17^ Quadriennale d’Arte, 3. “Fuori”, prosegue la galleria della mostra, al Palazzo delle Esposizioni

di Romano Maria Levante 

Continua la nostra narrazione della 17^ edizione della Quadriennale d’Arte espressa nella mostra “FUORI”  al  Palazzo delle Esposizioni, curatori Sarah Cosulich direttore artistico della Fondazione Quadriennale di Roma, e Stefano Collicelli Cagol, con  altri 16 artisti dei 43 espositori, dopo i 16 artisti presentati in precedenza.  Alla sua realizzazione da parte della Fondazione ha collaborato l’Azienda speciale Palaexpo, con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo.  Inaugurata il 20 ottobre 2020  dopo la lunga chiusura per la pandemia Coronavirus è stata riaperta il 4 febbraio 2021 e lo resterà  fino alla primavera;  ingresso gratuito  per il contributo del “main partner” Gucci. Catalogo della Treccani,  bilingue.   

Alessandro Pessoli, “Ritratto di Zucca”, 2013

In precedenza abbiamo passato in rassegna  i primi 16 artisti della nostra galleria e le loro opere, dopo aver prima riassunto l’impostazione della mostra, con al centro Roma e il Palazzo, le precedenti Quadriennali e l’Arte italiana, in una rivisitazione anche delle Quadriennali del passato che ha fatto proporre oggi artisti degli ultimi sessant’anni con una visione anticipatrice  allora ignorata.

Inoltre abbiamo indicato le tre linee di ricerca: il Palazzo, come sede storica della mostra alla quale si attribuisce una valenza particolare, avendo “una storia connotata con il ventennio fascista”; il Desiderio, ritenuto troppo trascurato mentre le sue pulsioni sono determinanti, in collegamento con le tematiche queer, femministe e omosessuali; l’Incommensurabile nell’opera dell’artista, non misurabile nè esprimibile, che va al di là di ogni collocazionw. Nella nostra rassegna abbiamo citato le descrizioni dei curatori e delle schede illustrative, data l’indecifrabilità per un cronista che non si atteggia  a critico d’arte, ma è un semplice narratore.

Sylvano Bussotti, “Il tappezziere”, 1953

Abbiamo concluso la rassegna dei primi 16 artisti con le “partiture musicali” di Sylvano Bussotti: ebbene, scrive la Cosulich,“a cavallo tra arte e musica ha lavorato anche Giuseppe Chiari  sostenitore della gestualità nella lettura delle opere, sia da parte del performer che interpretava le sue partiture musicali, sia dello spettatore posto di fronte a scritte che negavano la possibilità di rimanere inermi, passivi”.

La scheda lo considera, in linea con “Fuori”, “uno strumento che invita il pubblico ad assumere una posizione eccentrica  da cui guardare l’arte italiana, scrivendo un percorso narrativo rispetto alla sua tradizione canonica”. 

Sylvano Bussotti, “Arlequin Poupì”, 1955

Come si esprime tutto questo? “Le frasi scritte dalla mano di Chiari sono dichiarazioni icastiche che, muovendosi sul confine tra provocazione e non senso, non chiudono il discorso in modo assertivo, ma aprono un dialogo con il pubblico che le legge”. Ce n’è anche per le loro componenti: “Le parole  scritte dall’artista sembrano dare voce ai dubbi e alle perplessità che sorgono nei visitatori, ponendosi come un commento partecipato della mostra in cui sono esposte”.

Vediamole queste frasi, sono  gli “Statements”, con le scritte, in tutte maiuscole: “Forse  tu sei centrale e questo foglio è al margine” e “Lontani indipendenti  liberi ingenui appassionati naturali antagonisti, “Voglio  vivere senza capire. Posso? Graziee “Se questa è arte tu sei pazzo”,   il pubblico potrebbe rispondere che può vivere senza capire e far sua proprio quest’ultimo statement!  

Giuseppe Chiari, “Lontani indipendenti… “, 1999

Collicelli Cagol considera le scritte di Chiari “un ottimo viatico”  per reagire  “all’ossessione per il nuovo” in modo da  “sostituire e sostenere un cambio di postura con cui provare a ripensare il modo di guardare l’arte”. Farlo con questi “statements” del 1999 rispolverati dopo vent’anni quasi fossero ruderi preziosi e presentati come le “tavole della legge” ci lascia basiti, come si dice a Roma: sarà un nostro limite ma non possiamo nasconderlo.

Ancora il co-curatore cita “la potenza delle immagini, delle parole e delle azioni che promana da ogni spettacolo di Romeo Castellucci Socìetas. Lo vediamo in “Uso umano di esseri umani. Un esercizio in Lingua  Generalissima”  da Bologna  2013 e Mosca 2015. Tale lingua artificiale, coniata dalla Socìetas nel 1984, si legge nella scheda, “scaturiva dallo studio delle lingue morte ma compiutamente decriptate. Un ruolo preminente era riservato alla bruciante necessità comunicativa che fonde  le lingue creole, germinate in seno alle comunità di schiavi in stato di convivenza coatta  nelle regioni antillano-caraibiche, zone di deportazione coloniale, tra il XVIII e il XIX secolo”.

