“Da Corot a Monet, la sinfonia della natura”, 1. La mostra-ricerca al Vittoriano

di  Romano Maria Levante

– 27 giugno 2010

La  mostra al Vittoriano dal 6 marzo al 29 giugno, offre una lettura insolita dell’impressionismo nella sua evoluzione e nel suo contenuto al di là della rivoluzione figurativa nella luce e nel colore in un carrellata sulla pittura del paesaggio nell’Ottocento francese di 120 dipinti e acqueforti, oltre a 50 stampe fotografiche d’epoca, 20 documenti e lettere di artisti, provenienti da 35 grandi musei esteri, di cui 22 americani e 10 francesi: una ricostruzione preziosa non solo pittorica ma anche culturale in senso lato, in una mostra d’arte che è approfondimento e non solo esposizione.

Sisley: ”Sentiero da By al Bois des Roches Courtaut – Estate di San Martino”

“Non ci siamo limitati a esporre una serie di capolavori e di opere impressioniste di grande pregio estetico – ha precisato Alessandro Nicosia presidente di Comunicare Organizzando responsabile della mostra curata dall’americano Eisenman in collaborazione con Brettell – ma abbiamo voluto ricostruire l’intero percorso di evoluzione e innovazione della pittura di paesaggio nell’Ottocento francese fino a giungere alla rivoluzione impressionista, la nuova volontà di rappresentare una realtà che è frutto dell’equilibrio e della commistione indissolubile tra tutte le parti del mondo naturale”.

Il ministro per i Beni e le Attività culturali Sandro Bondi ne ha sottolineato il valore: “Come ci ha ormai abituato nel corso degli anni, il Complesso del Vittoriano non presenta semplicemente una selezione di opere belle, di capolavori di grandi maestri, che affascinano il grande pubblico, ma offre, bensì, uno stimolo culturale, uno spunto di riflessione e di analisi innovativa di un fenomeno artistico importante come l’impressionismo”.

Riflessione e analisi, dunque approfondimento. E chi come noi ne ha fatto la cifra costante del proprio giornalismo culturale lo saluta come un evento da evidenziare ogni volta che si manifesta; e intende darne conto senza fermarsi agli aspetti pittorici ma ricercandone i significati reconditi.

Il sottosegretario Francesco Maria Giro, oltre a definire la mostra “scientificamente fondata” ne ha evidenziato il significato politico che consiste nel ribadire un valore fondamentale come quello del paesaggio, di cui ha ricordato la centralità anche nel codice dei beni culturali.

L’assessore alla Cultura capitolino Umberto Croppi ha osservato che ottenere prestiti così rari da tanti musei stranieri per l’autorevolezza e la qualità espositiva, pur senza disporre di una collezione per ricambiarli, conferma l’elevato livello del Vittoriano oltre che del Palaexpo e delle Scuderie.

Alla Presentazione della mostra l’ospite francese ha ricordato che nel ritiro di Colombey-les-Deux- Eglises, sotto i cieli angosciosi delle Ardenne, Charles De Grulle un giorno disse al ministro della cultura André Malraux: “Questa è la Francia aspra che piace a me, non la ‘douce France’ convenzionale, prediligo la Francia dal carattere burrascoso che si fa amare per i suoi cieli e paesaggi tempestosi”.

E di paesaggi francesi nella visione degli impressionisti si è parlato molto, tutti gli intervenuti ne hanno riassunto l’evoluzione: il superamento della rappresentazione classicheggiante ed arcadica per una concezione olistica in cui le diverse componenti umane e naturali sono collegate in un sistema vitale definibile “economia della natura”, perché tiene conto dell’impatto della modernità in un sistema dinamico che si trasforma nel tempo e nello spazio.

Ma essendo questo l’oggetto della mostra, più che riportarne le conclusioni riteniamo preferibile ripercorrere le varie tappe di tale evoluzione accompagnandole con la descrizione del modo in cui le opere esposte ne danno testimonianza sul piano della creazione artistica e dei contenuti espressi.

Pissarro: “La Senna a Bougival”

Il prologo: i due mondi, il “Salon” di Parigi e gli impressionisti.

La partenza è dai paesaggi esposti nel “Salon” di Parigi, dove era assente qualunque riferimento non solo ai mutamenti in corso nelle campagne ma anche alla vicinanza delle città e alla stessa attività che vi si svolgeva. Si trattava di visioni arcadiche e la presenza umana serviva a sottolineare questa dimensione. La natura era vista priva di ogni segno di attività umana e, spesso, degli stessi abitanti, il paesaggio diventava oggetto di contemplazione; i dipinti del “Salon” dovevano “portare all’aperto” il visitatore dandogli la sensazione di passeggiare nei prati, nei boschi e nelle valli.

