Alessandro Baricco, Eugenio Scalfari, Sergio Escobar e la cultura, al Teatro Eliseo

di Romano Maria Levante

Abbiamo seguito per voi il dibattito al Teatro Eliseo di Roma.

Una maggioranza di uomini di teatro passionali e rumorosi, una sorta di fossa dei leoni per Alessandro Baricco era la platea del Teatro Eliseo, a Roma, il pomeriggio del 25 marzo 2009. Con lui sul palco un Eugenio Scalfari in gran forma, Antonio Pilati dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato e uno scatenato Sergio Escobar, da vent’anni direttore del mitico Piccolo Teatro di Milano. Moderatore il padrone di casa Vincenzo Monaci presidente dell’Eliseo, che non si è fatto mancare qualche frecciata ad Escobar, immediatamente ricambiato. Il soggetto era stimolante: “Lo spettacolo è finito? Il futuro della cultura in Italia tra finanziamenti pubblici e iniziativa privata”, gli interpreti all’altezza, una vera “piece” teatrale dal vivo. Si attendevano scintille, e ci sono state tra gli uomini di teatro e Baricco; Scalfari ha riproposto pacatamente, ma con decisione, la propria tesi, mentre Escobar con la sua foga è riuscito a trascinare la platea.

Abbiamo potuto godere appieno dello stimolante incontro-dibattito, il terremoto non aveva ancora devastato la terra d’Abruzzo e i suoi giacimenti culturali, si poteva discutere dei modi migliori per finanziare e promuovere la cultura; ora l’emergenza è recuperare e salvare un patrimonio di valore inestimabile, fatto di chiese e monumenti, biblioteche e archivi, piccole abitazioni e palazzi, e del Teatro Stabile dell’Aquila diretto da Alessandro Gassman che, come Pamela Villoresi ha detto al Festival della spiritualità, ha fatto la storia del teatro italiano negli ultimi cinquant’anni, e alla cui rinascita gli artisti intendono partecipare fattivamente con il loro contributo e il loro sostegno. Per il resto, l’intero mondo della cultura si mobiliterà subito in questo immane compito, ne siano certi.

La tesi di Baricco

Esposta con tono sommesso, quasi una riflessione a voce alta, anzi sussurrata come è nel suo stile di affabulatore e fine dicitore, la sua linea di pensiero, di cui al lungo articolo su “Repubblica” del 24 febbraio 2009, è sembrata quasi ovvia, sul filo di un sillogismo. Perché è partito dalla constatazione che il sistema complessivo dell’uso del denaro pubblico a sostegno della cultura è in crisi, e ne ha potuto parlare come operatore culturale che lo conosce dall’interno; non è uno stato di sofferenza transitorio, quindi superabile, “il sistema non è più al passo dei tempi, vanno quindi trovate nuove strade per impiegare in modo più efficace le risorse”. Ma prima si devono capire le ragioni della crisi, il che vuol dire “misurarsi con i tempi nuovi e con le realtà che abbiamo sotto gli occhi e fingiamo di non vedere; in modo da individuare gli errori ed essere disponibili a correggerli entrando nella nuova dimensione dell’oggi”.

E allora è andato a vedere le origini dell’attuale sistema di sostegno e finanziamento pubblico, ed ha illustrato i tre principali obiettivi e le motivazioni che ne sono alla base. Il primo è stato l’esigenza di rompere il privilegio della cultura di una classe, la borghesia, perchè l’accesso fosse aperto a più vaste fasce di popolazione; negli anni ’50, in particolare, ci si dava da fare perché la cultura si diffondesse nel paese. Il secondo, la preoccupazione che il mercato ne abbassasse il livello, per cui era necessario un intervento pubblico a sostegno della qualità con finalità educative verso la popolazione. Il terzo, il desiderio di legittimarsi di una democrazia giovane, dando ai propri cittadini gli strumenti culturali per assumere le responsabilità e progredire sul piano della civiltà.

