Deineka, 3. Dalla guerra agli anni ’60, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Si conclude il racconto della la visita alla mostra su “Aleksandr Deineka, il maestro sovietico della modernità”  dal 19 febbraio al 1° maggio 2011 a Roma, Palazzo Esposizioni, con la quale ripercorriamo un periodo cruciale nelle opere di un artista sovietico propagandista del regime ma che diede al “Realismo socialista” un’impronta personale di grande qualità. Dopo la prima fase degli anni ’20, la grafica e le tematiche degli anni ’30, sport vita all’aria aperta, e il viaggio in Occidente del 1935, ecco il ritorno a casa, gli anni della guerra e le altre espressioni artistiche nella scultura e nel mosaico fino agli anni ’50 e ’60  allorché termina la sua parabola di arte e vita.

“Regione di Mosca. Novembre 1941”, 1941

Il ritorno dopo il viaggio in Occidente

Nella seconda metà del 1935, dopo la parentesi del viaggio in Occidente, riprende subito contatto con il suo paesaggio in “Kolchosiana in bicicletta”:sempre l’uso del primo piano, qui una strada con la figura sul veicolo, non colpisce il viso scuro quanto la posizione armoniosa e la macchia rossa del vestito sul verde della campagna in diverse gradazioni con la straordinaria profondità data dalla via di penetrazione che l’attraversa per perdersi all’estremo del quadro. E poi “Ritratto di S.I.L. con cappello di paglia”, dove si sente l’atmosfera del ritratto alla “Parigina” nell’eleganza del cappellino e del colletto di pizzo sull’abito nero pur se il viso è più intenso e meno raffinato.

Del 1934 “Ritratto di ragazza con un libro”, in un interno la tazza sul tavolo e i fiori sul davanzale; è immersa nella lettura, ha posato come modella la sua compagna di allora, Serafima Lyceva.  In un  dipinto del 1937, “Ritratto di Irina Servinskaia”, la figura in abito nero seduta su una poltroncina di vimini,  rappresentata di profilo, ha il viso assorto e intenso, le guance accese e i capelli rossi.

L’anno precedente “Modella”, un nudo femminile disteso mollemente su un divano rosso davanti a una finestra dalla quale sporgono i piani superiori degli edifici di fronte; l’inquadratura è di schiena, la posizione estremamente sensuale, le forme morbide e armoniose, ben diverse da quelle tozze e robuste dipinte in “Giocando a palla”. L’armonia della classicità vista in Italia ha fatto scuola?

Un altro grande dipinto di nudo, 2,30 x 1,70 cm, completa questa parte:  “Dopo la lotta” mostra la schiena possente di un uomo seduto in primo piano; sembra attendere che si liberi un posto nelle docce in fondo con sei uomini nudi in piedi che scherzano o si muovono sotto i getti dell’acqua; così come sono allineati e sfumati sembrano un fregio classico.  E’ datato 1937-42,  pensiamo che sono destinati ad essere richiamati alle armi per combattere nel conflitto mondiale che Deineka  raffigura con scene molto espressive a Mosca e Sebastopoli, e come loro tutti gli uomini validi.

La guerra a Mosca e Sebastopoli

Con la guerra torna a dipingere l’acciaio nella sua forma più dura e tagliente, lo vediamo nei “cavalli di frisia” di “Regione di Mosca, novembre 1941”, un camion passa nella piana coperta di neve a lato delle abitazioni, è solo preparazione. Si entra nel cuore della battaglia in “La difesa di Sebastopoli”, 1942, l’acciaio è sulle baionette brandite nella carica dalle due parti a stretto contatto: scena altamente drammatica come era calma e tranquilla “Sebastopoli. Sera”, 1934, due marinai e una ragazza  camminano verso l’osservatore lungo una strada tranquilla, animata da altri viandanti, c’è pace; invece nel corpo a corpo tra sovietici in bianco e tedeschi in grigioverde c’è slancio ed eroismo, sotto un cielo corrusco, si ha la sensazione della resa dei conti in un momento veramente decisivo. Sebastopoli era una città amata dall’artista, e il quadro nasce dalla visione delle immagini della città bombardata in una sua visita al fronte: lo dipinse di slancio per esprimere la sua rabbia.

L’acciaio dei “cavalli di frisia” torna in “L’asso abbattuto”, 1943: si sente nel vivo l’impatto del pilota a testa in giù a pochi metri dal suolo, c’è pietà e tenerezza per come si tiene la testa, in un gesto quasi infantile, un ritorno all’età dell’innocenza nel momento supremo nel quale merita rispetto anche il nemico, chiamato non così ma con il riconoscimento che è stato abbattuto “l’asso”.

Rappresenterà ancora Mosca durante la guerra nel 1946-47  su carta con tempera e carboncino: in “Evacuazione del bestiame dal kolchoz” i “cavalli di frisia” di acciaio tagliente sono l’unico segno sinistro della guerra nella scena quasi bucolica dell’armento che si sposta lungo il fiume oltre il quale c’è un luogo quasi di fiaba con al centro un grappolo di cupole tipo Cremlino; in “Piazza Svedlov. Dicembre”,  la fontana monumentale e il palazzo neoclassico dall’imponente colonnato e trabeazione evocano la vita normale, se non ci fossero i palloni antiaerei in cielo e qualche militare armato; in “Sera. Stagni dei Patriarchi”, il solito pallone  antiaereo in alto con due militari sul bordo dello stagno ghiacciato dove i bambini giocano a polo;  in “Officina al fronte. Riparazione carri armati”  torna l’acciaio nelle strutture, una donna anziana è tra gli operai, l’impegno è corale.