Giuseppe Chiari, “Se questa è arte…”, 1999

Cosa c’entra  questo con la mostra?  L’installazione sulla “Resurrezione di Lazzaro” la “riconvoca a trent’anni di distanza dalla sua invenzione”, la testa guarda ancora più lontano all’indietro.  Con questa caratteristica: “I dispositivi scenici di Romeo Castellucci si fondano sul disinnesco di ogni illustrazione devota  al regime mimetico del teatro”.  Ed ecco l’intento: “Si tratta di far fallire il potenziale comunicativo, retorico e pedagogico della scena che si fonda sulla pretesa di uno sguardo trasparente sul Reale”.  Nella performance  sull’affresco di Giotto, “di fronte al Cristo benedicente, Lazzaro pronuncia un diniego alla vita, supplicando la propria permanenza nel mondo dei morti”. Il linguaggio, e tutto il resto, “fuori”  dall’abituale, torna il passato per il salto nel futuro. Sarà……

Le  fotografie di Lisetta Carmi , secondo Collicelli Cagol,  “raccontano i sintomi di potere di una società  patriarcale attraverso la lettura del suo erotismo e autoritarismo, in un ciclo continuo di morte e rinascita”. Da pianista a fotografa, presa dall’impegno per le cause sociali e i diritti dei lavoratori, “le sue immagini mettono in luce le relazioni tra classi, generi, tra erotismo e potere alla base della società italiana”, secondo la scheda.

Romeo Castellucci Societas,“Uso umano di esseri umani.Un esercizio in Lingua Generalissima,2014 # 1

Nella serie “I travestiti” 1965-71,  dà dei transessuali “con delicatezza l’immagine di corpi che vengono rappresentati nella loro completezza, senza soffermarsi solo sulla loro sessualizzazione e la loro mercificazione”. Vien fatto di chiedersi come avrebbe potuto farlo.  “Il parto” 1968 richiama le immagini senza veli, forse le prime che più esplicite non potevano essere, del  film uscito poco prima, nel settembre 1967, “Helga”, le cui inquadrature  ruppero  il tabù del nudo integrale femminile con il pretesto di riprendere il travaglio della nascita.

Il precedente “Erotismo e autoritarismo a Staglieno” 1966, sempre della Carmi, intende sottolineare  “lo sguardo patriarcale  che orienta la rappresentazione della donna nei gruppi di sculture  funebri di fine Ottocento presenti nel cimitero di Staglieno a Genova”.  Ma non c’è solo la “sguardo patriarcale”, anche  “il perbenismo borghese  e il paradosso dell’uso di stereotipi religiosi”; e le statue femminili fotografate “coniugano l’erotismo alla sottomissione”, le donne sono “madri e mogli fedeli” ma anche  “ancelle e dee il cui corpo  sessualizzato dallo sguardo maschile viene  tagliato, isolato e svelato”. Certo, per riesumare – ci si perdoni il verbo ma siamo in carattere con l’ambiente cimiteriale – fotografie di oltre mezzo secolo fa, i “sacerdoti” dell’arte contemporanea  dovevano cercare motivazioni all’altezza.  Ma non è un’esagerazione?

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Romeo Castellucci Societas,“Uso umano di esseri umani.Un esercizio in Lingua Generalissima,2014,# 2

Gli “immaginari coloniali e fascisti”, con la loro “pervasività e la presenza nella società e nel paesaggio italiano” sarebbero  “parte di un inconscio collettivo, un alfabeto da destrutturare e da demolire”, nella presentazione di Collicelli Cagol. Per fortuna  la “demolizione” del Palazzo delle Esposizioni è stata solo virtuale, sostituita dalla “sfilata” di stanze in cartongesso dell’allestimento che lo mimetizzano.  Il curatore riferisce tale operazione a due coppie di artisti  che, “con metodologie diverse, attraverso l’uso di archivi e l’analisi di persistenze culturali e architettoniche,  ci invitano a reagire a questo patrimonio ingombrante, ripensandone la relazione in maniera propositiva, invece che distruttiva”.

Rassicurati per lo scampato pericolo, guardiamo la rielaborazione, da parte di  Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi,  dei fotogrammi di film della prima metà del Novecento “per far emergere nei loro film – attraverso lo zoom e il ralenti – il mostruoso altrimenti celato”; in “Pays Barbare”  2013 le immagini del video parlano alla memoria collettiva in senso anticolonialista, e fin qui è una constatazione.