Una semplice verifica fa capire, secondo Baricco, che non sono stati raggiunti. L’allargamento dell’accesso alla cultura, se progressi sono stati fatti, non è dipeso dall’azione pubblica ma da fenomeni accaduti “nel campo aperto del mercato” e in “ambiti in cui il denaro pubblico è quasi assente”; l’obiettivo è stato mancato perché “chi oggi non accede alla vita culturale è raggiungibile soltanto attraverso due canali, la scuola e la televisione”, campi che invece vengono trascurati”. E’ stata creata l’anomalia di “sistemi di capacità minima dominati dal finanziamento pubblico che è diventato una sorta di proprietario unico, soprattutto nel teatro”. Le risorse dedicate alla cultura oltre che essere insufficienti sono indirizzate nella direzione sbagliata, quindi non sortiscono l’effetto sperato. E’ come se “inseguissimo i singoli quando si sono dispersi in mille direzioni”, invece di agire quando sono riuniti e pronti a recepire il messaggio. “Non c’è sintonia tra ciò che vogliamo e ciò che facciamo, e questo determina un notevole spreco di risorse”.

Ne deriva il fallimento degli altri due obiettivi, quello di un elevato livello qualitativo, impossibile senza concorrenza e per le scelte non certo qualificate della “filiera di intelligenze e saperi – così nell’articolo – che porta dal ministro competente giù fino al singolo direttore artistico passando per i vari assessori”; e l’obiettivo della crescita culturale dei cittadini come legittimazione democratica, molto fragile se si sono sviluppati fenomeni deteriori ed ha “ceduto la grandiosa diga”, è stata “aggirata la grandiosa cerchia di mura” che si credeva di aver creato con i soldi dei contribuenti.

Si deve pensare a un “paesaggio diverso” con strumenti più efficaci e strategie adeguate. “La battaglia per la cultura si deve combattere nelle scuole e in televisione”, dove vanno destinate le risorse perché il loro impiego risulti efficace, ha ribadito. Nello stesso tempo vanno rimosse quelle posizioni di rendita che poggiano sui finanziamenti pubblici, come avviene nel teatro in modo da farlo uscire dal suo immobilismo e metterlo sul mercato in sintonia con i tempi. “Al mercato va restituita la cultura, gli operatori privati possono fare molto dove la mano pubblica ha fallito”, ha concluso: e non ci si deve scandalizzare se si può fare business con la cultura, anzi si deve promuovere questo processo incanalando risorse pubbliche per incentivarlo.

La posizione di Scalfari

Laddove Baricco è stato didascalico e consequenziale, sviluppando un discorso fatto di premesse e conclusioni, Scalfari è stato apodittico e pragmatico. Ha precisato la risposta uscita su “Repubblica” del 27 febbraio 2009 mettendo sul piatto il peso della sua esperienza di operatore culturale nel senso imprenditoriale del termine. E’ partito dalla tiratura di 15.000 copie di “Il Mondo”, negli anni ’60, molto limitata anche se al giornale veniva riconosciuta una particolare autorevolezza; per estenderla si passò negli anni ’70 all’“Espresso”, che in fasi successive giunse a 250.000 copie, nel segno di un liberalismo di sinistra vicino al socialismo nel solco del partito d’azione. Molte cose cambiarono, la diffusione aumentò soprattutto con il nuovo formato più ridotto, quello attuale da settimanale rispetto al precedente da quotidiano. Ci furono conseguenze sui contenuti, sulla “forma del pensiero”: “Il pensiero è come l’acqua – ha detto – non ha forma, ma assume quella del contenuto”.

Il passo ulteriore fu “Repubblica”, completamente diversa dal settimanale, per acquirenti e “gesti d’acquisto”, la cui diffusione ha superato le 700.000 copie vendute. Si può vedere nell’escalation da 15.000 a 700.000 copie il passaggio da un’intelligenza di elite a un’intelligenza di massa? si è chiesto. Questa la sua risposta: nei confronti con la televisione si tratta pur sempre di piccoli numeri, se tutti i giornali non raggiungono il 35% della share televisivo, ma il linguaggio è diverso, rapidità e passaggio repentino da un tema all’altro nella Tv, con un effetto più effimero; il giornale invece può evidenziare la notizia con la grafica e il lettore può approfondirne la conoscenza riprendendolo in mano, riflettendo.

