“Realismi socialisti” al Palazzo Esposizioni,3. 1945-70

di Romano Maria Levante

cultura.inabruzzo.it, 31 dicembre 2011, postato in mostre

Si conclude la visita alla mostra sui “Realismi socialisti” con le ultime 3 delle 7 gallerie dove sono esposti i monumentali dipinti della “grande pittura sovietica 1920-1970”, al Palazzo Esposizioni dall’11 ottobre 2011 all’8 gennaio 2012.Dopo la fase iniziale degli anni ’20 di condizionamento dell’arte per la propaganda di regime, si afferma il “Realismo socialista” che sebbene limiti gravemente la libertà di espressione mantiene alcuni requisiti per la creazione artistica, primo tra essi una condivisione dell’immagine positiva dell’uomo data dal “radioso avvenire” socialista. Descritto il periodo 1920-45 con la guerra, passiamo al venticinquennio seguente fino al 1970.

“L’intento è di sottrarre le opere del Realismo socialista alle interpretazioni svolte in chiave propagandistico-politica – ha detto nel presentare la mostra il presidente dell’Azienda speciale Expo Emmanuele F. M. Emanuele– e restituire questo peculiare, e tuttavia imponente movimento artistico del XX secolo al giudizio del pubblico nella sua dimensione propriamente storico-artistica”. In questa prospettiva che vede abbinate le due dimensioni, la storia e l’arte, abbiamo visto scorrere la tormentata vicenda artistica, e insieme anche politica, attraverso dipinti quanto mai espressivi accompagnati da una ricostruzione storica molto accurata. Una sorta di storia illustrata, dove le illustrazioni sono i dipinti di diversi metri di lunghezza e di altezza: vere pale d’altare – ci sentiamo di chiamarli – della fede comunista che restano impresse per la loro forza evocativa.

1945-54, il dopoguerra fino all’avvento di Kruscev

La storia va avanti, superato il terribile trauma della guerra torna l’oppressione del regime e con essa si stringono di nuovo i vincoli sugli artisti. Addirittura l’intero sistema artistico è posto sotto il controllo del Consiglio dei ministri al servizio del partito e nell’estate del 1946 tre decreti di Zdanov, capo del Dipartimento arti visive, indicarono gli errori da condannare: pessimismo e decadenza, corruzione nel gusto e nella morale, carenza di ideologia e influssi occidentali, fino all’unico elemento propriamente artistico come la mancanza di originalità.

Ma non finisce qui, la normalizzazione riguarda un aspetto interno alla mistica di regime: la “teoria del riflesso” doveva applicarsi a una realtà dove non c’era la lotta di classe, quindi veniva integrata con la “teoria della non conflittualità”; la realtà veniva così ad essere edulcorata in modo da rappresentare la società sovietica senza conflitti, quindi come il migliore dei mondi possibili.

Torna imperiosa la fede nel “radioso avvenire” che si esprime attraverso immagini del lavoro intrise di una gioia di vivere contagiosa; in tal modo si mettono in pratica i precetti sul “coinvolgimento emotivo diretto” ai quali si erano informate le prime direttive del regime. Ma l’arte resiste, vi sono immagini in controtendenza, il lavoro visto senza retorica e scene di misera vita quotidiana.

Un nuovo tema si sviluppa, collegato al culto della personalità, l’esaltazione del leader assoluto da parte di masse estasiate fuori da ogni conflitto sociale; mentre sul piano stilistico l’ideale pittorico diventa l’accuratezza della finitura di tipo neoaccademico.

Come riflesso dei problemi insorti nella salute di Stalin si attenuano già dal 1950 i controlli sull’espressione artistica; dopo la sua morte nel marzo 1953, con la presa del potere di Kruscev a metà del 1954 cessa la violenza politica e gli artisti sentono allentarsi i vincoli, se ne vedono i segni in dipinti nei quali i problemi personali della gente cominciano ad emergere oltre la retorica.

Riprendiamo la visione del vero e proprio film che scorre attraverso i dipinti, dalla guerra passiamo alla pace. Torna il lavoro nei campi, lo vediamo in “Mietitura”, di Plastov, il primo dipinto della quinta sezione, è il 1945: non c’è però enfasi, le figure che si riposano a lato dei covoni sono affaticate. Ma “Vanno a votare”, dello stesso autore, siamo nel 1947, mostra un’entusiastica partecipazione, il gruppo si affolla sulla slitta con la bandiera rossa, però con una sorpresa, le figure e soprattutto i visi sono solo abbozzati, ci si prende qualche libertà stilistica. Con “Pane”, di Jablonskaja, del 1949, il seguito virtuale di “Mietitura”, si raccoglie il grano dal terreno nei sacchi, l’operosità in un clima di partecipazione corale senza troppa enfasi.

