Caravaggio, 2. Il successo, la fuga, l’epilogo, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

La mostra di Caravaggio a Roma alle Scuderie del Quirinale, fino al 13 giugno 2010, espone 24 capolavori, opere selezionate tra quelle autografe del Maestro, con un allestimento che rende massima la suggestione di avere “Caravaggio puro, Caravaggio essenziale, Caravaggio vero” secondo le parole di Antonio Paolucci, il direttore dei Musei Vaticani: che nella presentazione definì la mostra, “la più semplice e facile del mondo”, come “il capolavoro di Strinati”, l’ideatore. Descritta la “giovinezza” con le opere dal 1592 al 1599, nel percorso di vita e di arte passiamo al “successo” con le opere dal 1600 al 1606 e infine alla “fuga” con le ultime opere dal 1607 al 1610.

Il successo: 1600-1606

Dagli sfondi verdi della “giovinezza”, nell’allestimento si passa a sfondi rossi per il passaggio alla nuova fase, quella del successo, alla quale vengono riferite le opere tra il 1600 e il 1606.

Abbiamo visto come con “Giuditta” la sua arte si tradusse in una composizione dove i moti dell’anima si imponevano in un realismo non più solo naturalistico ma psicologico dai toni crudi e violenti. La complessità aumentò ancora con l’incarico di decorare le pareti della Cappella Contarelli nella chiesa di San Luigi dei Francesi: lo ebbe nel 1599 da Virgilio Crescenzi, esecutore testamentario del cardinale Contarelli, subentrando al Cavalier D’Arpino, nella cui bottega era stato nel 1593, che dopo aver affrescato il soffitto non poteva completarla, tutto preso dalle prioritarie committenze papali: ne derivarono i dipinti sulla “Vocazione” e sul “Martirio di San Matteo”,il secondo oggetto di ripensamenti e sostituito con una rappresentazione più ortodossa.

Lo stesso avvenne con l’incarico successivo avuto da Tiberio Cerasi – amico di Vincenzo Giustiniani, suo estimatore e grande collezionista – tesoriere papale e acquirente della Cappella della chiesa romana di Santa Maria del Popolo, dove fu accettata una seconda versione meno concitata della prima della “Conversione di San Paolo” e del “Martirio di San Pietro”: in entrambe un’atmosfera di quiete, definita “di sospensione”. Nella cappella la pala d’altare, con l’“Assunzione della Vergine”, fu commissionata ad Annibale Carracci, che vi portò un naturalismo classico immediatamente accettato rispetto a quello legato al vero di Caravaggio, che comportava dei problemi tanto da ricevere il primo rifiuto. Un dipinto di Annibale Carracci lo abbiamo trovato a Pasqua nella chiesa romana di Santa Caterina dei Funaridi recente restaurata e aperta al pubblico per una delle rappresentazioni del “Festival della spiritualità” dell’Eti con Pamela Villoresi.

La sua fama, e con essa la quotazioni, era cresciuta a tal punto che le opere rifiutate trovavano subito compratori: la sua ”Morte della Vergine” fu acquistata da Rubens per il duca di Mantova.

Risulta che Giustiniani, nella sua vastissima collezione di 120 dipinti dei pittori più famosi , ne avesse 15 di Caravaggio, tra cui “Amor omnia vincit” del 1602 circa, esposto in mostra, proveniente dallo Staatliche Museen zu Berlin. Anche senza questo collegamento diretto, i lavori per le chiese romane non sono temi estranei alla mostra che non espone tali opere, sia perché è un momento centrale della sua vita che ha inciso molto sulla sua arte; sia perché l’esposizione delle Scuderie non esaurisce l’esibizione romana di Caravaggio che prosegue nell’itinerario in cui la cappella Contarelli e la chiesa di Santa Maria del Popolo sono tappe fondamentali del suo successo.

Amor omnia vincit” fu ritenuto così straordinario da venire coperto con un velo di seta dal curatore della collezione Giustiniani “perché altrimenti toglieva pregio a tutte le altre rarità”. Il curatore era Sandrart, e scriveva che “tutto era dipinto con grande precisione, con colori rilevati , nitidezza e rilievo”, aspetti che ne marcavano il realismo. La posa del ragazzo alato, colto nello slancio tra spartiti e strumenti musicali, fasciato da una luce violenta che lo fa sbalzare dallo sfondo scuro è molto familiare, come fosse in preda a un abbandono confidenziale e non pensasse a mostrarsi composto: un realismo fresco e spontaneo. Né si tratta di un amorino stereotipato, reca la fattezze di un giovane che lavorava per lui, Cecco Boneri, il quale diventerà pittore, un altro caso di utilizzo di modelli naturali da lui conosciuti e resi riconoscibili.