L’intelligenza di massa, secondo Scalfari, “non può essere vista come azione per portare tutti allo stesso livello, ma per fornire a tutti gli strumenti in grado di farli crescere”. Non è mai avvenuta neppure in passato una simile promozione, che va considerata velleitaria. C’era l’“agorà”, il teatro per una elite, il popolo era oppresso o schiavo. Una minoranza guidava la città anche quando la schiavitù fu abolita, e questo avvenne soltanto 200 anni fa. La massa non andava oltre la sussistenza, la lotta per la sopravvivenza prevaleva su tutto. Ma anche oggi che la situazione è radicalmente mutata “si può pensare all’intelligenza di massa soltanto con un’azione profonda di redistribuzione del reddito e della ricchezza a tutti i livelli”.

Finché non si saranno raggiunti risultati in questa direzione, ha aggiunto, dobbiamo salvaguardare il patrimonio culturale che ci è stato consegnato anche con mezzi artificiali, dato che non avviene in modo spontaneo; perché il teatro, ad esempio, non attira le masse, limitandoci ai tempi moderni ha 150-200 anni di storia recente, mentre per il cinema è diverso, ha solo sessant’anni di vita. Una rappresentazione teatrale come quella di “Ifigenia” va fatta vivere anche se attira poco pubblico – ha affermato con forza – “perché anche le minoranze hanno diritti che vanno tutelati”.

Si ha il diritto a quel tipo di spettacolo, che è autentica cultura, sebbene il privato non lo farebbe mai perché la scarsità di pubblico lo renderebbe antieconomico. Strehler faceva teatro con meno di 500 posti, dava Brecht anche se controcorrente e poteva farlo, per nostra fortuna, ha detto. Il necessario sostegno dei contributi statali non va visto come soggezione al potere pubblico ma come mezzo per assicurare il diritto delle minoranze alla cultura. E ha concluso, in modo un po’ sconsolato: “L’intelligenza di massa purtroppo si sviluppa anche con le cose scadenti, si spera che con gli anni o i secoli passi a un maggiore impegno”.

La puntualizzazione di Pilati dell’Antitrust e l’attacco di Escobar

Da Pilati, componente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, è venuta una puntualizzazione tecnica, quasi un “break”. I contributi pubblici non sono ammessi perché violano il principio di parità nella concorrenza ma si ricorre all’“escamotage” di ammettere delle deroghe, cioè eccezioni giustificate da esigenze superiori. La cultura fa scattare la deroga, ma l’eccezione non deve stravolgere il sistema di regole: si deve trattare di cultura in senso stretto e gli aiuti devono essere distribuiti in modo omogeneo nel settore, commisurati ad obiettivi chiari, precisi e verificabili.

“Nel teatro – ha precisato – questo spesso non avviene, mancano gli obiettivi e si viola il principio di parità tra i soggetti, cosa che preoccupa il Garante della concorrenza”. La conservazione del patrimonio culturale, giustamente propugnata da Scalfari, riguarda pochi casi, e i finanziamenti al cinema in crisi negli ultimi trent’anni hanno distorto il mercato perché, raggiunto il risultato economico prima di andare nelle sale, non ci si preoccupa di mettere in atto tutte le iniziative promozionali e di mercato. In gran parte le riflessioni di Baricco sull’inutilità dei finanziamenti al teatro, sempre per Pilati, nascono da fatto che “la formazione delle idee, piuttosto che nel teatro, prima è avvenuta attraverso il cinema, poi è passata alla televisione; la crescita culturale, per quanto c’è stata, si è avuta con il cinema e la televisione, non con il teatro”.

L’attacco di Sergio Escobar, con il carisma datogli dalla direzione ventennale del prestigioso Piccolo Teatro di Milano, parte da lontano: “Mi preoccupa tutto ciò che ricorda l’influenza sulla cultura e sul pensiero della gente”, Baricco ragiona per paradossi e quando si entra in quel labirinto è difficile uscirne: “Come si può parlare di libero mercato al quale sottoporre le attività culturali se si ammette comunque che sono necessari i finanziamenti pubblici? E poi oggi è proprio il libero mercato a battere alle porte dello Stato. Perfino i liberali, ormai, si sono rassegnati a un sempre più penetrante intervento pubblico nell’economia, e nella cultura non se ne può fare a meno”.

L’intenzione di Baricco è positiva e così la sua provocazione – aggiunge – anche se la sua posizione sembra “bizzarra”: “Perché invece del teatro non attacca i finanziamenti all’editoria alla quale vanno oltre 700 milioni di euro, il doppio di quanto va al teatro? Solo la Mondadori ha avuto 29 milioni di euro nel 2007 per le attività editoriali, a fronte dei 19 milioni ricevuti da tutti i Teatri Stabili pubblici”. Ma c’è di più: “Alla Rai vanno fondi pubblici otto volte di più del teatro”.

