Antichi Telai: i tessuti d’arte tra eternità e storia

di Romano Maria Levante

  • 3 luglio 2009

Preziosi parati, paramenti sacri e paliotti di sconvolgente bellezza in mostra a Roma.

Può avvenire di passare dal sacro al profano, ci capitò visitando in successione la mostra di Bellini con le splendide Madonne e poi quella di Picasso con i visi asimmetrici del cubismo, come i lettori ricorderanno. Questa volta abbiamo fatto il percorso inverso, dal profano al sacro visitando a Roma in sequenza la mostra “Gioielli” di Bulgari al Palazzo delle Esposizioni in via Nazionale e quella “Antichi Telai” con i tessuti d’arte del patrimonio del Fondo Edifici di Culto del Ministero dell’Interno al Palazzo Ruspoli al Corso, presso la Fondazione Memmo, aperta dal 13 maggio al 26 luglio 2009. Soltanto della seconda intendiamo parlare, ma non prima di aver espresso le sensazioni istintive che abbiamo provato.

Ebbene, non ce ne voglia il rinomato gioielliere, ma i gioielli non siamo riusciti a vederli, per quanto ci fossimo sforzati, “tra eternità e storia” come nell’ambizioso sottotitolo della sua mostra. Personaggi di cronaca sono stati Liz Taylor con Richard Burton ed Eddy Fisher in una gara vinta dal primo con una favolosa “parure” di smeraldi, esposta in una vetrina delle meraviglie; così Soraya con le sue spille preziose e una inedita Anna Magnani, la popolana del neorealismo che indossa una sfavillante “parure” di rubini e altre ancora esposte ed evocate nei filmati. Una cronaca che aspira a diventare storia anche con le figure ingioiellate delle feste mondane. “Tra cronaca e storia”, quindi, si potrebbe ribattezzare la mostra di Bulgari, dove c’è anche una “sancta sanctorum” blindata con i “campioni” di ieri e di oggi, lo zaffiro gigante e la collana più sfarzosa.

Mentre, con altrettanta presunzione, suggeriamo di attribuire quel sottotitolo alla mostra “Antichi Telai”. Tra i paramenti sacri e i paliotti d’altare, le statue vestite e la processione con le preziose stole artisticamente lavorate abbiamo sentito il soffio dell’eternità e nello stesso tempo il respiro della storia. Perché le opere esposte, veri capolavori d’arte, sono state al centro delle celebrazioni liturgiche ed hanno attraversato i secoli, hanno visto troni e dominazioni. Sempre sotto lo sguardo rapito dei fedeli, che nei tessuti preziosi e negli ornati raffinati, nei disegni evocativi dei fatti evangelici e nelle fruscianti vesti talari sentivano l’eternità calarsi nella loro storia civile e umana.

Le sorprendenti scoperte della Mostra

E’ un merito straordinario quello di suscitare una simile emozione, ma non è l’unico. Ce n’è un altro che attiene alla ragione più che ai sentimenti, e riguarda la scoperta di un mondo nuovo, costituito dai 700 Edifici di culto affidati alle cure dell’apposita struttura del Ministero dell’Interno. Un mondo, che anche al di fuori della suggestione della fede, viene così definito da Giulia Silvia Ghia, storica dell’arte che, con Rosalia Lilly D’Amico, ha ideato la mostra: “Paliotti, parati, mitre, piviali, pianete, dalmatiche esposti in questa occasione sono in realtà dei microcosmi di espressione del gusto, della moda, del rito, del prestigio dei committenti, siano essi laici o ecclesiastici”.

Il microcosmo si apre su un universo dove convergono tutte le arti con lo straordinario fascino esercitato dalla natura dei luoghi di culto che dà alla loro bellezza qualcosa in più, molto di più, perché la fede scava nella profondità dell’anima anche nei non credenti, rimanda ai misteri dell’esistenza e alla funzione consolatoria sugli spiriti semplici come alle speculazioni più profonde dei sapienti teologi. E tutto in quegli ambienti, al cospetto di quei dipinti, sotto quelle statue, con quegli arredi, immersi in quei rituali nei quali i paramenti erano scelti accuratamente e utilizzati come componente essenziale della liturgia sacra. Perché, citiamo ancora la Ghia, “l’abito e l’apparato per il clero erano e sono espressione del sacro e della devozione popolare”.