All’inizio del 1600 risulta residente nel palazzo del cardinal Mattei ed è impegnato in una serie di opere per Ciriaco Mattei, dipinte tra il 1601 e il 1603 ed esposte in mostra per un facile confronto.

La “Cena in Emmaus” è la prima della serie, del 1601 circa, dalla National Gallery di Londra. In essa il suo verismo raggiunge un livello molto elevato sia nell’atmosfera, che nulla ha di luogo sacro dato che il tavolo con Cristo e i tre discepoli sembra in un locale popolare; sia negli atteggiamenti e nei gesti, di Cristo con un mantello rosso e il braccio destro proteso, e dei due discepoli seduti, uno allarga le braccia, l’altro si appoggia al sedile, mentre un terzo è in piedi immobile e assorto. Nella composizione riappare la cesta di frutta che sporge dal tavolo e l’effetto di luce intorno alla caraffa.

Viene automatico confrontarla con l’altra “Cena in Emmaus” esposta, del 1606, dalla Pinacoteca di Brera di Milano; fu eseguita dopo l’episodio di sangue di cui parleremo nella “fuga”, nel feudo dei Colonna vicino Roma dove si era rifugiato. Vi troviamo molti punti in comune con la prima, l’ambiente popolare, il tavolo con tovaglia bianca e al centro il cesto con il pane e caraffa d’acqua,i due discepoli seduti, uno allarga le braccia, l’altro si appoggia sulle mani; la persona in piedi forse è l’oste cui in questa versione si aggiunge l’ostessa. Il gesto benedicente è diverso forse perchè, come ha notato Maurizio Calvesi, qui sembra essere di congedo e non di preparazione, come è diverso il viso pur nella rassomiglianza, essendo più maturo.

Ma torniamo indietro di cinque anni, al 1601, troviamo la “Conversione di Saulo”, da una Collezione privata romana, di dimensioni ancora più grandi del dipinto di analogo soggetto a Santa Maria del Popolo, 2,40 per 190 centimetri. Qui la luce si riflette particolarmente sul santo a terra e il cavallo non ha il primo piano dominante del quadro nella chiesa; invece che dal suo pelo la luce è riflessa dall’armatura del soldato e da un viso che si protende verso la persona a terra; il realismo lo troviamo nelle mani che il santo porta a coprire il viso e nelle braccia protese di altre figure.

Altrettanto realismo nella “Cattura di Cristo”, del 1602, dalla National Gallery di Dublino: la drammaticità della scena anche qui è accentuata dai gesti, in una composizione spostata sulla sinistra dominata dalla figura di Cristo, con lo stesso mantello rosso, stretto tra Giuda che gli dà il bacio del tradimento e il braccio del soldato in un’armatura rilucente, con San Giovanni alle spalle colto in un’espressione atterrita, le braccia alzate verso il cielo, in un’atmosfera cupa e oscura.

Dello stesso anno “San Giovanni Battista”, dal Nelson-Atkins Museum of Art di Kansas City, posa classica in età giovanile, una figura pensosa con il corpo nudo che spicca per la luce che lo fascia e le ombre nette che disegna, su dei drappeggi rossi e uno sfondo nero. La povera croce fatta con un lungo bastone obliquo che dà equilibrio alla scena, sembra uno scettro e l’espressione pensosa esprime molta energia, quasi fosse un dio della foresta a riposo ma pronto ad agire.

Non possiamo non confrontarlo con il “San Giovanni Battista”, la cui datazione è oscillata dal 1598-99 al 1602-03 fino al 1606, dalla Galleria Corsini di Roma. E’ la stessa figura giovanile dal corpo nudo fasciato di luce che spicca con il drappo rosso nel buio, in posa meno classica e più realistica rivolta sulla sinistra, per terra vicino alla ciotola c’è il bastone a croce; ha un’espressione intensa, niente affatto convenzionale, nel viso che resta un po’ in ombra sotto la massa di capelli.

