Akbar, 1. L’età d’oro dell’India, al Palazzo Sciarra

di Romano Maria Levante

Alla Fondazione  Roma Museo, Palazzo Sciarra, in via del Corso, la mostra “Akbar. Il grande imperatore dell’India”, dal 23 ottobre 2012 al 3 febbraio 2013, oltre 130 opere in un allestimento che fa entrare nell’Oriente misterioso. E’ organizzata con “Arthemisia Group”, a cura di Gian Carlo Calza che ha curato anche il Catalogo Skira, nel quale si ripercorre la storia della dinastia Moghul, stirpe di conquistatori del periodo d’oro dell’India, con un corredo di immagini splendide per raffinatezza formale e delicatezza cromatica: memoria preziosa di una mostra altrettanto preziosa.

“Ritratto di Akbar a cavallo accompagnato da un porta stendardo”, 1585 

Una “total immersion” nell’India misteriosa la mostra al Palazzo Sciarra  sull’imperatore della dinastia dei Moghul che ha segnato una stagione fulgida, dal nome “Akbar, il più grande”, appellativo che nell’Islam è riservato a Dio.

La Fondazione Roma continua la sua “esplorazione” dello sconfinato Oriente, dopo la Cina dell’imperatore Qianlong nella grandiosa mostra del 2007-08, e il Giappone di Hiroshige nella mostra nel 2009. E non a caso, la visione lungimirante del presidente Emmanuele F. M. Emanuele la pone in una prospettiva ben più vasta del pur rilevante fatto storico-artistico: “Sono paesi – afferma –  la cui crescita fa da protagonista nell’economia e nella politica contemporanea e con i quali è auspicabile dialogare intensamente sulla base della conoscenza delle reciproche culture e del reciproco rispetto”. E precisa: “Il dialogo e la tolleranza per le diversità sia di credo che di appartenenza etnica, centrali nella politica di Akbar, ancor più oggi si dimostrano quali pilastri per un mondo maturo e cosmopolita , che sappia accogliere le trasformazioni storiche e culturali con tolleranza e sappia gestire la complessità che ormai caratterizza la società contemporanea”.

Un’immersione favorita dall’allestimento suggestivo, sembra di muoversi nei meandri del palazzo imperiale, in un labirinto di sorprese che rende la mostra diversa dalle consuete esposizioni di opere d’arte. Queste non mancano, sono 130 le testimonianze, per lo più illustrazioni grafiche contrassegnate da  una straordinaria eleganza calligrafica, vivezza cromatica e preziosità. Ma oltre a questi pregi stilistici che si apprezzano di primo acchito, colpisce il mondo raffigurato, l’India nel XVI secolo, che rivela tanti motivi di interesse anche attuale da acuire ancor più l’attenzione.

Per apprezzare il contenuto della mostra prima della visita è bene conoscere cosa c’è dietro le espressioni d’arte portate a testimonianza, un mondo che in tempi lontani ha trovato delle direttrici e dei motivi ispiratori  rimasti dopo quattro secoli come modello di umanità, per quei fattori di pace e progresso evidenziati da Emanuele che emergono pur nelle tempeste politiche e militari dell’epoca.

Akbar viene infatti da una dinastia di conquistatori  e lui stesso è stato protagonista di vicende personali tempestose e campagne militari molto aspre che lo hanno portato a stabilire la potestà imperiale su un territorio più vasto dell’India odierna, includendo anche la Persia. Ma questo accresce il merito della visione illuminata in molteplici campi che ha fatto di quel periodo un’età d’oro, e porta ad approfondirne  i principali aspetti  per poter dare il giusto significato alla fioritura artistica esposta in mostra.

