Censis, la soluzione per uscire dalla crisi si chiama exaptation

di Romano Maria Levante

Nel quarto incontro del “mese sociale” la risposta attesa: mobilitare le energie riposte.

Dallo “studio ovale” del Censis – lo abbiamo chiamato così dopo il terzo incontro del “mese sociale” sul federalismo – nella giornata conclusiva dell’8 luglio 2009 non poteva che venire un nome “americano” per la chiave del “giallo” proposto sull’uscita dalla crisi. Che è qualcosa di più della “resistenza”, nella quale il territorio ha potuto mobilitare la molteplicità dei soggetti istituzionali e professionali e la flessibilità di quelli imprenditoriali e individuali. Lo ha riassunto il direttore generale del Censis Giuseppe Roma all’inizio dell’incontro.

E’ stato finora sufficiente per adattarsi e galleggiare, ma per lasciarsela alle spalle occorre qualcosa di più, e anche Marrazzo, dal suo osservatorio privilegiato di Presidente della Regione Lazio, ha detto nel terzo incontro “Non usciremo dalla crisi se ci adatteremo alla crisi”, mentre il presidente Giuseppe De Rita lo ha ribadito enunciando il termine “exaptation” come la soluzione attesa.

Nella cultura e nella pratica operativa del Censis tutte le proposizioni, si potrebbe dire tutte le invenzioni perché anche sul piano lessicale sono tali, hanno il supporto di ricerche sul campo dalle quali nasce l’idea, se si procede per via induttiva, oppure la conferma dell’idea se è venuta per logica deduttiva. Questa nuova invenzione non fa eccezione e non è un caso che la ricercatrice, relatrice dell’incontro, Elisa Manna, sia la Responsabile della Sezione politiche culturali del Centro. Infatti non si tratta di un’impostazione solo socio-economica, ha anche una matrice culturale tutta particolare.

Sono diverse le situazioni nelle quali l’economia fa riferimento ad altre discipline per trarre spunti risolutivi. L’arte militare dell’organizzazione dei trasporti in condizioni estreme ispira la logistica economica, alle concezioni di Von Clausevitz sulle strategie belliche si ispirano quelle aziendali. Questa volta ci si è ispirati alla biologia moderna per trarne spunti e orientamenti utili alle scienze umane; in fondo è il procedimento di Leonardo da Vinci che studiava le leggi e le forze della natura per applicare i risultati al servizio dell’essere umano. Vediamo dunque cosa il Censis propone.

Elisa Manna tratta il tema con la sicurezza della ricercatrice che porta dati e documentazioni. E con l’accuratezza della persona di cultura che non manca di motivare con precisione la formula adottata.

Dall’adaptation all’exaptation indicata dal Censis

L’“exaptation” è speculare all’“adaptation”, “ex” è un tirarsi fuori come “ad” é l’adattarsi. Ma sarebbe riduttivo limitarsi a questa definizione, seguiamo il percorso del Censis.
Le “aptations” si distinguono, come da recente orientamento in biologia – ecco la cultura senza steccati – nelle “adaptations” costituite, precisa la ricercatrice, “dai caratteri plasmati dalla selezione proprio per la funzione che ricoprono attualmente”; e nelle “exaptations” risultanti dai “caratteri formatisi per una determinata ragione o anche per nessuna ragione funzionale iniziale e poi resisi disponibili alla selezione per il reclutamento attuale”. Dopo la contaminazione di Leonardo abbiamo l’evoluzionismo da Darwin in poi, e ci aiuta l’aver seguito le due recenti mostre a Roma e averne dato conto ai lettori. “Si configura dunque in quest’ultimo caso una cooptazione in vista di nuove funzioni, di strutture, caratteri, comportamenti impiegati in passato per funzioni diverse. Sosteniamo che è a questa diversità che bisogna guardare per riconoscere i possibili agenti esterni funzionali all’evoluzione”.