Questa esigenza cominciò ad essere messa in relazione allo stress fisico e mentale della vita urbana, superando l’iniziale contrapposizione secondo cui il paesaggio, visto come monumento naturale, aveva un valore minore dei monumenti opera dell’uomo, gli edifici storici della vecchia Francia. Proprio per l’importanza che venne assumendo, il paesaggio doveva avere precisi requisiti pittorici, e poter reggere al confronto con i classici paesaggisti del ‘600 e ‘700 come Pussin e Lorrain.

La mostra prende a simbolo la “Veduta dell’isola di Capri” di Harpignies, 1853, un dipinto di grandi dimensioni rispetto alle piccole tele trasportabili dei paesaggisti, che si ispira a paesaggi seicenteschi nel rappresentare un ambiente in cui le figure umane più che mostrare le loro attività quotidiane rendono l’aspetto accogliente della natura che asseconda l’impulso all’evasione; anche lo stile pittorico è tradizionale, con la precisione dei dettagli e la cura della prospettiva, la gradazione dei toni e l’equilibrio della composizione. Analoga precisione compositiva senza la presenza delle attività umane in “La Durance a Cadenet”, di Guigou, 1866-67, con una differenza non da poco: l’ambiente non è arcadico, anche se limpido e sereno, ma appare alquanto desolato.

Ben diverso lo stile pittorico degli impressionisti, anche rispetto alla natura vista alla prima maniera, come in “Meli in fiore” di Monet, 1872 e in ”Sentiero da By al Bois des Roches Courtaut – Estate di San Martino”, di Sisley, l881. Colpiscono le pennellate rapide, per il primo a dare forma alla fioritura sugli alberi nella campagna, per il secondo a delineare una macchia di vegetazione autunnale a sinistra e un leggero filare sulla destra divisi da un ramo della Senna, in entrambi un cielo straordinario che nel secondo dà luce alla scena riflettendosi nell’acqua come in uno specchio..

Fin qui il salto di qualità nello stile, ma la giustapposizione riguarda anche i contenuti, e viene proposta con tre opere nelle quali fa irruzione l’attività umana nella sua forma inquinante. E’ il fumo che si leva nel cielo portato da alte ciminiere, come sfondo lontano ma invasivo rispetto a dei primi piani contemplativi: alberi, verde e un covone di grano al centro in “Paesaggio a Gennevilliers” di Morisot, 1875; due figure che passeggiano nel sentiero in riva alla Senna in “La Pointe d’Ivry”, di Guillaumin, 1875-1880. Una passeggiata simile, questa volta è una coppia elegante, in “La Senna a Bougival” di Pissarro, 1871, di almeno un lustro precedente, dove la ciminiera che immette un fumo ancora più invasivo è il fumaiolo di una chiatta a vapore nel fiume; fa parte di una serie di quadri del pittore con ciminiere che spargono fumo nella campagna.

Lo stile dei tre dipinti è decisamente “impressionista”, lunghe pennellate sottili di diversa tonalità nel primo, tocchi di colore contrapposti nel secondo, strisce di ombra e luce e pennellate rapide nel terzo, particolari effetti di luce in tutti, negli ultimi due chiari riflessi del cielo nelle acque del fiume.

Dopo questo prologo illuminante inizia lo “spettacolo” della mostra: prima con la “vitalità della natura” vista nella sua varietà e realtà senza ricerche estetiche ed evasioni arcadiche; poi con l’“economia della natura” vista come ambiente in una simbiosi sempre più difficile con le attività umane, costruita e vissuta in pittura e nella vita, fino all’epilogo che Sandro Bondi così descrive: “Forse proprio per la difficoltà di venire a patti con il mutare serrato della realtà in cui vivono, gli impressionisti verso la fine dell’Ottocento abbandoneranno lentamente il mondo reale, cancellandolo dalle proprie opere, per rifugiarsi in un luogo dell’anima, come lo splendido giardino delle Ninfee di Monet, un luogo non-luogo, un’utopia in cui abbandonarsi alla riflessione e occuparsi solamente delle infinite sfumature dei fiori riflessi sull’acqua”.

E’ un processo che seguiremo fino in fondo lungo l’intero percorso della mostra dopo il prologo pittorico che ci ha fatto immergere in un mondo ricco di attrattive e di stimoli alla riflessione, e proprio per questo abbiamo riportato le parole del ministro così amante dell’arte e non di un critico di mestiere: esprimono la suggestione e il richiamo della “sinfonia della natura”, che “omnia vincit” superando l’“economia della natura” negli animi sensibili, e ce ne sono ancora!

