Censis, La crisi economica del 2008 e la provincia italiana

di Romano Maria Levante

Nel “Diario dell’inverno di crisi” del 7 marzo 2009, a distanza di un mese dalle dichiarazioni del presidente De Rita che abbiamo riportato come nota di speranza a conclusione del nostro precedente articolo in materia, il Censis ha riproposto notazioni controcorrente rispetto al clima catastrofico.

Non vengono negate le evidenze macroeconomiche, anzi sono citati l’aumento di cinque volte della cassa integrazione rispetto al mese precedente per il calo dell’occupazione, la previsione della Banca d’Italia di diminuzione del Pil del 2,6% nel 2009, il crollo dei consumi, la caduta delle Borse.
Ma non se ne traggono conclusioni distruttive, anzi si afferma che “una lettura indistinta della situazione, come quella oggi più diffusa, rischia di suscitare un disorientamento generalizzato e controproducente ai fini di un’auspicabile reazione collettiva”.

La crisi non è generalizzata ma “a mosaico”

Quanto ora riportato nasce dalla constatazione che “per il momento la crisi si presenta ‘a mosaico’, è concentrata soprattutto in alcuni focolai, ci sono, cioè, settori produttivi, territori e categorie di soggetti più esposti e sotto pressione di altri”. Constatazione che accade di fare nella vita di tutti i giorni. Il Censis fornisce dei dati che misurano fenomeni verificati “de visu”: nella stagione invernale sono cresciute le presenze in montagna del 6%, a febbraio sono state ordinate 220 mila nuove auto, il 4% in più che nello stesso mese dello scorso anno, i risparmiatori sono aumentati del 9,3%, la raccolta bancaria ha superato i valori precedenti raggiungendo 1.784 miliardi di euro.

Vuol dire che la crisi è di entità contenuta? Certamente no, sono in gravi difficoltà i gruppi di rilevanti dimensioni: le grandi banche, con le pesanti ripercussioni sul finanziamento dell’economia, le grandi imprese che mettono in cassa integrazione i lavoratori diretti e in più travolgono l’indotto di produzione e di lavoro. Tengono ancora le piccole realtà imprenditoriali, ma non ci si deve illudere, perché se la crisi va avanti si potrebbe avere un effetto domino, una “compressione a catena”.

Ecco la spiegazione di De Rita: “Fino a poco tempo fa ci rimproveravano di essere poco europei, con un’economia basata su piccole imprese, ci accusavano di essere afflitti da un egoismo diffuso. Ebbene, questo policentrismo ci sta salvando, o perlomeno sta attenuando l’impatto della crisi”.

Si tratta di una visione inguaribilmente ottimistica, ben accetta dinanzi alle cattive notizie che giungono ogni giorno? Oppure è una visione altrettanto realistica, da un punto di osservazione diverso, che non va sottovalutata né tanto meno ignorata? Non dobbiamo attendere la risposta dagli eventi, perché la validità dell’approccio del Censis sta nelle indicazioni per rispondere alla crisi con interventi mirati; le azioni intraprese su scala generale, indotte dall’emergenza, non sono in grado di cogliere e valorizzare i punti di forza su cui far leva né di isolare i punti di debolezza da attaccare per rimuovere le cause negative che accentuano la crisi frenando le possibilità di ripresa.

Analizzeremo meglio il policentrismo “a mosaico” dopo aver richiamato l’effetto di appiattimento della globalizzazione, ad esso si deve se “il Paese non è allo sbando ma procede verso una razionale distribuzione dei rischi”.

Minacce e opportunità nella dimensione globale

Iniziamo col ricordare che la crisi non è nata dall’economia, che è la struttura, ma dalla finanza che è la sovrastruttura, e si è poi riversata sull’economia. Il tutto è avvenuto a livello globale, a partire dal “credit crunch” innescato da quel grande paese che sono gli Stati Uniti, e lo sono nel bene e nel male, tanto debordanti appaiono le dimensioni dei successi passati come dei fallimenti attuali. Si diceva “è un’americanata” quando qualcosa era spropositata, inusuale e improponibile al nostro livello; ora le americanate vengono da noi, ripetiamo nel bene e nel male, e quando lo sono nel male non piove ma diluvia, anzi arriva il diluvio universale, non c’è mare agitato ma maremoto, anzi lo tsunami finanziario, e ora anche economico e produttivo.

