesto che nascondeva una costruzione più solida e complessa”.  L’artista stesso ne era fortemente convinto.  

“Rocce” , 1973

E’ una costruzione  rivelatasi sin dall’inizio, con “tutti quegli elementi di solidità, di ricchezza di superficie, di semplicità di racconto, di solidità dell’immagine e, soprattutto, di elaborazione materica che troveranno validi approfondimenti nelle opere che seguiranno”. Perciò “il messaggio contenutistico di Montauti è privo di ogni retorica, rifiutando da un lato una falsa ingenuità così come, dall’altro, riflessi intellettualistici. Egli non  ama il simbolo…  passa da un’immagine semplice alla maturità della sua pittura, alla modernità della sua costruzione materica”. 

Data la continuità con gli inizi,  il critico commenta: “Il merito di tali scelte culturali è così grandissimo se comparato, appunto, alle difficoltà del momento”.

Le valutazioni fin qui riportate risalgono al 1989, nel decennale della morte dell’artista, Nerio Rosa le ha aggiornate nel centenario della nascita con un  notevole approfondimento critico che, nelle sue parole, “vuole costituire  un contributo ad una lettura nuova e aggiornata del nesso che collega il lavoro dell’artista al suo vissuto”. 

Con una prima osservazione il critico  rivela un’altra compresenza artistica oltre quella già sottolineata tra continuità ed evoluzione: quella esplicitamente segnalata ora è tra il vissuto  reso attraverso “immagini filtrate dall’ambiente” e le “consapevolezze stilistiche e storico-artistiche” che lo trascendono quale “segno della drammaticità emozionale che gli eventi producono come risonanza nella psiche”. 

Quindi sbaglierebbe chi limitasse la visione dell’artista all’evidenza materiale delle forme che vede in natura e reinterpreta con la sua pittura: “Le immagini di Montauti sono invece il segno della drammaticità perenne che il fenomeno naturale o umano racchiude dentro di sé, contenendolo come parte integrante del vissuto, senza metariflessioni né empatie soggettive”.

Più esplicitamente: “In lui la massa materica  dell’uomo o della natura… contiene dentro di sé il dramma dell’esistenza nella identità conclusa dalla sua stessa solidità fenomenica”. In altre parole, è “la poetica universale dell’esistenza imprigionata dalla materia” in tutta la sua drammaticità,  dove “il dramma è staticamente rappresentato dalla massività fisica dell’addensamento materico e dalla autoportanza strutturale di un mondo compiuto che racchiude il vissuto, ma senza oscillazioni”. 

“Paesaggio con rocce e vegetazione a bande oblique”,  1974-76

E’  una visione che va oltre l’apparenza fenomenica di un “ordine implicito  ed imprevisto nelle modularità di un caos apparente, che per sua stessa esigenza diventa ordinante, in modo che il vissuto esistenziale ne sia intrinsecamente attraversato dalla indifferenza cosmologica che tutto percorre ed  addensa”. 

Ma ciononostante riconosce il valore del fatto naturale: “Del resto l’artista richiama non solo una cosmologia trascendentale che abbraccia il vissuto di una esistenza senza empatia, ma esprime la densità della materia analiticamente definita da proprietà scientifiche, dalla forza di una corporeità fisica, dalle leggi invisibili  della natura che sovrasta l’uomo…” . 

Si tratta della “lettura nuova e aggiornata del nesso che collega il valore dell’artista al suo vissuto”  da parte del maggiore conoscitore non solo dell’artista ma anche dell’uomo, il critico d’arte e intellettuale che lo indusse alla mutazione cui abbiamo accennato, dalla torre d’avorio dell’isolamento alla contaminazione con il mondo degli studenti a cui passare il testimone della sua arte, con l’insegnamento della “Figura disegnata” al Liceo artistico statale di Teramo. 

Da parte nostra non possiamo che convenire, anzi abbiamo già accennato come la sua cosmologia trascendentale lo porti sempre più in alto  nell’interpretazione pittorica di un vissuto che sull’orlo della vita gli fa raggiungere addirittura il culmine sommo, l’Empireo iperuranio.