La telenovela epica della vita di Akbar

Come in un romanzo di appendice, cominciamo facendo un passo indietro, tornando alle origini della dinastia dei Moghul, della quale è stato il terzo. Il nonno era Babur, discendente per parte di padre da Genghis Kahn e di madre dal Tamerlano, il che è tutto dire;  il padre Humayun  vive vicende da tragedia greca, in lotta con i due fratellastri Kamran Mirza e Askari Mirza, costretto alla fuga con il  piccolo Akbar mentre alla morte del padre nel 1530 era andata  a lui l’India, cui aspirava uno dei fratelli confinato nell’Afghanistan, una fuga cui il piccolo a un annodi età  non sarebbe sopravvissuto, perciò fu lasciato a Kandahar in un accampamento dove lo trovò lo zio nemico. Qui il romanzo d’appendice prende corpo nelle parole del curatore della mostra Gian Carlo Calza: “Questa vicenda avrebbe potuto condurre alla fine dell’avventura imperiale di padre e figlio  e forse anche alle loro esistenze. Eppure, proprio nel punto più basso di quello che sembrava un destino ormai segnato, la loro storia prese una piega che avrebbe influito profondamente sui destini dei Moghul e in  particolare di Akbar”. Cosa avvenne, dunque? “Il bimbo fu risparmiato e accudito dalla sposa di Askari, probabilmente come ostaggio potenziale. Humayun fu accolto in Iran dallo Shah non come fuggiasco, ma da pari  e ne ricevette sostegno e protezione”. A questo forse non fu estraneo il munifico dono che fece del famoso diamante Koh-i-Noor, lo Shah gli fornì addirittura un esercito di 12.000 cavalieri con il quale si riunì al figlio Akbar di 3 anni. Si era nel febbraio 1545.

Un “happy end”  alla Noè salvato dalle acque per il piccolo, mentre il lieto fine per il padre  si avrà nel 1555 quando torna in India con il figlio allorché un generale valente e fidato, Bayram Khan, riconquista le province, prende Lahore e il trono di Delhi. Non sarebbe una storia da romanzo di appendice se non ci fosse un colpo di scena: la morte del padre dopo meno di un anno, per una banale infortunio nel gennaio 1546, cade rovinosamente dalle scale inciampando sulla veste.

Sale al trono Akbar a soli 13 anni con la tutela per le questioni militari del generale che mise subito a frutto la sua valentia riconquistando Delhi dopo che alla morte di Humayun era stata presa da Hemu, il quale schierò 1500 elefanti in tenuta da guerra, ma fu ferito a un occhio e poi decapitato.  Una sorta di reggenza fu quella della nutrice Mahaman Anga che in esilio lo aveva allevato come una mamma, ma si rivelò dispotica e in seguito fu al centro di intrighi di corte: un fratello di latte, Adham Kahan, cospirò, con la madre sua nutrice, contro di lui uccidendo il primo ministro che gli era fedele e subì la legge del taglione, la madre ne morì.

A questo momento viene ricondotta la sua emancipazione, ha 18 anni; poi si sposerà, avrà dei figli, con Selim nel 1600 la cruenta telenovela iniziale sembrò ripetersi, il figlio fece uccidere il suo consigliere più fidato, ma vi fu la riconciliazione alla morte della madre di Akbar nel 1604 e l’accettazione dell’idea della successione al trono da parte di Selim nel 1605 alla morte dell’altro figlio Danyal poco più che trentenne.  Sono le ultime battute, Akbar muore  per dissenteria.

Queste tormentate vicende intestine non impedirono ad Akbar di estendere il suo regno a dimensioni inusitate, con annessioni territoriali che accorparono all’India gli attuali Afghanistan e Pakistan.  Era addestrato alla lotta, si impegnava personalmente  nella battaglia, comandando le cariche, come faceva nella caccia, sapeva domare bestie feroci. Era coraggioso e determinato, ma anche meditativo e religioso.

“Pugnali, Scimitarre e Scudi” 

L’arte e i valori civili

Ci siamo soffermati sulla telenovela epica della sua vita per fare apprezzare ancora di più  i fattori dominanti del suo regno che sembrano di tutt’altro  segno, come il dialogo e la tolleranza citati da Emanuele; e il suo amore per la cultura che si tradusse nella fioritura artistica documentata dalla mostra, nonostante fosse privo di istruzione.  Questo per le vicende tempestose della sua adolescenza, ma anche per la sua ritrosia verso gli studi che viene riferita al fatto che “il disegno fosse che tale signore dalla sapienza sublime e allievo speciale di Dio non dovesse essere implicato in un apprendimento umano comune, così che potesse diventare chiaro per l’umanità che la conoscenza di questo re dei sapienti rientrasse nella natura del dono e non dell’acquisizione”. 