Una parentesi quasi onirica, siamo ancora in guerra, in “Vasti spazi” , 1944, grande dipinto di quasi 3 x 2 metri, che richiama l’immagine di “Mezzogiorno” del 1932 nel movimento festoso delle ragazze verso l’osservatore: ora sono vestite e appena fuori dall’acqua del lago in basso, scena bucolica, né case coloniche né ciminiere, tanto verde in diverse tonalità oltre all’azzurro dell’acqua.

I primi dipinti del dopoguerra

Finalmente la guerra è finita, “La staffetta”,1947, dipinto altrettanto grande, torna come tema alle immagini sportive degli anni ’30, però con un carattere più fotografico senza le trasposizioni del realismo ideologico che dava potenza ai corpi. Il commento di Irina Vakar sugli anni del dopoguerra si attaglia a questo dipinto: “L’interesse primario di Deineka relativamente allo spazio riguarda la resa del paesaggio en plein air, pratica che lo appassiona da tempo: ritrarre un sole primaverile, delle ombre azzurrine sulla neve, l’aria verso cui i piani evaporano in lontananza”.

Non vogliamo concludere con queste visioni esteriori il racconto del cuore della mostra, bensì con tre opere dell’ultimo periodo, anch’esse esposte, che ci riportano alla sua dimensione umana.

La prima è “Regione di Kursk. Il fiume Tuskar”, 1945, la grande ansa del fiume nel verde vista dall’alto con le tre persone minuscole che camminano lungo la strada è quanto di più riposante si potesse concepire, un’immagine da prendere come simbolo della fine del conflitto mondiale, allorché la vita torna a fluire serena come il fiume nella campagna.

Poi, in  “Mattino”, 1947, un grande dipinto dove torna la ginnastica della ragazza in pantaloncini a seno nudo, sono le forme sode di allora, ma non c’è più l’austerità di un tempo, una tenda gialla istoriata e un tappeto a vari colori movimentano la scena.

Quindi “Bagnante”, 1951, nudo integrale frontale, si avvicina a “Mattino” nelle braccia in alto e nella solidità del corpo; e richiama “Bagnanti”, 1933, che abbiamo visto di grande delicatezza, con derivazioni da Gauguin, soprattutto nell’espressione del viso sorridente che guarda lontano; questo è di dimensioni maggiori, quasi 3 metri per 2, c’è determinazione e un senso di pace reso dalla scena bucolica dietro la figura, un corso d’acqua e sull’altra riva la contadina con bue e vitello.

“Vasti spazi”, 1944 

Sculture e opere in mosaico

Lo sport diventa oggetto anche di sculture in bronzo, nello stesso 1947 “Staffetta” e “Centometrista”, nel 1955 “Calciatori”; nel 1950 aveva realizzato il mosaico “Sciatori”  ripresi di profilo in tre colori, giallo, rosso e verde nel movimento del fondo. E dato che parliamo di mosaici non possiamo non ricordare i due monumentali “Soldato dell’Armata rossa”, 1948, alto 2 metri, e “Mungitrice”, 1952, alto 4 metri in quattro pannelli, collocato nella galleria centrale del Palazzo Esposizioni tra le arcate e la volta, veramente spettacolare: entrambi sono venuti dalla Pinacoteca statale di Kurst intitolata all’artista.  Queste due ultime opere sono il segno che il “Realismo socialista” torna a celebrare il lavoro e anche il nuovo mito dell’Armata rossa che ha respinto l’invasione nazista e ha conquistato Berlino fino ad espugnare il bunker del Reichstadt.

In mosaico anche lo straordinario contributo alla metropolitana di Mosca, precisamente nella “Stazione Majakovskaja”, dedicata al famoso poeta, reso in mostra da un esauriente filmato: 35 formelle che rappresentano un “capolavoro assoluto”, inserite soprattutto nella navata centrale della seconda tratta, inaugurata nel 1938, in una sequenza a doppie volte che le fa scoprire ad una ad una con un fattore-sorpresa. Nell’insieme, architettura e pittura, mosaici e affreschi, sculture e bassorilievi con elementi ornamentali di pregio, si fondono in una composizione coerente sotto il profilo costruttivo e funzionale e in linea con la motivazione e finalità politica, anzi ideologica.

Si pensi che i 35 mosaici di forma ovale sono nella sala sotterranea lunga 155 metri, con l’intento di dare leggerezza all’insieme mediante una sorta di apertura luminosa verso l’esterno irraggiungibile – si è a trentacinque metri di profondità –  in una sequenza quasi cinematografica con i colori dei tasselli vetrati in una successione così descritta da Alessandro De Magistris: ” Percorrendo questa da un estremo all’altro, colui che avesse rivolto lo sguardo verso l’alto, avrebbe ammirato, poco alla volta, stagliarsi contro il cielo illusoriamente riprodotto e reso vibrante dai tasselli vetrati, quasi fossero fotogrammi di un’opera cinematografica, i campi kolchosiani, le ciminiere di nuovi impianti industriali dell’industrializzazione forzata, le attività di lavoro e svago della gioventù comunista, la vita ideale della famiglia sovietica che nuove leggi cercavano di rafforzare dopo il collasso degli anni venti. Avrebbe potuto ammirare il lancio dei paracadutisti, gli aerei che solcavano i cieli della madrepatria, e ancora i nuovi mezzi di esplorazione che… anticipavano, nella ricerca di nuovi primati stratosferici, la conquista del cosmo degli anni del dopoguerra”.

