Pasolini, 5. Omaggio poetico-artistico, a Palazzo Incontro

Ci avviamo alla conclusione della nostra celebrazione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini ripubblicando oggi il primo dei nostri due articoli del 2012 sulla  mostra romana al Palazzo Incontro in cui furono presentate le opere di 22 artisti ispiratisi a 11 sue poesie, domani rpubblicheremo il secondo. I 4 articoli precedenti, usciti in successione su questo sito dal 5 marzo, giorno del centenario,  riguardano il primo la  mostra fotografica di Monica Cillario del 2012, i due scguenti la mostra “Pasolini Roma” del 2014 al Palazzo delle Esposizioni, il quarto la mostra “I tanti Pasolini”  di “Spazio 5” nel 2015. Il poeta e lo scrittore, il saggista e regista e anche la sua vicenda umana conclusa tragicamente vengono riproposti nella nostra narrazione di allora.

Postato da arteculturaoggi.com [11/11/2012 00:42]

di Romano Maria Levante

Una mostra  il cui titolo  “PPP. Una Polemica inversa. Omaggio a Pier Paolo Pasolini” è in carattere con la natura del personaggio indomito e controcorrente, scomparso tragicamente nel 1975.  Promossa dalla Provincia di Roma su progetto di “Teorema”, in collaborazione con “Civita”, catalogo di Fandango libri, aperta al Palazzo Incontro di Roma dal 30 ottobre al 23 dicembre 2012. La mostra, che comprende anche due giornate di approfondimento sulla sua poetica,  presenta le interpretazioni di 22 artisti su 11 sue poesie affiancate alle opere, 2 artisti ogni poesia.

Zingaretti, alla sua sinistra Alivernini,  Borgna e Bonito Oliva

Avevamo visto nel 2011 la mostra fotografica di Monica Cillario sull’abitazione di Pasolini a Roma, dall’atrio al gabbiotto del portiere, dalla tromba delle scale al campanello, fino al Cimitero degli inglesi che ispirò “Le ceneri di Gramsci”: sembrava di sentire i suoi passi.

Questa mostra ci riporta di nuovo la sua memoria attraverso  una selezione delle sue poesie e le opere che hanno ispirato ad artisti di due generazioni: quella che ha vissuto il suo stesso periodo e quella successiva che lo ha conosciuto per fama. Gli artisti hanno interpretato il suo pensiero poetico nel 2012 o  pochi anni addietro, quindi le loro opere sono uno segno di cosa è rimasto oggi della sua lezione civile quale alimento dell’arte contemporanea con motivi forti.  Sono i motivi della sua poesia civile che ha affiancato le altre forme artistiche e letterarie in cui si è cimentato.

Ne hanno parlato con accenti commossi alla presentazione il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, che ha promosso la mostra, e i realizzatori:  Gianni Borgna, per la selezione poetica, il curatore Flavio Alivernini dell’associazione “Teorema”  nel cui  nome si ritrova  un suo film scomodo e inquietante, e il critico Achille Bonito Oliva che si è soffermato sulle diverse forme nelle quali Pasolini ha manifestato i sentimenti e la rabbia. E  una ricostruzione del film “La rabbia di Pasolini”, curata da Giuseppe Bertolucci da un’idea di Tati Sanguineti,  è in visione alla mostra.

Le forme artistiche di Pasolini per Bonito Oliva

Bonito Oliva trova nella forza della sua passione civile il motivo per esprimersi nei campi più disparati, dalla poesia al cinema, dalla narrativa alla pubblicistica, fino alle arti figurative. E questo per trovare spazi dove far passare le proprie istanze esistenziali prima che culturali, in una continua  sperimentazione che implicava la contaminazione e lo sconfinamento  tra varie forme espressive.

Forme diverse ma rivolte allo stesso obiettivo: marcare la propria presenza e la propria denuncia di una realtà afflitta da contraddizioni da decifrare con una ricerca instancabile esercitata su se stesso e con lo strumento della cultura come lente d’ingrandimento che ne rivelasse i guasti anche prima che fossero visibili. La sparizione delle lucciole è un’immagine simbolo di questa sua spasmodica attenzione nella quale non si è mai risparmiato ponendosi così come un “bersaglio emblematico”.