Lisetta Carmi, “Erotismo e autoritarismo a Staglieno, 1966, # 1

L’ideologia prevale quando, pur nella giusta condanna delle nequizie del fascismo e nell’irrisione dei suoi aspetti grotteschi, la scheda su Gianikian conclude con le “responsabilità individuali e collettive, odierne come passate” con queste parole: “Insolente, atrocemente farsesco, il fascismo si ripresenta. Noi proviamo un sentimento di inquietudine.  Siamo immersi in una notte profonda. Non sappiamo dove stiamo andando. E voi?”. Modestamente lo sappiamo, certo non nella direzione ossessivamente temuta dai due artisti. Vorremmo  andare avanti senza la testa rivolta all’indietro, e poter chiamare anche questa Quadriennale come quella del 2016 “un salto nel futuro” e non una retromarcia nei gorghi del passato, tanto più così angoscioso.  

Con DAAR, di Sandi Hilal  e Alessandro Petti, si va addirittura oltre nel tenere la testa rivolta all’indietro, con una “ricerca per fondare l’Ente di decolonizzazione italiano”. Vi sono fotografie che lo collocano ad “Asmara”  e in  Sicilia, “Borgo”, sono del 2019 e 2020. Secondo la scheda, tale fantomatico ente “è un  urgente contributo  alla discussione sulle persistenze del passato e sull’oblio della memoria” in modo da iniziare “un percorso di decolonizzazione degli immaginari collettivi e individuali”. 

Lisetta Carmi, “Erotismo e autoritarismo a Staglieno,1966, #2

L’acronimo DAAR, di Hilal e Petti è sulla decolonizzazione (“Decolonizing Architecture Art Residency” ), definita “il processo di liberazione da una produzione di conoscenza a senso unico, per restituire a una pluralità di voci altrimenti ignorate il senso della Storia, della memoria e della sensibilità”. E viene rivolto un invito “alla riflessione sulla presenza delle architetture fasciste in Italia per minare la logica della riduzione del Meridione alla stregua delle ex colonie africane”.

Non sono soltanto astrazioni, con il progetto  Campus in Camps DAAR ha lanciato nel 2012 un programma educativo sperimentale in un campo di profughi palestinesi trasformati in soggetti politici con questa impostazione: “La dimensione artistica diviene un terreno dove rendere possibile e giustificabile l’esercizio di pratiche utopiche”. Speriamo non si trasformino in qualcosa di diverso, il riferimento alle “architetture fasciste” è inquietante, i fanatismi fondamentalisti hanno fatto già troppi danni.  

Yervant Gianikian-Angela Ricci Lucchi, “Pays Barbare”, 2013, # 1, fotogramma video

Avendo  la testa sempre rivolta all’indietro  si fa la conoscenza di Amedeo Polazzo, il cui “Studio per dipinto a muro”   – con i ghirigori dai colori tenui in pastello e acqua a richiamare i cancelli e le grate dei cantieri,  lungo lo scalone in “pendant”  con i grandi fiori sull’altro scalone – secondo Collicelli Cagol “sovverte gli intenti celebrativi di quella tradizione”, identificati nella “cultura della pittura murale italiana degli anni Trenta”.

La lingua batte…. dato  che,  secondo la scheda,  gli scaloni del palazzo non solo vanno visti come “elemento scenografico  di esaltazione retorica nelle  Quadriennali degli anni Trenta” –  e questa sarebbe una ovvia constatazione –  ma altresì “recano nella loro magniloquenza la tensione tra la propaganda fascista di supporto all’arte e l’istituzionalizzazione del lavoro artistico”.

Yervant Gianikian-Angela Ricci Lucchi, “Pays Barbare”, 2013, # 2, fotogramma video

Come demistificarlo? “Le sue opere sono destinate ad essere cancellate e a non lasciare alcuna traccia” in quanto i colori tenui molto diluiti in acqua sulle pareti sono tali da dissolversi; tuttavia  la pittura, anche se al termine della mostra “non lascerà tracce visibili, allo stesso tempo però essa impregna i muri di Palazzo delle Esposizioni”. Il tema del cantiere nelle sue recinzioni è declinato come metafora di tante ingiustizie, dal lavoro domestico femminile mal retribuito a quello disumano dei braccianti,  quindi il lavoro, allora esaltato in termini magniloquenti, ora “si fonde a un immaginario apparentemente domestico”.

D’accordo sulla metafora, però ci sembra eccessivo dire che “Polazzo ribalta  gli assunti propagandistici degli anni Trenta  richiamando per contrappasso l’articolo 1 della Costituzione italiana ‘L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro’”. Anche i regimi  esaltano il lavoro, lo faceva quello fascista e quello comunista con il “Realismo socialista” nell’arte,  in termini magniloquenti, sì, ma non è  magniloquente, però  in modo giusto, aver  fondato sul lavoro la nostra Repubblica democratica?

