Margherita Sarfatti, l’arte italianissima nella prima metà del ‘900, alla Galleria Russo

di Romano Maria Levante

All’inizio dell’autunno, dopo i rinvii e con le limitazioni del Coronavirus, alla Galleria  Russo a Roma si è svolta dal 10 ottobre al 7 novembre 2020 una mostra molto significativa: “Margherita Sarfatti e l’arte italiana tra le due guerre”, a cura di Fabio Benzi.  Con questa iniziativa  la Galleria Russo ha aggiunto un capitolo importante al racconto che prosegue da anni dell’arte italianissima  troppo trascurata dai principali centri espositivi, anche se la “damnatio memoriae” del periodo considerato dalla mostra è ormai superata: un periodo che vede il suo prologo 106 anni fa, con la fondazione l’11 dicembre 1914 dei Fasci di Azione Rivoluzionaria Interventista da parte di Filippo Corridoni con il patrocinio di Benito Mussolini. La mostra ha aggiunto alla rievocazione artistica quella storica e di costume ponendo al centro dell’evento espositivo una figura che è stata una protagonista dal profilo intrigante sotto tanti aspetti: la collezionista delle opere.

Mario Sironi, “Ritratto di Margherita Sarfatti”, 1916-17

Per qualificarne la sua figura bastano le parole  con cui Fabio Benzi apre il saggio introduttivo: “Margherita Sarfatti fu una donna  di straordinaria forza, di sofisticata cultura e di autentica intelligenza”; e per il suo profilo intrigante quelle di Corrado Augias: “Delle due amanti ‘ufficiali’ la più famosa è stata Claretta, l’altra Margherita, nelle cronache postume quasi scompare”. Mussolini “anche per Margherita Sarfatti è stato un grande, appassionato amore  ma nel loro rapporto c’era  dell’altro”. E vediamo cosa: “Margherita giocava su due piani. Amante appassionata ma per certi aspetti era lei a dominare, quanto meno ad essergli abile guida nel suo apprendistato al mondo”.

Le sue lettere d’amore del 1923, che Augias cita, hanno espressioni ardenti. Si erano incontrati nel 1912  quando andò nella sede dell’”Avanti” da  Mussolini leader della corrente socialista “rivoluzionaria”, lei della corrente di Turati “meno dogmatica”, per comunicargli di  volersi dimettere dal “Popolo d’Italia: “Durante il colloquio scocca l’attrazione reciproca che sfocerà nel loro lungo rapporto ufficialmente segreto, in realtà noto a tutti”. 

Medardo Rosso, “Ecce Puer”, 1906

E’ al suo fianco nel marzo 2019, quando a San Sepolcro lui fonda i fasci, nell’ottobre 1922 dopo la marcia su Roma, nel giugno 1924 dopo l’assassinio Matteotti, e lo sostiene nella sua rivendicazione del gennaio 1925, nel dramamtico 1924 ne pubblica la biografia in Inghilterra; dal 1935 invece è con lui Claretta Petacci, lei nel 1938 è costretta dalle leggi razziali del “suo” Mussolini a lasciare l’Italia per Montevideo dove il figlio Amedeo era espatriato per quel motivo. Nel corso della permanenza in Sudamerica pubblica “My Fault”, un memoriale sulla sua “colpa” di essere stata con Mussolini. Torna in Italia nel 1947, non citerà mai in pubblico il suo passato; muore nell’ottobre 1961 a Como.

Dopo  questi accenni, non intendiamo ripercorrerne la vita in senso biografico, pur essendo  ricca di motivi di  interesse storico e di costume, data la sua forte personalità e la posizione che ha occupato nella società in un periodo così particolare della nostra storia nazionale. Ma ci limitiamo  a qualche spunto del percorso che l’ha portata alla ricca collezione da cui è alimentata  la mostra di opere di artisti che commenteremo quando entreranno nella sua vita nel corso della sua indiscussa  affermazione nella critica d’arte e nel mondo artistico e culturale di cui fu protagonista.

Umberto Boccioni, “Periferia” , 1909

Nella sua formazione, in una colta famiglia borghese veneziana,  ebbe maestri d’eccezione, lo storico Oddi, il letterato Molmenti, il critico  Fradeletto, parla 4 lingue oltre quella materna, gia nell’adolescenza legge oltre a Carducci e Pascoli, Schopenauer e Nietzsche, Ruskin, Byron e Shelley, e  sposa la causa socialista. A 18 anni si sposa veramente contro il volere dei genitori per la differenza di età,  nel 1900 comincia una fitta collaborazione sulla stampa socialista, in materia politica e con impegno femminista nella rivista “Unione femminile”  per l’emancipazione della donna.

