Romano Maria Levante
Continua il nostro viaggio nel mondo dechirichiano seguendo il monumentale volume “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera” – che chiamiamo il “’Film della mia vita” nella “regia”di Fabio Benzi per l’incalzante taglio cinematografico della sua ricostruzione – basato su un’accurata ricerca avvalendosi di una miriade di fonti interpretate con una logica serrata per penetrare nel processo creativo dell’artista. Nelle tre puntate precedenti di questa che consideriamo una “fiction” vera e reale, abbiamo ripercorso l’educazione in Grecia, i trasferimenti a Monaco, Milano, Parigi e i vari viaggi in Italia a Roma, Torino e Firenze, con la nascita della Metafisica che si esprime attraverso le “Piazze d’Italia” e i “manichini”, fino ai biscotti “ferraresi” e agli altri oggetti insensati, in una escalation metafisica che d’improvviso cessa con il passaggio al classicismo. E’ il 1919, de Chirico che ha creato la metafisica a 22 anni, ora ne ha 31, è passato decisamente al classicismo. Lo seguiamo nel suo continuo rinnovarsi e innovare.
Ricordiamo il suo rigore purista dopo la svolta classicista del 1919, di cui si celebra il centenario, tanto che sulla rivista “Valori Plastici” era tra i più accaniti avversari del “secentismo”, finché con la chiusura delle rivista avviene un altro “ribaltone” stilistico e contenutistico: cade l’idea classicista per una visione più aperta verso le espressioni liriche, in una prima fase legate al romanticismo. Bocklin e Courbet i suoi riferimenti ideali, il primo era stato seguito da lui giovanissimo.
Ecco come Benzi introduce la nuova fase: “Bocklin prese così il sopravvento su Raffaello, Piero della Francesca e Giovanni Bellini, de Chirico si trovò a rimeditare forme e sistemi rappresentativi che già erano stati fondamentali per l’incubazione e ed elaborazione della Metafisica”. E lo fece recuperando i motivi del passato e seguendo l’ispirazione proveniente dalla realtà, che lo portava ad aprirsi al lirismo, sempre sentito nella sua vena interiore, e per il quale era stato attratto dal lirico Apollinaire e da Nietzsche, il cui pensiero filosofo era espresso in forma lirica, tanto che Savinio scriveva: “Nietzsche è un lirico: é l’esempio più tipico del lirico. E’ l’uomo liricamente più completo che io conosca. Nonché la sua opera, la sua vita stessa è un fatto lirico”. Un lirismo che si esprimeva in particolare nella “Stimmung” di cui abbiamo parlato come atmosfera metafisica, mentre della prevalente idea del Superuomo de Chirico non si è mai interessato.
I dipinti di questi anni hanno tale nuova ispirazione, le ville richiamano la “Villa am meer” di Bocklin del 1864, ma nello specifico si riferiscono a Ville romane, con qualche eccezione fiorentina. L’ apripista, “Villa romana (Paesaggio romano)” del 1922, è una veduta dei Monti Parioli con la rupe tufacea e due edifici che quasi si toccano, evidente il riferimento a Villa Strohl-Fern in cui si riunivano gli artisti, de Chirico compreso, in alto su una nuvola vola Mercurio, un Hebdomeros “ante litteram”. Segue una serie di Ville del 1923, anch’esse per lo più romane, alcune ben identificate, di cui colpisce l’imponenza e l’eleganza classica, insieme all’ambientazione e alla presenza umana che dà vita all’ambiente; e soprattutto, in alcune di esse, degli alberi fronzuti, l’opposto della lineare essenzialità della metafisica. In “Tibullo e Messalla (Gli addii del poeta)” gli alberi occupano interamente il quadro con le loro chiome folte, incredibile per de Chirico, alla loro ombra due piccole figure, Tibullo a terra che saluta l’amico Messalla in partenza per una guerra. Alberi anche in “Villa romana (Paesaggio con cavaliere)” e “Oreste e Elettra” in due versioni, nella seconda si riconoscono edifici romani e fiorentini “in un collage metafisico in cui tempo e spazio sono annullati”. In “Ottobrata” ritroviamo l’edificio degli Horti Farnesiani di “Oreste e Elettra” con un’impronta classica molto marcata; altrettanto classico il tempietto di “Partenza dell’avventuriero (seconda versione)” nella trasposizione con edifici fiorentini di una prima versione con edifici romani intitolata “Il ritorno del cavaliere errante”.