Ed ecco la “Deposizione”, tra il 1602 e il 1604, dai Musei Vaticani, realizzato con grande rispetto dato il tema, in un’atmosfera solenne con richiami alla pittura di Raffaello e all’arte classica, sembra un gruppo scultoreo. E’ resa realistica dalle due braccia rivolte al cielo a mani aperte della pia e dal volto di Nicodemo che regge il corpo per le gambe e sembra guardare l’osservatore quasi per chiedergli aiuto, mentre spiccano le mani che lo sorreggono sotto le ascelle, senza che si veda il volto e il corpo di chi lo sostiene da quella parte. La luce fascia il corpo di Cristo, non manca il mantello rosso, questa volta nelle mani della Madonna.

L’“Incoronazione di spine” degli stessi anni, dal Kunsthistorische Museum di Vienna, faceva parte della collezione di Giustiniani ed ha minori contrasti dei precedenti essendo percorso da una luminosità diffusa, torna l’elemento dei riflessi sull’armatura e il mantello rosso che ravviva la scena, priva della drammaticità che abbiamo sottolineato quasi per un’accettazione del destino in un’atmosfera immobile come nei dipinti della chiesa di Santa Maria del Popolo. La composizione è scandita dalle diagonali dei bastoni dei persecutori che flagellano un Cristo dal viso reclinato.

Con il “Sacrificio di Isacco”, del 1603, dalla Galleria degli Uffizi di Firenze, concludiamo questa sezione. In questo dipinto, che gli sarebbe stato commissionato dal cardinale Barberini prima di diventare papa Urbano VIII, ritroviamo il senso del tragico di “Giuditta che taglia la testa ad Oloferne”, soprattutto nell’espressione atterrita e nella bocca spalancata del volto sul quale si sta per abbattere l’arma da taglio, evidentemente oggetto di attento studio da parte del Maestro. Nel viso e nell’atteggiamento di Abramo come nella disposizione orizzontale delle sue braccia ritroviamo il “San Gerolamo” che vedemmo esposto alla Galleria Borghese nella mostra Caravaggio-Bacon e commentammo. Nelle braccia dell’angelo, che con la mano destra gli afferra il polso per impedirgli l’uccisione del figlio e con la sinistra punta il dito, vi è tutto il realismo della gestualità; mentre nel viso di Isacco è stato riconosciuto il garzone Cecco, modello anche per la testa dell’angelo anche se i connotati sono stati modificati dal Maestro da una base più somigliante.

La “fuga”: 1607-1610

Per non interrompere la cavalcata dei successi di Caravaggio nella seconda fase della sua vita, espressi negli splendidi dipinti esposti sul fondo rosso della relativa sezione della mostra, non abbiamo parlato delle disavventure che non sono mancate. Lo facciamo entrando nel settore a fondo grigio,ilcolore che l’allestimento ha dato al periodo più agitato fino al triste epilogo.

Nel 1603 fu processato per aver diffamato il rivale, il suo biografo Baglione, che si era sentito offeso, con Tommaso Salini, da sonetti a lui attribuiti. Ne uscì bene e rilasciò dichiarazioni rimaste agli atti sulla sua concezione del realismo nella pittura. Però nei tre anni che seguirono fu arrestato diverse volte, sembra cinque, per fatti di limitata gravità, fino al più rilevante, ma che si risolse anch’esso bene, relativo all’aggressione a un funzionario pontificio, Mariano Pascalone.

Sono episodi che si inquadrano nel clima dell’epoca, e non ne danneggiarono l’immagine, tanto che pur in quel periodo i committenti si moltiplicarono e continuò a produrre opere impegnative, come quelle descritte. Inoltre presentava una forte attrazione e un ascendente sui giovani pittori.

Un esempio è costituito dall’episodio di Pascalone, in un primo momento lo costrinse a lasciare Roma per la corte del principe Doria, il quale aveva sposato un nipote dei Colonna suoi protettori. Anche lì gli fu offerta un’ambita committenza, ma volle rientrare nella Capitale appena il problema fu risolto. Ed ebbe l’importante commessa pubblica della cappella dei Palafrenieri per un’opera che aveva come destinazione finale San Pietro. L’opera non vi finì, ma ci fu una compensazione nel nuovo dipinto per la €€€Cappella dei Palafrenieri che fu spostata e richiedeva una pala d’altare.

A questo punto, siamo al 1606, gli capita la disavventura più grave che ne segnerà in modo profondo la vita e l’arte, e avvolge in un alone misterioso parte della sua vicenda umana. Muore Ranuccio da Terni in una rissa con il gruppo dei giovani di cui faceva parte il nostro, non è stato accertato il motivo, forse una provocazione da parte del creditore o altro: scatta l’accusa di omicidio con la conseguente pena di morte, deve lasciare di nuovo Roma.