Negli anni successivi si concentra  essenzialmente  sulle Biennali di Venezia del 1901 – 03 – 05, il suo maestro Fradeletto, fondatore ne era il dominus. Collabora al “Popolo d‘Italia” dal 1917 e nel 1922 partecipa alla fondazione di “Gerarchia”, di cui diviene condirettore con Mussolini nel 1925,  dopo la direzione per 3 anni di Arnaldo Mussolini, della rivista sono esposti  degli “Studi di copertina”  del 1928 di  Mario Sironi a cui fu legata da un “duraturo e appassionato rapporto, anche umano e privato, intimo”, come lo definisce Benzi.

Mario Sironi, “Paesaggio urbano”, 1908

Gli  interessi artistici resteranno al centro della sua attività,  estesi anche all’arte internazionale, le sue preferenze vanno agli artisti più moderni.  Tra loro Alberto Martini e  Auguste Rodin, Gaetano Previati, è in mostra il suo “Fanciulli con cesti di fritta” 1916,  e  Romolo Romani con “Figura femminile”  1908. Inoltre Medardo Rosso,  del quale vediamo esposte 3 sculture “Innamorati sotto il lampione” 1883, una straordinaria anticipazione di “Lilì Marlene”,  ”Femme à la voilette (Impression  de boulevard, Dama della veletta)”, un bronzo che sembra uscire dal marmo, e soprattutto “Ecce puer”  1906, una straordinaria scultura “impressionista” con il dissolversi della forma tipico dello scultore.

Di Boccioni  fu amica, tanto che lui le dipinse il “Ritratto della figlia Fiammetta”,  lei lo aveva insieme ad “Antigrazioso”, Benzi ricorda di aver visto questi due dipinti esposti nella sua casa roomana. Nell’attuale mostra sono esposti, sempre di Umberto Boccioni,  “Periferia” 1909 e  Busto di donna – Ritratto di Nerina Paggio” 1916: entrambi speculari a due quadri di Sironi di quegli stessi anni, Paesaggio urbano” del 1908 con la desolazione e la solitudine,  “Margherita Sarfatti” del 1916-17 con il ritratto elegante.

Giacomo Balla, “Belfiore-Petunie”, 1924

All’opposto dello stretto rapporto personale con  Sironi,  che fece parte dei Futuristi in modo atipico, verso Marinetti l’atteggiamento sembra “non fosse di istintiva simpatia”, date le posizioni maschiliste del pioniere del Futurismo rispetto a una femminista “ante litteram” com’era lei; ciò non toglie che collaborasse con lui nella mostra del 1919 al  Palazzo Cova in cui espose anche un ritratto che Sironi le aveva fatto.

Verso il Futurismo ebbe una posizione distaccata mostrando predilezione per le “Nuove tendenze” di artisti che se ne discostavano,  a parte la comune  spinta verso la modernità. Il suo non allinearsi alla corrente  che dopo il “Manifesto” di Marinetti del 1909 aveva fatto irruzione nel mondo dell’arte e nel costume non derivava certo dalla scarsa simpatia verso il suo fondatore, ma dalla  ricerca di  qualcosa di più ambizioso che si tradusse in iniziative concrete. 

Pippo Rizzo, “Canottieri”, 1929

Se questo è vero, va sottolineato che al distacco non corrisponde un’assenza dei Futuristi dalla sua collezione, com’era avvenuto invece per Renato Guttuso nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea per l’ostilità, se così la si può definire, della direttrice Bucarelli nella sua foga innovatrice; fino alla donazione da parte dell’artista e la “riparazione”  con due recenti mostre affiancate di Renato Guttuso e Palma Bucarelli come collezionista.

Troviamo, in mostra, oltre alle 2 opere di Boccioni già citate e alle 13 di Sironi di cui parleremo,  Lorenzo Balla con 2 opere (“S’è rotto l’incanto” 1922 e  “Balfiore- Petunie” 1924) “ e  Carlo Erba con 4 (“Studio di figura maschile” 1910-11 e “Soggetto eroico” 1911-12, “Casolari” 1912 e “Donna che cuce” 1914; Gino Severini con “Un ritratto (Autoritratto)”  1905, ed Enrico Prampolini  con  “Danzatrice” 1916 dalle forme cubiste.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Sarfatti-61-Prampolini006.jpg
Enrico Pampolini, “Danzatrice”, 1929

Già nel novembre 1922, subito dopo la marcia su Roma, lei fonda  a Milano il gruppo “Sette Pittori del Novecento” con Sironi – su cui torneremo – Funi, Bucci e Marussig, Dudreville,  Malerba e Oppi. Di Achille Funi sono esposte 3 opere: “Famiglia a tavola” 1915, “Marina” 1921-22, e “Margherita Sarfatti e sua figlia Fiammetta”  1930, quando lei era caduta in disgrazia con Mussolini e il mondo artistico; di  Anselmo Bucci vediamo  “Olga Lapidos”,  di Piero Marussig “Case  e tetti” 1928, e “Nudo” 1930.