Questi i contenuti, e l’effetto? “La vivacità cromatica dei mosaici, in cui si rifletteva la luce emessa dalle fonti… forse nei primi viaggiatori poteva veramente alimentare l’impressione di trovarsi in prossimità della superficie e del cielo aperto”. La metropolitana fu concepita come  un’imponente “città sotterranea” che doveva condizionare lo sviluppo urbanistico di superficie, un’opera del regime volta ad affermare la potenza tecnologica e a dare al popolo una sua reggia, frequentata quotidianamente, con le architetture e le ricchezze ornamentali non più destinate al palazzo degli Zar; i mosaici di Deineka come i grandi lampadari e il resto avevano questa ambiziosa finalità.

Gli anni ’50 e ‘60

Dopo le sculture e i mosaici sopra citati non abbiamo viste esposte opere degli anni successivi. Nel dopoguerra il Realismo socialista era divenuto un imperativo per gli artisti, dovevano celebrare l’ordinamento della società come si voleva che risultasse nella realtà in modo da delineare il domani preconizzato dall’ideologia. Perciò le immagini che ne risultavano erano artificiose e senza forza, e l’arte si riduceva ad una sterile accademia priva di vita. Deineka non poteva non risentirne.

Scrive Irina Lebedeva, che dirige la Galleria statale Tret’jacov” prestatrice di una parte rilevante delle opere di Deineka, riferendosi alla sua arte: “Essa risentì effettivamente del contesto dell’ideologia sovietica e per lunghi anni la si è interpretata esclusivamente come esaltazione della forza, come volontà di eroismo, come glorificazione della tecnica e dello sport”. Questo imponeva l’ideologia, e aggiunge: “Per l’artista furono decisive non tanto le direttive politiche quanto la percezione del mondo, delle persone, il tendere di un’intera generazione verso un ideale, il rapporto armonico tra l’uomo e un mondo che stava dinamicamente cambiando”. Ma quando si attenuarono le energie giovanili, mentre queste direttive venivano ribadite e rafforzate con l’accusa di “formalismo” deteriore ai presunti deviazionisti, tra i quali in qualche caso veniva annoverato, ecco che, potremmo dire evocando una nota espressione, si andò esaurendo la sua “spinta propulsiva”.

Per Elena Voronovic “negli anni Cinquanta e Sessanta perse ciò che di più sacro esiste per il talento di un artista: la fiducia nella realizzazione del sogno, della verità di ciò che crea. Il suo brillante e vigoroso talento non riuscì a trovare una via di uscita neanche nei lavori eseguiti per se stesso. Alla ricerca di un compromesso tra il proprio punto di vista e la committenza ufficiale alla fine della sua vita Alecsandr Deineka finì per perdere la libertà e la disinvoltura dei suoi anni giovanili”.

Ed è eloquente, anche se ha un suono paradossale, che si parli di “libertà” quando c’era lo stalinismo e di “perdita di libertà” quando dopo il XX Congresso del PCUS con Krushev e la “destalinizzazione” ci fu qualche apertura sul piano politico: ciò dimostra quanto possano, contro ogni oppressione, la determinazione e la forza ideale che sentiva nell’età giovanile e non ritrova in età avanzata. Anche questa è una lezione che viene da chi, pur con i vincoli del “Realismo socialista”, ci ha dato opere che sono espressione di vitalità e un inno alla vita per ogni latitudine.

Continua a ispirarsi ai giovani, allo sport e all’aria aperta ma non vi sono motivazioni nuove, sembrano fredde ripetizioni di momenti vissuti un tempo con slancio ed entusiasmo. Ma se l’attività artistica degli anni ’50 e ’60  è condizionata dalla disillusione, non è venuta meno l’attività istituzionale: la sua posizione nel campo delle arti dell’Unione sovietica è stata di assoluta preminenza, anche se fra alti e bassi nel suo rapporto con le autorità del regime.

Sono proseguite le mostre nelle quali è stato tra  gli espositori di punta e le sue partecipazioni a Conferenze ed Assemblee negli organismi ufficiali di cui faceva parte.  Nel 1958 il presidente dell’Unione moscovita degli artisti sovietici Dementij Smarinov gli diede questo attestato: “Il sentimento della contemporaneità, l’alta intransigenza, il legame della creazione dell’artista con il destino di un popolo infondono un importante contenuto alle sue opere”. E gli conferì, a nome del governo, il titolo di “personalità emerita delle arti”; un anno dopo ebbe il “titolo emerito di Artista Popolare”, nel 1960 la laurea d’onore “per l’impegno attivo nel solidificare la pace tra i popoli”, nel 1961 la Medaglia d’oro e la Laurea d’onore dell’Accademia Belle Arti; nel 1964 il “Premio Lenin”.