Forse il Ministero non si è reso conto della responsabilità che si assume nel rivelare tutto questo. Perché dovrà esserci ora da parte sua un impegno all’altezza delle aspettative suscitate. E sono tante, attengono ai tesori d’arte tessile esposti meritoriamente nella Mostra e anche agli innumerevoli altri tesori che dovranno essere valorizzati con una cura altrettanto colta e attenta di quella profusa nelle sale di esposizione e nella documentazione storica e artistica a corredo.

Nel moderno concetto di “attività” culturali, che si affianca a quello tradizionale limitato ai “beni”, iniziative come quella che ha portato alla Mostra svolgono un ruolo centrale nel dare vitalità ai “giacimenti” stabili e fermi, i quali senza un’adeguata promozione e “circolazione” resterebbero inerti e sfuggirebbero a quel fondamentale lavoro di restauro che le iniziative riescono ad attivare.

Ne dà conto il prezioso Catalogo del Dipartimento per le Libertà Civili e per l’Immigrazione, che come la Mostra e il Comitato tecnico è stato coordinato dal Vice Prefetto Giuseppe Mario Scalia capo dell’Ufficio pianificazione nell’amministrazione del Fondo Edifici di culto, al quale rivolgiamo direttamente l’appello appena lanciato per l’attività futura, impegnandoci fin da ora, per parte nostra, a seguirla con la stessa passione e lo stesso entusiasmo che stiamo provando in questo momento.

C’è passione ed entusiasmo nella scoperta dell’universo degli Edifici di culto ma anche, abbiamo detto, del microcosmo dei Tessuti d’arte antichi. E qui, tornando all’intitolazione della Mostra, forse per noi una fissa, ci colpisce il riferimento ai Telai e non ai Tessuti: si evoca così il lavoro da artigianato artistico dietro queste realizzazioni, lo strumento dell’orditura e della tessitura sul quale si sono posate tante mani depositarie di un’arte antica, che affonda nelle tradizioni popolari alle quali la fede ha sempre chiesto il massimo di impegno e dedizione, ottenendo così dei capolavori.

Nella scoperta del microcosmo dei tessuti d’arte il Catalogo fa ripercorrere l’itinerario della Mostra, nata quasi per caso dopo alcune ricognizioni mosse da intenti diversi; e fa rivivere le scene intense dell’apertura degli armadi, il ritrovamento dei parati e degli arredi, la verifica dello stato di conservazione per gli eventuali interventi di restauro. Un’opera da ritrovamenti archeologici di elementi inventariati “ab antiquo”, che evoca immagini suggestive e misteriose, da “Codice da Vinci” e da “In nome della rosa”, per citare le più note incursioni letterarie in quel mondo segreto.

Valore e suggestione dei tessuti d’arte

Ha ragione il ministro dell’Interno Roberto Maroni quando scrive che “questa opera, per sua particolare vocazione – in quanto realizzata di trame e orditi – non soltanto è da leggere e sfogliare, ma da vivere come esperienza tattile”, quasi per sentire con le dita la rugosità della tela e il fruscio della seta, la delicatezza del ricamo e la rotondità dei piccoli coralli a comporre profondità arcane.

Per questo Rossella Vodret, Soprindentente dei Beni storico-artistici del Lazio,afferma: “I tessuti, per la tecnica esecutiva, per la preziosità della materia e, soprattutto, per il loro apparato decorativo, rappresentano un campo d’indagine privilegiato per gli storici dell’arte”. Noi non siamo tali, ma la scoperta di questo mondo così intrigante per tutto quanto evoca in tema di storia e di fede ci fa diventare ricercatori, assetati di conoscere le vicende che traspaiono da questi testimoni muti.

Il loro valore estetico, comunque, è facilmente percepibile: “Il pregio degli apparati ricamati con fili d’oro e d’argento – scrive Nicoletta D’Arbitrio Ziviello, docente di restauro dei tessuti alle Belle arti di Napoli – è riconosciuto anche dai meno esperti. Più difficile da comprendere è l’alto valore dei tessuti broccati considerati, a torto, opere seriali, in realtà testimoni delle importanti innovazioni tecniche – frutto d’invenzioni – che furono sperimentate e introdotte, dalla fine del Seicento fino ai primi decenni dell’Ottocento, per la lavorazione dei prototipi, sia di filati, sia di tessuti”. E non finisce qui: “Per questi motivi i tessuti concepiti tra il 1695 e il 1730, sono da considerare preziose e uniche testimonianze dell’arte tessile da tutelare come elementi indispensabili per ricostruire il percorso stilistico dell’arte tessile in Italia”.