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DAAR – Sandi Hilal e Alessandro Petti, “Ente di decolonizzazione, Asmara”, 2019

Si torna nel presente dopo la demistificazione del passato, sempre in chiave ideologica, leggendo nello scritto di Collicelli Cagol  che le  pareti della sala espositiva “vengono letteralmente fatte a pezzi nel video di  Monica Bonvicini“, la quale si  serve di  varie forme espressive, oltre al video, disegno e fotografia, performance e architettura. Si legge nella scheda che, “in particolare, il lavoro di Bonvicini osserva il modo in cui  architettura e corpo umano si compenetrano, assumendo l’architettura come una delle migliori rappresentazioni delle ideologie del potere”.

Non basta, l’inquadramento ideologico  parla di “un processo di decostruzione di un modello patriarcale e maschilista, colpito nei propri simboli e negli immaginari tramite un lavoro di sovversione che, con fare umoristico, mette in questione il ruolo passivo tradizionalmente attribuito alla donna”.  Può essere evocato dalla performance ”Give me the pleasure”  dell’installazione “3nd Act Never Die for Love”  del 2019,  due gabbie cilindriche per il 3° atto della “Turandot” di Puccini con la donna che cerca di uscirne: “Le gabbie diventano armature  che proteggono e delimitano uno spazio interiore in cui l’identità femminile è in grado di autodeterminarsi e di muovesi liberamente  in un ambiente normato dal desiderio maschile”.

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DAAR – Sandi Hilal e Alessandro Petti, “Ente di decolonizzazione. Borgo”, 2020

Vediamo, sempre della Bonvicini, anche 5 partiture musicali numerate “From the Series Bind Me! Torture me!” 2019 con sovrapposte scritte nelle quali “la rabbia femminista si tramuta in un potere vitale e costruttivo”: leggiamo “women’s desire” ed “erotic love”, fino alla domanda cruciale “what does woman want?”.  Se invece di “woman”  fosse scritto il nome dell’artista forse qualche visitatore potrebbe cimentarsi nel dare una risposta, oltre a quella della scheda.

Lorenza Longhi  viene collocata con gli artisti definiti della tendenza ”glam”,  il “glamour” cui Collicelli Cagol  attribuisce “l’associazione ai poteri seduttivi di una donna”, tanto più  “in una società intrisa di maschilismo”,  con lei anche altri come il già citato Vetrugno.  Vediamo “Virtual Hell” 2019 e varie “Untitled” del 2018, con le specifiche “Brocki”, “Food Narrations”, “Table 1”.  Secondo la scheda, quelli dell’artista “si atteggiano a USM Haller, tipiche scaffalature da ufficio standardizzate dal rigore svizzero, sembrano neon bianchi, presentano serigrafie di giganteschi moduli da compilare e pubblicità da riviste patinate…”.

Amedeo Polazzo, “Studio per dipinto a muro”, 2020, # 1, dettaglio

Sono realizzate con una “manualità artigianale” ottenendo “pezzi unici, irriproducibili”. Precisamente, “Longhi personalizza  così i mobili, svelandone le potenzialità espressive  attraverso il gioco delle possibilità combinatorie”. E il significato? “Con gli interventi sull’architettura e sugli arredi della sede espositiva, Longhi ne commenta la magniloquenza e il retaggio del sistema di potere di cui è portatrice”. Ed ecco come: “Lo fa travestendo, sporcando e parzialmente celando i simboli di rappresentanza per  rivelarne in maniera ancora più chiara la logica nascosta”. Magniloquenza e retaggio di potere del Palazzo, altro che “damnatio memoriae”! Un’ossessione che si perpetua.

Nelle  sculture  e nei disegni di  Isabella Costabile, secondo Collicelli Cagol, “si muovono personaggi ispirati  agli immaginari dell’afrofuturismo, della cultura giamaicana  e italiana tra le quali è cresciuta”. L’afrofuturismo è un movimento sorto negli anni ’70 con l’intento di sostenere le lotte per i diritti civili degli africani: la scheda lo considera  “come strumento di riappropriazione speculativa della capacità di immaginare il futuro, proiettando narrative ottimistiche e  costruendo situazioni ideali”. Sono figure fantastiche  extraterrestri, realizzate con materiali di scarto e oggetti tra i più disparati – “utensili esauriti, elementi organici e artificiali come bambole, posate, gusci di uova e chiodi arrugginiti” – impegnate in riti  magici in paesaggi lunari.

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Amedeo Polazzo, “Studio per dipinto a muro”, 2020, # 2, dettaglio

In tal modo l’artista “decostruisce” con la “defamiliarizzazione”, e in tal modo “garantisce il distacco tra l’oggetto e il suo ambito di provenienza”. Vediamo , del 2016 “High Priestless”, del 2018  “Santa Maremma”, “Frustone”, “Al pascolo”, nei quali l’artista interviene sui “giocattoli usati” con vari materiali, anche forchette, cucchiai, scarti di metallo e simili. 