Lo vedremo direttamente al termine della appassionante cavalcata nei quarant’anni della sua vita artistica attraverso le 100 opere esposte nelle sale e salette, anditi e corridoi dei due piani della splendida villa dove si svolge la mostra, in cui ogni parete e ogni angolo è fonte di nuove scoperte e di intense  emozioni. Nel nostro excursus tra le diverse fasi della sua vita artistica citeremo anche opere non esposte nella presente mostra, ma significative per una rievocazione compiuta come quella che si addice al Centenario.

Intanto iniziamo a seguirlo nel suo percorso di vita intrecciato con il suo itinerario artistico: lo faremo nella rievocazione ampia e approfondita che si svolgerà nei prossimi tre articoli. 

“Pastore e vegetazione bianca”, 1977 

Info

Roseto degli Abruzzi (Te), Villa Paris. Catalogo  “Guido Montauti,’ un percorso di creatività’. Cento opere nel centenario della nascita”, EditPress srl per conto dell’Associazione Ambasciatori  del Centro Italia, maggio 2018, pp. 136, formato 24 x 26. Nel Catalogo, contributi critici di Paola Di Felice“Guido Montauti, un maestro abruzzese del Novecento”, Nerio Rosa,  “Per Guido Montauti”, Bruno Corà “Guido Montauti: Paesaggi e figure dell’interiorità”, Romano Maria Levante “Ricordo di Guido Montauti”. Cataloghi delle due mostre precedenti:“Guido Montauti, Omaggio all’artista del suo paese natale”, luglio 2001, pp. 60, formato 29,5 x 30, con Presentazione del sindaco di Pietracamela Giorgio Forti, “Ricordo di un amico” di Luigi Muzii, e contributi critici di Enrico Crispolti, “Per una diversa collocazione della diversità di Guido Montauti” e  Nerio Rosa “Attualità del percorso artistico di Guido Montauti”. Catalogo “Guido Montauti”, della  Mostra nella Sala d’Arme di Palazzo Vecchio a Firenze, e nella Pinacoteca Civica di Teramo,  Comuni di Teramo e di Firenze, aprile 2002, pp. 100, formato 28 x 29,5, contributi critici di Paola Di Felice “Per una doverosa riscoperta”,  Nerio Rosa“La divina indifferenza delle immagini di Guido Montauti” e Bruno Corà “Guido Montauti: Paesaggi e figure dell’interiorità”. Dai Cataloghi citati, e soprattutto da quello della mostra attuale, sono tratte le citazioni del testo.  Il nostro servizio sul centenario in questo sito è in 6 articoli, con 13 immagini in ognuno dei 4 articoli centrali di commento alla mostra, più 22 immagini nel 1° e 17 immagini nel 6° articolo. Il  1° articolo del servizio, “Montauti, nel centenario: 1. Ricordo dell’uomo”, è uscito il 13 luglio, gli altri quattro articoli usciranno il 3° il 29 luglio “Montauti, nel centenario. 3. Dagli esordi alla svolta plastica”, il 4° il 3 agosto “Montauti, nel centenario. 4. Dal periodo parigino alle Pitture rupestri”, il 5° l’11 agosto “Montauti, nel centenario: 5. Dal Pastore bianco all’Empireo”, il 6° e ultimo il  19 agosto “Montauti, nel centenario: 6. Il recupero delle Pitture rupestri”.

Foto 

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra a Villa Paris, Roseto degli Abruzzi,  tranne alcune (la. 2^, 3^, 4^, 12″)  tratte dal Castalogo, si ringraziano gli organizzatori e l’Editore, con i titolari dei diritti, in nodo particolare i figli dell’artista Giorgio e Pierluigi Montauti, per l’opportunità offerta; sono rappresentative delle principali fasi dell’itinerario artistico.  In apertura, La locandina della mostra; seguono, “I mietitori (studio)” e “Crocefissione”, 1949; poi, “Pastori seduti sulle rocce” 1962, e “Famiglia di Pietracamela” 1968; quindi, “Rocce e cespugli” e “Uliveto”, 1971; inoltre, “Gruppo di pastori”, e “Il Giocondo“, 1973; ancora, “Rocce” 1973, e “Paesaggio con rocce e vegetazione a bande oblique”  1974-76; infine, “Pastore e vegetazione bianca” 1977 e, in chiusura, La vedova dell’artista Adelaide Di Iorio Montauti, in prima fila seconda da sin. nella parte destra della sala.

La vedova dell’artista Adelaide Di Iorio Montauti,
in prima fila seconda da sin. nella parte destra della sala.