Daubigny: “Bordo dell’acqua a Optevoz”

La natura come forza vitale: le foto d’epoca

Non c’è che dire, il prologo della mostra è stimolante, vale la pena approfondire l’inizio del percorso nel quale si scopre la “vitalità della natura”, quanto può dare di se stessa, non più per l’evasione e la contemplazione estetica, ma per la sua forza intrinseca. Quella che promana dalla sua consistenza reale, senza alcuna ricerca di luoghi particolari che ne mostrano la bellezza, al contrario evidenziando quelli nei quali non c’è nulla di estetico ma di possente. Il che vuol dire superare i limiti delle marine e dei fiumi, delle colline e dei paesaggi, ed immergersi nel suo mondo così particolare, vicino e presente ma difficile da decifrare; entrare nel bosco della realtà, fitto e multiforme, cominciando a rappresentare la foresta e gli alberi come protagonisti.

Per prima ha rivelato questa dimensione arcana la fotografia, prendendo a proprio soggetto e protagonista questo aspetto fino ad allora trascurato o ignorato; spesso addirittura evitato.

La mostra ne dà conto con 32 stampe d’autore d’epoca, per lo più all’albumina o al sale da negativo su carta, ad eccezione delle prime quattro: una litografia e due acqueforti di Bresdin, che passa dall’estetizzante “Rami”, 1856, e dall’allegorico “Il Buon samaritano”, 1867, al più realistico “Ruscello nel bosco”, 1880, tipico sottobosco dei pittori di Barbizon di cui diremo; la quarta stampa, una acquaforte di Rousseau, “La quercia nella roccia”, 1861, è una tipica espressione di questa “scuola”, se si può chiamare così, che fece della foresta di Fontainebleau la sua casa e l’oggetto delle proprie riproduzioni pittoriche nonché delle proprie preoccupazioni ambientali; nella litografia ora citata si erge come protagonista il grande albero solidamente radicato al suolo.

Era considerata “riserve artistique”, con la sua vasta estensione di oltre mille ettari, e divenne nel 1861 parco nazionale protetto dopo le minacce alla sua integrità che portarono proprio Rousseau – il quale la considerava “l’unico ricordo ancora vivo dell’epoca d’oro della madrepatria, da Carlo Magno a Napoleone” – a chiedere a Napoleone III fin dal 1852 di farne una riserva naturale, desiderio che fu esaudito nove anni dopo. La foresta che viene ritratta è insieme l’espressione della “vitalità della natura” e del sogno che resti intatta e incontaminata, percorso dall’inquietudine che si tratti di un’illusione; questo perché la presenza umana si faceva sempre più aggressiva, anche da parte dei contadini che la depauperavano prelevando la legna per il loro sostentamento.

Troviamo poi il grande ciclo fotografico di Cuvelier, 11 stampe artistiche di cui 5 vanno dalla “Scena silvestre” del 1860 a “Il querceto” del 1865, passando per “Strada carraia attraverso la foresta”, “Querce e faggi”,” e “La quercia Bodmer”, tutti del 1863. Nessuna presenza umana, le grandi querce sono le “star” del grande spettacolo offerto dalla natura, che ha carattere universale. Vi abbiamo ritrovato la bellezza e il fascino di paesaggi boscosi del nostro paese natio sul Gran Sasso: le querce secolari in vario modo piantate sulle rocce in gruppi spesso scultorei nel folto della foresta o in radure del bosco dell’Aschiero, che va verso “Cima alta” alle falde di Corno Piccolo.

Cuvelier ha fotografato anche stagni e paludi della foresta, da “Belle Croix” a “Palude a Piat”, da “Palude a Fampoux” a “Ninfee a Fampoux” quasi una premonizione dell’ultimo Monet, tutte tra il 1860 e il 1863. E soprattutto ci mostra due opere di grande purezza compositiva: “Vicino alla grotta, terreno bruciato” e “Strada per Briquet”, dello stesso periodo delle precedenti, ma molto diverse: la prima di straordinaria intensità, due pini scheletriti con due solitari visitatori seduti su rocce che guardano lontano nella desolazione, la seconda configura una architettura arborea che troviamo anche in Rousseau: Cuvelier era giovanissimo, nato nel 1837 e figlio d’arte fotografica.

Torniamo alle grandi querce con le tre stampe di Le Gray, “Crocevia nella foresta”, “Quercia e rocce” e “Masso lungo la strada”, se non seguisse nei tre la scritta “Foresta di Fontainebleau” le diremmo riprese dal succitato bosco dell’Aschiero, dove vi sono punti perfettamente identici.