Riteniamo necessario seguire il Censis nella spiegazione scientifica, altrimenti si cade in una banalizzazione che fa sembrare ovvio ciò che non lo è, e priva di elementi conoscitivi essenziali. Viene bene l’esempio dell’Arone nero africano (o Egretta ardesiaca), preso da McLachlan-Liversidge, che non si limita a usare le ali per volare, ma le utilizza per pescare da fermo nelle acque basse ponendole a ombrello per formare l’ombra che permette di vedere la preda. E’ un esempio, precisa la Manna, di quel che accade “quando un sistema vivente si accorge che può usare una parte di sé (in questo caso le ali), atte a svolgere una certa funzione (il volo) per assolvere ad un’altra funzione vitale (fare ombra per individuare il cibo nell’acqua). Questa è l’’exaptation’, i caratteri che aumentano le capacità di sopravvivenza di non sistema vivente, ma che non sono stati modellati dalla selezione naturale per il loro ruolo attuale”. E qui si va oltre Darwin per approdare all’evoluzionistica moderna dei paleontologici Gould e Verba alle Università di Harward e Yale.

Tornando all’“aptation”, in biologia indica “il fenomeno generale e statico dell’essere utile per la sopravvivenza dell’organismo”; la sua trasposizione in campo sociale è stata “la capacità adattativa alle situazioni più difficili”, con la quale il sistema ha trovato il modo di “‘aggiustarsi’ rispetto ai diversi processi e realtà strutturali che ne condizionano lo sviluppo”, realizzando l’“adaptation”.

Questo è avvenuto nei diversi settori socio-economici. In campo produttivo, non avendo una struttura di grandi imprese, l’“aptation” si è avuta moltiplicando le piccole imprese e creando il “sommerso”. Nel lavoro, divenuto sempre meno difendibile il “posto fisso” sono state inventate tante forme di paralavoro e precariato. Per la questione giovanile, alle carenze di reddito e servizi di supporto ci si è “adattati” inventando un ammortizzatore sociale tutto particolare, la famiglia. Anche nel costume ci siamo “adattati” ai modelli trasmessi dai mass media, televisione in particolare, rinunciando perfino ai beni primari per l’effimero e il superfluo; aiutati, aggiungiamo, da un sistema assistenziale generalizzato che ha scaricato sullo Stato le responsabilità individuali.

“La sensazione è però che l’‘aptation’ non basta più – afferma la relatrice – ha esaurito la sua spinta vitale. Dobbiamo ricorrere a reagenti esterni, a fonti di energia fresca che non sono attualmente nel laboratorio centrale del modello di sviluppo che abbiamo seguito e che pure potrebbero in questa fase di transizione rappresentare l’’exaptation’, l’agente estraneo che fa reazione chimica e rimette in moto i processi di trasformazione ed evoluzione del sistema”. Dobbiamo fare come l’Airone nero africano, ma quali sono le ali che abbiamo usato finora solo per volare e che possono aiutarci a pescare? E dare una spinta nuova per superare l’“adattamento” e uscire di slancio dalla crisi?

L’exaptation come strategia per uscire dalla crisi

Siamo in un campo scivoloso, e il Censis se ne rende conto, al punto da contrapporre, in una riflessione tutta culturale, il paradigma etimologico “drammatico” come “cammino verso una soluzione” a quello “tragico”, che è “semplicemente senza soluzione”. Ma l’ottimismo della volontà prevale sul pessimismo della ragione, per diventare ottimismo della ragione con il supporto della biologia evoluzionista in chiave moderna, E l’”exaptation” succede al “parva sed apta mii”.

“Perché se è vero che i segnali di negatività debordano, continua il Censis, se è vero che si parla con qualche ragione di una nuova epoca barbara, è pur vero che non mancano campi, comportamenti, in cui ìncubano nuove forme della crescita, che non sono necessariamente attori di sviluppo di per sé, ma che cominciano ad essere riconosciuti dall’organismo sociale come tali, e che comunque a tale arruolamento si rendono disponibili”. Sono le ali dell’Airone “arruolate” per aiutare a pescare.

“Il vero passaggio delicato che stiamo vivendo – è la notazione risolutiva – è nella capacità, da parte del sistema sociale, di ‘vedere’ queste nuove realtà finora marginali, ma che stanno crescendo nella loro capacità, reale o potenziale, di apportare vita e risorse al sistema”.