In Francia ben 6 miliardi di euro sono destinati alla cultura, dei quali 500 milioni al cinema, mentre all’editoria la metà di questa cifra; negli Usa non c’è università senza un teatro. In Italia si assiste ad una dispersione in mille rivoli, sono ben seicento i soggetti che vengono finanziati nello spettacolo.

Si avverte l’esigenza indifferibile di abolire i finanziamenti senza riferimento a obiettivi precisi e verificabili, come abbiamo richiesto finora invano – ha detto Escobar – precisando: “Dall’istituzione del Fondo unico per lo spettacolo, nel 1984, chiediamo alla politica, ai governi, persone in carne ed ossa, di assumersi la responsabilità di finalizzare quei contributi e quel sostegno. Non si è fatto niente perché in venticinque anni sono cambiati quindici ministri, messi lì per punizione”.
Su questa base si è lanciato in una forte requisitoria contro gli errori e gli abusi, le assurdità e le irregolarità: per superare tutto ciò si dovrebbe voltare pagina e destinare i finanziamenti a chi fa veramente cultura realizzando gli obiettivi fissati. Il teatro è la sede culturale per eccellenza.

Poi la breve replica di Baricco. Cita una serie di anomalie nei finanziamenti pubblici alla cultura, in particolare ai Teatri Stabili. La sala si anima, un teatrante sfoga nel microfono la sua rabbia con un lungo monologo. Ma il tempo disponibile si è esaurito, il pubblico lascia la platea dell’Eliseo, il teatro si riappropria del suo spazio magico. Sta per andare in scena l’“Amleto” di Shakespeare…

Le altre posizioni nel dibattito sulla stampa

La discussione pubblica al Teatro Eliseo non ha esaurito il dibattito sulle questioni sollevate da Baricco, che si è svolto sulla carta stampata con l’intervento di molti protagonisti dello spettacolo.

Ne facciamo una rapida rassegna iniziando con la dura replica di Vincenzo Cerami, già ministro ombra per la cultura del Partito Democratico: “Ciò che lui auspica si sta già verificando. Lo Stato…ha già messo in ginocchio, con il taglio al Fondo unico dello spettacolo, la musica, il teatro, la danza, il cinema… già più di 400 teatri sono stati chiusi, e con loro molti centri di prestigio in tutti i settori della cultura, dagli istituti musicali ai Conservatori, alle biblioteche, alle piccole e medie aziende che lavorano nel settore”. Mentre nei principali paesi europei sono messe a disposizione della cultura risorse pubbliche “tre-quattro volte” più che da noi.

Per Cerami va respinta l’idea di aprire ai privati, “non c’è corsa a investire nella cultura, come lui crede. Scuole, università, teatri, musei, biblioteche, archivi non si guadagnano da vivere. Per compiere la loro missione civile, per aiutare, devono essere aiutati”. Però aggiunge che “esistono sprechi e che il denaro viene distribuito male”, e nel ritenere necessari gli aiuti pubblici “non mi riferisco a sovvenzionamenti a pioggia o discrezionali, ma a risorse da investire con oculatezza e spirito imprenditoriale”; “il futuro della nostra cultura deve entrare, al pari delle altre emergenze nazionali, nel ciclo delle grandi riforme che il paese aspetta e di cui si avverte un forte e urgente bisogno”. Sembra non contestare la diagnosi di Baricco sull’esigenza di rivedere il sistema, ma prende le distanze dall’idea di togliere l’aiuto pubblico al teatro per darlo a scuola e televisione.

L’editore Laterza ha difeso l’aiuto al teatro e alle altre forme di cultura che non potrebbero reggersi altrimenti, evidenziando “il ritorno per la collettività di una manifestazione culturale, che si aggiunge a elementi immateriali come il pluralismo delle idee, il senso della comunità, l’identità e la promozione del territorio”. Neppure lui è per il mantenimento dello “status quo”, e afferma che “per dare al teatro (come alla lirica o alla danza) un sostegno efficace, serve una discussione seria sul quanto e soprattutto sul come, con quali criteri e quali controlli. E non è affatto detto che la prova del mercato sia incompatibile con un ragionevole aiuto pubblico, ad esempio nella fase iniziale di un’attività”.