Del 1923 anche 2 nature morte, “Il bicchiere di vino” e “Natura morta con busto classico”, mele e selvaggina, oltre al bicchiere nel primo, melagrane nel secondo, tutti prodotti autunnali, con “l’autunno come topos, come luogo temporale, non meno pregnante del luogo reale ed evocativo delle ville romane”; e la classicità che nel busto della natura morta si erge dominante sulla natura.
Così conclude Benzi la rievocazione del periodo “romantico”: “In questa ottica i luoghi diventano una complessa categoria dello spirito, un insieme di natura, storia, cultura e mito, capaci di coagulare lo Stimmung dell’artista. Gli stessi, identici temi della prima Metafisica, le identiche premesse filosofiche e pittoriche sono svolte in modo ora completamente diverso, ma il contenuto rimane di una coerenza impeccabile”.
La consonanza tra Metafisica e Surrealismo sul piano artistico
Anno nuovo, vita nuova e anche arte nuova, con il 1924, e poi il 1925, cambia ancora tutto, perché al legame permanente con la classicità si aggiungono le sollecitazioni della contemporaneità impresse dalla avanguardie. E tra queste il Surrealismo, conosciuto già nel 1910, in particolare il mentore Breton, per il sodalizio con Apollinaire, morto nel 918 e venerato da entrambi.
De Chirico torna a Parigi dopo la lunga parentesi romana, che gli ha ispirato la fase “romantica”, e come si era impegnato con la rivista “Valori Plastici” nella virata classicista, così si impegna con la rivista “La Révolution surrealiste” nella suggestione surrealista: vi pubblica non solo scritti, ma disegni e immagini delle sue nuove opere che – precisa Benzi – “rivisitano la pittura metafisica in chiave del tutto originale, monumentalmente classica, in cui fa rivivere elementi della sua nativa cultura ellenica e mediterranea”. Del resto, “gli esordi del suo nuovo stile pittorico ‘parigino’”, come viene definito, vanno visti alla luce del rinnovamento promosso dalle avanguardie e in particolare dal surrealismo al quale aderisce dopo la rottura di oltre dieci anni prima che interrompeva i contatti con Breton, molto vicino anche lui ad Apollinaire.
Dimenticate le polemiche su tutti i piani, del resto Breton, con cui riprende i contatti nel 1921, non lesina gli elogi ai dipinti metafisici, come era avvenuto al loro primo apparire sulla scena parigina: il “nuovo stile pittorico” aggiorna i suoi temi con varianti nelle quali si sente anche il “romanticismo” delle “ville romane”. Un esempio è “Il filosofo (Il ritornante)”, che nel 1924 riecheggia “Le revenant” del 1914, analogo edificio sullo sfondo e in primo piano, tenda simile dal lato destro invece che sinistro, ma maggiore morbidezza rispetto all’aspetto raggelato del primo “revenant”; come era avvenuto per la natura morta di “Il bicchiere di vino” del 1923, rispetto a quella altrettanto raggelata del 1915.
Il rinnovamento, nella continuità ideale di un’ispirazione profonda, si manifesta anche nell’abbandono della tempera “all’antica”, molto adatta nel ritorno al classicismo, superata dalla nuova tecnica a olio, “chiara e compendiaria come quella degli affreschi pompeiani”, che dà, oltre a una maggiore speditezza realizzativa, una forza cromatica al livello di quella di Picasso.