Un altro mondo che si apre alla conoscenza, quello delle invenzioni e innovazioni tecniche, a dimostrazione dell’effetto domino che la cultura produce in positivo quando c’è un innesco di valore, come la Mostra che ci accingiamo a visitare. Ma non occorre lo spirito di Ulisse per interessarsi a tutto questo, che il Catalogo rende egregiamente riportando la preziosità anche in filigrana, e sfogliandolo si ha proprio l’impressione, come ha detto il Ministro, di “vivere come esperienza tattile”, nella sua accezione sensoriale, un’arte, come quella tessile, che “rappresenta sicuramente un valore importante nelle eccellenze prodotte in Italia nel corso della sua storia”.

Ma dai massimi sistemi ci piace tornare con i piedi sulla terra, anche se è difficile quando si evoca la fede. E lo facciamo avendo scolpite dentro di noi queste parole della D’Arbitrio Ziviello: “L’organizzazione della mostra, nelle indispensabili fasi di ricerca e di scelta dei manufatti da esporre, ha reso possibile compiere una vasta esplorazione nei luoghi dove i tessuti sono conservati, analizzare da vicino le peculiarità delle singole opere, verificarne le condizioni conservative per procedere al recupero di alcune di esse”. Potrà sembrare ovvio, per noi non è così, perché ci accingiamo a visitare la mostra con lo stesso spirito di ricerca, di conservazione, di recupero.

Gli ornati preziosi dei ricamatori artistici di Napoli

Il nostro viaggio tra l’eternità della fede e la storia civile inizia da Napoli, perché alle opere d’arte dei ricamatori partenopei è dedicata la prima sala della Mostra. Sin nei tempi remoti troviamo “frammenti di tele di lino, di sottili veli di seta e di oro, provenienti dalle antiche città di Cuma, di Pompei e di Ercolano, conservati oggi nel Museo Archeologico di Napoli”, scrive la D’Arbitrio Zanelli. Ma i primi tessuti che incontriamo sono dell’ultimo quarto del XVII secolo e provengono dalla Basilica di San Domenico Maggiore. Ne vanno ricordati i precedenti, come si fa per le opere letterarie e pittoriche, di scultura e architettura; per l’arte, insomma, che si nutre di storia e ne è essa stessa artefice. Della storia sentiamo il brivido appena ritroviamo nomi familiari quanto famosi.

In questa basilica prestigiosa, posta nel centro storico della città, furono sepolti oltre agli esponenti delle famiglie nobiliari alle quali sono dedicate le cappelle gentilizie, anche i sovrani aragonesi e gli alti dignitari della corte del Viceré; esposti vicino alla Sagrestia, nella Sala del Tesoro, si trovano i preziosi abiti di damasco dei sovrani, restaurati tra il 1998 e il 2000. Furono proprio loro, in particolare Ferrante d’Aragona incoronato nel 1459, a promuovere l’arte tessile, nel commercio e nella produzione, chiamando alla Corte di Napoli “maestri drappieri di chiara fama”, tra i primi il veneziano Marino di Cataponte, per introdurvi, come ricorda la docente appena citata riportando un documento del 1465, “drappi d’oro o damaschi et broccati, velluti figurati, viridi et neri” e lavorare “carmosino figurato, perché questa tinta non è di questa terra et bisogna tempo per venir da Ragosa, o di Venezia”.

Seguirono altre convenzioni con “maestri appareggiatori dell’arte della seta”: Francesco de Nerone nel 1973, per “l’arte dell’oro e della seta de omne sorte”, Pietro di Cavursio di Genova nel 1475 per fare a Napoli ogni anno “da cinque a cinquanta pezze di seta” portandovi “dodici lavoranti”; nel 1477 ci fu poi un bando del sovrano che istituì la “Corporazione dell’Arte della Seta”con sede nella Chiesa di San Filippo e Giacomo e patrono San Giorgio.

Di qui inizia un processo che impegna le più importanti famiglie nobiliari nel ciclo della seta, con la coltivazione di “celsi, e mori e bianchi, utili per alimentare i bombici della seta”, e nel promuoverne l’impiego nella produzione di panni decorati come quelli con “Le Storie e le Virtù” di San Tommaso d’Aquino voluti dalla discendente Giovanna d’Aquino che nel 1669 incaricò trenta ricamatori napoletani di realizzarli con le sete raffinate prodotte dai suoi feudi. Furono completati nel 1685 e donati alla chiesa nel 1799 da Vincenza Maria d’Aquino rimasta senza eredi, ed utilizzati per “parare” nelle ricorrenze le pareti, in particolare la Cella e il Dormitorio del Santo.