Perciò dobbiamo trovare isole a cui ancorarci, picchi su cui attestarci, aree difendibili in cui trincerarci. Non vi sono zone protette con la globalizzazione, c’è l’omologazione, ma ognuno vi porta caratteristiche e peculiarità che non vengono spianate se non nei fattori sovrastrutturali, e la finanza è tra questi, perché restano gli elementi identitari e differenziali da valorizzare.

La globalizzazione, dunque, ha causato la diffusione endemica per cui la crisi da americana è diventata internazionale, quindi nazionale. L’Italia ne è colpita in modo pesante, come pesanti sono le ripercussioni sul piano produttivo e occupazionale. Ma quando vogliamo misurare questa crisi non dobbiamo fermarci alle quotazioni azionarie che, con le dimensioni inusitate dei crolli su tutti i mercati, riflettono aspettative negative e comportamenti amplificati dal clima depressivo diffusosi a livello globale; oltre che da eclatanti episodi negativi, i fallimenti avvenuti o annunciati di grandi istituti bancari e assicurativi e di megaimprese di scala mondiale, in particolare in quel settore-arcipelago che è l’automobile.

Pur nella loro gravità non riflettono, tuttavia, un collasso generalizzato dei cosiddetti “fondamentali”, i fattori cioè che attengono alla tenuta del tessuto produttivo sul piano dell’efficienza e della competitività; altrimenti non si verificherebbero all’unisono per tutti i settori, i titoli, le piazze borsistiche. Anche perché i ripetuti crolli si associano a condizioni mai come adesso favorevoli per l’economia: tassi di interesse tendenti allo zero, inflazione praticamente scomparsa, costi delle materie prime e delle fonti di energia bassissimi, il petrolio costa meno di un terzo di un anno fa, e potremmo aggiungerne altri. E’ vero che i livelli “favorevoli” sono dovuti alla situazione gravemente “sfavorevole” dell’economia e della finanza, ma sussistono; e allora cosa manca per la ripresa produttiva se i fondamentali ci sono?

Manca la domanda di consumo, è la ovvia notazione, tanto che i paesi fanno il possibile per riavviarla. Ma a questo c’è il rimedio keynesiano del “deficit spending”, che ha consentito di superare le crisi congiunturali, pur se a costo di un aumento dell’indebitamento. Un “deficit spending” interno focalizzato su grandi interventi infrastrutturali, come fu la “Tennessee Valley Authority” nel New Deal della Grande depressione Usa; per noi si è parlato persino del Ponte sullo Stretto di Messina tra le altre grandi opere, si faranno davvero?

Ma il “deficit spending” si potrebbe adottare altresì a livello internazionale, con un piano Marshall per l’Africa, l’America Latina e le altre aree sottosviluppate dell’Asia e del pianeta. C’è un elemento nuovo che potrebbe favorire le iniziative in tali paesi: l’“Information Economy Report 2007-08” dell’Unctad, la Conferenza delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo, ha segnalato che negli ultimi tempi il “digital divide”, cioè il divario nelle tecnologie di comunicazione e informazione dei paesi sottosviluppati, si sta restringendo soprattutto grazie ai telefoni cellulari e alla disponibilità crescente di Internet, sebbene sia ancora modesta. Gli abbonati ai servizi di telefonia cellulare sono almeno triplicati negli ultimi cinque anni nei paesi in via di sviluppo e ora rappresentano circa il 58% del totale degli abbonati nel mondo: “In Africa, dove l’aumento in termini di numero di abbonati alla telefonia mobile e di penetrazione è stato il maggiore, questa tecnologia può migliorare la vita economica dell’intera popolazione”, si legge nel rapporto. Si afferma inoltre che “i cellulari sono il principale strumento di comunicazione per le piccole imprese nei paesi in via di sviluppo, riducendo i costi e aumentando la velocità delle transazioni”, perché “la telefonia mobile fornisce informazioni di mercato, e ne migliora il reddito, a varie comunità”.