Come al livello picassiono sono considerate “La ciociara” e “Figura di donna in riva al mare”, la prima parte di una serie, che suscitò questo commento di Margherita Sarfatti dopo averla vista esposta alla Biennale romana del 1925: “Giorgio de Chirico appare fortemente impressionato dalla pittura classica-sintetista del più recente Picasso”, riferendosi ovviamente alle sue figure neoclassiche, non a quelle cubiste. Sono, come il sopra citato “Filosofo”, di un figurativo, se si può usare questo aggettivo, rotondo e morbido, come nelle “Ville romane”, e riguardo all’assonanza con Picasso, Benzi osserva: “Il dialogo che de Chirico instaura è voluto, meditato, ma cerca di sottolineare le molteplici riprese di Picasso dalle sue stesse opere, intrattenendo così un rapporto di co-protagonismo, privo di polemica, sul palcoscenico parigino”.
Così troviamo non solo derivazioni picassiane in de Chirico, ma anche derivazioni dechirichiane in Picasso, come nelle nuvole orizzontali dei cieli mediterranei che vediamo in “Le poète et le philosophe” e “Le double réve de printemps”, della prima metà del 1915. L’autore completa così il suo raffronto: “Insomma, de Chirico ingaggia più che un certame, un dialogo ammiccante con Picasso, replicando ciò che egli stesso aveva già sperimentato, e che lo spagnolo aveva a sua volta ripreso”.
Ma in questo nuovo corso c’è molto di più, torna anche la Metafisica “ferrarese”, così particolare e incomprensibile se non si coglie l’ispirazione dell’ambiente cittadino, in particolare del quartiere ebraico, con le sue povere vetrine ricolme di biscotti e oggetti affastellati. Una metafisica rivista anch’essa in una visione mediterranea, come viene rivisto il “quadro nel quadro”, abituale nelle opere di quel periodo, come si è detto in precedenza. Lo notiamo in “Interno metafisico- L’aprés midi d’eté”, e in “”Nature morte a la briosce”, entrambi del 1925 con le nuvolette orizzontali mediterranee: nel primo il “quadro nel quadro” è preso da “Caccia ai trichechi”, dipinto nel 1900 circa dal pittore austriaco Theodor Breidweiser – riferimento individuato dal presidente della Fondazione de Chirico Paolo Picozza – nel secondo i biscotti “ferraresi” si trasformano nelle briosce, forse in omaggio a Maria Antonietta… Con “L’automate”, dello stesso anno, le squadre e le righe da disegno della struttura compositiva, ad esempio di “L’ange juif”, di 9 anni prima, diventano elementi arrotondati, con dietro lo scorcio di un edificio incorniciato e nello sfondo il cielo azzurro con le nuvolette orizzontali che apre alla visione mediterranea.
Se queste sono novità rilevanti, quella nei manichini metafisici è sconvolgente. A parte le teste a uovo sostanzialmente immutate, non più le forme essenziali nella loro composizione di elementi geometrici assemblati ma rigorosamente chiusi con un’impressione di rigore, forza e solidità; bensì forme arrotondate e soprattutto aperte nel torace per accogliervi elementi geometrici, precisamente volumi di solidi, cubi e parallelepipedi, piramidi e frammenti, non più le precise squadre e righe “ferraresi” e non ancora i chiari ruderi antichi che troveremo negli “Archeologhi”. Sono figure dolenti come “Le poète triste consolé par sa muse”, e “Les jeux terribile”, pensierose come “Le peintre”, nelle ultime due la visione si apre sull’azzurro del cielo mediterraneo con le nuvolette orizzontali.
Una “rimeditazione” dei temi metafisici dovuta all’influenza dei contatti con i surrealisti, in una “consonanza” del nuovo orientamento dimostrata dagli scritti nei primi numeri della rivista “La Revolution Surrealiste”, a loro volta ispirati dalle originarie visioni della prima metafisica da loro a suo tempo apprezzata. Questo non viene scalfito dall’argomento addotto secondo cui “i surrealisti mirino all’inconscio e de Chirico alla memoria” differenza che porterebbe “all’automatismo e al sogno” i primi e “alla chiarezza e alla visione “ il secondo.