Ed ecco dinanzi a noi il grande parato (quasi m 3 x 2) in seta su tela di lino “San Tommaso compone il Corpus Domini”, il Santo seduto a un tavolino che scrive in una stanza con uno scaffale di libri, un quadro, un frate che entra, una colomba bianca. Ambiente semplice e raccolto al contrario dei due parati delle Virtù, “La Benevolenza” e “L’Umiltà”, ancora più grandi (quasi m 4 x 2,5), dove la figura del Santo è collocata al centro in posa statuaria in ambiente barocco circondato da una tempesta di motivi floreali librati nell’aria su veli sottili.

Seguono altre opere dei ricamatori napoletani provenienti dalla stessa basilica, due parati liturgici da indossare, un lungo “Piviale”(oltre m 3 x 1,50) con grossi ricami di sete policrome e in fili d’oro che compongono motivi floreali; .una più piccola “Tonacella” dello stesso tipo con la caratteristica che tra i fiori spicca il tulipano, per alcuni simbolo del lusso e della vanità, forse come “memento”.

Non ci si è ripresi dalla meraviglia che si presentano alla vista i “panni ricamati” della Chiesa del Gesù delle Monache, con le immagini di S, Bernardino da Siena e S. Antonio da Padova: dei veri bassorilievi (di m 1 x 1) con filati e colori diversi e le parti in rilievo di oro filato: i Santi sono immersi in un ambiente reale, con case e acque, flora e fauna, un effetto pittorico inconsueto di grande suggestione. Un bassorilievo del tutto diverso, su velluto di seta cremisi, è quello del “Paliotto dell’altare maggiore” con due angeli-putti in una composizione di tralci stilizzati.

Subito dopo c’è l’incontro emozionante con il Monastero di Santa Chiara, che evoca la celeberrima melodia: un grande parato sul “Giudizio di Salomone”, opera d’autore firmata “Ignazio Mirabile F. 1709” ricca di figure arcadiche di colore pastello disegnate con leggerezza e il sovrano al centro nella posa pensosa del giudicante; tre “Pianete”, una di broccato blu con ricami bianchi e oro di motivi architettonici, la seconda di raso perla con ricami in sete policrome e oro di ricche fantasie floreali, la terza di broccato rosso con contrasti di blu e oro in una composizione floreale.

Non è l’ultimo messaggio artistico che viene dalle chiese napoletane, cariche di storia e di memoria. C’è anche la “Madonna vestita” della Statua della Madonna del Carmine, un lungo abito dei ricamatori napoletani in tessuto rosso scuro con ricami in fili d’argento di motivi vegetali, si distinguono delle spighe di grano e motivi stilizzati in senso verticale lungo l’intera lunghezza.

Il ricordo delle processioni di paese nell’infanzia e adolescenza ci prende nell’intimo, aggiungendosi a quello delle cerimonie liturgiche con le pianete i cui colori colpivano la fantasia, ora stimolata dall’arte che aggiunge il suo fascino alla sollecitazione della memoria.

I paliotti siciliani, il barocco intessuto di corallo

Ci si immerge in un mondo del tutto diverso andando avanti nella visita alla Mostra, quando si entra nelle sale dei pregiati tessuti siciliani, dove si continua a sentire l’eternità del sacro e il respiro della storia.

E’ un mondo arcano, non ci sono l’arabesco, la fioritura e il disegno nelle sete policrome dei ricamatori napoletani ma spicca la profondità, la prospettiva e l’architettura negli archi di corallo tra ricami di seta variopinta e fili d’oro e d’argento.

Una festa cromatica dove trionfa il rosso, che unisce l’arte pittorica a quella architettonica; perciò pittori e architetti famosi ne furono i disegnatori, e per i lavori ordinati dai Gesuiti nel ‘600 si ricordano il pittore La Barbera e l’architetto Quaranta. Anche la creatività orafa partecipa con l’inserimento di pietre preziose nella trama di seta, oro e argento; e l’artigianato dei “maestri corallari” di Trapani con i fili inanellati della pietra nei laboratori tessili di Palermo e di Messina. Le chiese che hanno fornito i tessuti preziosi sono di Palermo, tranne le due ultime di Catania.

