Marina Miraglia, 7 grandi fotografi tra l’800 e i primi del ‘900)

 

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Il libro “Fotografi e pittori alla prova della modernità”, di Marina Miraglia inquadra l’evoluzione della fotografia dall’800 al ‘900 nel rapporto tra regola e creatività su cui si basava la distinzione dei generi tra “alti” e “bassi” cancellata anche per l’opera dei grandi fotografi dell’800-primi ‘900, cui sono dedicati 7 saggi del libro, come declinazione pratica del quadro teorico iniziale e dell’approfondimento su paesaggio e impressionismo, temi già da noi trattati. Ora per ciascuno dei 7 fotografi considerati isoleremo un fotogramma dell’ampio lungometraggio presentato nel libro.

In pieno ‘800: Faruffini e Julia Cameron

Si inizia con Federico Faruffni (1833-69), pittore che si dedicò poco all’attività fotografica ma lasciò il segno. Rimangono poche foto di vita familiare tra il 1868 e il 1869, l’anno della sua tragica fine, tuttavia la sua visione fotografica la vediamo nella pittura dove la trasferiva con l’uso del controluce; anzi forzava molto il luminismo come avveniva per l’effetto chimico della fotografia di allora, tanto da essere messo in guardia da questi eccessi per non cadere nel manierismo.

Era l’epoca in cui la fotografia costituiva mero supporto della pittura fornendo la base oggettiva su cui si sarebbe esercitato l’estro soggettivo del pittore. Però l’attrazione che aveva Faruffini per il contrasto di chiaro e scuro portava a un risultato così descritto dalla Miraglia: “La risposta alla richiesta di mimesi che era alla base della fortuna della fotografia, veniva infatti negata dalla forte interpretazione chiaroscurale che Faruffini imprimeva alle proprie fotografie, limitandone l’utilizzo da parte dei pittori contemporanei cui, nelle intenzioni dell’autore erano destinate”.

Su questo paradosso scrisse a Pio Joris: “Purtroppo anche la fotografia non va, caro amico. L’altro giorno al Caffè Greco , Simonetti diceva a qualcuno che tu consoci bene ch’io taglio le fotografie troppo da pittore e all’artista non rimane da fare che molto poco, questo vuol dire che fo il fotografo molto bene”. Parole eloquenti, aveva capito le potenzialità della fotografia nel superare l’effetto solo mimetico per entrare nella sfera estetica, quindi artistica; e questo con l’uso accorto della luce e la scelta compositiva che per lui era di una semplificazione estrema, senza il superfluo.

E’ con Julia Margaret Cameron (1815-79), comunque, che si compie un progresso decisivo con anticipazioni del Postmoderno, nell’abbinare al realismo rappresentativo e per se stesso oggettivo, nuove sollecitazioni di segno molto diverso che portano ad una spiccata soggettività. Lo strumento di questo balzo in avanti fu il “soft focus”, immagine soffusa e sfumata molto meno aderente alle cose osservate dell’allora imperante “scharf focus”, “nitido e tagliente nella resa referenziale”. Quest’ultimo si avvaleva di una “scrupolosa messa a fuoco, sostenuta dall’uso di obiettivi ‘normali’ più di altri in grado di sottolineare la stretta parentela rappresentativa tra meccanismi ottici della fotografia e selezione dello spazio, tipico della tradizione rinascimentale italiana”.

Il suo “soft focus” la Cameron lo spiegò così nel 1927: “Quando, durante il procedimento di messa a fuoco, io giungo a un qualcosa che agli occhi miei era bello, lì mi fermavo, invece di insistere con l’obbiettivo per una messa a fuoco più precisa, come fanno gli altri fotografi”. In questo modo si allontana dalla visione tradizionale di tipo mimetico e rappresentativo “come specchio del reale” data dallo“scharf focus” e si ispira a un principio proprio dell’arte fino ad allora non adottato nella fotografia: “Che sia l’idea, tipica di tutte le esperienze estetiche, a svolgere la funzione fondamentale di inglobare e rendere visibile, nel referente preso a modello, le verità iconiche e simboliche che l’autore vuole significare”. Icona e simbolo prima riservati solo alla pittura si aggiungono ai “valori indexicali”, gli unici riconosciuto alla fotografia, coniugando l’“invenzione”, intesa come osservazione diretta di ciò che si trova nella realtà con l’“immaginazione” che può “manipolare a suo piacimento i dati dell’esperienza sensoriale”. Di qui chiaroscuri intensi con luminescenze sfumate alla Rembrandt, inquadrature strette, volti più che figure intere per concentrarsi sugli occhi e lo sguardo espressione dei sentimenti interni e non dell’esteriorità.