Non è un processo automatico: “Si tratta di mutare atteggiamento mentale, di vedere, di riconoscere, per avviare quel processo di cooptazione in grado di innescare l’’exaptation’. Ci vuole un po’ di coraggio intellettuale, è vero. Perché abbandonare gli schemi mentali che ci hanno accompagnato tutta una vita può essere faticoso. Se può essere utile, possiamo pensare che quegli schemi non erano completamente sbagliati. Erano e probabilmente sono stati utili (aptus) allora. Oggi ne servono di diversi”.

Via via che si dipana l’impostazione del Censis, diviene ancora più evidente perché l’ottica deve essere culturale in senso lato e non limitata all’economia e alla sociologia. La ricerca dei soggetti da “arruolare” per lo scatto in avanti richiede un’analisi dei mutamenti profondi della società per non compiere l’errore di usare categorie non più attuali. Come quella dei “grandi soggetti collettivi”, frantumati dal soggettivismo e dalla fine delle ideologie per cui “i soggetti sociali veramente interessati non sono quelli classici ma, all’interno di ogni fascia, quelli che fanno innovazione incrementale”. In qualunque campo, dai professionisti agli imprenditori, dai giovani alle donne “è aumentato drammaticamente (nel senso del movimento) il ‘vallo antropologico’ all’interno dei componenti di una stessa categoria sociale”.

Dal riferimento culturale all’indicazione metodologica: “Dunque se si cerca l’exaptation bisogna guardare oltre le categorie sociali classiche (i generi, le etnie, le età, le culture professionali). Bisogna guardare alle avanguardie, ai nuclei, alle minoranze vitali che crescono all’interno di generi e categorie. Non c’è un Soggetto sociale unico che può incarnare una nuova prospettiva”. E poi alla constatazione diretta: “Quello che si scopre, guardando con mente lucida alle trasformazioni in atto è che, sotto traccia, il sistema Paese sta incubando una seconda metamorfosi, dopo quella tra il ‘45 e il ‘75, fatta di processi che stanno trasmutando lentamente la nostra dinamica evolutiva. Processi ai quali si può metaforicamente applicare la definizione di ‘exaptation’, e che comunque su quella lunghezza d’onda si muovono, facendo da induttori di cambiamento anche rispetto ai caratteri originari”. Una combinazione tra l’assetto tradizionale e i nuovi fermenti in incubazione.

La seconda metamorfosi della società italiana

A questo punto l’approccio culturale che si alimenta delle scoperte nella biologia più avanzata porta, come avviene spesso in questi casi, a una soluzione semplice. Per la ricerca delle nuove energie da “arruolare” ci si deve ispirare all’Airone africano, ha trovato il modo di utilizzare le componenti di cui dispone, a fini di sviluppo – pescare la preda – oltre che per lo scopo normale per cui le impiega, così le ali diventano un “ombrello”.

La ricerca socio-economica va orientata sulle componenti di cui dispone la società, a fini di sviluppo – lo scatto in avanti – laddove sono viste con altre funzioni, spesso regressive quasi fossero un peso. E trasformare un peso in un propulsore è un’invenzione degna del grande Leonardo da Vinci, al cui metodo, del resto, ci si è ispirati.

Ed ecco quali sono le ali da usare come ombrello, per mettere a frutto energie riposte e aggiuntive: gli anziani, gli immigrati, le donne, la ri-umanizzazione. Detto così può sembrare banale o forse ovvio, ripetiamo, ma lo è anche l’uovo di Colombo, importante è avere l’idea e poi tradurla in pratica, cosa non scontata.

Del resto la spinta per lo scatto in avanti può non venire soltanto da queste componenti: “E forse da tante altre cose – afferma il Censis- perché no, dalla contaminazione con culture e filosofie di vita ‘altre’, nella medicina come nella formazione, nell’assistenza come nelle organizzazioni aziendali, assorbendo quei richiami all’interiorità, al rasserenamento, alla lucidità, all’ascolto che la nostra quotidianità sfarinata e sregolata non sa più darci. Oppure da un ripensamento intelligente delle tecnologie mirato a valorizzare il patrimonio di conoscenze umane endogeno ai sistemi locali e il capitale relazionale (imprese, volontariato, vicinato)”.