Con questa iniziativa  mostrò  la volontà di  superare la posizione di pur apprezzata critica d’arte per “sostenere, al di là delle teorie estetiche specifiche (orientate sul ‘ritorno all’ordine’), un suo ruolo determinante non solo di organizzatrice, ma di esclusiva enunciatrice di un’arte di Stato” , forte della sua vicinanza a Mussolini.  Vi si impegnò talmente da allontanarsi dal giovane scultore Arturo Martini,  vicino ai Futuristi e alla “Secessione” –  che prima prediligeva e aveva fatto ospitare a Ravenna  con Funi da un amico – perché aveva aderito al gruppo romano di “Valori plastici” che sentiva come concorrente.  

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Sarfatti-83-Funi.jpg
Achille Funi, “Famiglia a tavola”, 1915

Se fosse riuscita o meno nell’intento ambizioso di promuovere un’Arte di Stato”, cioè di regime, è un tema che va oltre la sua figura, investe  l’arte italiana in un periodo storico con manifestazioni artistiche di notevole rilievo liquidate superficialmente quanto erroneamente nella “damnatio memoriae”  che ha accomunato oltre agli artisti anche poeti e letterati, primo tra tutti Gabriele d’Annunzio.

Benzi prende di petto questo problema definendo “fondamentalmente falsa nella sostanza”  la vulgata diffusa nel dopoguerra  in cui ”si è parlato con superficialità e francamente con  semplicismo di ‘arte fascista’ come del prodotto evidente, necessario e scontato della politica di uno stato totalitario, cui faceva  da eventuale (ma non verificato) controcanto  minoritario un’arte di fronda, antifascista” soprattutto nei giovani artisti degli anni ’30 e ’40.  Ci viene in mente al riguardo il “Realismo socialista”, l’”arte di Stato” dei regimi comunisti  che doveva incarnare i valori dell’ideologia totalizzante con l’”uomo nuovo” e quanto costruito intorno a lui, e per questo agli artisti restava soltanto il ristretto spazio “privato” per esprimere in incognito la libera creatività; tra i suoi massimi esponenti Deineka, però, sentiva quei valori come propri.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Sarfatti-105-Marussig007.jpg
Piero Marussig, “Nudo”, 1930

Invece Mussolini fece una scelta ben diversa, forse per effetto dell’iniziativa prima ricordata messa in campo dalla  Sarfatti dopo la marcia su Roma, che aveva suscitato “una fronda assai diffusa tra  gli artisti e i critici di tutt’Italia” nel timore che, dati i suoi stretti rapporti con Mussolini, lei volesse divenire “il deus ex machina del fascismo nel campo delle belle arti, incarnando col suo nuovo movimento  l’arte ufficiale del nuovo regime”;  con la conseguenza di  “un inevitabile privilegio riservato  ai ‘suoi’ artisti milanesi a discapito di altre situazioni e personalità nazionali”.  Visto che artisti e critici temevano questo, Mussolini ne tenne conto e mise subito in chiaro la sua posizione di contrasto netto senza possibilità di equivoci.

Lo fece addirittura nella mostra  dei “Sette Pittori del Novecento”  organizzata dalla Sarfatti  nel marzo 1923, a soli quattro mesi dalla creazione del gruppo. Vi intervenne con un discorso in cui, dopo aver sottolineato che “non si può governare ignorando l’arte e gli artisti” affermò: “E’ lungi da me l’idea di incoraggiare qualcosa che possa assomigliare all’arte di Stato”; e aggiunse che “l’arte è una manifestazione essenziale dello spirito umano… lo Stato ha un solo dovere: quello di non sabotarla, di dar condizioni umane agli artisti, di incoraggiarli dal punto di vista artistico e nazionale”, in tal modo il governo è “un amico sincero dell’arte e degli artisti”. Commenta Benzi  che “queste parole, probabilmente inattese da parte della Sarfatti, dovettero cadere come un macigno  sul progetto egemonico sarfattiano”, l’arte di Stato.

Virgilio Guidi, “Donna che cammina”, 1918

A questo riguardo si potrebbe dire che se per lei fu una doccia fredda, poteva riscontrare come era invece riuscita nel suo intento di fare da “Pigmalione” a Mussolini, operando da vera femminista alla rovescia, trasformandolo “da ruvido provinciale in un avvertito politico e statista”. In quanto tale,  “da sensibile animale politico” aveva avvertito  dalle reazioni sopra citate una possibile perdita di consenso e ne aveva tratto le conseguenze fermando sul nascere ciò che poteva creargli dei problemi indesiderati e scomodi.