Delle forme artistiche utilizzate da Pasolini quella meno nota, la pittura e il disegno, viene analizzata da Bonito Oliva quasi a creare un collegamento con i dipinti esposti nella mostra in suo omaggio. Il critico lo associa al manierismo, “che esprimeva la posizione dolorosa e decentrata dell’artista”  il quale viveva in una realtà attraversata da “crisi religiose, economiche, scientifiche e morali che segnavano la fine del Rinascimento”; e questo perché sono “quelle crisi che attanagliano anche la nostra società contemporanea, ponendo l’artista fuori da qualsiasi certezza e portandolo ad adoperare l’arte come strumento d’affermazione della propria identità”.  Di qui un excursus sulla sua opera pittorica, dalle prime opere con un segno vicino a De Pisis, agli autoritratti, da quello con il fiore in bocca  alla Van Gogh, a quello dal volto verde marcio nello stile di Pontorno. In tutti deformava i propri tratti somatici mentre nei ritratti degli amici li ingentiliva. Pochi paesaggi o nature morte, nei ritratti non coglieva l’attimo ma ritraeva in posa per dare la “rappresentazione di uno stato interiore”  cioè “questa sorta di rallentamento e dilatazione di uno stato d’animo”.

In modo analogo nel suo cinema, legato alle arti figurative come lui le intendeva:  una narrazione lontana dal naturalismo per estraniarsi dalla realtà e soddisfare il suo “desiderio di contemplazione”; realizzata mediante “una sequenza di quadri staccati , di immagini splendidamente isolate tra loro”.

La sua poesia civile proposta agli artisti per il curatore Alivernini

E la poesia?  Una poesia civile come i suoi romanzi e la sua coraggiosa pubblicistica. Flavio  Alivernini parla di “totale immedesimazione fra la dimensione soggettiva, personale, oggettiva, storico culturale”.  Si tratta di “confessioni e testimonianze, psiche e realtà, poesia e storia: la ricerca spasmodica della verità, condotta con una ‘sincerità crudele'”.

Il suo è un “procedimento maieutico” in cui mette in gioco se stesso, l’immedesimazione diventa sofferenza: “Una poesia che è vita, ma lega l’esistenza alla realtà e si fa poema civile,  cercando il riscatto nella storia”.   Pasolini “bersaglio emblematico”, come lo ha definito Bonito Oliva,  per il curatore si espone a  “reazioni ostili, non solo dal punto di vista prettamente ideologico”,  e se ne rende conto lui stesso nell’introduzione del 1967 a una raccolta di poesie in cui commenta amaramente l’ “ingenuità” nello scrivere  versi “per chi non potesse volermi che un gran bene. Adesso capisco perché sono stato  tanto sospetto e odiato”.

Si è rivelato preveggente non solo con le lucciole, ma anche nella denuncia della violenza che si annidava nelle borgate e di questo odio verso la sua persona: vengono i brividi nel ripensare alla sua tragica fine in cui convergono queste sue sofferte visioni.  Nelle quali spicca la massificazione spietata che annulla l’autentica cultura.

Le visioni profetiche sono espresse nella sua poesia civile, e perciò proporre una scelta dei suoi componimenti poetici a un gruppo di qualificati artisti contemporanei è stato un modo magistrale di “tracciare un bilancio generazionale del lascito di Pasolini  alla nostra epoca”: così la sua  ispirazione poetica si incrocia con la creatività artistica dei contemporanei “in un continuo rimando di suggestioni, simboli, concetti  e creazioni estetizzzanti che si fanno impressioni e visione”.

L’opera di Maurizio Savini

Le prime 4  poesie con 8 artisti: da “Le ceneri di Gramsci” a “La religione del mio tempo”

E allora  guardiamo le 22 opere della mostra che rimandano alle 11 poesie esposte nelle rispettive stanze, nei due livelli espositivi di Palazzo Incontro, gli abbinamenti rispondono ai loro linguaggi. Il Catalogo di “Fandango libri”  riporta le une e le altre, con il “Punto di vista non autorizzato” di Elisa Santinelli, che le mette a raffronto, e la “Biografia degli artisti”, una documentazione preziosa.