Le idee innate, dunque, tali che sebbene non imparasse a leggere e scrivere fu, dice Calza, “uno  dei più grandi sostenitori delle lettere di ogni tempo, poeta egli stesso e amante delle arti e della musica”. Il padre Humayun aveva assorbito la cultura e la raffinatezza artistica e letteraria nonché i valori etici della Persia, e da uomo di lettere ne fece tesoro trasferendoli al figlio. Il quale poi creò un vero e proprio centro  di arti per artisti e pittori con oltre cento aiutanti, una  istituzione di autentico  mecenatismo, senza imposizioni né vincoli, che produsse opere di straordinaria bellezza.

Promosse la pittura nella quale si riversavano le scoperte che venivano fatte nei viaggi dei sovrani in mondi per loro sconosciuti  misteriosi: di qui oltre ai motivi decorativi astratti o floreali, una ricchezza di immagini dalla flora alla fauna,  in composizioni anche ardite, con dignitari, armati e gente comune immersi in ambienti fantastici dalla precisione grafica e delicatezza cromatica. I libri illustrati con queste preziose pitture sono una fonte anche documentaria oltre che artistica di valore eccezionale, la mostra è in gran parte basata sulle straordinarie immagini in essi contenute.

L’impegno del sovrano nel promuovere le arti, pur  tra le gravose incombenze del suo regno, viene così riassunto da Jorrit Britschgi: “Oltre che a grandi battaglie finalizzate all’integrazione dei principi locali dei regni confinanti, o alla costruzione di strutture difensive come il forte di Agra, Akbar dedicò come nessun altro prima di lui consistenti risorse alla realizzazione di armi artistiche, opere toreutiche, splendidi tessuti, alla traduzione e trascrizione di testi che venivano poi illustrati nelle botteghe di corte”.  Seguendo questi indirizzi: “Come nell’architettura, attraverso la fusione di diversi stili, Akbar diede vita a un vocabolario che riuniva linguaggi stranieri e locali, allo stesso modo delle botteghe di pittura della sua corte si formò uno stile che si distaccò nettamente dalle radici persiane e pre-moghul e che improntò i successivi sviluppi della pittura moghul”.

Il suo spirito innovativo  emerge  anche da altre iniziative da lui intraprese come sovrano di un impero che cresceva a dismisura. Decise di costruire una nuova città imperiale prima che venisse completata, nel 1573,  la capitale Agra. Sorge così a Sikri la “Città della Vittoria”,  nel ricco stato del Gujarat cui si aggiungerà il Bengala tre anni dopo, nella località dove il nonno Babur, nel 1526, aveva  sconfitto Rana Sanga legittimando la dinastia moghul.  La città è al centro di un sistema a rete di villaggi e città che potenziò ed estese facendo costruire, tra il 1568 e il 1585, 15 nuove città in un disegno di gestione del territorio finalizzato anche alla produzione e raccolta di rendite.

Alla divisione amministrativa in province aggregate in distretti e in più circoscrizioni più ampie corrispondeva una configurazione territoriale geometrica con una pianificazione regionale su tre livelli: villaggi preislamici, alla distanza media di 3 chilometri, che erano la base produttiva; città intermedie per lo scambio dei prodotti dell’agricoltura, poste a 25-30 chilometri e in grado di riempire i vuoti del reticolo; la capitale come baricentro dell’intero sistema. Attilio Petruccioli, che ne fa un’analisi accurata, aggiunge: “Questo sistema gerarchico e reticolare apparentemente rigido era in realtà molto flessibile per il suo impiego in tutte le direzioni cardinali, appunto come una scacchiera, né contrastava con l’istintiva mobilità della corte moghul”. Con questa possibilità: “Di fatto, muovendosi a piacimento nella scacchiera, il re poteva dichiarare capitale il luogo in cui di volta in volta fossero state innalzate le insegne imperiali”.  La capitale effettiva rimase ad Agra,ben fortificata, mentre Sikri, dalle esili mura, era una sede residenziale, da abbandonare se attaccati.  