Inserendo le aree arretrate nel circuito dello sviluppo si supererebbe l’incubo degli economisti classici, cioè lo “stato stazionario”, e non è detto che non si sia innestato nella crisi creata dalle dissennate follie finanziarie consentite dalla “deregulation” selvaggia sui mercati. Lo stato stazionario è la situazione che si crea nelle economie opulente con i consumi saturi, per cui l’aumento del reddito si lega al sempre più scarso aumento della popolazione e alla scoperta di nuove terre. Le nuove terre scoperte corrispondono alla conquista del West che diede avvio al miracolo americano; il nuovo Far West per l’economia globale saranno le vaste aree di povertà del pianeta, che potranno compensare i minori consumi delle aree opulente, incapaci di svilupparsi all’infinito.

Come finanziare un tale Piano Marshall? Alla Banca mondiale e al Fondo monetario internazionale non mancano gli strumenti, tanto più che la crisi finanziaria si può superare soltanto con misure reali in grado di collegare di nuovo finanza e moneta al lavoro e al reddito; dopo l’impazzimento dei derivati e dei “future”, degli “hedge funds” e dei titoli tossici con i quali ci si è illusi di produrre denaro attraverso denaro senza l’intermediazione del lavoro e della produzione. In questo la globalizzazione può essere un antidoto, come è stata causa dell’epidemia divenuta pandemia; in questo sono insostituibili le misure internazionali e nazionali e le decisioni a livello multilaterale che non dovranno più essere prese nel G8 ma nel G20 divenuto finalmente realtà.

Il ruolo dell’eccellenza nella dimensione territoriale

Se questo può essere un effetto positivo della globalizzazione a livello mondiale, sul piano nazionale c’è l’altra dimensione che si sta rivelando decisiva nella crisi: il “mosaico” a livello locale che consente di resistere, evitando il contagio e mobilitando le energie degli individui e della società.

E’ la dimensione territoriale individuata dal Censis, che si colloca tra quella nazionale della macroeconomia infettata dalla globalizzazione e quella privata della microeconomia troppo debole per resistere; le ultime due sono le uniche dimensioni nelle quali viene in genere misurata e letta l’economia, astraendosi dal fattore forse fondamentale, un’astrazione dannosa perché porta a misure generalizzate e non calate sulle specifiche realtà territoriali.

Afferma il Censis: “Il messaggio diffuso, che attraversa anche i media e le dichiarazioni istituzionali, è di grande apprensione per la congiuntura economica. Me è un messaggio che contiene, più o meno implicitamente, un invito al disimpegno, poiché sembrerebbe che nessun comportamento individuale possa modificare la situazione attuale, anzi proprio la modifica dei comportamenti potrebbe innescare una spirale di crisi ancora peggiore”. Invece “nel territorio risiede uno dei fattori caratterizzanti l’ultima vincente metamorfosi nazionale che, negli anni della modernizzazione industriale (gli ormai lontani anni 60 e 70) ha completamente mutato la struttura produttiva del paese, formato una nuova classe dirigente, ricostruito e dato coesione a un diverso sistema di aggregazioni sociali”.

Quali sono, dunque, gli elementi di punta di un territorio “eccellente”? La ristrutturazione produttiva, che sarà richiesta ancora di più per la crisi, dovrà far leva su realtà locali diverse dagli ambiti amministrativi; e il Censis ha identificato ampie regioni urbane dette “big cities” considerandole “potenziali fattori per una seconda decisiva metamorfosi della società italiana”.

Il territorio è un valore per lo sviluppo dell’“economia dell’accoglienza”, forse sottovalutato per l’enorme abbondanza di capitale territoriale che porta a trascurare realtà meritevoli di maggiore considerazione perché potenziali fattori di sviluppo. Si pensi al paesaggio e ai beni culturali che formano un tutt’uno se gestiti convenientemente insieme alle tradizioni, fattore trainante notevole. E’ vero che nel territorio, pur con la sua forte identità, non vanno trascurati i fattori di competitività interna ed internazionale; ma la sua valorizzazione deve essere il frutto di azioni che s’innestano su un terreno fertile e tanto più suscettibile di sviluppo quanto più viene dissodato e coltivato con cura. E qui le suscettività locali vanno potenziate ed esaltate.