Nel 1969, il 5 giugno, ci fu a Mosca una sua personale con 250 lavori, poi venne spostata a Leningrado;  il 10 ricevette il titolo di “Eroe del Lavoro Socialista” e il conferimento dell'”Ordine di Lenin” e della medaglia d’oro “Falce e martello”, ma non se ne rese neppure conto, era in fin di vita. Morì nella notte tra l’11 e il 12 giugno, a 70 anni.

Il Fondo per gli artisti fece realizzare un monumento sepolcrale dallo scultore Rukavinsikov e dall’architetto Voskresenskij  sulla sua tomba a Mosca nel 1989; nel 1982 c’era stata la prima mostra fuori della Russia, a Dusserdolf. Dopo quella mostra, “all’Ovest niente di nuovo” fino alla meritoria mostra a Roma del 2011, al Palazzo Esposizioni.

I suoi rapporti con le istituzioni artistiche e politiche, nonostante la statura che appare anche da questi pochi accenni, non furono affatto tranquilli, per la sua forte personalità che lo portava all’indipendenza e all’insofferenza rispetto alle costrizioni imposte soprattutto ai “formalisti”. Proposte di onorificenza non accolte dalle autorità e sue dimissioni dagli incarichi non mancano.

Tutto questo viene espresso sinteticamente in un quadro che realizzò nel 1948, un anno particolare.

“Autoritratto”, 1948

L’Autoritratto dell’Eroe del lavoro e dell’umanità

Perciò l’immagine che poniamo come conclusione della nostra visita alle opere in mostra è questo quadro,  “Autoritratto”, 1948, che precede il dipinto “Bagnante”, 1951,ed ha pari forza espressiva mostrando un’energia repressa anche se rivolta a una direzione e in una prospettiva ben diverse. Un’inconsueta raffigurazione di sé in tenuta definita “pugilistica”, senza guantoni ma in vestaglia o accappatoio, asciugamano e scarpette, nella camera con una tela non dipinta appoggiata alla parete.

Dipinse lo speciale autoritratto in un momento negativo, non solo per lui, ma per l’arte in Unione Sovietica, durante la campagna contro il “formalismo”, in musica e in pittura, nel quale veniva compreso anche lui. Nel marzo di quello stesso anno, il 1948, fu sollevato dall’incarico di direttore del Corso di pittura monumentale “in seguito alle sue dimissioni”, aveva la schiena dritta; ma a settembre fu ammesso come membro del “Consiglio scientifico dell’Istituto dell’Industria culturale”; in ottobre scrisse ai Compagni d’arte russa degli scultori  informandoli di aver conservato  plastici e progetti del monumento “Annientamento dei tedeschi vicino Mosca”, e lasciò la posizione di direttore  restando insegnante del Corso di scultura compositiva e decorazione; partecipò anche alla mostra “Pittura e grafica sovietica”  e lavorò ad alcuni dipinti, tra essi l'”Autoritratto”. Quell’immagine orgogliosa riafferma la sua dignità indomita, la sua volontà di battersi a mani nude e di reagire con i mezzi di cui disponeva contro la mortificazione dell’arte.

Abbiamo voluto ricordare le fasi movimentate del 1948 per inquadrare il dipinto in cui si ritrae: come segno di determinazione e volontà di lottare riprendendo la veste giovanile di pugile apprezzato da un grande allenatore di cui frequentava la palestra, che gli prediceva un luminoso avvenire nel pugilato se non ne avesse avuto uno ancora più fulgido nella pittura.

Ebbene, questo ricongiungersi delle due vocazioni di eccellenza della sua vita dopo la tragedia della guerra e gli sconvolgimenti conseguenti nella vita artistica e in quella quotidiana, ci appare rivelatore del suo essere sommo interprete del “Realismo socialista”,  ma nello stesso tempo essere espressione di un’arte molto personale che ha saputo nobilitare i temi propagandistici dando alle sue figure un forte spessore umano. Nel 1964 ha avuto, come abbiamo ricordato, il titolo di “Eroe del lavoro Socialista”. Un titolo lo merita anche nel mondo occidentale come “Eroe del lavoro” senza aggettivi; ma anche “Eroe dell’umanità” nei suoi momenti più vivi, il lavoro e il riposo, lo sport e il tempo libero, la guerra e la ripresa con vitalità e ottimismo: Per lui “l’arte è un po’ l’ideale, il desiderio di un poco di più di ciò che si vede, e di un po’ meglio di ciò che si vive” .

Per tutto questo  ci piace ricordare e celebrare di nuovo oggi la sua figura  di artista e di uomo.

Info

Catalogo“Aleksandr Deineka, il maestro sovietico della modernità”,  Skirà 2011,  pp. 214, formato 24×28, euro 39; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I due primi articoli sono usciti, in questo sito, il  26 novembre e 1° dicembre 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra, si ringrazia l’azienda Palaexpo con gli organizzatori e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.  In apertura, “Regione di Mosca. Novembre 1941”, 1941; seguono,  “Vasti spazi”, 1944, poi “Autoritratto”, 1948; in chiusura, “Mungitrice”, il mosaico alto 4 m nella galleria superiore del Palazzo Esposizioni.  