Siamo nel marzo 1923, il fascismo muove i primi passi, la Sarfatti gli resta vicino, e lo abbiamo già ricordato; nel 1924 pubblica in Inghilterra “Life of Mussolini” che esce in Italia nel 1926 come ”Dux”, tradotta in oltre 18 lingue, un successo internazionale. Ma non demorde dalla sua iniziativa  di promuovere un’arte “diversa” dal Futurismo, nel 1926  organizza la “I mostra del Novecento italiano” sempre a Milano, sulla scia della mostra del 1923 ma il cui titolo, ben più ambizioso, rivela l’intento di farla diventare “arte di Stato”. Mussolini non lancia un nuovo “macigno”, del resto è uscito “Dux”, ma le lodi alle “qualità” e alla “modernità” degli artisti, e non alla rispondenza delle opere all’ideologia fascista, mostrano la sua volontà di lasciarne libera la creatività, secondo il pensiero di Cipriano Efisio Oppo, suo amico  personale e fascista antemarcia cui saranno affidate importanti  iniziative pubbliche in campo artistico. 

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Sarfatti-120-Tromadori025-print.jpg
Francesco Trombadori, “Natura morta”, 1924

Lei va avanti nel suo proposito, con la morte del marito nel 1924 non ha più vincoli, si trasferisce a Roma e intende rendere annuale la mostra nella capitale come esposizione ufficiale del regime, spera nell’appoggio di Mussolini cui è più vicina anche fisicamente. Perciò vuole ripeterla nel 1927, ma scattano subito le contromisure per rassicurare l’ambiente romano, sono  orchestrate da Oppo, che suggerisce di prendere tempo:  il 26 settembre del 1926 Mussolini le scrive di  rinviarla al 1929 con un doppio motivo, evitare che coincidesse con la Biennale e per “creare del nuovo”, avendo tre anni invece di pochi mesi a disposizione.

Sarà o no una contromossa, lei nello stesso 1927, alla mostra  degli “Amatori e Cultori” presenta una collettiva di “Dieci artisti del Novecento”, tutti romani, e acquista loro opere di cui vediamo in mostra una selezione: di  Gino Severini è esposto “Maternità” 1916, e di  Virgilio Guidi Donna che cammina” 1918, di Francesco Trombadori” “Natura morta” 1924, e di Alberto SaliettiNatura morta” 1926, di  Ardengo Soffici  “Cabine”  1927, di  Pasquarosa “Pappagallo” , e di Quirino Ruggeri   il  bronzo “Ritratto di Margherita Sarfatti” , entrambi del 1928.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Sarfatti-114-Tozzi022.jpg
Mario Tozzi, “La père Lenoir (Contadino di Borgogna)”, 1920

 Commenta Benzi: “La manovra seduttiva non riesce e la tensione fra Margherita Sarfatti e Oppo – portavoce del gruppo romano – traspare chiaramente in una minuta di lettera di Oppo alla Sarfatti”. Forse perché, sia pure con artisti romani, aveva aggirato proprio nel 1927 il blocco alla  mostra del Novecento impostole da Mussolini.  “Un altro smacco per la Sarfatti fu alla Biennale veneziana del 1928, della quale Oppo era consigliere, le fu negata una sala per i suoi artisti del “Novecento”.  

E quando finalmente tenne la “II mostra del Novecento italiano” nel 1929, rispettando il rinvio richiesto da Mussolini nella sua lettera, dovette organizzarla  a Milano non essendo stato possibile farlo a Roma; ma lei, tetragona, intendeva proporla come “arte fascista”, secondo il suo disegno ambizioso. Però non aveva fatto i conti con il raffreddamento del suo “rapporto personale e affettivo” con Mussolini il quale non solo non andò all’inaugurazione costringendola a rifare il comunicato stampa che prevedeva la sua presenza; ma le mandò una lettera ufficiale su carta intestata “Il capo del Governo”  in cui le si rivolgeva con ostentato distacco chiamandola “gentilissima Signora” e le intimava perentoriamente di non parlare di  “arte fascista”.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Sarfatti-115-CEracchini023.jpg
Gisberto Ceccherini, “Alla fontana”, 1928

In particolare, dopo averle detto  di “disapprovare nella maniera più energica ” che lei tesseva “l’apologia  del cosiddetto ‘900 , facendosi alibi del fascismo” e di lui stesso,  arrivava ad affermare addirittura: “Questo tentativo di far credere che la proiezione artistica del fascismo fu il vostro ‘900 è ormai inutile ed è un trucco”; fino a rifiutare “la solita sviolinata nei miei riguardi”. La conclusione è l’avvertimento – poiché lei non sente “ancora  l’elementare pudore  di non mescolare il mio nome di uomo politico alle vostre  invenzioni artistiche o sedicenti tali” – che lui stesso avrebbe provveduto a rendere esplicita al più presto la posizione sua e del Fascismo “di fronte al cosiddetto ‘Novecento’ o quel che resta del fu ‘Novecento’”.