Ai confini del ‘900: Morelli e Pellizza da Volpedo

Con Domenico Morelli (1826-1901) la fotografia viene utilizzata come modello e strumento della propria attività di pittore e anche come veicolo di diffusione delle proprie opere sviluppando la funzione documentativa della fotografia manifestatasi fin dai primi dagherrotipi. Sotto il primo aspetto va oltre l’esperienza di Faruffini, costruendo composizioni fotografiche preparatorie del dipinto pittorico che aggiungono due funzioni a quella di consentire di mantenersi aderenti al vero: “la possibilità di previsualizzare il quadro, contemporaneamente ponendo a fuoco i punti di massima incidenza della luce e gli effetti che ne derivano nello spazio e sulla resa volumetrica delle singole figure che su di esso si dislocano”.

Non operava isolato, c’era uno scambio di fotografie e incisioni, la conoscenza delle più importanti produzioni fotografiche anche attraverso la partecipazione alle mostre; considerava la fotografia come possibile spunto, insieme ad elementi di tipo letterario o storico, per far scattare l’idea pittorica. Il rapporto con la realtà è mediato dalla fotografia con i contrasti chiaroscurali e le masse cromatiche contrapposte nonché con “la cattura dell’istante”. Fu promotore della “revisione del dipinto di storia” che investì, “con l’aiuto della fotografia, l’intero campo dell’arte, sconvolgendo la piramide gerarchica dei generi e ponendoli tutti su un medesimo piano di giudizio”.

Del tutto particolare il rapporto con la fotografia di Giuseppe Pellizza da Volpedo (1868-1907), perché “nega la mimesi”e , sebbene attirato dal mezzo non gli interessa dal punto di vista tecnico né lo padroneggia; tuttavia nel suo archivio fotografico sono stati trovati persino negativi da lui stampati e montati su cartoncini, che con quelli stampati da altri mostrano “straordinarie capacità di memorizzazione e di messa a punto di un’emozione, di previsualizzazione dell’immagine e della sua composizione”, e nello specifico fotografico “un’eccezionale capacità di cogliere la qualità della luce e delle sue sfumature”. In questo rapporto, più spesso mediato e non diretto con il mezzo meccanico, si possono istituire “continui e determinati parallelismi, referenziali e di dialettica linguistica, tra la fotografia e alcuni suoi dipinti”. In particolare. come ha sottolineato Aurora Scotti nel 1981, la fotografia lo ha aiutato a superare nei suoi principali dipinti – tra i quali il celeberrimo e altamente simbolico “Quarto Stato” – la tradizione rappresentativa convenzionale, in un “progressivo ribaltamento della rappresentazione dal piano della oggettività alla sfera della soggettività, o, meglio, dell’idealità soggettiva, con effetti particolari e voluti di luce o di colore”.

Viene citato l’iter creativo di “Il ponte” preparato da molte fotografie non sue ma di Fausto Bellagamba che tra le figure umane riprende la famiglia del pittore, cui seguono bozzetti e schizzi sul “dato naturale, già ricondotto nelle dimensioni bidimensionali della ripresa fotografica”; in questo modo l’artista dalla visione realistica e oggettiva di un momento di vita passa “alla proiezione sulla tela di concetti e sentimenti, ottenendo una realtà ideale”. Nella recente mostra alla Gnam “L’arte dopo la fotografia, 1850-2000” abbiamo visto la serie dei grandi bozzetti preparatori del “Quarto Stato” comprese delle fotografie di assembramenti popolari presi a modello.