L’altro grande fotografo di Fontainebleau è Le Secq, nelle 8 stampe in mostra, del 1851-52, vi troviamo i motivi del “Sentiero nella foresta” e delle “Querce spoglie in inverno”, e anche il “Sottobosco” e il “Ruscello nella foresta”, fino ad “Albero morto in una foresta” e “Cava”:avvisaglie del pericolo che minaccia l’ambiente, oppure variazioni sul tema il primo e visione architettonica della natura il secondo come le cattedrali che amava fotografare? L’interrogativo resta aperto ma ci introduce all’opera pittorica nella stessa foresta di Fontainebleau del gruppo che si trasferì a Barbizon, l’abitato e la vita nella foresta “en plein air” in simbiosi artistica e umana.


Corot: “Canale in Piccardia”

Il gruppo di Barbizon, la “vitalità della natura”

In linea con i fotografi artistici, i pittori dipingevano la natura vista nell’ottica di Fontainebleau, come appariva nella realtà senza idealizzarla e senza scegliere scorci particolarmente suggestivi, essendo un organismo vivo che mostrava vitalità anche nelle espressioni all’apparenza meno spettacolari. A Cuvelier, Le Gray, Le Secq si affiancano idealmente Corot, Daubigny, Diaz de la Pena. Abbiamo visto Rousseau autore di una acquaforte, ora vediamo i suoi dipinti a olio.

Come i fotografi, anche loro lavoravano “en plein air”per cogliere la luce e l’atmosfera nelle loro manifestazioni transitorie e per questo più suggestive. Naturalmente lo facevano con lo stile che sarà caratteristico degli impressionisti, pennellate rapide con tocchi di colore, ben diverse dalla precisione fin nei dettagli e dai colori pieni dei paesaggisti tradizionali.

I temi sono ancora rigorosamente naturalistici, danno l’immagine di un’armonia ambientale e umana – anche tra nobili e contadini – nessuna modifica oltre quella naturale delle trasformazioni temporanee date dal succedersi delle stagioni e dall’avvicendarsi delle ore con l’alternarsi delle varie espressioni della luminosità diurna e delle ombre della sera e della foresta. Nessuna intrusione era ammessa, neppure quella dei turisti richiamati dalle loro opere, le scene rurali erano solitarie.

Tra i primi oli su tela quello di Rousseau, ”Palude nelle lande, primavera”, 1844-48; il pittore, trasferitosi a Barbizon intorno al 1836-38, anticipa di quindici anni le stampe di Cuvelier, e include il lavoro rurale, le mucche si abbeverano guidate da un contadino e case sparse nello sfondo, macchie di alberi in primo piano e cielo impressionista riflesso anche sull’acqua, campagna in stile tradizionale con precisione dei dettagli e pennellate molto sottili, quasi da miniatura.

Di poco successivi 4 oli su carta di Bonheur, 1850, sono schizzi a colori di località montane, con il terreno rovinato forse per il passaggio del bestiame in “Vicino a Taleyran” e per l’asportazione della torba in “Alvernia”; le montagne di “Vulcano” e “Pirenei/Aspe” mostrano una conoscenza anche geologica, la “vitalità della natura” è espressa dai movimenti di nuvole per la condensazione del vapore che ristagna. Nessuna presenza umana e neppure di animali, sebbene fosse noto come animaliere che ritraeva mucche e contadini, pecore e pastori idealizzati, ma gli schizzi sono “appunti” presi in un giro di Francia con la sorella, un’artista molto apprezzata.

Dello stesso anno “Il fiume” , di Dupré – insignito della Legion d’onore negata invece a Rousseau fino al 1867, che per questo gli tolse il saluto – uno specchio d’acqua arcadico e campagne idealizzate all’orizzonte sotto una grande quercia in stile paesaggistico britannico.

Nell’arco di dieci anni le due opere in mostra di Daubigny, entrambe “acquatiche”: “Bordo dell’acqua a Optevoz”, 1856, e “Mattino sull’Oise”, 1866, con i riflessi delle nuvole, rese con striature nel cielo, e degli alberi, specchiati nelle acque, tali da poter essere visti come un “dipinto nel dipinto”, tanto sono fedeli alla realtà che si riflette nelle acque: il primo dei due, anzi, sembra sia stato dipinto su una barca oppure nello studio galleggiante del pittore; lo stile è tradizionale, ispirato al paesaggio olandese del ‘600, si vuol far sentire la poesia della natura; aveva vinto un premio al “Salon” del 1853, in seguito un’opera esposta al “Salon” nel 1857 gli valse la Legion d’onore.