Benzi le considera “ragioni pretestuose”, anche considerando che “i surrealismi sono di molte specie e spesso assai diversi fra loro”. In particolare “non vi è automatismo in Magritte o in Dalì, e d’altra parte sogno e inconscio emergono… anche dalle opere di de Chirico, come dal suo romanzo Hebdomeros”. E definisce il nuovo corso “un surrealismo sui generis, quindi, ma dalla fine del 19124-26 sviluppatosi nell’alveo di quello ufficiale, nitidamente teorizzato nei primissimi numeri delle rivista”.
L’autore cita al riguardo l’affermazione di Max Morise secondo cui “è qui che noi giungiamo a un’attività veramente surrealista – le forme e i colori passano da un oggetto all’altro, si organizzano secondo una legge che sfugge ad ogni premeditazione, si fa e si disfa nello stesso momento in cui si manifesta”, come avviene, ad esempio negli “interni metafisici” del 1924-25 che, sottolinea l’autore, sono “colmi di oggetti imprecisabili in cui le forme e i colori vivacissimi si compenetrano senza ordine. O ancora, i manichini le cui forme viscerali si materializzano in rovine, giocattoli e squadre non sembrano differire da quel sogno reso confuso dal recente risveglio di cui parla Aragon” a proposito dell’”invention”, titolo del suo articolo del 1924 sul tema nel primo numero della Rivista.
Il pensiero filosofico di de Chirico – dal quale nasce la Metafisica – non differisce da quello di Aragon il quale considera gli oggetti “non come vuote astrazioni… ma nella loro forma concreta”, come del resto l’immagine e la poesia. La conoscenza filosofica, negando il reale, crea un rapporto con l’irreale, per poi evaderne senza affermare il reale ma confondendolo con l’irreale. L’invenzione nasce dal sogno, il creatore “riprende questa allucinazione, e per così dire la ricalca, la traduce, la mette alla portata delle mani degli increduli”. Nell’Ebdòmero de Chirico riecheggia questi temi: “Quando avete trovato un segno, voltatelo e rivoltatelo da tutti i lati; guardatelo di faccia e di profilo, di tre quarti e di scorcio; fatelo sparire e osservate quale forma piglia al suo posto il ricordo del suo aspetto… “.
Così l’autore conclude l’immersione surrealista: “Seguendo queste premesse, appare evidente che i temi rappresentati nei quadri di questo periodo siano sostanzialmente ‘invenzioni surreali’, luoghi alcuni già dell’immaginario onirico metafisico, ma riletti in una luce di realtà soffusa, familiare, onirica, che proprio nell’apparente consuetudine borghese degli interni reca l’implicito allarme, lo scollamento tra cosa reale e prodotto dell’immaginazione”.
Dalla consonanza artistica alla rottura sul piano personale con Breton
Tutto bene, dunque, gemellaggio virtuale tra Metafisica e Surrealismo? Sul piano artistico la risposta non può che essere positiva, la consonanza permane; ma la drastica rottura con Breton, il portabandiera del Surrealismo, che avvenne in modo imprevedibile dati i precedenti di sintonia tra i due, quanto irreversibile, ebbe ripercussioni di lungo termine anche sulla critica d’arte. E questo sebbene la rottura non avvenisse su questioni artistiche ma mercantili, quindi d’interesse, oltretutto banali, almeno in apparenza.
Benzi dedica un ampio capitolo a “questa complessa vicenda, forse a lungo ma credo non inutilmente descritta”, e lo fa ricostruendola con un’indagine certosina in cui verifica accuratamente dichiarazioni e circostanze dimostrando l’infondatezza di alcuni giudizi sommari dati su de Chirico sulla base di presupposti risultati palesemente falsi.