“Mungitrice”,  il mosaico monumentale 

di Romano Maria Levante

Si conclude il racconto della la visita alla mostra su “Aleksandr Deineka, il maestro sovietico della modernità”  dal 19 febbraio al 1° maggio 2011 a Roma, Palazzo Esposizioni, con la quale ripercorriamo un periodo cruciale nelle opere di un artista sovietico propagandista del regime ma che diede al “Realismo socialista” un’impronta personale di grande qualità. Dopo la prima fase degli anni ’20, la grafica e le tematiche degli anni ’30, sport vita all’aria aperta, e il viaggio in Occidente del 1935, ecco il ritorno a casa, gli anni della guerra e le altre espressioni artistiche nella scultura e nel mosaico fino agli anni ’50 e ’60  allorché termina la sua parabola di arte e vita.

“Regione di Mosca. Novembre 1941”, 1941

Il ritorno dopo il viaggio in Occidente

Nella seconda metà del 1935, dopo la parentesi del viaggio in Occidente, riprende subito contatto con il suo paesaggio in “Kolchosiana in bicicletta”:sempre l’uso del primo piano, qui una strada con la figura sul veicolo, non colpisce il viso scuro quanto la posizione armoniosa e la macchia rossa del vestito sul verde della campagna in diverse gradazioni con la straordinaria profondità data dalla via di penetrazione che l’attraversa per perdersi all’estremo del quadro. E poi “Ritratto di S.I.L. con cappello di paglia”, dove si sente l’atmosfera del ritratto alla “Parigina” nell’eleganza del cappellino e del colletto di pizzo sull’abito nero pur se il viso è più intenso e meno raffinato.

Del 1934 “Ritratto di ragazza con un libro”, in un interno la tazza sul tavolo e i fiori sul davanzale; è immersa nella lettura, ha posato come modella la sua compagna di allora, Serafima Lyceva.  In un  dipinto del 1937, “Ritratto di Irina Servinskaia”, la figura in abito nero seduta su una poltroncina di vimini,  rappresentata di profilo, ha il viso assorto e intenso, le guance accese e i capelli rossi.

L’anno precedente “Modella”, un nudo femminile disteso mollemente su un divano rosso davanti a una finestra dalla quale sporgono i piani superiori degli edifici di fronte; l’inquadratura è di schiena, la posizione estremamente sensuale, le forme morbide e armoniose, ben diverse da quelle tozze e robuste dipinte in “Giocando a palla”. L’armonia della classicità vista in Italia ha fatto scuola?

Un altro grande dipinto di nudo, 2,30 x 1,70 cm, completa questa parte:  “Dopo la lotta” mostra la schiena possente di un uomo seduto in primo piano; sembra attendere che si liberi un posto nelle docce in fondo con sei uomini nudi in piedi che scherzano o si muovono sotto i getti dell’acqua; così come sono allineati e sfumati sembrano un fregio classico.  E’ datato 1937-42,  pensiamo che sono destinati ad essere richiamati alle armi per combattere nel conflitto mondiale che Deineka  raffigura con scene molto espressive a Mosca e Sebastopoli, e come loro tutti gli uomini validi.

La guerra a Mosca e Sebastopoli

Con la guerra torna a dipingere l’acciaio nella sua forma più dura e tagliente, lo vediamo nei “cavalli di frisia” di “Regione di Mosca, novembre 1941”, un camion passa nella piana coperta di neve a lato delle abitazioni, è solo preparazione. Si entra nel cuore della battaglia in “La difesa di Sebastopoli”, 1942, l’acciaio è sulle baionette brandite nella carica dalle due parti a stretto contatto: scena altamente drammatica come era calma e tranquilla “Sebastopoli. Sera”, 1934, due marinai e una ragazza  camminano verso l’osservatore lungo una strada tranquilla, animata da altri viandanti, c’è pace; invece nel corpo a corpo tra sovietici in bianco e tedeschi in grigioverde c’è slancio ed eroismo, sotto un cielo corrusco, si ha la sensazione della resa dei conti in un momento veramente decisivo. Sebastopoli era una città amata dall’artista, e il quadro nasce dalla visione delle immagini della città bombardata in una sua visita al fronte: lo dipinse di slancio per esprimere la sua rabbia.

L’acciaio dei “cavalli di frisia” torna in “L’asso abbattuto”, 1943: si sente nel vivo l’impatto del pilota a testa in giù a pochi metri dal suolo, c’è pietà e tenerezza per come si tiene la testa, in un gesto quasi infantile, un ritorno all’età dell’innocenza nel momento supremo nel quale merita rispetto anche il nemico, chiamato non così ma con il riconoscimento che è stato abbattuto “l’asso”.

Rappresenterà ancora Mosca durante la guerra nel 1946-47  su carta con tempera e carboncino: in “Evacuazione del bestiame dal kolchoz” i “cavalli di frisia” di acciaio tagliente sono l’unico segno sinistro della guerra nella scena quasi bucolica dell’armento che si sposta lungo il fiume oltre il quale c’è un luogo quasi di fiaba con al centro un grappolo di cupole tipo Cremlino; in “Piazza Svedlov. Dicembre”,  la fontana monumentale e il palazzo neoclassico dall’imponente colonnato e trabeazione evocano la vita normale, se non ci fossero i palloni antiaerei in cielo e qualche militare armato; in “Sera. Stagni dei Patriarchi”, il solito pallone  antiaereo in alto con due militari sul bordo dello stagno ghiacciato dove i bambini giocano a polo;  in “Officina al fronte. Riparazione carri armati”  torna l’acciaio nelle strutture, una donna anziana è tra gli operai, l’impegno è corale.