E  raggiunge questo risultato: “Costabile traduce tali disposizioni in un’etica processuale che indaga la metafisica dei corpi, siano essi persone e oggetti:  le espanse potenzialità di alcune forchette, le nuove utilità dei barattoli di latta diventano attualità e sono pretesti tramite cui, come l’artista sottolinea, ‘possiamo capire molto su noi stessi’”. A noi non è riuscito, sarà ancora un nostro limite.

Monica Bonvicini, “Give Me the Pleasure” da “3nd Act Never Die for Love”, 2019

Anche Nanda Vigo  va su piani virtuali galattici, ricorda Collicelli Cagol, “per tutta la vita ha progettato strumenti per entrare in contatto con altre dimensioni oltre al visibile che abitiamo quotidianamente”.  La ispirano i  viaggi che sono stata la sua passione e il suo alimento culturale e vitale, e nonostante la loro limitazione terrestre le hanno aperto gli occhi sull’incommensurabile. Nella scheda si legge che “l’intento della sua ricerca estetica è quello di  sondare la possibilità di creare stimoli sensoriali attraverso  l’impiego di materiali industriali e la creazione di spazialità  che inglobino e avvolgano il visitatore”. 

Ed ecco i suoi motivi ispiratori: “Per l’artista,  un cronotopo è un ‘tempo-spazio’ che conduce il visitatore verso dimensioni altre, non ancora esplorate, alla ricerca di una vera  e propria a-dimensionalità”.  Così “Exoteric Gate” 1976, ispirato ai luoghi dove sono nate le più antiche civiltà, Egitto e Iran, Nepal e India, Messico, una serie di figure geometriche semplici ed essenziali rievocano l’”Alfabeto cosmologico” del 1972. “L’ambiente creato, attraverso specchi e neon, si configura attraverso un altrove sospeso nel tempo, su cui si aprono dei portali, passaggi che conducono verso una realtà ignota, quello spazio-tempo relativo da lei  immaginato”. Un cronotopo provvidenziale libero da ogni riflesso ideologico, ci piace aggiungere.  

Monica Bonvicini, “From the Series Bind Me! Torture me! # 2″, 2019

Riconducono al tempo “che non può più essere pensato lineare” Agudio e Marcon – presenti nel 2016 alla 16^ edizione – “ci spingono a tornare sui nostri passi, per immergerci tra visioni di pittura espansa e desideri erotici”, dato che  “i palazzi storici italiani sono macchine del tempo”, osserva Collicelli Cagol.

Alessandro Agudio , si legge nella scheda, “non concepisce i propri lavori come opere ma come oggetti colti nel pieno dell’esaurimento della propria funzione”. In pratica utilizza oggetti di arredamento per le case della borghesia lombarda “come degli idoli da salotto, oggetti seducenti da esporre in bella vista”. Così “evoca un’immagine  archetipica dell’identità italiana creata dall’arredamento diffuso  nelle case della media borghesia degli anni Ottanta”. Il suo interesse al dettaglio e  alla superficie degli oggetti esprime “la propria natura artificiosa e stimolante”, e lo spazio così “arredato” appare come “un’impalcatura teatrale”. 

Lorenza Longhi, dalla mostra “Visual Hell”, 2019

Nelle opere concepite da Agudio per la Quadriennale, “l’elemento del corpo come unità di misura è centrale”, tanto che impiega “attrezzi da palestra” e in particolare “quattro forme usate per l’allenamento delle dita in sospensione dei climber” , a parte “Un angolo (torcia) 2019. Sono del 2018 “Un angolo (Tipo vespasiano)” e due oggetti forse da palestra separati da uno spazio, fissati al soffitto e al pavimento da due corde con ganci, il lunghissimo titolo è “Hello, I Know It Might Sound Weird but I Am Wondering if It Is Possible to Make Sure that the Surface of of the Item Is Homogeneous as Possible. Many Thanks”, 2018. “Nei cavi e nella sospensione si annida un erotismo violento… suggeriscono un’atmosfera erotica soffusa eppure esplicita, la stessa che si respira nei club finitess”.

Non basta, non ci eravamo accorti che l’atmosfera creata da Agudio “invita a toccare, a infilare le dita a giocare con le forme, a spiare i corpi degli altri nella relazione con gli attrezzi, nell’atto dello sforzo fisico”. Se lo scrivono sarà così, anche se personalmente confessiamo di non sentire un simile impulso…

Lorenza Longhi, Untitled (Table 1)”, 2018

Pur se accomunato nei “desideri erotici”, Diego Marcon – presente anche alla 16^ edizione del 2016 – presenta opere ben diverse, innanzitutto in quanto si tratta di film e video, poi perché riguardano il mondo dell’infanzia “non più in termini di purezza o innocenza: quello che interessa l’artista è la sua natura ambigua”, per cui lo spettatore viene  ad assumere “un punto di vista sentimentale e allo stesso tempo opaco, straniante nei confronti di un mondo in cui trasparenza e positività diventano ideali consunti e triti”.