Si inizia con “Le ceneri di Gramsci” del 1954, 5 ampi  testi poetici  accorati e sofferti in cui il pensiero rivolto alla memoria del personaggio dinanzi alla sua tomba  suscita profonde riflessioni su se stesso e sull’umanità. Già l’ideale al quale l’uomo politico ha sacrificato la vita, fortemente condiviso – “noi morti ugualmente con te”- sebbene “illumini questo silenzio” trova il vuoto intorno a sé, anche se il Cimitero degli inglesi, confinato e negletto dalla città, è l’ambiente adatto per questo isolamento non solo rispetto alla “noia patrizia” ma anche al lavoro operaio.

Del resto “caparbio l’inganno che attutiva la vita resta nella morte”, tutto è caduco , “scelte, dedizioni… altro suono non hanno che questo del giardino gramo”, dove aleggia un’atmosfera di malinconia che stempera le passioni: “Qui il silenzio della morte è fede di un  civile silenzio di uomini rimasti uomini, di un  tedio  che nel tedio del Parco, discreto muta”.

Ma presto si immerge in una sofferta introspezione sulle proprie esitazioni e contraddizioni: “Eppure senza il tuo rigore, sussisto perché non scelgo, vivo nel non volere: amando il mondo che odio”; fino al confronto impari:  “Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere con te e contro te; con te nel cuore, in luce, contro te nelle buie viscere”.  E alla vitale affermazione “Ma come io possiedo la storia, essa mi possiede; ne sono illuminato”, segue l’interrogativo: “Ma a che serve la luce?”.

Non è solo nelle sue ambasce sul senso della vita, ripensa a Shelley, esclama “io vivo, eludendo la vita, con nel petto il senso di una vita che sia oblio accorante, violento”. Scorrono immagini  della Maremma e della Versilia, delle “torride Apuane” e della Riviera che lo portano a dire: “Mi chiederai tu, morto  disadorno, d’abbandonare questa disperata passione d’essere nel mondo?”.

Fino all’ultimo brano in cui si accommiata: “Me ne vado, ti lascio nella sera che, benché triste, così dolce scende per noi viventi”. E si rivolge di nuovo alla vita cittadina nelle sue miserie che descrive impietoso e nelle sue illusioni: “E’ un brusio la vita, e questi persi in essa la perdono serenamente” per concludere con un dubbio esistenziale lacerante: “Ma io, con il cuore cosciente di chi soltanto nella storia ha vita, potrò mai più con pura passione operare, se so che la nostra storia è finita?”. E’ un  compito da far tremare le vene e i polsi esprimere nell’arte questa valanga di sentimenti.

Maurizio Savini  con “Il cammino è iniziato e il viaggio è già finito”  la traduce nel corvo di “Uccellacci e uccellini”, nell’ombrello e cappello con l’assegno che firmò al ristorante poco prima di trovare la morte nella desolazione dell’Idroscalo, evocazione di un evento angoscioso.  Invece Gianfranco Baruchello, con “Enfatiche ceneri”,  rimanda al poema con scritture e segni enigmatici.

L’excursus poetico passa a “La religione del mio tempo”, 1955-59, con cinque componimenti. In “Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano” descrive in modo impietoso nella loro miseria corporea prima che morale “questi uomini, educati ad altra vita che la mia: frutti di una storia tanto diversa, e ritrovati, quasi fratelli, qui, nell’ultima forma storica di Roma”.

 L’opera di Pietro Ruffo

In “Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano” descrive nella loro miseria corporea prima che morale “questi uomini, educati ad altra vita che la mia: frutti di una storia tanto diversa, e ritrovati, quasi fratelli, qui, nell’ultima forma storica di Roma”.

La prima loro passione è “il desiderio di ricchezza,: sordido come le loro membra non lavate, nascosto, e insieme scoperto, privo di ogni pudore”.  E lo paragona al rapace “che svolazza pregustando chiotto il boccone, o il lupo, o il ragno; così bramano soldi come zingari, mercenari, puttane”.  Ma poi sconsolato conclude: “Il loro desiderio di ricchezza è simile al mio. Ognuno pensa a sé, a vincere l’angosciosa scommessa, a dirsi: ‘E’ fatta’, con un ghigno di re…”.  Nella comune ossessione c’è solo una differenza: la speranza è “estetizzante in me, in essi anarchica”, il raffinato e il sottoproletario sono “entrambi fuori dalla storia”. Gli unici “varchi” sono “nei sensi. In cui la gioia è gioia, il dolore dolore”. Altra complessità dolente che è veramente arduo rappresentare.