Come valorizzarle? Innanzitutto dando ai poli territoriali una dimensione adeguata, promuovendo le complementarità e le convergenze in modo da creare fattori di concentrazione e reti di interconnessioni. Poi con un’organizzazione efficiente, che richiede l’adesione della comunità ai beni collettivi come cosa comune, unita all’azione per reperire le risorse necessarie, favorita da tale adesione. In questo va stimolata la formazione di una cultura collettiva che, basandosi sulle risorse esistenti sul piano delle preesistenze paesaggistiche e artistiche, ambientali e architettoniche, abbia la capacità di mobilitarne di nuove in vista di un ritorno economico non solo possibile, ma si può dire molto probabile sulla base delle esperienze vissute. Il federalismo fiscale potrebbe fare la differenza se orientato in direzione della crescita, con la drastica eliminazione di ogni spreco e inefficienza attraverso la responsabilizzazione nelle entrate, premessa di quella nelle spese.
Naturalmente la polarizzazione territoriale deve riguardare l’offerta qualificata, ma per la domanda occorre rivolgersi agli ambiti più vasti, nazionali e soprattutto internazionali, valorizzando specificità e identità come fattori competitivi e mai come elementi di esclusione e di arroccamento.

In questo quadro il campanilismo e gli egoismi locali, che hanno già rallentato l’unificazione del paese – il Censis ricorda che fummo definiti “pura espressione geografica” piuttosto che Nazione – possono compromettere l’azione da svolgere a livello territoriale per resistere alla crisi. Occorre invece avere strategie comuni che soddisfino o medino i diversi interessi e delle “leadership” di prestigio che possano svolgere un effetto trainante senza creare posizioni dominanti, perché inserite in un sistema che opera in modo corale.

L’ultimo requisito per la valorizzazione del territorio è il non essere monosettoriali ma sapere integrare diverse vocazioni, e in questo senso va orientata l’individuazione degli ambiti territoriali da promuovere.
Con le suddette condizioni si realizza l’“eccellenza”. Non è una previsione ma una constatazione, perché è il risultato della ricerca sul campo mediante la quale il Censis ha esplorato le aree che hanno saputo utilizzare tali ingredienti, le ha individuate e misurate con criteri e metodi appropriati.

I territori definiti di “eccellenza” sono quelli che “si preparano a reagire per primi alla crisi” e producono un quarto del Pil nazionale; comprendono 1759 comuni con circa 15 milioni di abitanti, ogni comprensorio raggruppa in media 13 comuni e 450 kmq di superficie, con circa 100.000 abitanti. Ne sono stati individuati 161, classificati per fasce, di essi 71 sono aree produttive, 65 aree di accoglienza e 25 poli dell’innovazione e della logistica.

I fattori identitari legati al territorio sono meno vulnerabili e rappresentano un ancoraggio rispetto agli elementi volatili della globalizzazione. Essi sono, sotto il profilo produttivo una produzione di qualità meno esposta ai prodotti globali, sotto il profilo dell’accoglienza il capitale culturale e paesaggistico come veicolo della produzione del reddito, sotto il profilo tecnologico la qualità innovativa.

Per l’“eccellenza produttiva”, in particolare, conta la riconoscibilità della vocazione settoriale, la capacità organizzativa della produzione, la proiezione esterna e soprattutto internazionale; per l’“eccellenza nell’accoglienza” l’esistenza di una politica di manutenzione e tutela del paesaggio e valorizzazione delle qualità ambientali, la presenza di iniziative pubbliche e private per le produzioni tipiche e la cultura locale, la diffusione di una cultura amministrativa e imprenditoriale volta a migliorare l’organizzazione e i servizi turistici, un livello adeguato di accessibilità del territorio; per l’“eccellenza tecnologica” l’essere realtà d’avanguardia aperte al contesto internazionale, cioè centri pubblici e privati per la ricerca scientifica e tecnologica e per la sanità di qualità, l’alta formazione nei settori innovativi, le attrezzature per l’attività fieristica e la logistica.