L’accusa più grave è di aver sistematicamente copiato i propri dipinti della stagione d’oro della prima Metafisica, mentre fece una copia di “Le muse inquietanti”, con l’autorizzazione del proprietario dell’originale, Castelfranco, per accontentare Breton il quale non era riuscito ad acquistare l’opera cui era molto interessato anche per la lievitazione della richiesta economica di quest’ultimo; rassicurava Breton sull’accuratezza della copia delle “Muse” – e anche dei “Pesci”, altra opera proposta – spiegando in una lettera alla moglie dello stesso che le opere duplicate “non avranno altro difetto che quello di essere eseguite con una materia più bella e tecnica più sapiente”. Ebbene, Breton non volle ammettere di avergli commissionato la copia – che sembra abbia venduto poi come antica – per lanciargli la grave accusa che si è propagata nel tempo e nello spazio, di essere copiatore e falsificatore della pittura metafisica per la quale, oltretutto, attribuisce a Savinio la primazia. E dire che de Chirico gli aveva procurato subito “Le revenant” del 1918, ma non era riuscito a soddisfare le sue pressanti richieste di quadri del primo periodo metafisico!
A questo gravissimo motivo di rottura si aggiungono altri screzi relativi a quanto de Chirico aveva lasciato a Parigi al richiamo militare del 1914: non solo una documentazione preziosa sul suo processo creativo, ma anche “quadri probabilmente non finiti”, il tutto amdato nelle mani di Breton all’irrisoria cifra di 500 franchi per il prolungarsi della guerra che allontanava il ritorno di de Chirico a Parigi. Era ciò che rimaneva di quanto lasciato nel suo studio dopo che opere in numero imprecisato furono raccolte da Ungaretti e portate all’amico comune Paulhan per la vendita.
Non va sottovalutato il valore anche economico dei quadri incompiuti perché “la pratica del ‘completamento’ era un elemento inusuale, anche se scorretto” e, di conseguenza, “l’assenza di de Chirico da Parigi, considerata ormai definitiva, rendeva quell’atteggiamento praticabile e certamente redditizio”. Come esempi vengono indicati “La matinée angoissante”, datato 1912, “dipinto forse incompiuto di de Chirico, compare per la prima volta nel dicembre 1921, e “Composizione metafisica”, dichiarato “dipinto falso, forse incompiuto di de Chirico ma successivamente radicalmente contraffatto”, venduto nel 1925.
De Chirico ha subìto e continua a subire gravi danni dal comportamento ostile di Breton il quale invece se ne avvantaggiò, diffamandolo con accuse false. Non va dimenticato che Breton era un collezionista mercante, e per gli interessi di tale attività pubblicò sulla Rivista dei surrealisti, nel marzo 1926, l’”Oreste e Elettra” del 1926 di de Chirico sfregiato; nel numero successivo lo denunciò come “falsario di se stesso [che] ha messo in circolazione un gran numero di falsi caratterizzati, tra i quali delle copie servili, peraltro per la maggior parte antedatate”. Per quali interessi lo spiega Benzi: “E sappiamo che non esiterà, in seguito, a far eseguire, da altri, dipinti falsi, con intento puramente venale oltreché su quello di gettare discredito sull’artista. Lo scopo (oltre a vendicarsi di de Chirico) era quello di divenire, al posto dell’autore, l’arbitro dell’autenticità dei dipinti metafisici”.
Vendicarsi di cosa? E’ presto detto, de Chirico non porse di certo l’altra guancia, anzi con il suo temperamento focoso passò all’offensiva e nella mostra “La peinture surrealiste”, organizzata da Breton nel novembre 2015, contestò l’intitolazione di sue opere e soprattutto l’abusivo completamento di altre passate a Breton. Inoltre lo colpì da lato economico: strinse rapporti con un nuovo mercante, Lèonce Rosenberg – presentatogli da Breton – il quale nel maggio 1925 espose in una mostra subito organizzata l’originale di “Le muse inquietanti” spiazzando Breton che poteva aver venduto nel 1923 la copia spacciandola per originale, fatto di estrema gravità; ma soprattutto, tornato stabilmente a Parigi, nel novembre 1925 stipulò due contratti di esclusiva alla vendita delle sue opere, prima con Rosenberg e dopo con Guillaume, il suo mercante della prima ora. Conclude Benzi: “Non sarà ovviamente Breton a gestire il mercato della sua pittura”. Il “follow the money” di Giovanni Falcone sembra valere pure in questo campo.