Una parentesi quasi onirica, siamo ancora in guerra, in “Vasti spazi” , 1944, grande dipinto di quasi 3 x 2 metri, che richiama l’immagine di “Mezzogiorno” del 1932 nel movimento festoso delle ragazze verso l’osservatore: ora sono vestite e appena fuori dall’acqua del lago in basso, scena bucolica, né case coloniche né ciminiere, tanto verde in diverse tonalità oltre all’azzurro dell’acqua.

I primi dipinti del dopoguerra

Finalmente la guerra è finita, “La staffetta”,1947, dipinto altrettanto grande, torna come tema alle immagini sportive degli anni ’30, però con un carattere più fotografico senza le trasposizioni del realismo ideologico che dava potenza ai corpi. Il commento di Irina Vakar sugli anni del dopoguerra si attaglia a questo dipinto: “L’interesse primario di Deineka relativamente allo spazio riguarda la resa del paesaggio en plein air, pratica che lo appassiona da tempo: ritrarre un sole primaverile, delle ombre azzurrine sulla neve, l’aria verso cui i piani evaporano in lontananza”.

Non vogliamo concludere con queste visioni esteriori il racconto del cuore della mostra, bensì con tre opere dell’ultimo periodo, anch’esse esposte, che ci riportano alla sua dimensione umana.

La prima è “Regione di Kursk. Il fiume Tuskar”, 1945, la grande ansa del fiume nel verde vista dall’alto con le tre persone minuscole che camminano lungo la strada è quanto di più riposante si potesse concepire, un’immagine da prendere come simbolo della fine del conflitto mondiale, allorché la vita torna a fluire serena come il fiume nella campagna.

Poi, in  “Mattino”, 1947, un grande dipinto dove torna la ginnastica della ragazza in pantaloncini a seno nudo, sono le forme sode di allora, ma non c’è più l’austerità di un tempo, una tenda gialla istoriata e un tappeto a vari colori movimentano la scena.

Quindi “Bagnante”, 1951, nudo integrale frontale, si avvicina a “Mattino” nelle braccia in alto e nella solidità del corpo; e richiama “Bagnanti”, 1933, che abbiamo visto di grande delicatezza, con derivazioni da Gauguin, soprattutto nell’espressione del viso sorridente che guarda lontano; questo è di dimensioni maggiori, quasi 3 metri per 2, c’è determinazione e un senso di pace reso dalla scena bucolica dietro la figura, un corso d’acqua e sull’altra riva la contadina con bue e vitello.

“Vasti spazi”, 1944 

Sculture e opere in mosaico

Lo sport diventa oggetto anche di sculture in bronzo, nello stesso 1947 “Staffetta” e “Centometrista”, nel 1955 “Calciatori”; nel 1950 aveva realizzato il mosaico “Sciatori”  ripresi di profilo in tre colori, giallo, rosso e verde nel movimento del fondo. E dato che parliamo di mosaici non possiamo non ricordare i due monumentali “Soldato dell’Armata rossa”, 1948, alto 2 metri, e “Mungitrice”, 1952, alto 4 metri in quattro pannelli, collocato nella galleria centrale del Palazzo Esposizioni tra le arcate e la volta, veramente spettacolare: entrambi sono venuti dalla Pinacoteca statale di Kurst intitolata all’artista.  Queste due ultime opere sono il segno che il “Realismo socialista” torna a celebrare il lavoro e anche il nuovo mito dell’Armata rossa che ha respinto l’invasione nazista e ha conquistato Berlino fino ad espugnare il bunker del Reichstadt.

In mosaico anche lo straordinario contributo alla metropolitana di Mosca, precisamente nella “Stazione Majakovskaja”, dedicata al famoso poeta, reso in mostra da un esauriente filmato: 35 formelle che rappresentano un “capolavoro assoluto”, inserite soprattutto nella navata centrale della seconda tratta, inaugurata nel 1938, in una sequenza a doppie volte che le fa scoprire ad una ad una con un fattore-sorpresa. Nell’insieme, architettura e pittura, mosaici e affreschi, sculture e bassorilievi con elementi ornamentali di pregio, si fondono in una composizione coerente sotto il profilo costruttivo e funzionale e in linea con la motivazione e finalità politica, anzi ideologica.

Si pensi che i 35 mosaici di forma ovale sono nella sala sotterranea lunga 155 metri, con l’intento di dare leggerezza all’insieme mediante una sorta di apertura luminosa verso l’esterno irraggiungibile – si è a trentacinque metri di profondità –  in una sequenza quasi cinematografica con i colori dei tasselli vetrati in una successione così descritta da Alessandro De Magistris: ” Percorrendo questa da un estremo all’altro, colui che avesse rivolto lo sguardo verso l’alto, avrebbe ammirato, poco alla volta, stagliarsi contro il cielo illusoriamente riprodotto e reso vibrante dai tasselli vetrati, quasi fossero fotogrammi di un’opera cinematografica, i campi kolchosiani, le ciminiere di nuovi impianti industriali dell’industrializzazione forzata, le attività di lavoro e svago della gioventù comunista, la vita ideale della famiglia sovietica che nuove leggi cercavano di rafforzare dopo il collasso degli anni venti. Avrebbe potuto ammirare il lancio dei paracadutisti, gli aerei che solcavano i cieli della madrepatria, e ancora i nuovi mezzi di esplorazione che… anticipavano, nella ricerca di nuovi primati stratosferici, la conquista del cosmo degli anni del dopoguerra”.