Le parole della scheda sull’opera di Marcon evocano  una metafora della condizione umana considerata patetica dall’artista “tenendo insieme due dimensioni, quella del dolore e quella della comicità, che spesso si intrecciano nella sua opera”. L’opacità è espressa dal buio, irrompono “rumori fuori scena”, ci sono gli adolescenti come “presenze inquietanti”, immobili o addormentati, su cui incombono minacce indistinte.

Isabella Costabile, “Santa Maremma”, 2018

“Il buio di  “Monelle”  – il titolo del film di Marcon del 2017 – non è un buio vuoto o silente: la visione delle immagini, così repentina e fugace, carica lo spettatore di una fame dello sguardo, una frustrazione derivata dalla difficoltà di trattenere l’immagine e il desiderio di interrogare lo schermo nero”.  Si intitola “Monella” il film di Tinto Brass del 1998, con l’adolescenza inquieta e inquietante, sarà una coincidenza?

L’intento di  Diego Gualandris  ”che vede i suoi quadri come  dispositivi di seduzione”,  secondo Collicelli Cagol  è di “risvegliare l’eccitazione sessuale attraverso il giardino pittorico creato per FUORI”. Già ci sfuggivano l’erotismo violento dei cavi che sorreggono gli attrezzi e  i desideri erotici riferiti da Marcon ad adolescenti nel buio, vediamo se ora possiamo sentire l’eccitazione sessuale data dagli “effetti psichedelici con il potere di attrarre e re-incantare nonostante la repulsione che provocano”,  provocati da frammenti umani, vegetali  e microorganismi “che emergono attraverso le velature e le campiture”.

Isabella Costabile, “Frustone”, 2018

Il curatore spiega da dove trae origine e alimento la “seduzione” evocata per Gualandris : “La capacità di ammaliare, incantare si riassume in una parola che racchiude una dimensione molto presente nell’immaginario collettivo italiano e sull’Italia”, la parola è il “glam”, l’abbiamo già citata, un termine prima “associato a  incantesimi e magia”, poi divenuto più ampio,  “riferito a qualcosa che strega, irretisce, affascina e conquista”.

E non manca l’inquadramento ideologico: “In una cultura intrisa di maschilismo, l’associazione ai poteri seduttivi  di una donna è immediata”, del resto è uno dei “leit motiv” dichiarati della mostra. Sarà colpa nostra se continuiamo a non sentire questo effetto sessuale. L’opera di Gualandris, realizzata per la “Quadriennale”, è il trittico “Edera” 2020, sull’’Eden immaginario, con tre grandi tele collegate , “Terza testa del Galloleone”, “Casa dei sogni di un ragno violino”, “Digerire una tigre” , tra il 2018 e il 2020.

Nanda Vigo, “Strigger of the Space”, 1974, # 1

Un  “uso psichedelico dei colori” sarebbe tipico anche di Salvo, derivato dalla musica psichedelica degli anni ’60 di cui era appassionato, tradotto nel “reincantamento dei paesaggi urbani, montani, marini e campestri”- nelle parole di Collicelli Cagol –  esso pure improntato al “glam”, espresso nel trattato dello stesso Salvo “Della pittura”. Ci troviamo di fronte, questa volta,  a un artista concettuale di  alta levatura  che nella pittura si esprime attraverso soggetti e cromatismi di grande effetto negli  esterni con lampioni e paesaggi, negli interni con architetture e ambienti di sogno.

Attraverso un uso sapiente dei colori – è scritto nella scheda –  l’artista ripensa i generi della pittura italiana  tradizionale, come il paesaggio e la natura morta, immergendo lo spettatore in trip cromatici inaspettati”. Vediamo realizzati, tra il 1986 e il 1988 “Undici luci” e “La città”, “Casa con lampione” e “Al cinema”; nel  1992 e 1999 “Ottomania“  e “Roma”, nel 2014 “Il passaggio del numero 1”.

Nanda Vigo, “Strigger of the Space”, 1974, # 2

“Reincantare  il mondo e aprire le porte della percezione (per parafrasare il famoso libro di Huxley)  sembra essere la risposta a chi considerava la pittura  spacciata di fronte all’immaterialità (e semplificazione) delle ricerche concettuali divenute tendenza”. Evviva per questo ritorno a parlare di arte dopo tanta ideologia passata e presente che trova, sì, i suoi riflessi nell’arte di cui spesso è ispiratrice, ma non può essere  così dominante fino a sembrare ossessiva.   