Inizia così la sua fuga definitiva che lo vede inizialmente a Napoli. E, come avvenuto fino ad allora, arriva una committenza molto importante, le “Sette opere di Misericordia”, di grandi dimensioni, quasi 4 metri per 2,60. Siamo nel 1608, in mostra c’è la “Flagellazione di Cristo”, di quel periodo, dal Museo di Capodimonte a Napoli, appartiene alle opere nelle quali si è controllato dopo le esperienze delle prime versioni rifiutate. Cristo appare nel fascio di luce con i flagellatori in ombra.

Ma non si ferma, è in contatto con Fabrizio Colonna che, per salvarsi da un’analoga imputazione, era entrato nell’ordine di Malta, precisamente del San Giovanni di Gerusalemme. Ecco il nostro è nell’isola mediterranea nel 1607, l’anno dopo sarà alle prese con il “Ritratto di Alof de Wignacourt” a figura intera, che è al Louvre; invece alla mostra citata Caravaggio-Bacon era esposto, e da noi fu commentato, il “Ritratto di fra Antonio Martelli, Cavaliere di Malta”, fino alla cintola. Proprio nel 1608 divenne cavaliere per meriti di pittore insigne e realizzò la pala per l’oratorio con la “Decollazione di san Giovanni Battista”, ebbe compensi e molti riconoscimenti.

Dipinse anche “Amore dormiente”, dalla Galleria Palatina a Palazzo Pitti Firenze, in mostra, nella figura distesa che ha poggiato arco e freccia ed è immersa in un sonno profondo; ci si vede il suo approdo nell’Ordine che doveva dargli finalmente un po’ di serenità e una vita del tutto rinnovata.

Ma ancora una volta tutto cambia, viene arrestato nella stessa Malta e recluso nella tremenda “guva” di Forte Sant’Angelo, un segreta ricavata nella pietra dalla quale riuscì a fuggire; non si sa perché vi fu rinchiuso, né come si liberò, certo è che fu espulso dall’Ordine con ignominia.

Siamo nel 1608, è l’ora della Sicilia, sbarca a Siracusa. gli viene affidato un dipinto per la chiesa dedicata alla patrona di Sicilia, e realizza il “Seppellimento di santa Lucia”, in cui, commenta Alessandro Zuccari, esprime la sua meditazione sulla morte: “Non solo nel formulare un’immagine d’intima e commossa partecipazione al rito funebre, ma anche nel mettere a punto dettagli iconografici che rivelano una particolare attenzione alle fonti agiografiche relative alla martire cristiana”. Altro che “pittore maledetto”!

La sua vita torna ad essere frenetica, va e a Palermo; poi di nuovo a Napoli, non si tratta di irrequietudine quanto di volontà di far perdere le tracce, pende una condanna a morte sul suo capo; ma, contraddizione nella contraddizione, il lavoro pittorico è molto intenso. A Messina dipinge la “Resurrezione di Lazzaro” e l’“Adorazione dei pastori” con un incarico pubblico nonostante fosse ricercato per omicidio. Quest’ultimo, 1608-09, dal Museo regionale di Messina, è esposto in mostra e presenta una scena inconsueta, la madre a terra appoggiata alla mangiatoia con la piccola creaturina è un Madonna dell’umiltà, invece i pastori sembrano un gruppo scultoreo, monumentale.

Ancora a Palermo dove dipinge una “Natività”, la pittura riflette queste convulsioni della sua vita, i fondi scuri si accentuano e così le ombre tagliate dalla luce, le figure si rimpiccoliscono e gli spazi si accrescono, soprattutto il segno diventa rapido ed essenziale, ormai la sua arte domina la scena essendo scomparso Annibale Carracci che era rimasto l’epigono della classicità.

Le due ultime opere in mostra sono del 1610, l’anno terminale, i soggetti in un certo senso opposti.

Annunciazione”, dal Muséedes Beaux Arts di Nancy, è un tema delicato, la Madonna nell’oscurità ha un aspetto dimesso come l’ambiente, nel fondo scuro si intravedono misere suppellettili; mentre l’Angelo sferzato dalla luce sembra incombere dall’alto con il suo gesto.

Invece “Davide con la testa di Golia”, della Galleria Borghese, è drammatico, con la sinistra del giovane che stringe la testa mozzata dove viene vista l’effige di Caravaggio; per l’espressione stravolta, la bocca spalancata e il soggetto ricorda “Giuditta che taglia la testa ad Oloferne”.