L’uso liturgico consisteva nel decorare gli altari nelle celebrazioni e ricorrenze più importanti, dal Natale alla Pasqua, dai santi dell’Ordine che li commissionava ai protettori della città. Per questo si tratta soprattutto di “Paliotti” ricamati, quelli esposti sono opera di suore ricamatrici dei monasteri. E’ un secolo prima delle opere sopra considerate dei ricamatori napoletani, la maestria è la stessa.

Ve ne sono quattro che provengono dalla Chiesa di San Giuseppe dei teatini, tutti di grandi dimensioni (m 3 x 1), come si addice a un tessuto che deve coprire un altare.
Il primo ripete il motivo delle arcate prospettiche delimitate da grani di corallo, con un vaso di fiori e un turibolo di derivazione orientale. Sembrerebbe la stilizzazione dell’immagine della Casa teatina di Messina, per questo donata al Convento in un contesto altamente simbolico; donatore sarebbe stato Giuseppe Maria Tomasi, primogenito del principe di Lampedusa, che diventerà cardinale e poi santo, per rendere omaggio al suo primo convento, dove Padre Francesco Maggio, guida dei novizi, aveva rinvenuto sotto l’altare un’acqua tutt’oggi ritenuta miracolosa.

Un altro paliotto mostra un’architettura da interno molto elaborata con la ricerca della prospettiva in basso e in alto tralci d’uva sopra le arcate, il tutto immerso nel rosso dei coralli.

Con il terzo c’è il trionfo dell’architettura, nei due piani prospettici: un portico fatto di un colonnato agile e arioso, un loggiato più ristretto e uno spazio centrale con una fontana e delle vasche.

Il quarto rappresenta in alto la facciata di un palazzo e nella parte centrale in basso l’ingresso, con motivi simmetrici nelle parti laterali e decorazioni a candelabro. C’è la magnificenza dei fili d’oro che creano cordoni rilevati e dei rossi coralli collocati quasi a intarsio senza profondità.

Di paliotti ne sono esposti altri cinque, di due chiese diverse: Dalla Chiesa di San Francesco di Paola ne provengono due dal motivo architettonico simile, con archi appena delineati ai lati, una grande apertura ad arco centrale e piccole aperture abbozzate come fossero delle nicchie con fiori. Tre, molto diversi da quelli citati vengono dalla Chiesa del Gesù, Casa Professa, in uno domina l’elemento architettonico con grandi arcate ariose e leggere, colonne tortili e vasi di fiori con largo sfoggio di corallo, gli altri due di contenuto essenzialmente pittorico, con il trionfo della Fede su un carro trainato da due Santi il primo, con pavoni, pellicani e tralci d’acanto tra grossi fiori il secondo.

Questi sono entrambi senza corallo, a differenza degli altri, il colore vira sul verde,
Due “Pianete”, un “Piviale” e una “Tonacella”completano i tessuti d’arte delle manifatture siciliane con un ricamo più stilizzato e simmetrico. Nel Piviale c’è l’immagine di San Domenico, dalla cui chiesa proviene, ricamata sullo “scudo” da Ippoliti Virgini nel 1701, mentre il tessuto di fondo sarebbe stato eseguito dall’artigiano Antonino Ferrara, la scissione nelle committenze dello stesso lavoro era normale. Vengono da Catania una “Pianeta” e una “Tonacella”: la prima di seta verde chiaro finemente ricamata con evidenza di fiori rossi, la seconda un laminato in seta a sfondo scuro con due leoni rampanti tra una ramificazione elaborata e simmetrica.

Per ultimo citiamo il Tabernacolo a tempietto, della Chiesa di Santa Maria degli Angeli di Palermo, in legno di pioppo per la struttura e di abete per l’ornamento, con colonne tortili avvolte da elementi vegetali scuri che danno all’insieme un senso di austerità.

Paramenti e oggetti liturgici a Roma

Meno caratterizzata ci sembra l’arte tessile romana, non troviamo l’effetto tridimensionale creato dai ricamatori napoletani con le sete policrome annodate o dalla manifattura siciliana con le profondità prospettiche delle architetture di corallo. Ma nella superficie piana e omogenea anche nell’effetto cromatico si coglie una varietà di stili di un’eleganza e raffinatezza notevoli.

Il patrimonio del Fondo del culto nella regione è imponente, 188 chiese di cui 70 nella sola città di Roma. Questo fa pensare alla possibilità di una mostra permanente monotematica, come a Barcellona quella dei Crocifissi, che potrebbe essere ospitata in uno dei tanti edifici di culto che il Fondo gestisce, ci sentiamo di suggerirlo perché sarebbe un vero “scoop” per la Capitale.