“La stessa rigorosa matrice concettuale e demiurgica di Salvo ispira Gennari  nella scelta dei materiali come viatico per esprimere la propria dimensione, che si (s)materializza in gin, vetri e superfici liquide che rifrangono  luci e immagini, marmi e metalli che con la loro allure  attirano i visitatori”, così Collicelli Cagol presenta  Francesco Gennari.

Alessandro Agudio, “Un angolo (torcia)”, 2019

La scheda su Gennari parla di “una radice minimalista che si accompagna a un’emotività straripante, creando una dicotomia inedita tra metafisica e minimalismo”. E’ “autorappresntazione” la sua con “la percezione dell’esistenza di un doppio , un altro con cui relazionarsi: nella stessa persona esistono due Gennari, uno che pensa e l’altro che esegue”.

Vediamo in mostra, di Gennari, “Tre colori per presentarsi al mondo, la mattina” 2013, due  “Autoritratto su menta (con camicia bianca)” 2018 e 2020, il primo un triangolo di sottili tubi di vetro  di Murano fusi a mano, gli altri due evanescenze verdi a getto d’inchiostro su carta, molto più spettacolari del primo, sembrano di due autori diversi.  Nel triangolo c’è  “il tentativo di una presentazione di sé che l’artista fa al mondo”; nelle evanescenze “un’immagine di sé incorporea, animalesca e quasi mostruosa”. In queste opere  il visitatore vede tutto fuorché un vero autoritratto.

Alessandro Agudio, “Hello, I Know It Might Sound Weird but I Am Wondering if It Is Possible to Make Sure that the Surface of of the Item Is Homogeneous as Possible. Many Thamks”, 2018

Franceschini, De Luca, Stucchi  utilizzano display, vetrine e scenografia per “ammaliare o giocare con linguaggi in grado di irretire, per sovvertire le apparenze, giocare con gli stereotipi  e rivelare quanto  di artefatto popola gli immaginari collettivi”, osserva Collicelli Cagol.   

Anna Franceschini – un ritorno il suo dopo la partecipazione alla 16^ edizione del 2016 – si concentra “sugli oggetti e sul loro potenziale narrativo, in relazione alle persone e al loro vissuto. Il suo lavoro è tutto teso ad animare l’inanimato”, recita la scheda. E’ una “architettura visiva” che vuole coinvolgere lo spettatore strappandolo dalla consueta posizione passiva e si esprime anche nel linguaggio cinematografico, il movimento ne è una componente importante. E’ esposta  una sua installazione  del genere “screenless animation”, con il “cinema senza schermo”, il movimento è dato da un macchinario che muove parrucche bionde utilizzate negli spettacoli  “drag”.

Diego Marcon, “Monelle” 2017, # 1, fotogramma di film

“Villa Straylight” 2019 è intitolata l’opera della Franceschini ispirata alla fantascienza., “il movimento immaginato dall’artista somiglia  a una danza in cui desiderio e inganno si confondono, una danza di cui non riusciamo a individuare la successione delle figure, l’ordine degli strumenti, l’inizio e la fine”.

Questo per il movimento, e il resto? “La parrucca allude a un immaginario erotico che pone al centro corpi non normati, eccedenti… I capelli delle parrucche di Franceschini ondeggiano  sinuosi trasportati dalle carrucole, mettendo in scena un corteggiamento, un’ipnosi incantevole”. Di nuovo  dobbiamo confessare che corteggiamento e ipnosi non li abbiamo sentiti, sarà ancora colpa nostra…

E De Luca e Stucchi, gli altri due artisti “ammaliatori”? Ne parleremo prossimamente descrivendo gli ultimi 11 artisti dei 43 espositori nella mostra.