Lascia sconcertato tale atteggiamento verso una critica d’arte e soprattutto una donna che – pur se sono passati più di sei anni – nella lettera del 1° gennaio 1923 lo chiamava “Benito, mio amore, mio amante, mio adorato! Sono, mi proclamo, mi glorio di essere appassionatamente, interamente, devotamente, perdutamente Tua, ora, per tutto il 1923 e, se , perché mi ami come io ti amo, per sempre Tua”. Un amore corrisposto finché  quella che è stata chiamata “l’altra donna del Duce” – espressione corretta da Benzi in quella speculare riferita  a Mussolini “l’altro uomo di Margherita” – viene in sostanza allontanata, anche per l’intransigenza di Rachele; e perdette ogni influenza su di lui e sul mondo artistico nazionale.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Sarfatti-109-Dei-Pisis010.jpg
Filippo de Pisis, “Vaso di fiori”, 1928

Ma non si diede per vinta, “Margherita non ebbe difficoltà a  riproporsi con rinnovato entusiasmo  in una veste nuova, di organizzatrice delle mostre del ‘Novecento’  all’estero anziché in Italia, dove i suoi margini di manovra si erano nevralgicamente ridotti”. Del resto, la sua visione artistica aveva avuto sempre un raggio più vasto di quello nazionale, a 18 anni in viaggio di nozze a Parigi acquistò litografie di Toulouse Lautrec. In seguito prese opere di Modigliani e Utrillo, Rouault e Kokoschka, Jean Cocteau e Picasso, Diego Rivera e Raoul Dufy. Oltre a questi, opere di artisti di cui ne vediamo alcune esposte: di Aristide Maillol il bronzo di fine ‘800 “Nu debut se coffant (Baigneuse aux  bras levés)” 1898, di André Derain  un dipinto, “Natura morta con caffettiera” 1911, e tre disegni di nudi femminili degli anni ’30, un “Nudo sdraiato”  e 2 “Nudi in piedi”.

Aveva  iniziato l’attività all’estero nel 1926 presentando a Parigi gli artisti del Novecento italiano,  seguirono mostre tra il 1927 e il 1932 nell’Europa del Nord e nell’America del Sud.  Intanto , nel declinare del “ritorno all’ordine” dell’arte,  dal 1928 si interessa  ai giovani artisti, dagli esponenti della “Scuola romana” come  Mario Mafai,  Corrado Cagli di cui è esposto “Paesaggio” , e Fausto Pirandello del quale vediamo  “Natura morta”  1926-27;  ai “Nuovi Futuristi” come Pippo Rizza, di cui è esposto “Canottieri” 1929, agli espressionisti come Lorenzo Viani, in mostra  “Maternità” 1920) . 

Quirino Ruggeri, “Ritratto di Fiammetta Sarfatti”, 1928

Nel 1931  Giorgio de Chirico le dedica due opere del 1927, una “Testa di Gladiatore” e  un  “Ritratto”  come “omaggio alla gentilissima signora”, qui esposto, le si rivolge  come aveva fatto Mussolini nel 1929, ma  questo distacco era giustificato, da quando  nell’intervista dl 1927 alla rivista francese “Comoedia” il grande metafisico aveva dichiarato che “non c’è in Italia alcun movimento d’arte moderna… la pittura italiana non esiste” – tranne  se stesso e Modigliani che come lui considerava “francese” – e per questo lei lo aveva ignorato.  Poi le dediche e gli “omaggi”e lei acquistò da De Chirico “Cavalli in riva al mare”, dell’inizio degli anni ’30. Per associazione di idee vi colleghiamo il carboncino “Figure” 1920 e l’acquerello e china “Figure sedute”  1924 di Gino Rossi per le teste a uovo che richiamano l’arte metafisica anche se su un corpo tozzo non da manichino.

Nel 1931 la“Quadriennale d’arte” di Roma ha rafforzato la posizione, a lei contrapposta,  di Oppo, che dirigerà anche le tre Quadriennali successive, nel 1935, 1939, 1943. Lei – che nel 1930 era stata segnalata dalla polizia politica come “agente dell’internazionale ebraica” – ormai caduta in disgrazia, non è ammessa all’inaugurazione della Mostra del decennale della Rivoluzione Fascista nel 1932, con una scenata sulla scalinata del Palazzo delle Esposizioni.

Corrado Cagli, “Paesaggio”, 1915

Poi l’ostracismo si aggravò con il razzismo antisemita che creò una barriera invalicabile tra lei e Mussolini, fino al suo espatrio dopo quello del figlio a seguito  delle leggi razziali del 1938, con tappa in Svizzera e a Parigi e destinazione Uruguay, precisamente Montevideo, come si è accennato all’inizio.  Negli anni precedenti aveva scritto e collaborato a giornali ed editori stranieri.