Mentre l’autocelebrazione è evidente in “Una figlia della Kirgizia sovietica”, diCuikov, del 1948, una sorta di icona della ragazza russa che incede nella campagna con il libro nella sinistra. Molta enfasi anche nel successivo “Sui campi di pace”, di Myl’nikov, le figure di contadine si stagliano riprese dal basso sulla campagna fiorita, attrezzi in spalla, sotto un cielo nel quale le nubi si diradano: è il 1950, l’ideologia del “radioso avvenire” torna ad imporre le sue regole.

L’arte la ritroviamo al centro dell’attenzione, lo vediamo in “Disputa sull’arte”, di Jakovlev, del 1946, un nudo bianco di luce spicca in una sorta di atelier scuro e affastellato; del resto l’arte era stata oggetto di precisi interventi subito dopo la rivoluzione d’ottobre, non c’è da stupirsi. Torna la pittura celebrativa del partito, dopo quella della guerra, con “Notabili moscoviti al Cremlino”,diEfanov, un vasto salone con imponenti lampadari affollato di dignitari espressione del potere.

Abbiamo detto che riemergono anche i problemi personali, lo vediamo in “Ancora un brutto voto”, diResetnikov, immagine patetica del bimbo festeggiato dal cane che non capisce il piccolo dramma evidente nei volti delle donne e del bambino; e in “E’ tornato”, diGrigor’ev, un’immagine molto scura che esprime l’ombra cupa sulla famiglia del padre alcolizzato. Impensabili in passato, sono del 1952 e 1954, l’anno prima della morte di Stalin si erano già allentati i vincoli, come abbiamo detto, poi cesseranno in larga misura soprattutto con Kruscev.

1954-64, la destalinizzazione e il disgelo di Kruscev

La destalinizzazione con la denuncia dei crimini di Stalin al XX Congresso del partito comportò la fine del culto della personalità e delle repressioni con una maggiore libertà di espressione; per gli artisti ciò consentì di abbandonare il realismo edulcorato e non conflittuale per riprendere la vita nella sua realtà effettiva, con i valori semplici dell’esistenza, senza gli imperativi ideologici conseguenti la collettivizzazione; ciò si traduceva anche in una certa libertà sul piano stilistico.

Anche la rappresentazione della persona cambia: dall’eroe o anche dall’operaio, visto come archetipo dei destini della nazione, e quindi irraggiungibile, a una figura cordiale e accessibile, che rivela interessi semplici e molto umani come il godimento della natura e del tempo libero.

Nasce lo “Stile severo”, imperniato sulla sintesi che non era possibile con lo stile figurativo del più rigoroso “Realismo socialista”, giunto agli estremi del “precisionismo neoaccademico”. Esso si esprime dando rilievo a contorni e sagome e semplificando forme e sfondi fino a farli sfumare, secondo influssi dall’estero, viene citato anche Guttuso; lo adotta lo stesso Deineka. La svolta non è solo nella forma quanto nei contenuti: si può esprimere la sofferenza anche se velata, la serietà si sostituisce alla gioia ostentata nel lavoro collettivo, emergono i sentimenti interiori.

Le forze della conservazione cercarono di contrastare queste innovazioni, e riuscirono a introdurre misure di contrasto allo “Stile severo” dopo l’incidente alla mostra di Mosca del 1962, in cui furono riabilitati artisti “deviazionisti” del 1940. Era stata dedicata una sala al nuovo stile. ma dinanzi ai dipinti che vi erano esposti Kruscev in visita manifestò evidente insofferenza e sdegno, soprattutto per un quadro nel quale i tratti erano ben lontani dal figurativo incarnando la riconquistata libertà stilistica. Reazione subito cavalcata dalle misure restrittive di cui si è detto.

Ecco in questa sesta sezione il quadro “incriminato”, è l’ultimo nella parete a destra, “Geologi”, diNikonov, siamo al 1962, sembra una composizione religiosa, quasi giottesca, nella quale vediamo un esemplare molto significativo dello “Stile severo” che marca i contorni, con figure stilizzate su un terreno di colore neutro uniforme, senza vegetazione. Si stenta a credere che abbia prodotto una simile reazione, però la carica innovativa rispetto al “Realismo socialista” appare notevole.

