Guggenheim, 3. Dal Minimalismo al Fotorealismo, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Illustrate le opere dall’ “Espressionismo astratto” alla “Pop Art” della  mostra  al Palazzo delle Esposizioni  dal 7 febbraio al 6 maggio 2012, “Il Guggenheim – L’avanguardia americana 1945-1980” concludiamo con le ultime 3 sezioni sul fervore creativo dell’arte moderna transoceanica in tale periodo: “Minimalismo” e “Post minimalismo”, “Arte concettuale” e  “Fotorealismo”. L’occasione  è la mostra sul ruolo di “Qui Arte contemporanea”  e della Galleria Nazionale d’Arte Moderna nell’emergere dell’ “Arte Astratta Italiana”  in corso alla Gnam nel 60° di Editalia; un ruolo di vero mecenatismo quello del Guggenheim,  che merita di essere ricordato e analizzato.

Robert Morris, Template”

Le tendenze dell’avanguardia americana dal dopoguerra al 1980 rappresentate nella vasta collezione del “Guggenheim” si sono sviluppate fino agli anni ’60 negli stili e contenuti di cui abbiamo già parlato. Dall’iniziale spontaneismo e gestualità senza limiti per far affiorare la psiche profonda fino all’inconscio dell’“Espressionismo astratto”, si è passati all’attenzione ai fondamentali di forma e colore nelle composizioni molto controllate dell’“Hard Edge”, per poi immergersi con la “Pop Art” nelle rutilanti suggestioni della società dei consumi desumendone stili e contenuti in una riproposizione ironica spesso paradossale seguendo una vocazione di arte popolare.

Il Minimalismo

Cambia di nuovo tutto nelle ulteriori tendenze in marcata opposizione con le precedenti, anche contemporanee come la “Pop Art”.  La prima è il “Minimalismo”, con 6 opere esposte nella 5^ sezione: c’è rottura con l’estetismo e l’espressionismo, forme geometriche di materiali industriali, “Specific objects”, con la produzione in serie dell’industria rimuovendo il concetto di arte singola.

Viene portato avanti il discorso del “Systemic Painting” approdando alla scultura non solo a semplici rilievi come i due pannelli monocromatici di Kelly commentati in precedenza. Il rilievo diventa elemento solido in legno, fibra di vetro e lacca in “Naxos” di McCracken,  mantenendo l’unità compositiva; si va oltre con Judd che crea solidi realizzati in legno o metallo secondo volumi geometrici come cubo e parallelepipedo in serie, sulla base di criteri rigorosi condividendo lo stesso spazio fisico del visitatore: “Senza titolo”,  1970, esposto in mostra, è una successione di segmenti solidi materiali in alluminio anodizzato trasparente e viola che riproducono nella loro progressione dimensionale la sequenza  matematica della cosiddetta “serie Fibonacci” in cui ogni numero è somma dei due precedenti, 0, 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, ecc.

Con Flavin questa forma di “scultura” fatta di oggetti si presenta con un altro “Senza titolo”, 1966, due normali tubi al neon di quelli prodotti dall’industria e in vendita, posti in una angolo della sala espositiva, per sorprendere il visitatore di fronte ad oggetti familiari utilizzati in modo inatteso e per mostrargli come con la loro luce immateriale modifichino l’ambiente architettonico.

Terza opera esposta di tale tendenza, di Andre, questa volta con un titolo pomposo, “Quinto triodo di rame”, 7 “unità” quadrate del colore del metallo di 50 cm di lato che formano una T di metri 2,50 x 1,50, quasi un pavimento in costruzione, l’invito al visitatore a “entrare” nell’arte.