Sulla ubicazione di questi territori e sul loro grado di eccellenza le classifiche del Censis sono precise, illustrate da apposite cartine.
Per la produzione, dei 71 territori “eccellenti” 39 sono al Nord, 24 al Centro e solo 8 al Sud; per l’accoglienza, dei 65 territori selezionati 22 sono al Nord, 20 al Centro e 23 al Sud; per l’innovazione, 18 al Nord, 4 al Centro e 3 al Sud. Ci limitiamo a evidenziare che il Gran Sasso figura sia tra le aree di eccellenza nell’accoglienza, insieme al Parco nazionale d’Abruzzo, sia tra i luoghi di eccellenza nell’innovazione con i Laboratori. Nell’eccellenza produttiva l’Abruzzo è presente con la Val Vibrata a Teramo e Casoli a Chieti, inoltre con San Benedetto del Tronto e Ascoli Piceno riferite anche a Teramo.

Considerazioni conclusive sulla crisi

Rispetto alla crisi – osserva il Censis sulla base dell’indagine svolta tra il 22 gennaio e il 4 febbraio 2009 presso testimoni privilegiati nei territori – “nella gran parte delle realtà analizzate prevale presso gli attori locali la sensazione di essere di fronte ad una congiuntura negativa che si sta facendo sentire solo in termini di calo dei consumi. Non producendo significativi effetti sul tessuto produttivo e occupazionale locale”. E aggiunge: “A ben vedere, esiste presso i protagonisti del territorio una fiducia diffusa rispetto alle capacità di ripresa che nasce dalla consapevolezza di come il tessuto locale sia in definitiva sempre in grado di tirare fuori il meglio, anche nei momenti peggiori”.

Non che sottovalutino la crisi e il suo probabile aggravamento; ma hanno già definito con razionalità le spese da ridurre, e sono quelle non essenziali, per cui non la temono e si preparano a resistere senza reazioni scomposte. “Del resto – prosegue il Censis – guardando ai comportamenti che prevalgono quotidianamente, l’indagine ci parla più di un aggiustamento della capacità di spesa delle famiglie, che non di reazioni di fronte a situazioni emergenziali”; in altri termini, “comportamenti di carattere cautelativo, orientati ad un maggiore risparmio da parte delle famiglie, dall’altro maggiore razionalità ed equilibrio, tramite il ridimensionamento dei consumi e del tenore di vita”. E, ancora più esplicitamente: “La sensazione che emerge guardando i dati è che presso gli attori locali prevalga comunque la fiducia verso la capacità di risposta di un sistema locale, che poggia su basi solide, e che negli ultimi anni ha dato prova di sapersi adattare e muovere nei nuovi scenari globali, mostrando come la piccola dimensione sia per molti versi la più adatta a fronteggiare i cambiamenti repentini cui sono esposte le società odierne”.

In questo quadro, presentato a Mantova il 13 febbraio 2009, non sorprende la conclusione di De Rita basata sul più recente “Diario dell’inverno della crisi” dello scorso 7 marzo, citato all’inizio: “L’idea che gli italiani stiano danzando sul Titanic è sbagliata. Denotano invece una grande capacità di rispondere alla situazione avversa”. Nel loro “freddo pragmatismo” sono aiutati, oltre che dalla dimensione locale nella quale vi sono le isole territoriali di eccellenza, dalla loro tradizionale capacità di risparmio; per merito della quale, aggiungiamo noi, al record mondiale negativo dell’elevatissimo debito pubblico corrisponde quello positivo di un indebitamento privato delle famiglie molto contenuto.

Inoltre il tanto bistrattato familismo costituisce una protezione provvidenziale dalla endemica carenza di servizi, dal precariato diffuso e dagli insufficienti ammortizzatori sociali, deficienze che con la crisi rischiano di accentuarsi e senza la rete familiare potrebbero esplodere sul piano sociale.

Almeno per ora, dunque, teniamoci i “bamboccioni” e la residuale “famiglia patriarcale” di fatto. E impegniamoci, nei rispettivi ambiti territoriali, a valorizzare i fattori positivi per raggiungere o consolidare l’eccellenza. Affinché la terra dove viviamo, per l’azione che si riuscirà a svolgere sul piano individuale e collettivo, possa meritarsi l’appellativo coniato dal Censis: “Sua eccellenza il territorio”.