Gigi Proietti ribadisce la richiesta di una discussione su come rivedere il sistema: “Il teatro da solo non può farcela. La gestione dei teatri ha costi enormi. Ma parliamone. Baricco, apriamo un dibattito non dico con tre B ma almeno con una”.
Anche un uomo di teatro come Luca Barbareschi, pur se molto critico della tesi di Baricco, ammette che occorre cambiare: “Il sistema dello spettacolo in Italia non va rotto, come dice lui, va risistemato come in Francia, Germania, Inghilterra, ora perfino in America: l’intervento dello Stato ci vuole. Chi deve andar via è la politica che ha egemonizzato poltrone, denari, tutto”.

E il presidente dell’Eti Giuseppe Ferrazza: “Su alcuni punti mi trovo d’accordo con Baricco. Sono convinto che la diffusione della cultura deve essere a largo raggio”. Ma aggiunge: “Non sono d’accordo però a lasciare tutto in mano al mercato, non è possibile perché ci sono delle tipologie di teatro che vanno protette”; quelle – aggiungiamo – che Scalfari identifica in “Ifigenia” rivendicando come minoranza il diritto alla loro salvaguardia anche se alla maggioranza non interessano.

Per l’Agis, il presidente Alberto Francescone ha avanzato una richiesta: “Bisogna fare una riforma del settore ormai necessaria, ma prima vogliamo il ripristino del Fus ai livelli minimi del 2008.

Il presidente dell’Associazione imprese teatrali di produzione aderente all’Agis, Roberto Toni, è esplicito: “Per lo spettacolo l’equilibrio tra costi e ricavi non è quasi mai possibile, né qui ne altrove, lo sa bene Baricco”. E pone la domanda retorica: “La questione è: lo spettacolo è elemento fondante della cultura di un paese e della sua crescita civile? Se sì, lo Stato se ne faccia carico ridisegnando il sistema, selezionando i soggetti, definendo criteri e regole per investimenti mirati. Noi che il teatro facciamo, da qualche decennio, questo chiediamo con insistenza e non da oggi”, in linea con quanto dichiarato da Escobar alla stampa e ribadito nel dibattito all’Eliseo.

Dario Fo, con la sua autorità di Premio Nobel per la letteratura e uomo di teatro afferma: “Ci vogliono regole trasparenti, per rispetto anche del pubblico. Ma sul finanziamento non si discute: anzi in Italia la percentuale del Pil alla cultura è dieci volte inferiore alla media europea”.

Gabriele Lavia è molto aspro: Tuonare contro il sistema teatrale italiano… mi sembra come assestare il colpo di grazia ad una creatura agonizzante, che ha tanto bisogno di vivere”.

Ancora più aspro Nicola Piovani: “Una sciocchezza così non l’avevo mai sentita”, mentre Franca Valeri ironizza: “Che idea scherzosa!”

Severo il giudizio del regista Maurizio Scaparro: “Le premesse e le considerazioni di Baricco sono condivisibili, ma le conclusioni sono invece pericolose e forse devastanti. Per il teatro e non solo”.

Per Carlo Giuffrè “senza finanziamenti mancherebbe il pane”, mentre Paolo Poli commenta serafico: “Baricco dice quello che vuole e noi continuiamo a lavorare. Ho visto passare tante stagioni, buone o cattive. Spero di resistere anche a questa.

Un’adesione a Baricco viene da Riccardo Muti, che da sempre si batte per molti punti da lui sollevati: “In particolare la centralità della scuola fin dalla tenera età, il potenziamento dei programmi formativi che attraverso la televisione sono in grado di raggiungere anche le persone più lontane e isolate, e la formazione di giovani musicisti, sono tutti ambiti dove è necessario il sostegno delle istituzioni pubbliche. Così come ci vorrebbero più risorse private perché potrebbero ridare nuova linfa ad un mondo che ha davvero bisogno di una vera ‘rivoluzione mentale’.”