Questi i contenuti, e l’effetto? “La vivacità cromatica dei mosaici, in cui si rifletteva la luce emessa dalle fonti… forse nei primi viaggiatori poteva veramente alimentare l’impressione di trovarsi in prossimità della superficie e del cielo aperto”. La metropolitana fu concepita come  un’imponente “città sotterranea” che doveva condizionare lo sviluppo urbanistico di superficie, un’opera del regime volta ad affermare la potenza tecnologica e a dare al popolo una sua reggia, frequentata quotidianamente, con le architetture e le ricchezze ornamentali non più destinate al palazzo degli Zar; i mosaici di Deineka come i grandi lampadari e il resto avevano questa ambiziosa finalità.

Gli anni ’50 e ‘60

Dopo le sculture e i mosaici sopra citati non abbiamo viste esposte opere degli anni successivi. Nel dopoguerra il Realismo socialista era divenuto un imperativo per gli artisti, dovevano celebrare l’ordinamento della società come si voleva che risultasse nella realtà in modo da delineare il domani preconizzato dall’ideologia. Perciò le immagini che ne risultavano erano artificiose e senza forza, e l’arte si riduceva ad una sterile accademia priva di vita. Deineka non poteva non risentirne.

Scrive Irina Lebedeva, che dirige la Galleria statale Tret’jacov” prestatrice di una parte rilevante delle opere di Deineka, riferendosi alla sua arte: “Essa risentì effettivamente del contesto dell’ideologia sovietica e per lunghi anni la si è interpretata esclusivamente come esaltazione della forza, come volontà di eroismo, come glorificazione della tecnica e dello sport”. Questo imponeva l’ideologia, e aggiunge: “Per l’artista furono decisive non tanto le direttive politiche quanto la percezione del mondo, delle persone, il tendere di un’intera generazione verso un ideale, il rapporto armonico tra l’uomo e un mondo che stava dinamicamente cambiando”. Ma quando si attenuarono le energie giovanili, mentre queste direttive venivano ribadite e rafforzate con l’accusa di “formalismo” deteriore ai presunti deviazionisti, tra i quali in qualche caso veniva annoverato, ecco che, potremmo dire evocando una nota espressione, si andò esaurendo la sua “spinta propulsiva”.

Per Elena Voronovic “negli anni Cinquanta e Sessanta perse ciò che di più sacro esiste per il talento di un artista: la fiducia nella realizzazione del sogno, della verità di ciò che crea. Il suo brillante e vigoroso talento non riuscì a trovare una via di uscita neanche nei lavori eseguiti per se stesso. Alla ricerca di un compromesso tra il proprio punto di vista e la committenza ufficiale alla fine della sua vita Alecsandr Deineka finì per perdere la libertà e la disinvoltura dei suoi anni giovanili”.

Ed è eloquente, anche se ha un suono paradossale, che si parli di “libertà” quando c’era lo stalinismo e di “perdita di libertà” quando dopo il XX Congresso del PCUS con Krushev e la “destalinizzazione” ci fu qualche apertura sul piano politico: ciò dimostra quanto possano, contro ogni oppressione, la determinazione e la forza ideale che sentiva nell’età giovanile e non ritrova in età avanzata. Anche questa è una lezione che viene da chi, pur con i vincoli del “Realismo socialista”, ci ha dato opere che sono espressione di vitalità e un inno alla vita per ogni latitudine.

Continua a ispirarsi ai giovani, allo sport e all’aria aperta ma non vi sono motivazioni nuove, sembrano fredde ripetizioni di momenti vissuti un tempo con slancio ed entusiasmo. Ma se l’attività artistica degli anni ’50 e ’60  è condizionata dalla disillusione, non è venuta meno l’attività istituzionale: la sua posizione nel campo delle arti dell’Unione sovietica è stata di assoluta preminenza, anche se fra alti e bassi nel suo rapporto con le autorità del regime.

Sono proseguite le mostre nelle quali è stato tra  gli espositori di punta e le sue partecipazioni a Conferenze ed Assemblee negli organismi ufficiali di cui faceva parte.  Nel 1958 il presidente dell’Unione moscovita degli artisti sovietici Dementij Smarinov gli diede questo attestato: “Il sentimento della contemporaneità, l’alta intransigenza, il legame della creazione dell’artista con il destino di un popolo infondono un importante contenuto alle sue opere”. E gli conferì, a nome del governo, il titolo di “personalità emerita delle arti”; un anno dopo ebbe il “titolo emerito di Artista Popolare”, nel 1960 la laurea d’onore “per l’impegno attivo nel solidificare la pace tra i popoli”, nel 1961 la Medaglia d’oro e la Laurea d’onore dell’Accademia Belle Arti; nel 1964 il “Premio Lenin”.