A cavallo tra il Realismo e il Simbolismo, Pellizza quando legge il reale con l’aiuto della fotografia “crea poi, come i fotografi a lui contemporanei, realtà diverse e ideali, che vanno, implicitamente e apoditticamente, molto al di là della realtà oggettuale”. In questo li aiuta l’uso dello “sfocato” del “soft focus”, in grado di dare, con la visione realistica dell’oggetto, “i sentimenti e le emozioni che esso può suscitare e che il fotografo vuole esprimere”; processo naturale, del resto, dato che lo stesso occhio mette a fuoco solo ciò che si osserva direttamente lasciando il resto “sfuocato e indefinito, sia nella profondità dello spazio, sia nella visione laterale”, come osservava Emerson già dal 1889. Per Marina Miraglia, “la fotografia si inserisce nell’iter creativo di polizza come elemento imprescindibile di una precisa metodologia di indagine e di lavoro, insieme legata all’istanza realistica e al suo superamento” al fine di “creare, o contribuire a creare, nuovi linguaggi pittorici”; in definitiva, “la tecnologia del mezzo meccanico, ma soprattutto la sua capacità di porsi fra verità ed emozione, sono individuate come punto nevralgico su cui poggiare la tensione simbolista, senza per questo rinunziare al realismo e all’imitazione”. Non pedissequa, considerando le differenze anche profonde nei lineamenti dei ritratti pittorici rispetto agli omologhi fotografici perchè i soggetti “studiati nella fotografia, sono poi profondamente modificati e idealizzati sulla tela”.

Si entra nel ‘900: Michetti, Sartorio, Gloeden 

Si entra nel ‘900 con Francesco Paolo Michetti (1851-1929), che iniziò a dedicarsi anche alla fotografia, oltre che alla pittura sin dal 1871, colpito dalla sua capacità di cogliere “aspetti del reale non percepibili dall’occhio umano e, soprattutto, di prescindere dalla linea di contorno “, considerando che “il mondo, lo spettacolo della natura, delle cose, degli animali, e degli uomini, appaiono infatti ai nostri occhi come un insieme di macchie cromatiche più o meno luminose che sembrano sfuggire all’ordine razionale e prospettico dello spazio quattrocentesco”.

Infatti la sua pittura era bidimensionale, e le sue figure, scriveva Francesco netti, “tutte pare che stiano sullo stesso piano, qualmente chiare e dipinte a fior di tela. Manca l’avanti indietro, come dicono i pittori”. Ed esprimevano il realismo nel suo mondo di soggetti naturalistici e popolari, presi dalla realtà della sua terra, l’Abruzzo del mondo agricolo pastorale e delle tradizioni e miti arcaici immortalato anche nelle sue fotografie, spesso in sequenza per cogliere il movimento. Rifuggiva dalla figura “stante” perché “la fotografia e soprattutto il suo istantaneismo, lungi dal costituire per Michetti un ripiego di comodo, rispondono a una profonda ‘esigenza del modo di intuire la figura e, in essa, di esprimersi’”, secondo la definizione di Delogu del 1966. Di qui i suoi “tagli” per cogliere l’azione nel suo svolgersi temporale, le immagini seriali, l’uso del primo piano e del campo lungo; inoltre i soggetti perfettamente a fuoco e fermi con gli elementi di sfondo mossi per dare il senso del movimento. Un rapporto continuo tra fotografia e pittura, l’impiego della“tridimensionalità virtuale della fotografia”, tra i passaggi intermedi “per giungere alla bidimensionalità trasfiguratrice del quadro, in una perenne verifica le cui fasi venivano scruspolosamente documentate e catalogate”. realistica ed emozionale”.

Per Giulio Aristide Sartorio (1860-1932), illustratore e pittore, la fotografia assunse presto il ruolo di “primo e ideale tramite di conoscenza per accedere al vero, al di là di ogni mediazione della ragione o della cultura, spontaneamente e naturalmente, inserendola nell’iter della creazione artistica come elemento imprescindibile di lavoro”. Ciò si riscontra nei suoi dipinti paesaggistici, sui quali scriveva nel 1922: “L’arte del paesaggio non è una pedestre copia del vero, ma un’intelligente ricerca del vero, di quanto ha commosso l’autore in un determinato momento”; e nella “pittura guerresca” nella quale esprime ugualmente i sentimenti provati, questa volta nella vicenda bellica alla quale aveva partecipato da soldato dove emergeva nella sua tragicità il dramma umano, come si vede nei 61 quadri con questi soggetti.