La cultura, dunque, mobilitata per lo sviluppo, per individuare non i “percorsi innovativi riconosciuti” come la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica, i brevetti e la delocalizzazione, ma i percorsi “dove non ti aspetteresti che stiano incubando minoranze vitali pronte ad essere arruolate. Siamo andati ad esplorare percorsi di crescita che si sviluppano in maniera silenziosa, da tempo, e che stanno giungendo a una interessante maturazione”. Finalmente il punto di attacco con il problema dell’uscita dalla crisi: “Sarà vitale per il sistema saperli intercettare e ingaggiare nel cuore dei processi di sviluppo: perché una strategia realmente incrementale potrà venire solo dall’uscita dagli usuali comportamenti adattativi. Cioè dall’assunzione dell’’exaptation’ come strategia incrementale”.

I quattro pilastri dell’exaption

Il primo pilastro sono gli anziani, e anche se non si tratta dei pilastri della saggezza non possono che essere loro le prime forze di riserva da mettere in campo. Sono 12 milioni gli ultra 65enni, un esercito che si ingrossa, aumentato di 1 milione e 300 mila tra il 2002 e il 2008.

Ci sono “sacche di estremo disagio o fragilità e malessere”, ma va constatato che è “l’auto percezione dell’anziano ad essere profondamente mutata in positivo negli ultimi anni”. Sentire che perdura la vitalità gli dà la forza di realizzarsi “fuori dagli stereotipi della tradizione e a cercare di galvanizzare le proprie risorse per vivere al meglio la propria stagione”.

Questa consapevolezza lo rende disponibile “a farsi coinvolgere, a rimettersi in gioco per gli altri e per sé stessi”. A parte le potenzialità da esplorare e valorizzare, già adesso quasi il 30%, dai 60 ai 64 anni e il 16% degli ultraottantenni, è coinvolto in attività di volontariato e si sente impegnato nella soluzione dei problemi della comunità. Un’attività apprezzata addirittura dal 90% degli italiani che ritengono “importante e significativo” il loro contributo; si impegnano soprattutto nella vigilanza dinanzi alle scuole primarie come “nonni-vigili”, lavoro meritorio che favorisce l’incontro tra generazioni oltre a dare un valido contributo alla sicurezza nei momenti critici della vita scolastica.

Oltre a quest’attività c’è la “voglia di cittadinanza attiva”, intesa come volontà di “rimettersi sui libri e in gioco” e soprattutto come “capacità di far lavorare ancora il cervello”, basti considerare che un terzo degli iscritti all’Università popolare romana ha più di 65 anni e l’11% più di 80 anni.

E’ un impegno da non considerare fine a se stesso. “C’è, soprattutto negli anziani giovani (tra 60 e 65 anni) la voglia di mettere al servizio della collettività le capacità professionali e culturali accumulate, le reti relazionali, il bagaglio delle esperienze”. Desiderio che in alcune realtà trova sbocchi positivi, in particolare nel Nord Est dove sono state realizzate reti sociali promozionali in ambito professionale che mettono a disposizione l’esperienza e i contatti dei dirigenti d’azienda pensionati. Questo tipo di sperimentazione aziendale va sotto il nome evocativo di “lupi grigi”.

C’è una base solida a tutto questo, l’esperienza come valore aggiunto per le altre generazioni e per le prospettive di sviluppo della società, anche di fronte ai nuovi problemi; non si trasmettono capacità specifiche ma il sistema di valori, rapporti, comportamenti formato nel tempo in una classe che avverte il “senso di responsabilità sociale”, quasi scomparso nell’odierna società individualista.

Sono pronti “per un significativo ricoinvolgimento nella dinamica sociale, che sembra non trovare più riferimenti credibili (partiti, sindacati, associazioni)… Gli anziani si rendono disponibili per un reclutamento attuale, per un arruolamento nei ranghi di quanti alla crescita sociale sono interessati. Ed è qualcosa di più di un’esperienza di ‘mentoring’ o di ‘tutoring’ che pure tanto hanno dato in ambito aziendale. E’ una riserva valoriale di cui il sistema sociale sembra avere urgentemente bisogno per uscire dall’empasse e riprendere a crescere”. Più chiaro il Censis non poteva essere.