Salvatore Accardo entra ancora di più nello specifico musicale: “Baricco scrive giusto quando parla di dare soldi alle scuole: la musica va imparata e insegnata fin dai banchi di scuola. E’ vero che ci sono sprechi nei teatri con le loro produzioni faraoniche ma non è così, per esempio, per la musica da camera e le istituzioni concertistiche che andrebbero sostenute dallo Stato”.
Sul versante del cinema Paolo Sorrentino regista di “Il Divo” – film di qualità che non si sarebbe realizzato senza il contributo pubblico – ha affermato: “Concordo con Baricco quando dice che vanno cambiati gli obiettivi culturali per sostenere scuola e Tv. Ma devono cambiare anche le regole di questo sostegno, liberarlo dalla politica”.

Franco Zeffirelli interviene polemicamente: ”Bisogna finirla con queste elemosine di Stato ai teatri. Servono decisioni radicali… Negli Stati Uniti o in Inghilterra lo Stato non si occupa della cultura, che è gestita solo dai privati.. L’idea che il teatro e la cultura debbano essere gestiti dal privato e non dai governi io l’ho nel cuore da decenni… Misurarsi col mercato spingerebbe le varie sovrintendenze a fare spettacoli di successo…Per i teatri di prosa si può pensare a un supporto pubblico” anche se “chi decide se un testo vale la pena di finanziarlo o no? Gli assessori? E’ difficile…”. Poi cita l’esempio di successo del Metropolitan di New York: “Fornisce un servizio costante, non costa niente allo Stato e produce cultura eccome”.

Alcune considerazioni a margine del dibattito

Ci sembra che nessuna delle posizioni che abbiamo riportato difenda il sistema attuale, mentre molte respingono il proposito di eliminare i finanziamenti pubblici dalle varie forme di spettacolo, in primo luogo il teatro, per spostarli su scuola e televisione, lasciando operare il mercato e l’iniziativa privata. La diagnosi viene sottoscritta da tutti, nella terapia Baricco resta isolato, anche se Zeffirelli è dalla sua parte, pur se da una posizione del tutto autonoma: “Lo dico da decenni”.

Ma se è così vale la replica di Baricco affidata a “Repubblica”del 4 marzo 2009: “In qualsiasi sistema bloccato, che ha fissato le sue regole e tracciato dei confini, quel sistema è l’unica possibilità: tutto il resto è sogno”. E ancora più esplicitamente entrando nello specifico: “Fare il teatro lirico in un modo diverso da quello usato dallo Stato attualmente è impossibile fino a quando lo Stato farà il teatro lirico in quel modo con la scusa che in altri modi è impossibile”. Segue un altro esempio: “Nessuno può fare meglio dei Teatri Stabili in un mondo con i Teatri Stabili: ma nessuno può dire che questo sarebbe impossibile in un mondo senza Teatri Stabili”.

Osserviamo che una simile constatazione si può fare per altre fonti di spesa, tutte quelle che hanno una loro inerzia e si autoalimentano perdendo il riferimento non soltanto agli obiettivi, come denunciato da più voci, ma spesso anche alla ragion d’essere. In effetti, per rifondare il sistema, volendo mantenere i necessari contributi pubblici, non ci si può limitare a ridurre e spostare marginalmente le attuali sovvenzioni mantenendo il loro carattere “a pioggia”, ma si deve ripartire da zero. Come avveniva con il cosiddetto “zero base budget” che fu introdotto nel bilancio federale Usa dal presidente Carter. Sarebbe inutile effettuare tagli continuando a finanziare realtà compromesse, occorre azzerare tutto e ricostituire il sistema ex novo, con finanziamenti congrui conferiti secondo il “ranking”, una graduatoria basata sulla qualità dei programmi, finché la “cut off line” segna l’esaurimento delle risorse e l’esclusione di quelli di livello inferiore ai prescelti.

L’efficacia sarebbe garantita dalla riduzione drastica dei soggetti percettori e dal sostegno delle forme veramente efficaci di promozione culturale con verifica del raggiungimento degli obiettivi; perché anche per i finanziamenti degli anni successivi opererebbe lo “zero base budget” con il “ranking” e la “cut off line”, quindi gli esclusi potrebbero rifarsi, in una competizione che è garanzia di qualità. Per risolvere il problema di chi valuta i programmi e fa la graduatoria, aspetto determinante per l’efficacia del sistema – non certo gli “assessori” giustamente temuti da Zeffirelli come da Baricco – si potrebbe ricorrere a commissioni con dei garanti di livello internazionale.