Soddisfatta subito questa curiosità, torniamo alla seconda metà degli anni ’50, cui appartengono intanto immagini rasserenanti ma non enfatiche, anzi di una profonda intimità. Sono “Una giornata calda”, diLevitin, e “Una giornata fresca”, diGavrilov:la prima in un interno mostra l’immagine disinvolta della ragazza seduta sopra il davanzale della finestra aperta sull’abitato; la seconda “en plein air” con la giovane in costume popolare dinanzi al grande specchio d’acqua. Stessa atmosfera in “Dopo il turno di lavoro”, diSalachov, i lavoratori in una fila confusa si affrettano, dai volti si vede che pensano ai loro problemi personali, l’acqua è di sfondo anche qui.

Entriamo negli anni ’60, “Famiglia”, di Ivanov, è quasi una icona dei temi personali, che traspaiono nelle figure riunite pensierose intorno al desco in un interno domestico intimo e raccolto. Temi evidenti anche in “I Costruttori di Bratsk, diPopkov, nulla di celebrativo, le cinque figure su più piani sono assorte nei propri pensieri. Lo vediamo perfino nel trittico “Comunisti”, di Korzev, dove il “privato” riemerge sia in “Atelier operaio” con la statua di Marx a lato dell’uomo seduto pensieroso, sia in “Rialzando la bandiera” e “Internazionale”, nelle fatiche e sforzi individuali.

Restano due dipinti molto diversi, “Sul Caspio”, di Salachov, un paesaggio nel quale si ammira la forza dell’arte ormai del tutto libera da vincoli; è il 1966, siamo nella fase del disgelo. Mentre, con un passo indietro, del 1959 è “Minatore”, diTrufanov, che segna la fine di ogni rappresentazione edulcorata, il lavoratore accasciato nero di carbone mostra tutta la sua fatica. Lo abbiamo lasciato per ultimo perché ci introduce alla sezione successiva, dove queste immagini si moltiplicheranno.

1964-70, l’era di Breznev, la fine del Realismo socialista

Non fu un incidente di percorso, ma un trauma politico quello dell’ottobre 1964 con l’improvvisa deposizione di Kruscev e l’avvento di Breznev che pose fine alla destalinizzazione e tornò ad accarezzare l’utopia comunista del “radioso avvenire”, però rimandandone la realizzazione a un futuro quanto mai lontano e indefinito. Fu un periodo di stagnazione, secondo la definizione di Gorbaciov, e l’arte entrò in una crisi profonda.

Vi furono artisti che si diedero in privato a forme d’arte clandestina lasciando quella ortodossa ufficiale, altri coltivarono l’una e l’altra, altri ancora nell’ufficialità cercarono di allargare i confini del “Realismo socialista”. Dopo l’incidente alla mostra di Mosca i conservatori ne approfittarono per una nuova stretta, ma non riuscirono a imporre di nuovo i vincoli oppressivi del passato.

In questo smarrimento c’è la sorpresa del ritorno negli anni ’60 del tema della guerra patriottica, declinato però non più in termini eroici, ma in quelli radicati nella coscienza popolare e negli artisti: come tragedia personale e di popolo, consumata nel dolore e nelle privazioni, e nella sopportazione dinanzi a tutto questo, non espressa fino ad allora per la retorica della resistenza e della vittoria.

Nella settima sezione lo vediamo in “Madri, sorelle”, di Moissenko, dove c’è la sofferenza di chi è rimasto a casa ma vive l’angoscia delle persone care al fronte, anche qui ricordiamo le immagini dipinte dai “Pittori del Risorgimento” della mostra tenuta alle “Scuderie del Quirinale” per celebrare il 150° dell’Unità d’Italia. Questo dipinto non è un tardivo ricordo isolato di situazioni dimenticate, di Korzev è esposta la serie dal titolo “Bruciati dal fuoco della guerra”, sarebbe un trittico se non fossero dipinti giganti. Ecco dei titoli espressivi come le scene dolenti raffigurate: “Madre” e “Addio”, “Segni di guerra” e “Vecchie ferite”, evidentemente non ancora rimarginate nonostante siano trascorsi venti anni dalla fine del conflitto. Ma soltanto adesso si possono esprimere sentimenti repressi per non fare ombra alla retorica trionfalista che fu l’imperativo di molti anni. E Korzev lo fa con primi piani di visi fortemente segnati dalla sofferenza.