Il secondo pilastro è individuato negli immigrati, che non vanno associati all’immagine delle “carrette del mare” e del degrado, della miseria e dell’emarginazione, pur se queste realtà purtroppo sussistono. Ci sono processi di crescita in corso nel tessuto sociale per effetto di un’integrazione foriera di ulteriori sviluppi positivi.

Secondo la rilevazione trimestrale dell’Unioncamere, nel primo trimestre del 2009 quasi 10.000 immigrati hanno aperto un’impresa individuale iscrivendo i loro nomi nei registri camerali, mentre poco più di 7500 l’hanno chiusa, con un saldo attivo di quasi 2400 nuove imprese (tasso dell’1% in più mentre per il totale nazionale si è registrato l’1% in meno); lo stock complessivo è aumentato del 6,3% a fronte di una diminuzione del dato nazionale pari al – 0,9%. In termini di valore aggiunto le 243 mila imprese di cui sono titolari gli immigrati contribuiscono per il 10% al Prodotto interno nazionale.

L’importanza è ancora maggiore di queste cifre perché sono attività molto vitali e motivate, come dimostrano i piccoli esercizi al dettaglio di gestione familiare nei centri urbani i quali, con l’apertura prolungata e gli assortimenti adeguati al tipo di clientela, mostrano una disponibilità verso i consumatori che apre loro crescenti spazi di mercato. “La spiccata propensione ad intraprendere da parte degli immigrati rappresenta dunque una risorsa che il sistema Paese può cogliere come scossa al dinamismo socioeconomico d’Italia, sia direttamente in termini di crescita e di creazione di valore sia in termini di relazioni con i Paesi d’origine. e dunque di capitale sociale per future internazionalizzazioni”. Ci sono delle eccezioni, soprattutto nell’edilizia, ma il quadro è questo.

Si ripete in Italia la storia vissuta dai nostri antenati nei paesi di emigrazione. Già la partenza verso un mondo sconosciuto rivela dinamismo e spirito di iniziativa, propensione al rischio e capacità di adattamento, doti che si manifestano non solo nell’iniziale ricerca di lavoro ma soprattutto nel passaggio successivo ad un’attività autonoma o imprenditoriale. Per i lavoratori dipendenti la citata indagine dell’Unioncamere rivela che la soddisfazione dei datori di lavoro per come gli immigrati si impegnano, rispettano le regole e si relazionano con gli altri è superiore a quella verso il resto dei dipendenti, perché certe doti ormai scarseggiano e quindi vanno custodite e valorizzate dove sono.

Il terzo pilastro va individuato nell’universo delle donne finora non pienamente valorizzate per il permanere di una condizione di disparità nella famiglia e nel lavoro, nella politica e nella rappresentanza, in parte legata al ruolo antico della donna-madre. La loro avanzata è stata, comunque, incessante, hanno accumulato titoli formativi e professionali, piccoli successi, reti relazionali e per la selezione naturale sono emerse le più attrezzate e mature, “più capaci di valorizzare le loro doti di intuito e sensitività in contesti lavorativi d’eccellenza”.

Il Censis le definisce “una sorta di ‘riserva aurea’ cui accedere in tempi di crisi. E la società ha cominciato gradatamente a captare questa nuova risorsa” e ad avvalersi delle loro doti di intelligenza e sensibilità: “di un ‘saper fare’ e di un ‘saper dire’ (un riuscito binomio di competenza e intuizione) tipico delle donne, utile a smorzare quando si deve, capire quando è necessario, rilanciare quando è opportuno. Doti che nel mondo del lavoro, soprattutto ad alti livelli, possono rivelarsi preziose”.

Sono poco meno di un milione e mezzo le imprese guidate da donne alla fine del 2008, con un incremento di oltre tremila unità rispetto all’anno precedente. Hanno avuto maggiore tenuta degli uomini nelle piccole imprese individuali dove rappresentano un quarto del totale, e anche nei risultati aziendali le imprese con donne amministratrici hanno superato le altre.