Ma a parte questa proposta venuta a noi per associazione di idee con le tecniche di bilancio, ci chiediamo come mai Baricco, che identifica nella televisione il campo su cui concentrare le risorse perché lì si svolge la battaglia per la diffusione della cultura, essendo la comunicazione per eccellenza cui tutti hanno accesso, non la include tra i settori da sottoporre a una radicale revisione, quella dei due suoi esempi appena citati? Perché si fanno le bucce al teatro per evidenziare sprechi, inefficienze e mancato rispetto degli obiettivi culturali impliciti nei finanziamenti pubblici che riceve, e non le si fanno alla televisione, o meglio a quella parte della Tv, la Rai, che riceve un cospicuo finanziamento pubblico per svolgere un’opera di elevazione culturale? Quando è questa la legittimazione data dalla Corte costituzionale alla devoluzione ad essa del canone perché “diversa” dalle Tv commerciali a ragione dell’impegno culturale, canone che i cittadini sono obbligati a pagare come imposta? All’Eliseo il solo Escobar ha evocato il problema della Rai, l’“ombra di Banquo” del dibattito anche se l’“Amleto” e non il “Macbeth” è andato in scena subito dopo.

Ancora più espressamente ne ha parlato Giovanna Melandri, da poco responsabile per la cultura del Partito Democratico, che per questo citiamo in chiusura dopo aver aperto la rassegna delle posizioni con il precedente ministro ombra di tale partito, Cerami. Secondo la Melandri, la diagnosi di Baricco è corretta, non solo per le critiche al sistema su cui tanti hanno convenuto, ma anche perché “è nella scuola e davanti alla Tv che si forma la cittadinanza culturale, il pubblico”, ma la cura è sbagliata in quanto “colpisce il bersaglio sbagliato”. E prosegue: “Mi spiego: la scuola ha subito un taglio di 8 miliardi di risorse, quest’anno, in Tv abbiamo 1,5 miliardi di canone, che legittima il servizio pubblico, una tassa di scopo, quindi il bersaglio della critica di Baricco doveva essere la Gelmini e la Tv pubblica, la più grande industria culturale italiana che abbiamo trascurato nella sua totalità, concentrandoci solo su informazione e par condicio, quando non sappiamo cosa sia… devi leggere ai bordi dello schermo per capire se è Rai o Mediaset. E invece Baricco se l’è presa con il Fus, che con i suoi 360 milioni di euro aiuta, da solo, tutto il mondo della produzione culturale italiana”.

In questa conclusione della Melandri sentiamo riecheggiare le parole di Escobar all’Eliseo sull’enormità dei fondi alla Rai rispetto al teatro,il solo spettacolo colto con attori vivi e presenti senza mediazioni artificiali. Così ne ha parlato il grande coreografo del “teatro totale”, Micha Van Hoecke, alla presentazione del Festival della spiritualità ricordato all’inizio: “Se vado in chiesa è per cercare Dio, avere un rapporto con la divinità; se vado in teatro non c’è una luce che entra dall’esterno come in chiesa, le luci si abbassano, c’è qualcosa che parla alla mia coscienza, c’è un che di magico, sono seduto e devo viaggiare. Cos’è il senso di spiritualità che c’è nel teatro? Sono le persone che lo fanno vivere. C’è un’anima per queste serate”. Poi lo ha preso la commozione fino alle lacrime. Questo è il teatro da sostenere, la sua umanità e la sua spiritualità; la sua cultura.

E allora non possiamo non riproporre, scusandoci dell’autocitazione, quanto abbiamo prospettato di recente in questa Rivista su “La Rai, un servizio pubblico da rivedere”, portando la linea di Baricco alle logiche conseguenze sulla televisione, che resta l’elemento centrale della sua tesi. Il “ranking” dello “zero base budget” andrebbe applicato pure al palinsesto Rai, e la “cut off line” potrebbe davvero escluderne gran parte, così si renderebbero disponibili per la cultura nuove ingenti risorse!
Il nostro articolo appena citato lo abbiamo dato a Baricco sul palcoscenico dell’Eliseo, parlandogliene brevemente. Ci ha detto con un sorriso cortese: “Lo leggerò”. Restiamo in attesa.

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