Alla base c’è la fotografia, prima immagini di altri, tra cui Michetti e Primoli, in particolare nei “tableaux vivant”, iconografie costruite nella realtà e fissate con la fotocamera; poi fotografie riprese da lui stesso, come gli scatti di guerra quelle sui campi di battaglia. Quando la fotografia di base sarà sua, apporterà poche modifiche nella pittura, in quanto ha già composto l’immagine riprendendola secondo la propria visione; infatti non utilizza solo la resa naturalistica ma tutte le possibilità che offre, l’ingrandimento del soggetto, l’intervento sulle tonalità di chiaro e scuro, la proiezione secondo angoli inconsueti, come dall’alto che toglie l’identificazione personale ai soggetti per dare loro il valore di metafora, come per le scene di guerra rese nei particolari realistici che per la loro drammaticità “costituiscono infatti un’innegabile e forte simbologia dell’orrore”.

Lo stretto rapporto tra fotografia e pittura porta “il movimento come motore e protagonista dell’opera sartoriana” con un salto di qualità rispetto alla precedente tendenza classica verso forme espressioniste, sulle quali Bruno Mantura nel 1989 ha scritto che sono state “recepite tramite il fedele, l’iperfedele sguardo della macchina fotografica sulla natura del movimento”.

Ma il passaggio decisivo, tra l’800 e il ‘900, dalla “riproduzione” della realtà alla “produzione” creativa lo compie Wilhelm von Gloeden, il “barone di Taormina”, con i suoi nudi fotografici non realizzati in studio, bensì nel paesaggio siciliano “quali puntelli simbolici in grado di esprimere visivamente i contenuti del proprio mondo interiore”. La fotografia, come ha scritto Mollino nel 1949, mira “a far vedere come realtà dei nostri occhi, il frammento di un mondo quale l’abbiano sognato” e offre “il doppio registro dell’oggettività e, insieme, della più assoluta soggettività”; Gloeden diceva “di far rivivere nell’opera fotografica i sentimenti che egli aveva provato davanti alla natura”. Nel suo caso si tratta di un “difficile quanto instabile equilibrio fra una sorta di arcadia classicheggiante, rivisitata però in chiave simbolista, e un compiacimento carico di desiderio e di piacere nel guardare, nell’essere guardato e nell’esplorare se stesso e la propria diversità nel corpo fisico dei giovani efebi che mette in immagine”.

In tal modo, togliendo temporalità all’immagine, riesce a dare ad essa un sapore che evoca l’antichità greca e romana, “un paradiso perduto di sessualità, di bellezza e di libertà”, senza pregiudizi sull’amore nelle sue diverse espressioni. La luce “bianca, diafana e trasparente”, crea un’atmosfera metafisica, un clima magico in cui il soggetto è inserito perfettamente nel paesaggio. Barthes ha scritto nel 1978 che Gloeden, anticipando i postmoderni, ha unito “vero e verosimile, realismo e falso, un onirismo al contrario, più folle del più folle sogno”; e Lemagny nel 1988 . lo ha ritenuto “il precursore di alcuni dei fotografi contemporanei più impegnati nella ricerca e nell’avanguardia”, in quanto per lui “la macchina fotografica e il suo obiettivo diventano uno strumento che recupera, per l’immaginario, tutta l’esattezza del reale”; e la fotografia “tutta intera fuori del sogno essa può ben essere considerata anche tutt’intera nel sogno se ci ricordiamo che per il nostro occhio interiore il tessuto della nostra realtà è il medesimo di quello dei nostri sogni”.

Si concludono così i nostri fotogrammi staccati dal lungometraggio del libro sui “magnifici 7” di Marina Miraglia, flash indicativi di contenuti ben più profondi e articolati; e termina il nostro resoconto di un libro istruttivo, denso di analisi, notizie e citazioni, che offre tessere fondamentali per la costruzione del mosaico della fotografia nella sua evoluzione storica verso forme di vera arte.

Info

Marina Miraglia, Fotografi e pittori alla prova della modernità, Editore Bruno Mondadori, Milano-Torino, gennaio 2012, ristampa, pp. 214, euro 22. L’immagine di apertura, riprodotta dal libro, è di Julia Margaret Cameron, The Parting of Sir Lancelot and Queen Guinevere, 1874. Dal libro sono tratte tutte le citazioni riportate nel testo; l’inquadramento teorico generale e l’approfondimento su paesaggio e impressionismo nelle ricerche convergenti di fotografia e pittura sono stati oggetto di due nostri precedenti articoli su questa rivista “on line”.

Autore: Romano Maria Levante – pubblicato in data 7 maggio 2012 – Email levante@guidaconsumatore.com