A fronte di questi successi, spicca la perdurante difficoltà ad accedere alle posizioni apicali di vertice, in particolare nella sanità dove c’è una donna ogni tre medici ma solo una ogni dieci dirigenti-primari; e nella giustizia amministrativa dove c’è una donna su quattro magistrati ma nessuna con funzioni direttive. Nella sanità si trova maggiore equilibrio nelle posizioni dirigenziali intermedie di strutture semplici, e nei dirigenti medici con incarichi diversi dalla direzione di un reparto; c’è parità dei sessi nella dirigenza sanitaria non medica (biologi, chimici, psicologi).

Il Censis ne trae la convinzione di “come le donne siano professionalmente cresciute e siano più che disponibili ad essere cooptate in ruoli dirigenziali”. Per cui, “andare a caccia di teste intelligenti, di personale altamente qualificato all’interno del mondo femminile significa avere maggiori probabilità di imbattersi in talenti non ancora impegnati e valorizzati.” Questa considerazione legata alla “convenienza del sistema sociale” potrebbe far superare le disparità e ”far avanzare le donne per calcolo economico più di quanto nessuna politica rivendicativa è mai riuscita ad ottenere”.

Il quarto pilastro riguarda ancora di più il piano culturale, attiene ad “una società irriconoscibile in cui sembra azzerata ogni umanità, ogni attenzione minimale all’altro” nel mentre, al contrario, non è venuto meno “il bisogno di interiorità, di affettività autentica, di umanità”. Si avverte, insomma, il “bisogno di ri-umanizzazione”. Filosofi e psichiatri avvertono che “senza trasmissione di esperienza, senza partecipazione umana, senza capacità d’ascolto non c’è crescita. Degli individui come delle democrazie”. Il bisogno di rapporti umani è. d’altra parte, esso stesso lievito dello sviluppo al di là di ogni isolamento in quanto si può ritrovare l’equilibrio all’interno del sistema cercando di “assorbire energia da altre culture, da altri strumenti, da altre risorse”. E si potrebbe fare una casistica di questi comportamenti sempre più diffusi.

Una recente ricerca del Censis ha evidenziato che “la sfera del rapporto umano tra operatori della sanità ai vari livelli di competenza e responsabilità e pazienti rimane un aspetto decisivo della qualità effettiva dell’offerta sanitaria”, mentre la medicina convenzionale, al di là dei progressi compiuti, “continua a trascurare nella pratica quotidiana la dimensione di una profonda e attenta relazione terapeutica, che pure ha, come ampiamente dimostrato da una letteratura scientifica considerevole, un’importante funzione curativa, sia come gratificazione in sé sia come facilitatrice di un’azione diagnostico terapeutica”.

Per questa carenza cresce il ricorso alle medicine non convenzionali, complementari o alternative, alle quali nel 2008 si è rivolto quasi un quarto della popolazione, 11,5 milioni di italiani, numero anzi ritenuto sottostimato. Alla base del fenomeno non c’è tanto la curiosità o la ricerca dell’esotico, quanto della dimensione umana che si è perduta, “del confronto con se stesso, nella propria globalità, del dialogo, del recupero dei giusti tempi terapeutici”. In definitiva “si cerca un aiuto per ritrovare l’equilibrio, si cerca un nuovo adattamento utilizzando sensibilità e competenze esogene”.

Su questi quattro pilastri dell’“examption”si può lavorare in profondità e in estensione perché i movimenti per riposizionarsi sono già in atto anche se silenziosi. Più in generale va considerato che – se la tendenza finora è stata ad “adattarsi” operando in modo interstiziale nella realtà pur insoddisfacente cercando di “sfangarla”, ma senza cercare vie d’uscita risolutive – adesso “in un mondo in cui è sempre più difficile inventare veramente e rinnovarsi, vince non chi si adatta, ma chi sa riadattare ciò che è, per fare cose nuove con quel che ha”.

Le conclusioni e un possibile sbocco propositivo

Nel terminare l’esposizione dei risultati della ricerca di base Elisa Manna ha precisato: “I quattro esempi che abbiamo fatto sono solo alcune delle tante possibili ‘exaptations’ che possiamo mettere in atto; a livello individuale, a livello di piccolo gruppo, a livello di organismo territoriale come a livello nazionale”. E ha indicato per delle esplorazioni aggiuntive il Micro welfare e le Aree dismesse, il Baratto e il Riadattare il tempo, L’E-commerce e la Serialità e novità, la Temporaneità e i Distretti vissuti in modo nuovo, i Passaggi generazionali e la Rilocalizzazione, i Trasporti ridotti. C’è ancora molto da ricercare e da riprogettare. Quello che conta è l’indirizzo di fondo.