Carla Accardi con “Bianca Ombra” traspone in forme e segni dai forti colori l’intreccio tra sete di ricchezza e sentimenti fino alla gioia e al dolore che trovano il loro equilibrio compositivo.   Sten & Lex, in “Ritratto anonimo”  danno un viso grigliato di donna, un grigio identikit dell’anonimato.

“Alla Bandiera rossa”  è un epigramma  che inizia con una forte legittimazione: “Per chi conosce solo il tuo colore, bandiera rossa, tu devi realmente esistere perché lui esista”.  Ma dinanzi alle sofferenze dei miseri “chi conosceva appena il tuo colore, bandiera rossa, sta per non conoscerti più, neanche coi sensi”.  Di qui l’esortazione: “Ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli”.

Un tema preciso, lo visualizza Giuseppe Capitano che in “Bandiera”  presenta un panno rustico senza colore su un’asta orizzontale, al centro un grumo di stoffa rappreso,  forse un simbolo di emarginati in lotta.  Michelangelo Pistoletto con “Presentazione” espone una stoffa a scacchi chiari e scuri tenuto da due mani, segno che  quando c’è chi lo agita tutto può diventare un simbolo.

Un  epigramma, “A un papa”, del 1958, suscitò forti reazioni, dopo la morte di Pio XII cui chiede ragione di una morte senza nome e di vite miserevoli “in vista della bella cupola di San Pietro”. Gli si rivolge così: “Pochi giorni prima che tu morissi, la morte aveva messo gli occhi su un tuo coetaneo”,  Zucchetto; e gli chiede il perché di tanta indifferenza rispetto alle intollerabili condizioni di vita degli emarginati: “Tu non ne sapevi niente: come non sapevi niente di tanti mille e mille cristi come lui”. Fino a confessare: “Forse io sono feroce a chiedermi per che ragione la gente come Zucchetto fosse indegna del tuo amore”.  Infine l’invettiva, dura come una maledizione o una bestemmia: “Lo sapevi, peccare non significa fare il male; non fare il bene, questo significa peccare. Quanto bene tu potevi fare! E non l’hai fatto: non c’è stato un peccatore più grande di te”.

Dinanzi a questa eretica sacra rappresentazione si aspettavano opere altrettanto trasgressive. Invece  Pietro Ruffo con “Pasolini” ha reso i due aspetti contrastanti di Roma incarnati nel volto del poeta su una pianta cittadina plastificata dai segni marcati, con dei chiodi di sofferenza conficcati nel suo volto. Il “Senza titolo” di Jannis Kounellis va oltre la dissacrazione e la denuncia evocando  la morte senza rispetto e senza nome con una casacca nera sdrucita a terra su una portantina di ferro, con a lato alcune rose appassite, uno struggente monumento funebre misero e intenso non solo a Zucchetto pianto dal poeta ma forse allo stesso Pasolini, alla cui tragica fine  da solo nel posto più desolato e inospitale fa ripensare,  come le rose fanno sentire il calore dell’amore di tanti per lui.

Altre salette, altre poesie, altre opere d’arte. La visita continua,  ne parleremo prossimamente.

Info

Palazzo Incontro, Roma, via dei Prefetti, 22, dal 30 ottobre al 23 dicembre 2012,  da martedì a domenica ore 11,00-18,00,  entrata fino alle 17,30, lunedì chiuso. Ingresso gratuito. Tel.  Palazzo Incontro  06.97276614; “Teorema” 392.2984.600. Info@teoremacultura.com  –  http://www.teoremacultura.com/ Catalogo:  “PPP. Una Polemica inversa. Omaggio a Pier Paolo Pasolini”, a cura di Flavio Alivernini, Fandango libri, Roma  ott. 2012, pp. 126 euro 20,00.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra a Palazzo Incontro, si ringrazia la Provincia di Roma, “Teorema ” con Civita, Fandango e i titolari dei diritti, in particolare gli artisti, per l’opportunità offerta. In apertura, Zingaretti, alla sua sinistra Alivernini,  Borgna e Bonito Oliva; seguono le opere di Maurizio Savini, Pietro Ruffo e Jannis Kounellis.

 L’opera di Jannis Kounellis