Del ritorno in Italia a guerra finita  nel 1947 citiamo una coincidenza intrigante. Dimora all’Hotel Ambasciatori in Via Veneto dove il pittore Guido Cadorin raffigura lei e la figlia Fiammetta, Piacentini e Giò Ponti negli affreschi  dipinti nel salone. Intrigante perchè  è il pittore degli affreschi nel soffitto della “Stanza del lebbroso” al Vittoriale  di Gabriele d’Annunzio, che lei aveva conosciuto negli anni ruggenti.  “Circondata dai suoi quadri – commenta Benzi –  mi fa pensare a Sunset boulevard”, ma senza il dramma finale, serenamente “muore nella sua villa del Soldo,  che aveva visto centinaia di ospiti illustri, italiani e internazionali, tra le sue mura, nel 1961”.

Giorgio de Chirico, Ritratto”, 1927 con dedica

E come collezionista? Benzi la definisce “una Guggenheim italiana, potremmo dire”, e parlando degli artisti da lei avvicinati ricorda: “Si innamora di loro e della loro arte, collezionando molte centinaia, migliaia di opere: un catalogo completo della sua collezione non è stato mai fatto. Essa fu smembrata già lei in vita per permetterle di vivere in esilio”,  fino alle divisioni ereditarie.

Abbiamo già citato una serie di artisti di cui acquistava le opere, indicandone alcune  esposte in questa mostra. Aggiungiamo gli altri artisti con le opere in esposizione: Mario Tozzi con “Le pére Lenoir (Contadino di Borgogna)” 1920  e Gianfilippo Usellini con  “Ritratto dell’alpinista. Ritratto di Vittorio Ponti” 1927,  Gisberto Cerracchini con “Alla fontana” Filippo de Pisis conVaso di fiori”  entrambi 1928, Ferruccio Ferrazzi con “Maremma” 1930. 

Adolfo Wildt, “L’anima e la sua veste”,1922

Un rilievo particolare spetta allo scultore della “secessione” Adolfo Wildt del quale sono esposte 11 opere, le sue sono forme gotiche in chiave simbolica, senso plastico nel marno estremamente levigato. Scolpì una serie di busti di Mussolini, uno dei quali per il primo anniversario della Marcia su Roma, un altro distrutto dalla frenesia iconoclasta dei simboli del regime nei giorni della Liberazione.

Non sono esposti quei busti, ma 5 teste scultoree, “L’anima  e la sua veste” 1916 in gesso, 1922 in bronzo e l’altorielevo in marmo con il profilo reclinato della “Mater purissima”  1918, ben diverso dal profilo aggressivo nel bronzo “Vittoria” 1919. Non solo gesso, bronzo e marmo per le statue, anche pergamena per i 2 disegni quasi naif “Casa di Gesù” 1919 e “Mi dolgon, fanciullo, le pene che più non mi dai” 1921, e bronzo per le medaglie “Humanitas – Cave canem”” 1918, “Il Risparmio” 1921, l’albero con i suoi frutti.

Adolfo Wildt, “Vittoria”, 1919

Infine siamo giunti a Mario Sironi, nell’ambito della  mostra c’è una “piccola personale” con 18 opere, a testimonianza del rapporto quanto mai stretto con la Sarfatti “tra avanguardia e moderno classicismo”, come lo definisce Raffaele Ferrario che ne rievoca aspetti e momenti. Il primo incontro nel 1915, con entrambi a Milano –  anche se l’amicizia con Boccioni, già comune amico da cinque anni, anticipa la conoscenza virtuale al 1910 –   fece scattare  una intesa straordinaria e la morte di Boccioni l’anno dopo nell’agosto 2016 li avvicinò ulteriormente, e la loro condivisione non fu turbata dalel vicende politiche.

“Il loro rapporto si fonda  sulla condivisione di ideali comuni e dello stesso modo di  percepire il presente attraverso l’arte, il segno, la parola”.  Tanto che – sottolinea Ferrario – “alcuni dettagli della sua pittura corrispondono al ritmo sintetico e sincopato della  scrittura di Margherita Sarfatti, che pone l’accento sui tratti ‘tipografici’ di Sironi nella composizione”.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Sarfatti-103-Wildt.jpg
Adolfo Wildt “La Vergine”,1924

Sul piano personale il rapporto viene rafforzato dalla tragedia della prima guerra mondiale, il primogenito della Sarfatti Roberto ucciso da una mina sull’Altipiano di Asiago nel 1919, lui disegna la copertina di “I vivi  e l’ombra”, il racconto disperato della madre e figure simboliche definite “anti monumentali”. “La sintesi essenziale delle forme che Sironi usa negli anni venti nelle opere e per gli interventi sulle copertine e soprattutto negli studi preparatori ha molto in comune con l’incisività  delle parole  della sintassi ritmata e sintetica che la Sarfatti  usa nel 1925 in Dux per descrivere la scrittura di Mussolini”  definita “breve, apodittica”, come lo stile di Sironi “rude, apodittico fino alla brutalità”.