Non c’è soltanto la sofferenza per il ricordo della tragedia che sovrasta la grande vittoria. Abbiamo anche lo sconcerto dinanzi ai mutamenti nella società e nella vita dei russi: il velo di malinconia dei ragazzi che si voltano indietro mentre lasciano le campagne per la città in “I treni portano via i ragazzi”, diKabacek; l’immagine spettrale e desolata in “Il lavoro è finito” di Popkov, del quale è esposto anche il pittoresco e altrettanto allucinato “Canzone del Nord”. Spicca per il cromatismo luminoso e la pulizia delle immagini “Ginnasti dell’Urss”, di Zilinskij, un sereno e fermo “mens sana in corpore sano” che a differenza del passato appare privo di ostentazioni propagandistiche.

Protagonista è l’umanità del grande popolo russo, al di là di ogni esaltazione, che faceva parte dell’arte prima della rivoluzione; e diventano centrali i motivi anch’essi pre-rivoluzionari della vita quotidiana nonché quelli connessi all’inarrestabile esodo di popolazione dalle campagne. Il tutto espresso in immagini statiche e individuali rispetto a quelle dinamiche e collettive; invece della ripresa dal vero la composizione in studio, invece dei volti espressivi maschere stereotipate.

Finché negli anni ’70 “la pittura non è più riflesso del mondo esterno, ma un sogno ad occhi aperti, l’immagine misteriosa della propria interiorità”. Il “Realismo socialista” è proprio finito.

Una riflessione finale

Con queste immagini termina la nostra visita, e da cronisti registriamo una forte impressione, non solo visiva. Abbiamo ripercorso cinquant’anni di una storia politica e sociale che ha inciso sulla nostra storia: il dramma della guerra e le ansie e i timori nel dopoguerra quando calò la “cortina di ferro”, la guerra fredda e il mito di Stalin, Kruscev e la destalinizzazione, poi Breznev fino al disgelo e l’approdo a Gorbaciov; vicende riflesse nei grandi dipinti del “Realismo socialista”, specchio di un costume e di una società, di un’epoca e di una politica. Ne abbiamo rivissuto le fasi e scoperto sfaccettature e crepe nella struttura monolitica, attraverso l’evoluzione nelle forme e nei contenuti espressi con potenza e vigore, comunque il critico ne voglia giudicare la qualità artistica.

Le sezioni cronologiche delle 7 gallerie del Palazzo Esposizioni sono altrettante ribalte di una vera e propria rappresentazione teatrale: in scena è la storia di un intero popolo, la vita della nazione nella “grande pittura sovietica 1920-1970”. Gli autori di questa storia spiccano anch’essi, anche se le vicende storiche hanno il sopravvento: oltre a Deineka ci sono nomi che meritano di essere ricordati, per tutti Brodskij e Rublev, Jacovlev e Plastov, Popkov ed Efanov, fino al sofferto Korzev. Esprimono un estro creativo e una qualità compositiva che sono segni inconfondibili dei veri artisti.

L’immagine che rimane impressa è di forza, di una straordinaria forza popolare. E’ questo il potere che emerge, piuttosto che quello politico; come nella mostra “Il Potere e la Grazia”, vista nell’ottobre 2009 a Palazzo Venezia, era quello religioso. Anche in quella mostra le sezioni scandivano i momenti cruciali nella storia della Chiesa attraverso i protagonisti: predicatori e martiri, eremiti e vescovi, cavalieri e regnanti, fino ai santi protettori d’Europa.

Se è apparso trasgressivo il parallelo fatto all’inizio tra le grandi committenze dei mecenati dell’arte rinascimentale, come la nobiltà e soprattutto la Chiesa, e quelle dello Stato sovietico per le grandi “pale d’altare” del regime sembrerà tale anche il parallelo tra le due mostre: “Il Potere e il Popolo” si potrebbe intitolare quella odierna, per analogia con il titolo appena citato “Il Potere e la Grazia”.

Nell’uno e nell’altro caso il vero potere non è quello enunciato in forma esplicita, ma quello che emerge alla fine vittorioso: del resto ce lo ha insegnato la storia antica,“Graecia capta ferum victorem cepit!”, e la forza vincente è alla fine quella disarmata espressa dalla cultura e dall’arte.

Ph: le immagini sono state fornite dall’Ufficio stampa del Palazzo Esposizioni, che si ringrazia, con l’organizzazione della mostra e i titolari dei diritti, in particolare i musei di Mosca e San Pietroburgo prestatori delle opere riprodotte.