Il “Minimalismo” in pittura si esprime in forme geometriche essenziali monocrome. Abbiamo traovato la forma quadrata in 3 opere: “Alleato” di  Ryman, e  “Senza titolo” di Marden, entrambi del 1966: il primo di  2 metri x 2, grigio chiaro uniforme, il secondo 1 metro x 1, nero, oltre all’olio è stata utilizzata la cera per renderlo più cupo; in “Fiore bianco” di Martin, 1960, la monocromia nocciola è attenuata da minuscoli riquadri rettangolari contornati di un filo bianco. Sia “Alleato” che “Fiore bianco” lasciano l’enigma del titolo, al quale non si trova alcun riscontro. E dichiarata invece  dal titolo la forma circolare, in “Cerchio 6” di  Mangold, 1973, diametro di oltre 180 cm, in marrone scuro con un leggerissimo filo bianco che contorna un quadrato inscritto nel cerchio ma di colore identico. Siamo alla semplificazione massima, nella forma geometrica e nel colore monocromatico: il “Minimalismo” si esprime così.

Robert Mangold, “Cerchio 6” , 1973,  a sin., e Brice Marden, “Senza titolo”, 1965-66, a dx

Post minimalismo e Arte concettuale

Le sorprese non sono finite qui, l’avanguardia americana ne ha altre e la mostra le ha presentate  nelle ultime due sale. Ma prima di soddisfare la curiosità di scoprirle citiamo il collezionista italiano che valorizzò le opere minimaliste e quelle di cui parleremo: il conte Giuseppe Panza di Biumoil quale, come abbiamo accennato nella presentazione, diede credito sin dall’inizio a queste tendenze acquistando sistematicamente in California le opere minimaliste e formando una raccolta molto vasta nella sua residenza di Varese. La curatrice Hinkson scrive che c’è voluto “da parte di Panza fede e coraggio non comuni” e aggiunge: “E’ una delle bizzarrie della storia dell’arte che le opere d’arte estreme, nate in gran parte nei loft sudici e disordinati di lower Manhattan, abbiano ben presto trovato casa in una villa idilliaca dell’Italia settentrionale”. Sono tornate a Manhattan, ma nella lussuosa Fifth Avenue, nel 1991, quando il Guggenheim Museum ha acquistato la collezione per colmare la lacuna nelle tendenze alle quali i curatori avevano creduto meno del conte italiano.

La collezione Panza non si limita al “Minimalismo”, è ricca anche di opere di “Post minimalismo” e“Arte concettuale”, tendenze che in parte si sovrappongono alla prima nell’ultima parte degli anni ’60 e negli anni ’70.  Qui la “fede e coraggio” di cui parla la Hinkson sono stati ancora maggiori per la svolta radicale impressa all’arte. Ci si interrogava sul valore e sul significato dell’arte? La risposta di queste due tendenze fu l’uso di mezzi espressivi diversi anche dalla pittura e dalla scultura del “Minimalismo”, sebbene vi sia il ricorso ai materiali: ma  non tradizionali per opere dichiaratamente concepite come “effimere”, cui si associava la critica ai musei permanenti.

Ne abbiamo visto esempi significativi in “Template” di Serra, 1967,  e “Feltro marrone” di Morris, 1973, il materiale nel primo è la gomma vulcanizzata, nel secondo il feltro di colore un po’ più scuro con simmetria nella ricaduta in basso delle frange del tessuto: entrambe misurano circa 2 metri, ma vengono dichiarate “dimensioni complessive variabili”, sono appese alla parete ed è la forza di gravità a dare loro la forma. Ci è venuto in mente l’italiano Sante Monachesi, del quale alla mostra della Fondazione Roma a Palazzo Cipolla nell’autunno 2010 sono state esposte, appese al soffitto, le “Evelpiume”, gomma piuma  modellata a volontà, e i “Perpex”, fogli di metacrilato che l’artista accartocciava in una scultura innovativa,  un “fai da te” dell’arte aperto a tutti. Si era tra il 1960 e il 1965, i due americani citati sono successivi, la logica è analoga.

La raccolta Panza offre altre opere sorprendenti del 1970, dove l'”Arte concettuale”  non si concentra sui materiali ma segue fino in fondo un’idea di base. Il grande riquadro nero “Intitolato (Arte come idea come idea) [Acqua]” di Kosuth  reca in caratteri bianchi la definizione da dizionario inglese di “water”, esprimendo in termini  semplificati il contenuto dell’idea di acqua.