Diego Marcon,“Monelle”, 2017, # 2, fotogramma di film

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Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Da lunedì a venerdì ore 11-20, sabato e domenica chiuso, ingresso gratuito per il contributo del “main partner” Gucci, si entra fino a un’ora dalla chiusura con prenotazione e misure di contenimento e protezione per la pandemia. . www.palazzoesposizioni.it tel. 06.39967500, www.quadriennalediroma.org  tel. 06.97743311. Catalogo “FUORI Fuori Fuori Fuori Fuori”,   Treccani, pp.680, formato 16,5 x 24, bilingue; dal Catalogo sono tratte le numerose citazioni del testo.  Del nostro servizio sulla mostra in 5 articoli, i primi 2 articoli sono usciti in questo sito il 1° e 2 marzo, gli ultimi 2 usciranno il 4, 5 marzo 2021.  Cfr. i nostri articoli, in questo sito, sulla mostra:  per la presentazione dell’attuale 17^ Edizione  20 luglio, 13 marzo 2020;  per la 16^ Edizione del 2016, il 21, 22, 23, 24, 25 luglio 2020, già pubblicati nel sito web www.arteculturaoggi.com  il 16 giugno, 24 e 27 ottobre, 1° e 29 novembre 2016; per gli artisti citati,  in questo sito, De Chirico, 2019: settembre 3, 5, 7, 9, 11, 13,  15; 18, 20, 22; 25, 27, 29;  nello stesso sito www.arteculturaoggi.com  De Chirico 2016: 17 dicembre e 21 febbraio, 2015: 1° marzo, 2013: 20, 26 giugno, 1° luglio,Tinto Brass 5 marzo 2016, 12 aprile 2014, Deineka (Realismi socialisti)  26 novembre, 1, 16 dicembre 2012;  in cultura.inabruzzo.it,  Realismi socialisti 3 articoli 31 dic. 2011, De Chirico, 2010: 8, 10,11 luglio,  2009:  22 dicembre, 23 settembre, 17 agosto,  in fotografia.guidaconsumatore.com Rodcenko, 2 articoli il 17 dicembre 2011  (gli ultimi due siti  non sono più raggiungibili, gli articoli, sempre disponibili, saranno trasferiti su altro sito). Su De Chirico,  a stampa nei semestrali della Fondazione Giorgio e  Isa de Chirico  “Metafisica” e   “Metaphysical Art” (edizione in inglese) n.11-13 del 2013.  

Diego Gualandris, “Terza testa del Galloleone”, 2018

Photo
Le immagini delle singole opere dei 43 artisti espositori, come le panoramiche delle sale espositive – queste ultime inserite nel 1° e 5° nostro articolo sulla mostra – sono state messe a disposizione dall’Ufficio stampa della mostra, ringraziamo Maria Bonmassar per la cortesia manifestata fornendo anche il prezioso Catalogo; altrettante immagini delle opere illustrano il 2° e 4° articolo, anch’essi dedicati alla galleria dei 43 artisti. Sempre sono state inserite immagini di 2 opere per ogni artista, tutte “courtesy l’artista” e in taluni casi anche “courtesy Collezione” o “courtesy Galleria”; a loro, e a tutti i titolari dei diritti, il nostro più vivo ringraziamento. Anche per illustrare ogni artista con 2 opere, in aggiunta alle immagini fornite dall’Ufficio stampa ne sono state inserite altre tratte dal Catalogo, in questo articolo le n. 1, 5, 7, 9, 12, 19, 21, 23, 24, 26, 28, 29; quindi, si ringrazia anche l’Editore con i titolari dei diritti. Sono tutte inserite nell’ordine di citazione nel testo, con l’avvertenza che la 2^ opera di Alessandro Pessoli e le 2 opere di Sylvano Bussotti, commentate nel 2° articolo sono riportate all’inizio di questo; e che le 2 opere di Salvo, di Francesco Gennari e di Anna Franceschini, commentate in questo articolo, sono riportate nel 4° articolo. In apertura, Alessandro Pessoli, “Ritratto di Zucca” 2013; seguono, Sylvano Bussotti, “Il tappezziere” 1953, e “Arlequin Poupì” 1955; poi, Giuseppe Chiari, “Lontani indipendenti… ” e “Se questa è arte…” 1999; quindi, Romeo Castellucci, Societas, “Uso umano di esseri umani. Un esercizio in Lingua Generalissima” 2014, # 1 e # 2, due momenti della “performance”; inoltre, Lisetta Carmi, “Erotismo e autoritarismo a Staglieno 1966, # 1 e # 2 stampe; ancora, Yervant Gianikian-Angela Ricci Lucchi, “Pays Barbare” 2013, # 1 e # 2 fotogrammi di video; continua, DAAR – Sandi Hilal e Alessandro Petti, “Ente di decolonizzazione. Asmara” 2019, ed “Ente di decolonizzazione. Borgo” 2020; poi, Amedeo Polazzo, “Studio per dipinto a muro” 2020, # 1 e # 2 dettagli; quindi, Monica Bonvicini, “Give Me the Pleasure” da “3nd Act Never Die for Love” e “From the Series Bind Me! Torture me! # 2″, 2019 ; inoltre, Lorenza Longhi, dalla mostra “Visual Hell, New Location” 2019, e “Untitled (Table 1)” 2018; ancora, Isabella Costabile, “Santa Maremma”, e “Frustone” , 2018: continua, Nanda Vigo, “Strigger of the Space” 1974 # 1 e # 2; poi, Alessandro Agudio, “Un angolo (torcia)” 2019, e “Hello, I Know It Might Sound Weird but I Am Wondering if It Is Possible to Make Sure that the Surface of of the Item Is Homogeneous as Possible. Many Thaks” 2018; quindi, Diego Marcon, 2 fotogrammi del film “Monelle” 2017, in chiusura, Diego Gualandris, “Terza testa del Galloleone” 2018, e “Casa dei sogni di un ragno violino” 2019.

Diego Gualandris, “Casa dei sogni di un ragno violino”, 2019

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