Contemporaneo fu Diaz de La Pena, seguace di Rousseau: sono esposti “Paesaggio con figura”, 1865, lo specchio d’acqua al centro dove si riflette il cielo, un bosco ai margini e una figura di contadina ai bordi dello stagno; e la “Foresta di Fontanaibleau”, 1868,del tipo delle fotografie d’autore di sottobosco che abbiamo descritto: lavorando “en plein air” nel bosco si coglievano i raggi filtranti tra le ombre, come si vede nel dipinto che ha la precisione di una miniatura nel disegnare foglie e cortecce, e fu criticato dagli impressionisti puri per la sua oscurità.

Courbet: “La Mosa a Freyr”

La galleria presenta cospicui gruppi di opere di due dei più noti pittori della scuola di Barbizon.

Di Courbet abbiamo due dipinti su temi montani: “La Mosa a Freyr”, 1856, una parete rocciosa che ricorda “La cava” della fotografia di Le Secq ed è di rara precisione geologica, riflessa nell’acqua, mentre il cielo non è quello con le nuvole degli impressionisti, forse fu dipinto in viaggio in tutta fretta; “Gola nella foresta (Le puits Noir)”, raffigura anch’esso le rocce in quella che viene chiamata “pittura storica della natura” per gli alberi le cui radici penetrano nel terreno rupestre e fanno staccare i massi sparsi nella vallata. Di ambiente marino, invece, “L’onda”, 1870, che gli fece offrire la Legion d’onore, da lui rifiutata in opposizione a Napoleone III, immagine tempestosa del mare con cielo e pennellate di stile chiaramente impressionista, in tutti non vi è presenza umana né animale: Guy de Maupassant descrisse il pittore mentre dipingeva questo quadro fornendo particolari di come la natura si facesse sentire e fosse poi riprodotta in pittura.

Figure umane sono presenti nei 5 dipinti di Corot esposti. “Nel Morvan”, 1841-42, il primo in ordine cronologico della serie che abbiamo ora descritto, figure oscure sono nella gola di una località montuosa della Borgogna, sovrastata da una chiesetta in alto, mentre sulla sinistra si stagliano luci e ombre, il cielo è senza nuvole. “Strada in salita (Gouvieux vicino a Chantilly)”, 1855-60, mostra la predilezione dell’artista per il tema dei sentieri, c’è una biforcazione con figure del mondo rurale, diverse da quelle classicheggianti di derivazione olandese dei primi anni: si vedono case in lontananza, il cielo domina la composizione con la sua luminosità, e la vegetazione è fatta di tocchi rapidi. In “Canale in Piccardia”, 1865-70, ci sono tre figure al lavoro sulla sinistra in un ambiente quasi idilliaco che le lascia indifferenti, mentre la luce piove sulle acque del canale e sugli alberi in fiore leggeri e aerei che isolano una serie di vedute suggestive. Anche in “Ricordo di Coubron”, 1872, l’attenzione è attratta dall’uomo al lavoro e dalla contadina che lo guarda sulla sinistra della composizione, in una posizione analoga a quella del dipinto precedente; la vegetazione è resa nelle diverse tonalità di verde, c’è anche uno specchio d’acqua attraversato da una barca.

La vita scorre, il paesaggio risulta come dipinto sul cavalletto “en plein air”, ci troviamo dinanzi alle espressioni dello spirito di Barbizon, che non rinnegano le raffigurazioni idealizzanti del ‘600 in quanto non vi sono ancora irruzioni di elementi estranei; ma innovano nella raffigurazione artistica per il modo con cui viene dato il colore e per l’effetto del cielo sulla natura sottostante.

Ancora sono soltanto i turisti a disturbare l’ambiente naturale, ma siamo vicini al momento nel quale la scena muta radicalmente. Irrompono nel paesaggio i sistemi umani e naturali non in contrasto tra loro ma strettamente collegati. Molte cose cambiano anche per gli impressionisti: si passa dalla “vitalità della natura” all’“economia della natura”.

Lo vedremo presto nella sezione della mostra intitolata “La nuova armonia dell’impressionismo”, che culmina nel ritorno alla “Natura come rifugio ideale”. Entreremo idealmente nelgiardino delle Ninfee di Monet, che Sandro Bondi, ci piace ricordarlo, ha definito “un luogo dell’anima, un luogo non-luogo, un’utopia in cui abbandonarsi alla riflessione”. Proveremo tutte queste emozioni.