Nel 1969, il 5 giugno, ci fu a Mosca una sua personale con 250 lavori, poi venne spostata a Leningrado;  il 10 ricevette il titolo di “Eroe del Lavoro Socialista” e il conferimento dell'”Ordine di Lenin” e della medaglia d’oro “Falce e martello”, ma non se ne rese neppure conto, era in fin di vita. Morì nella notte tra l’11 e il 12 giugno, a 70 anni.

Il Fondo per gli artisti fece realizzare un monumento sepolcrale dallo scultore Rukavinsikov e dall’architetto Voskresenskij  sulla sua tomba a Mosca nel 1989; nel 1982 c’era stata la prima mostra fuori della Russia, a Dusserdolf. Dopo quella mostra, “all’Ovest niente di nuovo” fino alla meritoria mostra a Roma del 2011, al Palazzo Esposizioni.

I suoi rapporti con le istituzioni artistiche e politiche, nonostante la statura che appare anche da questi pochi accenni, non furono affatto tranquilli, per la sua forte personalità che lo portava all’indipendenza e all’insofferenza rispetto alle costrizioni imposte soprattutto ai “formalisti”. Proposte di onorificenza non accolte dalle autorità e sue dimissioni dagli incarichi non mancano.

Tutto questo viene espresso sinteticamente in un quadro che realizzò nel 1948, un anno particolare.

“Autoritratto”, 1948

L’Autoritratto dell’Eroe del lavoro e dell’umanità

Perciò l’immagine che poniamo come conclusione della nostra visita alle opere in mostra è questo quadro,  “Autoritratto”, 1948, che precede il dipinto “Bagnante”, 1951,ed ha pari forza espressiva mostrando un’energia repressa anche se rivolta a una direzione e in una prospettiva ben diverse. Un’inconsueta raffigurazione di sé in tenuta definita “pugilistica”, senza guantoni ma in vestaglia o accappatoio, asciugamano e scarpette, nella camera con una tela non dipinta appoggiata alla parete.

Dipinse lo speciale autoritratto in un momento negativo, non solo per lui, ma per l’arte in Unione Sovietica, durante la campagna contro il “formalismo”, in musica e in pittura, nel quale veniva compreso anche lui. Nel marzo di quello stesso anno, il 1948, fu sollevato dall’incarico di direttore del Corso di pittura monumentale “in seguito alle sue dimissioni”, aveva la schiena dritta; ma a settembre fu ammesso come membro del “Consiglio scientifico dell’Istituto dell’Industria culturale”; in ottobre scrisse ai Compagni d’arte russa degli scultori  informandoli di aver conservato  plastici e progetti del monumento “Annientamento dei tedeschi vicino Mosca”, e lasciò la posizione di direttore  restando insegnante del Corso di scultura compositiva e decorazione; partecipò anche alla mostra “Pittura e grafica sovietica”  e lavorò ad alcuni dipinti, tra essi l'”Autoritratto”. Quell’immagine orgogliosa riafferma la sua dignità indomita, la sua volontà di battersi a mani nude e di reagire con i mezzi di cui disponeva contro la mortificazione dell’arte.

Abbiamo voluto ricordare le fasi movimentate del 1948 per inquadrare il dipinto in cui si ritrae: come segno di determinazione e volontà di lottare riprendendo la veste giovanile di pugile apprezzato da un grande allenatore di cui frequentava la palestra, che gli prediceva un luminoso avvenire nel pugilato se non ne avesse avuto uno ancora più fulgido nella pittura.

Ebbene, questo ricongiungersi delle due vocazioni di eccellenza della sua vita dopo la tragedia della guerra e gli sconvolgimenti conseguenti nella vita artistica e in quella quotidiana, ci appare rivelatore del suo essere sommo interprete del “Realismo socialista”,  ma nello stesso tempo essere espressione di un’arte molto personale che ha saputo nobilitare i temi propagandistici dando alle sue figure un forte spessore umano. Nel 1964 ha avuto, come abbiamo ricordato, il titolo di “Eroe del lavoro Socialista”. Un titolo lo merita anche nel mondo occidentale come “Eroe del lavoro” senza aggettivi; ma anche “Eroe dell’umanità” nei suoi momenti più vivi, il lavoro e il riposo, lo sport e il tempo libero, la guerra e la ripresa con vitalità e ottimismo: Per lui “l’arte è un po’ l’ideale, il desiderio di un poco di più di ciò che si vede, e di un po’ meglio di ciò che si vive” .

Per tutto questo  ci piace ricordare e celebrare di nuovo oggi la sua figura  di artista e di uomo.

Info

Catalogo“Aleksandr Deineka, il maestro sovietico della modernità”,  Skirà 2011,  pp. 214, formato 24×28, euro 39; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I due primi articoli sono usciti, in questo sito, il  26 novembre e 1° dicembre 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra, si ringrazia l’azienda Palaexpo con gli organizzatori e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.  In apertura, “Regione di Mosca. Novembre 1941”, 1941; seguono,  “Vasti spazi”, 1944, poi “Autoritratto”, 1948; in chiusura, “Mungitrice”, il mosaico alto 4 m nella galleria superiore del Palazzo Esposizioni.  

“Mungitrice”,  il mosaico monumentale