Nell’opera di Huebler, “Durata # 5, Amsterdam, Olanda, gennaio 1970”, l’idea di base è la misura del tempo legata allo spazio fissata con riprese fotografiche in momenti prefissati. E’ una sequenza di fotografie in esterno che fissano un percorso scandito da tempi ben precisi,  lo spiega la “dichiarazione dattiloscritta” che fa parte dell’opera  con le “dodici stampe alla gelatina d’argento”: si tratta di  “un sistema temporale in cui ogni stadio successivo è la riduzione a metà del precedente”, una variante della  “serie Fibonacci” alla base dell’opera del minimalista Judd dove ogni stadio successivo, come si è visto, era dato dalla somma dei due precedenti. Le fotografie riprendono una strada con le auto e via via  gli alberi a lato, abitazioni e altro, sono scattate procedendo sempre nella stessa direzione, la seconda 30  minuti dopo la prima, la terza dopo 15′, la quarta dopo 7,5′, la quinta dopo 3,75′, la sesta dopo 1,88′ fino a 0,0087 minuti per la dodicesima. 

L’idea di base nell’opera di Nauman, “Corridoio con video con ripresa in diretta e registrata” è la partecipazione del visitatore all’opera d’arte di cui diviene co-artefice entrando fisicamente all’interno dello strettissimo cunicolo formato da pannelli: viene ripreso da una telecamera e  può vedere la propria immagine su un piccolo televisore posto in fondo. Confessiamo che oltre ad essere entrati nel corridoio della larghezza delle nostre spalle, lo abbiamo fotografato dall’interno con la nostra immagine sullo schermo, per cui possiamo dire di essere coautori dell’effimera opera d’arte che ne è derivata, fissata dalla registrazione. Anche questo fa parte della collezione del conte Panza che nel Catalogo è fotografato all’interno di un’installazione simile, il “Corridoio a luce verde”,  stretto come lo spessore del suo torace. Coraggioso, o almeno non clautrofobico di certo!

Resta da citare il concettuale “Disposizione di specchi nello Yucatan (1-9)”  di  Smithson,  9 “stampe cromogeniche da diapositive  35 mm”, a forma di quadrati con il lato di 60 cm, che riproducono  visioni ravvicinate del terreno con le sue scorie e una ripresa in campo lungo con un’insenatura: colori delicati, specchi di una terra lontana che vediamo essere mitica anche per l’Avanguardia americana oltre che per i lettori della “Capitana del Yucatan” di Emilio Salgari.

Robert Smithson, “Disposizione di specchi nello Yucatan” (1.9)” , 1969

Il Fotorealismo e l’ultimo messaggio

Di sorpresa in sorpresa, nell’ultima sala il settimo sigillo: come nel gioco dell’oca si torna alla casella di partenza qui si è andati ancora più indietro, si è approdati al figurativo che di più non si potrebbe dopo essersene allontanati come di più non si sarebbe potuto fare. Siamo rimasti sconcertati ulteriormente dall’avanguardia che riesce a superare se stessa in ogni direzione: è lo spirito di ricerca inesauribile unito a un coraggio sconfinato. E’ l’ultima fase anche cronologica documentata nella 7^ sezione della mostra:  sono gli anni ’70, con l’ultima opera si arriva al 1980.

Alle astrazioni teoretiche e non più pittoriche dell'”Arte concettuale” succede la rivincita della realtà concreta, oggetti presi dalla vita quotidiana  diventano protagonisti assoluti dell’opera d’arte.  Il “Fotorealismo” segna il ritorno della pittura in un precisionismo esasperato che si avvale della ripresa fotografica per riportare i dettagli più minuti dell’immagine su tele di grandi dimensioni, fino ai 2 metri di lunghezza. Si potrebbe dire che trasformando in gigantografia l’immagine fissata dall’obiettivo quasi utilizzando un pantografo, si recepisce l’automatismo del mezzo meccanico di ripresa senza la partecipazione emotiva dell’autore. I soggetti sono quelli del consumismo: dopo l’approccio ironico della “Pop Art” questo è documentario, con flash ingigantiti per la presenza dominante degli oggetti raffigurati. La fotografia non serve come  “modello” su cui esercitare  l’estro del pittore  reinterpretando e trasfigurando l’immagine fissata sulla stampa, è il mezzo usato dall’artista per riprodurre un automatismo che esclude qualunque partecipazione emotiva.