La condivisione biunivoca, se così si può dire, tra pensiero della Sarfatti ed espressione artistica di Sironi è evidente soprattutto nelle “periferie”: “Se Sironi la segue nella funzione sociale e narrativa dell’arte, lei sposa la sua proposta di una nuova estetica moderna e urbana”, e lo sostiene con acquisti personali e del Comune di Milano: “Entrambi hanno talento per il racconto epico e la capacità di creare una mitologia quotidiana”.  Ma  pur se Sironi aderisce al  mito futurista della velocità e del futuro, “la sua visione già avverte il dramma esistenziale dell’uomo moderno, l’angoscia, la solitudine, l’alienazione, ciò che sarà definito in seguito ‘il male di vivere’”. 

Mario Sironi, “La ballerina”, 1916

E’ dalla parte della Sarfatti nelle polemiche su “Novecento” e quando cade in disgrazia “Sironi resta fedele al loro sodalizio, tradirlo sarebbe come tradire un’utopia”. Lei gli scrive definendo i quadri che continua ad acquistare “ veramente splendidi”, considera “un capolavoro “Il bevitore”, dice che “Il ciclista” regge al tempo “in modo vittorioso”. Sironi, nel 1926 dirigente del Sindacato nazionale degli  artisti fascisti,  dall’interno dell’organizzazione le scrive che “il fascismo è nettamente a-artistico e le cose dell’arte sempre più dimenticate come superflue o intempestive”, per cui nell’azione del partito “l’arte non c’entra per niente”. L’opposto del “Realismo socialista” con l’arte strumento dell’ideologia con “l’uomo nuovo”  del comunismo bolscevico al centro della propaganda imposta, a parte il grande  Deineka interprete convinto. Era la pietra tombale su quella che era stata l’illusione e l’azione della Sarfatti; “l’arte di Stato”, di regime.  

Ed ecco la piccola personale di Sironi nella mostra alla Galliera Russo: il “Paesaggio” e “Paesaggio urbano” 1908, citati all’inizio, anticipano lo squallore delle Periferie, mentre il nuovo “Paesaggio urbano” del 1921 è monumentale, con il segno futurista dell’automobile; tra questi, del 2016, “La ballerina” e “Danzatrice” con una stilizzazione cubista, mentre il “Progetto di copertina per la rivista ‘Ardita’”, del 1919,  ha qualcosa del manichino metafisico  Il corpo femminile della “Figura con lo specchio” 1924 anticipa il “Nudo” di Marussig del 1930 ed è contemporaneo ai nudi della pittrice Tamara de Lempicka.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Sarfatti-83-Sironi018-1.jpg
Mario Sironi, “Paesaggio urbano”, 1921

Seguono due disegni del 1925-26 “Aratore e morte” e “Figure”,  3 “Studi di copertina per  ‘Gerarchia’”  del 1928 e 2 disegni “politici” del 1934, “La guardia” e “Pace europea” che fanno parte della sua attività di vignettista impegnato. E’ del 1930 “All’osteria – Fiaccheraio”, immagine della stanchezza e della solitudine. Chiudiamo la galleria espositiva con i 4 ritratti: andando indietro nel tempo i 3 disegni, del 1917-18 “Ritratto di compositore”  a matita, del 1916 a puntasecca “Ritratto di Cesare Sarfatti” e “Ritratto di Margherita Sarfatti”; infine, del 1916-17 la tempera-pastello su carta nella luminosità veramente solare che fa risaltare il sorriso coinvolgente della protagonista nel “Ritratto di Caterina Sarfatti” , l’abbiamo lasciato in chiusura come il commiato della “star” al termine dello spettacolo.

A questo punto non resta che concludere, e lo facciamo con le chiare parole di Benzi: “Nel contesto internazionale delle donne del XX secolo, che con la loro personalità  hanno contribuito a costruire il mondo moderno… Margherita Sarfatti spicca come un astro di prima grandezza”.  Questa sintesi della sua figura rende meritoria la rievocazione della  Galleria Russo nella mostra di opere della sua collezione, simboli dell’arte italianissima tra le due guerre ed espressione della sua sensibilità e impegno nell’arte.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Sarfatti-85-Sironi020.jpg
Mario Sironi, “All’osteria-Fiaccheraio”,1930