Da questo oceano d’arte e di storia, nonché di fede, tutto da esplorare e valorizzare provengono le opere presentate, precisamente da nove chiese, soltanto “campioni” di questo vastissimo giacimento culturale, come scrive Barbara De Dominicis: “Il nucleo esposto di circa 30 opere è quindi puramente indicativo della qualità e quantità di tipologie, decori e tecniche che costituiscono la ricchezza artistica inestimabile, affatto conosciuta, talvolta non ben conservata, e raramente valorizzata, adagiata negli armadi di sacrestia o riposta in depositi difficilmente accessibili”. L’atmosfera da “Codice da Vinci” o “In nome della rosa” torna ad aleggiare, ma anche la nostra personale memoria d’infanzia delle antiche soffitte, con casse e armadi polverosi che attiravano e intimorivano al contempo, come fonte di misteri e di sorprese.

Ebbene, i “Paliotti” esistenti nella chiesa di S. Maria in Vallicella a Roma sono 37, nella Mostra ne vengono presentati due della metà del XVII sec.: uno in seta bianca e ricami con fili d’oro di varia caratura, d’argento e policromi; l’altro per le liturgie funerarie di velluto nero con lamine d’oro. Della stessa provenienza due “Piviali” del XVII-XVIII sec. dal fondo in seta rispettivamente rossa e bianca laminata in oro con un effetto sul verde chiaro, ricamato con la tecnica dei paliotti citati. La chiesa ci presenta anche reperti di tutt’altro tipo: innanzitutto tre “Mitrie”, ognuna espressiva di un secolo tra il XVII e il XIX, di seta bianca laminata in oro con ricami di caratura diversa e anche “pailletes” e pietre, vetri policromi; poi la statuetta di “San Filippo Neri”, in abiti sacerdotali con un lungo camice plissettato e rifinito in merletto; c’è anche una “Lampada pensile” tutta rivestita, incrostata si direbbe, di coralli con i paramenti liturgici, ci ricorda le manifatture siciliane, infatti leggiamo che sarebbe stata realizzata nel 1600 nel trapanese.

Subito dopo ci attendono tre “Paliotti d’altare” della chiesa romana di Sant’Ignazio, con caratteristiche del tutto peculiari: uno del XVII sec, destinato all’altare di Gregorio Magno della stessa chiesa per le liturgie di “Natale e Pasqua”, come da antiche scritte su cartellino e telaio, nel quale ritroviamo l’effetto tridimensionale nella figura a “bassorilievo” di Sant’Ignazio che scaccia il demonio con un bastone a forma di serpente; gli altri due della fine del secolo citato, con fondo avorio laminato in argento dorato e lo “scudo barocco” centrale decorato da un inconsueto dipinto ad olio con chiaroscuro raffigurante rispettivamente tre Martiri gesuiti del Giappone uccisi nel 1597 con le croci del supplizio e la “Visione di Sant’Ignazio alla Storta”, oggi periferia romana.

A questo punto la visita diventa incalzante, si va avanti per “campioni”, come per la “Pianeta” della chiesa di San Lorenzo in Lucina, luogo ben noto ai giornalisti romani per la presenza nelle vicinanze della sede dell’Ordine, ma meno noti i tesori che racchiude: c’è un’esposizione permanente in sagrestia di alcuni manufatti degli oltre 60 rinvenuti in una ricognizione ancora parziale. La pianeta esposta fa parte di una “parure” con altri pezzi è su damascato broccato a fondo rosa corallo con ricami di disegni floreali fortemente stilizzati e geometrici di forma inconsueta.

Altre due pianete provengono dalla chiesa del Santissimo Nome di Gesù all’Argentina: sono la “Pianeta Farnese”, con ricamate le storie della vita della Vergine insieme a volute vegetali e figure angeliche; e la “Pianeta Nithard”, in tessuto laminato con i ricami consueti in fili d’oro e seta colorata di motivi floreali e pappagallini in una composizione arcadica.
Con due vesti talari molto diverse vogliamo concludere questa rassegna sui parati liturgici romani, “Il Piviale detto di san Pio V” dal museo della chiesa di Santa Sabina all’Aventino, in velluto cremisi dalle lunghe stole recanti ricami di nicchie con cinque santi e un diacono e, sul retro, nel cappuccio orlato da una frangia di fili rossi e oro, una “Madonna con bambino” di straordinaria dolcezza; e la “Tonacella del Parato pontificale ‘dell’Immacolata Concezione’”, opera dei ricamatori di Catanzaro, donata alla chiesa di San Francesco d’Assisi a Ripa Grande da una monaca francescana, con splendidi ricami in seta cerulea e oro e in più anche “pailletes” decorative; questa, come molte altre delle opere riportate, faceva parte di una “parure”, o più propriamente di un corredo liturgico, composto anche dalla pianeta, dal piviale e da accessori come stole e “manipoli”.