Dieci anni dopo, nell’ottobre 1935, si arriva allo scontro fisico, dopo che alla minaccia di de Chirico “che regoleranno presto i loro conti, … Breton, replicando rabbiosamente che li regoleranno invece subito, colpisce con un pugno de Chirico gettandolo a terra, ripetendo cinque o sei volte l’atto oltraggioso”. Sono ben lontani i tempi della fotografia scattata da Man Ray al “gruppo surrealista”, e pubblicata sulla copertina del primo numero della loro Rivista, che vede Breton e de Chirico in posa tra i 14 artisti, divisi soltanto da Jacques-André Boiffard!
Il “Film” di Benzi ci porta presto “in più spirabil aere”: si va dal classicismo mediterraneo a un nuovo classicismo, dalla “pittura della realtà” a un’“arte teatrale”, dalla “Metafisica del mondo nuovo” ai “presagi di guerra”. Ne parleremo nelle prossime puntate della nostra “fiction”, prima del gran finale, con il pendolo che oscilla di nuovo tra la “ripresa delle opere metafisiche” e “il definitivo ritorno all’arte antica”, che non è poi definitivo perché negli ultimi anni abbiamo “la nuova stagione metafisica”. E’ “l’eterno ritorno” di un artista incommensurabile.
Info
Fabio Benzi, “Giorgio de Chirico. La vita e l’opera”, La nave di Teseo, maggio 2019, pp. 560; dal libro sono tratte le citazioni del testo. I successivi articoli sulle tre parti della trilogia usciranno in questo sito tutti nel mese di settembre 2019: i 3 articoli restanti sul libro di Benzi dopo l’attuale e quelli dei giorni 3, 5, 7 – la I parte della trilogia – nei giorni 11, 13, 15; i 3 articoli sulla mostra di Genova – la II parte della trilogia – il 18, 20, 22 ; i 3 articoli sulla mostra di Torino – la III parte della trilogia – il 25, 27, 29 settembre. Per i nostri articoli precedenti su de Chirico degli anni 2016 e 2015, 2013 e 2010 cfr. le citazioni riportate in Info del primo articolo del 3 settembre. Sugli artisti citati nel testo cfr. i nostri articoli in www.arteculturaoggi.com, per Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Dalì 28 novembre, 2, 18 dicembre 2012 ; in cultura.inabruzzo.it “Il teatro del sogno” 30 settembre, 7 novembre, 1° dicembre 2011, Dada e surrealisti 6, 7 febbraio 2010, Bellini e Picasso 4 febbraio 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).
Foto
Le immagini delle opere di de Chirico riguardano il periodo considerato nel testo e sono riportate in ordine cronologico, a parte la chiusura; sono state riprese dal libro di Fabio Benzi, si ringraziano l’Autore con l’Editore e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Le revenant” 1918-22; seguono,“Villa romana (Paesaggio romano)” e “Villa romana (Paesaggio con cavalieri)” 1922; poi, ” Oreste e Elettra” ( prima versione) 1923, e “Tibullo e Messalla (Gli addii del poeta)” 1923″; quindi, “Natura morta con busto classico” fine 1923, e “Autoritratto” inverno 1923-24, inoltre, “Il filosofo (Il ritornante)” inizi 1924, e ‘”‘L’automate” fine 1924-inizio 1925; ancora, “La ciociara” e “Figura di donna in riva al mare”” 1925; continua, “Les jeux terribles” e ” Interno metafisico – L’après midi d’eté” 1925; infine, “Nature morte à la brioche” 1925 e, in chiusura, “Composizione metafisica”, venduto nel 1925, forse incompiuto di de Chirico, ma poi contraffatto e dichiarato falso da de Chirico.
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