Sikri è un esempio di architettura urbana e di assetto territoriale: alla struttura del palazzo imperiale con spazi pubblici, semipubblici e riservati fino all’harem si ispireranno i palazzi dei successori nelle capitali Lahore, Agra e Delhi; così per i collegamenti con il sistema urbano. Per Calza, ” è soprattutto un capolavoro dello spirito fatto materia dove la forza dell’architettura indiana si fonde con la lievità degli accampamenti nomadici. La struttura leggera del campo, indipendentemente dalle sue dimensioni, il sentimento del movimento, dello spostarsi di luogo in luogo, diventa realtà architettonica di mattone e arenaria rossa quando anche non di marmo bianco”. Dopo 14 anni la lascerà come fosse l’accampamento “non capriccio sconfinato di un grande signore in un momento di tedio, ma il gesto consapevole di un grande servitore all’interno di un disegno divino”.

Akbar ispeziona la costruzione di Fathpur Sikri” ,1590-95

Il  sincretismo religioso e la tolleranza

Nella sua visione di interprete di un disegno divino, si proclamò “arbitro supremo” nelle questioni religiose islamiche con un editto del 1579.  Verrebbe fatto di pensare a un fondamentalismo imposto alle altre religioni, tutt’altro:  accolse nella sua corte esponenti dei vari credi, e valorizzò la fede hindu tradizionale alleandosi con questa antica stirpe di guerrieri e sposandone una esponente, prendendo i suoi parenti hindu come consiglieri; tra le sue mogli ce n’erano anche di altre etnie e religioni. Applicò dunque in pratica, con chiari esempi personali,  il rispetto per le altre fedi  e per le etnie che le professavano. 

Puntò a un  sincretismo che fondesse induismo e Islam, diede un forte segnale eliminando la tassa che gravava sui non musulmani.   Nel 1582 presentò il suo disegno della “Fede divina”, frutto delle discussioni decennali e delle meditazioni in cui si impegnava personalmente alla ricerca della retta via. Il rapporto con il divino era basato sul sincretismo, non proponeva una religione come alternativa rispetto alle altre che si imponesse con la forza dell’impianto dottrinario o il mistero  della rivelazione o cercasse proseliti: “Propugnava la necessità di leggere all’interno di ogni religione la presenza di un’unica realtà divina, la stessa che dichiarava presente in ciascun uomo ma di cui solo pochissimi diverrebbero veramente consapevoli”. Ecco il risultato: “Con queste caratteristiche forse la fede divina appare una scuola spirituale, una difficile e selettiva via iniziatica che non una nuova forma di religione che fondesse tutte le altre”. Tale concezione finì con lui, la lezione fu dimenticata, anche oggi vediamo come sia rara quanto preziosa la tolleranza religiosa.

Alla base della sua concezione non c’era solo una genuina apertura spirituale, ma anche una chiara visione politica per organizzare e gestire un territorio in forte espansione per le sue conquiste.  Così Elisa Gagliardi Mangilli: “Attratto dall’infinita varietà di stimoli che lo circondava, egli comprese che le diverse componenti etnico-religiose, che ormai erano parte integrante del suo variegato impero, per potersi amalgamare e integrare dovevano avere tutte un ruolo attivo nella costruzione della nuova cultura moghul, a partire dal credo religioso, tanto che fondò una religione sincretica nella quale confluirono componenti musulmane, hindu e cristiane”.

Ma non impose il nuovo credo, la libertà religiosa da lui assicurata creò spazi per tutte le fedi, soprattutto quella cristiana: “Testimoni attivi nella composizione degli elementi cardine di questo nuovo credo furono i gesuiti che vennero invitati a corte a illustrare, spiegare e sostenere dibattiti sui caratteri salienti del cristianesimo”.  La Mangilli riporta la testimonianza del gesuita Ridolfo Acquaviva, invitato a corte nella nuova capitale Sikri, il 27 febbraio 1580, con il confratello Monserrate, in cui descrive con i dettagli più minuziosi dell’abbigliamento e delle armi, la figura dell’imperatore seduto “all’usanza dei Mori, rilevato sopra un gran cuscino di velluto a fregi d’oro”.