Ci sono poi altri indumenti, di cui abbiamo un esempio nel “Camice di Pio IX” della basilica di S. Maria sopra Minerva, importante per ovvie ragioni, ricordate anche dallo stemma Mastai Ferretti ricamato finemente insieme a motivi floreali che s’infittiscono nella parte inferiore.

La chiesa prima citata ci regala lo stupendo “Bambinello di San Francesco a Ripa”, della prima metà del XVIII sec., sull’archetipo del celebre “Bambino dell’Ara Coeli”, oggetto di venerazione nella famosa basilica, dove il riferimento francescano ci riporta al Presepio; il Bambinello di circa 50 cm è su un grande trono di 80 cm, per celebrarne la maestà in tenero contrasto con le fasce che lo avvolgono, preziose per l’oro, i ricami e le pietre incastonate con un effetto di preziosità.

Con questa statuetta entriamo nel campo dei reperti provenienti dagli altri centri del Lazio. A parte la “Pianeta e stola”, il “Conopeo di pisside” e la “Cassetta da ricamo” di Petrella Salvo, a Rieti, c’è il “Piviale rosso” di Bracciano, di tinta delicata finemente decorato e il “Paliotto d’altare” di Gaeta, un’arcadica voluta di rami intorno a una sorta di cornucopia di frutti.

Ma vogliamo fare l’ultima sosta davanti ai quattro abiti per le statue di Madonne. Tre provenienti dal Museo del monastero della Beata Filippa Mareri di Petrella Salto, rispettivamente blu, rosso e viola, in seta con eleganti ricami e merletto; il quarto per la statua della “Vergine addolorata”, dal monastero di Gaeta a lei dedicato, tessuto serico nero riccamente ricamato in oro con volute, tralci e motivi floreali. Va ricordato anche il “Vestito della Madonna del Carmine”, in taffetà di seta azzurro-turchina con ricami in unica tinta pastello, della chiesa romana di Sant’Agata in Trastevere.

Le manifatture fiorentine e bolognesi, poi la processione

Il viaggio che la Mostra ci fa fare nel mondo della sacra liturgia ci porta ora più a nord, a Firenze in un piccolo campionario di chiese celebri, con in mostra un solo esemplare ciascuna.

Da San Marco proviene il “Piviale di Sant’Antonino”, un broccato laminato con ricami che danno un effetto di preziosità con l’oro abbagliante, e la “Crocifissione con i Dolenti” ricamata al centro, mentre più sopra il ricamo raffigura “l’’Eterno benedicente e due angeli”. La celebre chiesa di Santa Croce è rappresentata dalla “Tonacella con stemma Rinuccini”, della seconda metà del XVI sec., così descritta: “teletta d’oro ricamata in seta, oro, argento, velluto di seta cesellato, lanciato in oro, broccato bouclé”, l’effetto è di straordinaria raffinatezza ed eleganza.

In fondo c’è una E trasversale in campo bianco che, ci si consenta l’associazione, ricorda il logo dell’Eti, lo segnaliamo all’Ente teatrale italiano. Ma torniamo a concentrarci sulle manifatture fiorentine, lo facciamo con il “Piviale” della chiesa di Santa Maria Novella, fine sec. XVIII, insolito fondo assolutamente bianco con grossi ricami di un tralcio vegetale da cui si diramano piante verdi e fiori rossi ad effetto rilievo; al centro la stola anch’essa ricamata e contornata da una frangia.

Lasciamo le chiese di Firenze sostando dinanzi alla “Madonna del Carmine con bambino”, una statua in cartapesta molto espressiva con un abito prezioso in broccato di tipo cosiddetto “Veronese” di colore marrone, quello delle vesti carmelitane, con ricchi ricami in oro e argento; c’è anche un “Busto” di velluto nero con ricchi ricami e pietre finte, del corredo più antico.