Esposti 7 quadri di grandi dimensioni con riprodotte nei particolari più minuti le fotografie: di un’automobile e di una motocicletta, rispettivamente “Buick 71″ di  Bechtle, 1972, e “Gold Wing del piccolo Roy”di Blackwell, 1977; di apparecchi  per la società dei consumi, il “Distributore di chewing gum n. 10” di Bell, 1975, e  “Big Foot Cross” di Kleeman, 1977-78; di un giovane con vitello e una pubblicità murale, rispettivamente in  “Medaglione” di McLean, 1974 e  “Tatuaggio” di  Cottingham, 1971, fino alla vista dell’edifico circolare del museo con tanto di auto in sosta e in transito,“Il Salomon R. Guggenheim Museum” di Estes, 1977.

Non è ancora finita, abbiamo trovato  l’ultima sorpresa,  al termine anche in senso cronologico: si tratta di “Stanley”, 1980-81, diClose, il gigantesco ritratto di un viso di 2 metri e 70 cm  per  2 metri e 10; è anch’esso su base fotografica ma la pittura non ne rappresenta la fedele riproduzione dato che è formato da una fitta griglia di minuscole celle astratte che nel loro insieme compongono il mosaico di un volto; riporta al divisionismo  e al puntinismo, sempre indietro nel tempo, quindi.

Uscendo dall’ultima delle 7 sale , siamo tornati nella grande rotonda centrale cui fanno corona. Alzando gli occhi per abbracciare la vastità della volta abbiamo letto il messaggio che citiamo come botto finale dello spettacolo pirotecnico al quale abbiamo assistito visitando le 7 sezioni sulle tendenze nei quarant’anni dell’avanguardia americana documentati dalla collezione del Guggenheim Museum: in tutte maiuscole “Terra alla terra  cenere alla cenere polvere alla polvere”: è l’opera puramente concettuale di  Weiner, in originale “Earth to earth ashes to ashes dust to dust”, 1970, che è  un ritorno ancora più indietro, alle origini, e nel riecheggiare il “quia pulvis es et in pulverem reverteris” vale da ammonimento.

Ebbene, anche questo artista concettuale fu sponsorizzato dal conte Panza, e l’opera ammonitrice  viene dalla sua collezione. “Fede e coraggio” veramente!

Info

Catalogo della mostra: “Il Guggenheim, l’Avanguardia americana 1945-1980”,  a cura di Lauren Hinkson, Ed. Guggenheim, Palazzo Esposizioni, Skirà, 2012, pp. 140, formato 28×30 cm.; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Le illustrazioni del presente articolo riguardano nell’ordine opere di Postminimalismo,  Minimalismo, Arte concettuale e Fotorealismo. I primi due articoli sulla mostra sono usciti, in questo sito, il 23 e 27 novembre 2012; nel primo articolo con l’excursus sulle tendenze, è stata inserita 1’immagine di fotorealismo oltre a 3 di altre tendenze; nel secondo articolo 4 immagini dall’Espressionismo astratto alla Pop Art.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Palazzo delle Esposizioni alla presentazione, si ringrazia l’Ufficio stampa del Palaexpo, il Guggenheim con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura “Template” di Robert Morris, seguono  la foto con  “Cerchio 6”  di Robert Mangold, 1973,  e “Senza titolo”  di  Brice Marden, 1965-66 e quella con “Disposizione di specchi nello Yucatan” (1.9)” di Robert Smithson, 1969; in chiusura “Buick ‘71” di Robert Bechtle, 1972.

“Buick ‘71” di Robert Bechtle, 1972