Il valore della tolleranza permeò la sua azione anche nel campo civile, strettamente collegato a quello religioso per quanto si è accennato. Era  alla base del suo disegno politico e amministrativo, sociale e culturale di sovrano illuminato che fece vivere al suo popolo, sul  territorio in continua espansione per le sue conquiste,  una fase di prosperità economica,  di fervore artistico e culturale.

Akbar, un esempio e un simbolo

Abbiamo detto che Akbar non imparò a leggere e scrivere per le vicende della vita ma anche per quello che è stato definito un disegno divino. Emanuele cita al riguardo le parole del mahatma Gandhi come chiave interpretativa  e sintesi della sua personalità: “Non è la letteratura né il vasto sapere che fa l’uomo, ma la sua educazione alla vita reale. Che importanza avrebbe che noi fossimo arche di scienza se poi non sapessimo vivere in fraternità con il nostro prossimo?”. 

Un  senso di fraternità Akbar lo mostrò anche nei momenti critici della sua esistenza, quando fece costruire il mausoleo per il fratello di latte Adham Khan e la madre sua nutrice che avevano cospirato contro di lui. Osserva Calza: “Si possono qui riconoscere alcuni tratti della comprensione verso le persone a cui lo legavano vincoli familiari, sentimenti di riconoscenza o di affetto, così come il padre gli aveva insegnato con la propria tolleranza verso i fratelli, anche se infidi”.

Il curatore  ricorda ancora “come la sua vita e la sua opera siano diventate simbolo del livello più alto del governare, e infine come egli sia entrato nell’immaginario collettivo a esempio sommo di capacità strategica, acutezza diplomatica, saggezza amministrativa, nonché promozione dell’arte, della cultura e dello sviluppo urbano, ma soprattutto di tolleranza, creatività e pietas religiosa”.   E conclude dicendo che è proprio questo l’oggetto della mostra.

Vedremo prossimamente nella visita alla mostra come riesca ad esprimere i contenuti così profondi di una civiltà lontana dalla nostra che sentiamo vicina per i valori coltivati in modo esemplare nell’arte e nella vita.

Info

Fondazione Roma Museo, Palazzo Sciarra, Roma ingresso in via Marco Minghetti 22 (traversa di via del Corso). Tutti i giorni, tranne il lunedì della chiusura settimanale, dalle ore 10,00 alle 20,00 (la biglietteria chiude un’ora prima). Ingresso intero euro 10,00  ridotto 8,00 (fino a 26 anni e oltre 65 anni più militari, studenti, docenti facoltà artistiche e dipendenti Ministero beni culturali; e per gruppi obbligo prenotazione) per visite da martedì a venerdì, sabato e domenica tariffa intera; scuole euro 4,50. Omaggio: bambini fino a 6 anni, accompagnatore gruppi prenotati, giornalisti, soci Icom, Confesercenti, federagit, guide turistiche Roma. www.fondazioneromamuseo.it. Tel. Tel. 06.697645598. Info e prenotazioni 06.39967888 (lun.-ven. ore 9-18; sabato 9-14). Catalogo della Fondazione Roma Museo: “Akbar, il grande imperatore dell’India”, a cura di Gian Carlo Calza, Editore Skira, pp. 286, formato 24 x 28 cm; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante a Palazzo Sciarra alla presentazione della mostra, si ringrazia la Fondazione Roma Museo con Arthemisia e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura “Ritratto di Akbar a cavallo accompagnato da un porta stendardo”, 1585; seguono,  vetrina di armi con “Pugnali, Scimitarre e Scudi” e  “Akbar ispeziona la costruzione di Fathpur Sikri”,  in chiusura “Akbar si perde nel deserto mentre caccia asini selvatici nel 1570″, i due ultimi acquerelli sono del 1590-95.

Akbar si perde nel deserto mentre caccia asini selvatici nel 1570″, 1590-95