A Bologna, capolinea del nostro viaggio tra le meraviglie presentate dalla Mostra, dopo l’“Ombrellino processionale” per il Corpus Domini della basilica di San Domenico, con il suo fine ricamo di seta e oro su tessuto serico bianco, troviamo uno “Stendardo processionale”, anch’esso destinato al rituale esterno.

E qui finalmente degli artisti ricamatori conosciamo un altro nome, dopo il napoletano Ignazio Mirabile e il siciliano Ippoliti Virgini già ricordati: quello della bolognese Barbara Zucchi con una data precisa, 1767; anno in cui gli viene attribuita anche la “Tonacella”, essa pure esposta, una composizione di base di un verde giallo dalla quale spiccano ricami di fiori e frutti di colori contrastanti, un bell’effetto di insieme. Della Zucchi, scrive Stefania Sabbatini, “non si hanno altre notizie oltre al fatto che si sposò nel 1745 e che, a differenza delle altre ricamatrici bolognesi note, non fu figlia, moglie o sorella di un pittore”.

Questa incursione nel gossip e nepotismo dell’epoca ci immerge ancora di più nell’atmosfera che abbiamo respirato finora e ci fa seguire idealmente lo stendardo della Zucchi che reca ricamata al centro la figura di San Domenico. Perché ci troviamo nella grande galleria, dopo l’incontro con le “Madonne vestite” in una saletta che le fa sembrare vere e presenti.

E anche gli innumerevoli prelati che hanno indossato nei secoli quei piviali e quelle tonacelle, dinanzi ad altari addobbati con quei paliotti sono veri e presenti, come se avessero indossato gli abiti talari esposti e si fossero allineati in processione. Veramente di grande effetto la “processione” muta della galleria della Mostra, con oltre venti figure di statura umana in un lungo corteo altamente suggestivo. Un’esplosione di magnificenza, ma anche un “memento” sul significato profondo in termini di fede e un forte richiamo alla memoria delle celebri cerimonie liturgiche in Vaticano.

Un riconoscimento e un’esortazione finale

Dal finale in “gloria” vorremmo tornare sulla terra, anzi aprire di nuovo i polverosi armadi dei ritrovamenti per misurare il lavoro fatto per portarli alla mostra. Useremo le parole di Irene Tomedi, sul restauro dei paramenti della chiesa del Gesù di Palermo: “I manufatti si trovavano tutti in un precario stato di conservazione, giustificato sia dall’usura del tempo che da una manutenzione non idonea. I paliotti erano tutti inchiodati su telai di legno, tarlati e con chiodi arrugginiti.

Nel tempo si erano accumulati depositi di polveri grasse sul verso e sul recto: lo strato di polvere depositatosi uniformemente aveva reso la seta fragile e i colori delle sete policrome da ricamo, i coralli, i granati, perle di fiume e perle di vetro opachi. I fili metallici dorati e d’argento erano in parte ossidati, moltissimi sollevati e pendenti. Le sete di fondo spesso erano strappate, lacunose e lacerate soprattutto sui bordi a causa dell’inchiodatura del telai. In molti casi il filo del ricamo era consunto, a volte mancante. Allo stesso modo erano persi molti coralli, perle di fiume, granati e perline di vetro. Molti danni sono stati causati dai rimaneggiamenti e dai ‘restauri’ subiti nel tempo. Alcuni paramenti contenevano bozzoli di tarme, altri addirittura piccoli ascari viventi”.

Nel ripensare alla magnificenza delle architetture tessili di seta e di corallo che abbiamo ammirato, dinanzi a un simile quadro di degrado abbiamo due reazioni spontanee: un elogio incondizionato per l’opera eccelsa realizzata, e nello stesso tempo l’invito a proseguire su questa linea con uno sforzo ulteriore che riguardi l’immenso arcipelago di chiese gestite dal Fondo per il Culto.

Ne vale la pena, anche perché si inserisce nella moderna strategia di far “circolare” le attività culturali per valorizzare i “beni culturali” cui abbiamo accennato. I nostri giacimenti culturali devono essere sviluppati e non soltanto sfruttati, ripetiamo, altrimenti deperiscono, come quelli petroliferi. Da come vengono valorizzati questi ultimi, con nuovi investimenti mentre sono in produzione per allargare le riserve, potrebbero venire idee utili. Le spese necessarie, pur considerevoli, non sono solo costi, sono anche investimenti. In un campo nel quale siamo al primo posto al mondo, un campo nel quale nessuno può interferire né ostacolarci dal di fuori, possiamo farci del male soltanto da noi stessi. Ma crediamo che non sarà così, la Mostra fa ben sperare.