“Il punto vero da capire – sono le inconfondibili parole di Giuseppe De Rita – è che l’adattamento ‘classico’ non basta più: ci siamo adattati in mille modi a una scuola o a una sanità che non funzionavano; ci siamo adattati a una politica che non ci soddisfaceva, partiti che non capivamo e sentivamo distanti, a una mediatizzazione della realtà sempre più esasperata. Ma questo adattamento non funziona più, non è più ‘aptus’ al benessere del sistema. Del sistema Paese come del sistema individuale. Siamo nella fase, complicata ma anche affascinante, in cui dobbiamo capire che abbiamo possibilità altre, risorse altre che si stanno rendendo disponibili e che ancora non vediamo perché sono forme di energia esogene, non connesse tra loro e che perseguono un proprio percorso evolutivo. Insieme non rappresentano un’ideologia, ma forse possono offrire un’idea nuova del mondo e dello sviluppo”.

Il parallelo con la biologia evoluzionista viene ulteriormente esplicitato: “Sono queste forme di energia che vanno intercettate e reclutate – sono sempre espressioni di De Rita – perché l’idea che la crescita sociale sia il regno di un’ottimalità adattiva imposta da una realtà sovrana che come un meticoloso ingegnere costruisce le interazioni sociali è falsa oltre che immatura. Dalle teorizzazioni in economia alla concezione proto evoluzionista in biologia tale idea si è dimostrata fallace: la società è in realtà il risultato polimorfico di adattamenti secondari e subottimali, di riusi ingegnosi e di aggiustamenti imprevedibili. Si devono raggiungere compromessi fra pressioni discordanti e resistenze interne, si devono perseguire equilibri che tutto congiura a rendere fragili. Perciò il futuro non sarà il regno delle sicurezze e delle necessità, ma delle potenzialità e di nuovi mondi che si fanno avanti”.

Ricordiamo come già nel “Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2008” il Censis aveva affacciato l’idea, appena accennata, dell’“exaptation”, definita allora “adattamento innovativo nei portatori e cantori dei nostri caratteri originari” provocato da alcuni “reagenti”tra cui “l’azione delle minoranze vitali”, ma senza quel significato risolutore che è la nuova scoperta. Dall’enunciazione di allora all’approfondimento di oggi molta strada è stata fatta, ci sono le ricerche sul campo a confortare per via induttiva l’idea brillante originaria, e ulteriori riflessioni.

Ma quello che vorremmo sapere a questo punto è se si tratta di un processo naturale, più o meno carsico, da osservare nella sua lenta evoluzione senza poter intervenire, oppure se si può fare qualcosa per accelerarlo. Lo abbiamo chiesto direttamente alla relatrice, ed Elisa Manna ci ha risposto senza esitare: “Le trasformazioni culturali e antropologiche hanno i loro tempi ma, come dicevano gli antropologi americani degli anni ’50, una civiltà può mettere in atto quello che loro definivano ‘astuzia controculturale’, cioè un intervento politico che accelera i tempi naturali del cambiamento culturale”.

E in modo ancora più esplicito: “Lo strumento mediante il quale le civiltà possono agire è la Politica – la maiuscola ci viene chiesta dalla relatrice – che deve ritrovare la sua vocazione alla promozione della cultura e della civiltà dei popoli, utilizzando tutte le leve disponibili”. Quali sono queste leve? le chiediamo: “Riscoprire i soggetti sociali apparentemente marginali, comunque emarginati, e considerarli risorse da reinserire e valorizzare, non più problemi da fronteggiare”.

A questo punto la nostra rivista culturale, per ciò stesso particolarmente adatta ad entrare in sintonia con il nuovo approccio, per di più una rivista abruzzese, si permette di fare due collegamenti.

Il primo è con la realtà regionale dissestata dal rovinoso terremoto che, almeno nelle aree colpite anche indirettamente, non può più “adattarsi”, deve uscire dalla crisi con lo scatto in avanti che richiederà uno sforzo congiunto nel quale mobilitare tutte le risorse, anche quelle riposte nei quattro pilastri dell’“exaption”: anziani da reinserire , immigrati da integrare, donne da parificare, ri-umanizzazione da promuovere.

Il secondo collegamento è con il programma di governo regionale uscito vincitore alle recenti elezioni abruzzesi. In esso, nella parte fondativa, “La prima risorsa? Gli abruzzesi!”, si legge: “Censimento e selezione degli Abruzzesi da ‘rimettere’ al Lavoro e alla Speranza per il futuro… Imprenditorializzazione dei giovani abruzzesi (studenti, disoccupati, sotto-occupati, marginali, senza casa e senza voce) e, non meno fondamentale, della ‘Nobiltà dei Vecchi’ (pensionati, emarginati, soli, sfiduciati, gente viva che avrebbe tante cose da dire e da fare ma che nessuno più ascolta, che nessuno più considera).

Dall’alleanza, dalla messa a Sistema di queste due grandi Forze che solitamente sprechiamo e umiliamo, nasce la Speranza del Futuro come radicamento e messa a frutto del Passato. Le idee contenute nel nostro programma muovono da qui”. Il “coinvolgimento degli anziani in servizi di interesse sociale” è una linea d’intervento esplicitamente enunciata, nell’ottica di considerarli una risorsa da valorizzare, e non come peso da sopportare, tanto che nei manifesti di Gianni Chiodi, eletto alla presidenza della Regione, figuravano in primo piano.

Se è questo l’indirizzo politico, perché non cominciare dalla Regione Abruzzo a tradurre nella pratica economica e sociale di governo le idee e impostazioni innovative, per non dire rivoluzionarie, collimanti con la “scoperta” del Censis precisata a noi direttamente dalla relatrice Elisa Manna? La coincidenza temporale, l’8 luglio, dell’incontro sull’“exaption”con l’apertura del G8 a L’Aquila, può essere un segno premonitore per una sperimentazione nel territorio abruzzese.

“Recisa non recedit” è divenuto il simbolo della reazione del capoluogo di regione d’Abruzzo, del resto nella biologia evoluzionista la lotta per la sopravvivenza fa mobilitare tutte le energie riposte, anche quelle designate ad altre funzioni e di questo si tratta nella realtà post terremoto.

Quale migliore terreno, quindi, per l’applicazione concreta, per un forte e fiero “We can”?

2 Comments

  1. Romano Maria Levante

Postato luglio 21, 2009 alle 11:08 AM

Ringrazio la Responsabile delle politiche culturali del Censis, Elisa Manna e il presidente Giuseppe De Rita, dell’apprezzamento che ho molto gradito. Il merito va al Direttore della rivista, Giovanni Lattanzi, che mi ha dato lo spazio per pubblicare, dal 24 febbraio ad oggi, nove servizi di notevole ampiezza sulle ricerche del Centro, consentendomi di seguire da vicino quello che giustamente Elisa Manna definisce il “percorso non facile di analisti sociali”. Seguire questo percorso vuol dire percepire i movimenti silenziosi, spesso carsici, in atto, di cui il Centro Studi Investimenti Sociali dà conto non solo nell’annuale “Relazione sulla situazione sociale del Paese” ma anche attraverso una continua attività di ricerca che scava nei recessi del territorio per cogliere i minimi segnali rifuggendo dalle generalizzazioni macroeconomiche. Così, dopo essere stato il primo a ridimensionare il catastrofismo sulla crisi è il primo a mettere in guardia dai facili ottimismi sul suo superamento. Dalla scoperta del “sommerso” oltre quarant’anni fa a quella odierna dell’ “exaptation”, De Rita con il Censis continua a fornire una preziosa bussola alla quale continueremo a fare riferimento con la più sincera gratitudine per l’impegno profuso e la capacità analitica e percettiva.

  • Elisa Manna

Postato luglio 15, 2009 alle 10:04 AM

è stato un piacere leggere il servizio del vostro Romano Levante;perché ci ha capiti perfettamente in un nostro percorso non facile di analisti sociali .E questo significa che ci ha messo intelligenza e passione. A nome del mio Istituto, i più sentiti complimenti
Elisa Manna