Così il 1610 nel quale finisce tragicamente la “fuga” si riallaccia al 1599, anno del secondo dipinto, nel quale finiva il periodo della “giovinezza” e iniziava il “successo”. L’allestimento della mostra ci immerge in un fondo grigio in carattere con la tristezza che ci prende, per molti motivi.

L’epilogo

Tocchiamo con mano l’ironia del destino, si erano moltiplicate le pressioni sulle autorità pontificie perché gli fosse concessa la grazia, i suoi protettori non lo avevano abbandonato, tra loro i Colonna che lo hanno seguito per tutta l’esistenza, e a palazzo Colonna a Napoli aveva fatto diversi dipinti, nel suo nuovo stile. Finché eccolo lasciare la città via mare quando la grazia venne accordata dal Pontefice. Ma non sbarcò a Roma, bensì in Toscana, sembra a Porto Ercole, e si mise alla disperata ricerca della “feluca”, una barca che trasportava i suoi bagagli con due quadri forse per il Papa. Non fece in tempo a ritrovarli, la barca era tornata a Napoli, fu ucciso da una febbre misteriosa quanto micidiale. I dipinti furono recuperati dai Colonna, li fecero restaurare per riparare i danni dell’acqua, e finirono a Costanza Sforza Colonna.

Di lui non fu trovato neppure il corpo, la stessa fama si attenuò fin quasi a scomparire, è tornato all’ammirazione di tutti solo nel Novecento, fu “riscoperto” da Roberto Longhi.

Abbiamo detto molto più della vita e delle singole opere esposte, anche perché della sua arte parlammo in due ampi servizi su www.abruzzocultura.it in occasione della mostra precedente con Bacon alla Galleria Borghese, che abbiamo ricordato. Quella attuale alle Scuderie non è soltanto questo, e sarebbe già tanto; ci sono anche sistemi digitali per ingrandire i particolari, laboratori per i ragazzi, e soprattutto un approfondimento dei vari aspetti della sua figura.

Dal 25 febbraio al 9 aprile ogni giovedì le “Lezioni d’autore”, così frequentate che a parte la fila non si trovava posto nella sala conferenze del Palazzo delle Esposizioni. E c’era un motivo, tenevano le “lezioni” i maggiori esperti, ecco i nomi in ordine di “apparizione” e i temi: Strinati sulla mostra e Vodret sulla tecnica, Paolucci sulla religione e Calvesi sull’uomo senza maledizioni, Zuccari sull’Annunciazione e Gregori sulle ricerche, infine Marini sulla fuga verso Sud.

E non è finita, le molteplici iniziative per il IV centenario continuano a tenere banco. Il 21 maggio è stato presentato al loggiato di Palazzo Venezia il volume curato da Maurizio Calvesi e Alessandro Zuccari “Da Caravaggio ai Caravaggeschi”, con l’intervento di Rossella Vodret, Caterina Volpi e Sebastian Schutze: non un libro di riproduzioni d’arte ma una raccolta oculata di diciotto studi d’autore su altrettanti aspetti del grande Maestro: dai primi passi a Milano alla produzione giovanile, dall’approdo romano ai committenti, fino ai suoi seguaci e al problema delle copie.

Sui seguaci c’è poi il vasto studio curato da Alessandro Zuccari: “I Caravaggeschi”, il primo repertorio completo in due volumi, nel primo una vera “mappa” del cavaraggismo italiano ed europeo, nel secondo le monografie dei 48 artisti caravaggeschi con repertorio critico, iconografico e bibliografico: un’opera monumentale di quasi 900 pagine in un prezioso cofanetto.

E’ uno scavo in profondità che insieme alle altre molteplici iniziative per il IV centenario completa idealmente le “lezioni d’Autore” associate alla Mostra: approfondimento critico e galleria visiva..

Ma pur ripercorrendo le dotte dissertazioni e le preziose riproduzioni iconografiche del mondo intorno al Maestro, resterà sempre negli occhi e nel cuore il fascino unico dei suoi capolavori: i 24 protagonisti sotto l’occhio di bue del proscenio nel più grande spettacolo del mondo. E’ ciò che ci vuole per stimolare l’immaginazione, la fantasia, i sogni. Perché sulla scena, nelle luci della ribalta, ci sono le opere certe del grande Caravaggio, nella sua vera identità che ne fa l’unico, l’assoluto.

Tag: Caravaggio, Roma