 Info

Galleria Russo, Roma, via Alibert  20, Roma. Tranne nell’emergenza coronavirus, è aperta il lunedì dalle ore 16,30 alle 19,30, dal martedì al sabato dalle ore 10 alle 19,30, domenica chiusa; ingresso gratuito. Tel. 06.6789949, 06.60020692 www.galleriaarusso.com. Catalogo: “Margherita Sarfatti e l’arte in Italia tra le due guerre”, Silvana Editoriale, marzo 2020, pp. 130, formato 23 x 23; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per gli artisti e movimenti citati nel testo cfr. i nostri articoli di seguito indicati. In questo sito, 2019: Cagli 5, 7, 9 dicembre, De Chirico novembre mostra Milano 22, 24, 26; settembre mostra Torino 25, 27, 29, mostra Genova 18, 20, 22, libro Fabio Benzi 3, 5, 7, 9, 11, 13, 15. Nel sito www.arteculturaoggi.com, i futuristi: nelle mostre alla Galleria Russo, 2018: Floreani per Boccioni 7 ottobre, Futuristi e moderni 7 marzo; 2017: Marchi 24 novembre, Thayhat 27 febbraio; 2015: Sironi 2 novembre, Tato 19 febbraio; 2014: Dottori 2 marzo; 2013: Erba 1° febbraio, Marinetti 2 marzo; l'”ultima futurista” Lina Passalacqua, 2018: 10 gennaio; 2015: 1° aprile; 2014: 28 maggio; 2013: 25 aprile. Altri artisti e movimenti citati nel testo: su De Chirico 2016: 17, 21 dicembre, 2015: 20, 26 giugno, 2013: 1° luglio; Picasso 2018: 6 gennaio, 2017: 5, 25 dicembre; Guttuso 2018: 14, 26, 30 luglio, 2017: 16 ottobre, 2016: 27 settembre, 2, 4 ottobre, 2013: 25, 30 gennaio; Bucarelli 2017: 22 ottobre, Sironi 2015: 2 dicembre, 2014: 1, 14, 29 dicembre, 7 gennaio; Secessione 2015: 12, 21 gennaio, Modigliani, Utrillo 2014: 22 febbraio, 5, 7 marzo, Cubisti 2013: 16 maggio, D’Annunzio 2013: marzo 14, 16, 18, 20, 22; Deineka 2012: 26 novembre, 1, 14 dicembre. Nel sito cultura.inabruzzo.it, Realismi socialisti 2011: 3 articoli 31 dicembre, De Chirico 2010: 8, 10, 11 luglio; 2009: 27 agosto, 23 novembre, 22 dicembre; Futuristi 2009: 30 aprile, 1° settembre, 2 dicembre; Picasso 4 febbraio (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli, che saranno trasferiti su altro sito, sono disponibili), Sironi 26 gennaio. In “Metafisica”, rivista semestrale a stampa della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, articolo sulla mostra De Chirico e la natura 2013: ottobre, n. 11-13.

Achille Funi, “Margherita Sarfatti e sua figlia Fiammetta”, 1930

Photo

Le immagini sono tratte dal Catalogo fornito cortesemente dalla Galleria Russo, si ringrazia Fabrizio Russo, con l’Editore e i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Mario Sironi, “Ritratto di Margherita Sarfatti” 1916-17; seguono, Medardo Rosso, “Ecce Puer” 1906, e Umberto Boccioni, “Periferia” 1909; poi, Mario Sironi, “Paesaggio urbano” 1908, e Giacomo Balla, “Belfiore-Petunie” 1924; quindi, Pippo Rizzo, “Canottieri” 1929, ed Enrico Pampolini, “Danzatrice” 1929; inoltre, Achille Funi, “Famiglia a tavola” 1915, e Piero Marussig, “Nudo” 1930; ancora, Virgilio Guidi, “Donna che cammina” 1918, e Francesco Trombadori, “Natura morta” 1924; continua, Mario Tozzi, “La père Lenoir (Contadino di Borgogna)” 1920, e Gisberto Ceccherini, “Alla fontana” 1928 , prosegue Filippo de Pisis, “Vaso di fiori” 1928, e Quirino Ruggeri, “Ritratto di Fiammetta Sarfatti” 1928; poi, Corrado Cagli, “Paesaggio” 1915, e Giorgio de Chirico, Ritratto” 1927 con dedica; quindi, Adolfo Wildt, “L’anima e la sua veste” 1922, “Vittoria” 1919, e “La Vergine” 1924; inoltre, Mario Sironi, “La ballerina” 1916, “Paesaggio urbano” 1921, e “All’osteria-Fiaccheraio” 1930; infine, Achille Funi, “Margherita Sarfatti e sua figlia Fiammetta” 1930 e, in chiusura, “Margherita Sarfatti al suo scrittoio, fotografia del 1930 circa.

“Margherita Sarfatti al suo scrittoio, fotografia del 1930

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *