Carracci, 2. I seguaci a Roma fino ai primi caravaggeschi, a Palazzo Venezia

di Romano Maria Levante

Dopo aver presentato la mostra “Roma al tempo di Caravaggio 1600-1630”,  tenutasi  a Palazzo Venezia dal 16 novembre 2011 al 5 febbraio 2012cheesponeva 140 dipinti dei seguaci di Caravaggio e Annibale Carracci,raccontiamo la visita soffermandoci sui principali artisti delle due “squadre” nelle sezioni dedicate alle rispettive committenze pubbliche e private. Risalta il  delicato classicismo dei seguaci di Carracci e il forte realismo dei caravaggeschi in un confronto inedito che accresce l’interesse  oltre a quello dovuto al valore delle opere, molte mai esposte prima.

Carlo Saraceni, “Santa Cecilia e l’angelo”, 1610

Abbiamo già descritto il folgorante ingresso alla mostra con il confronto ravvicinato sulla raffigurazione della “Madonna di Loreto” rispettivamente di Annibale Carracci e Caravaggio che marcava visivamente le impressionanti differenze stilistiche e di contenuto sullo stesso tema.

Ora entriamo  nel vivo del confronto tra le “squadre” di seguaci, nello spettacolare allestimento di Pier Luigi Pizzi che valorizzava lo speciale spazio espositivo di Palazzo Venezia i cui saloni evocavano le navate delle cattedrali nelle opere di committenza pubblica;  mentre richiamavano le più discrete sale nobiliari per le opere di committenza privata. Nelle prime un fondale rosso e altari virtuali con sopra le grandi tele, nelle seconde un sobrio  fondale bianco, la moquette sempre rossa.

L’alternativa a Caravaggio degli epigoni di Carracci, 1600-1630

Cominciamo la rassegna richiamando  “La Madonna di Loreto” posta all’inizio della mostra  nelle due interpretazioni di  Annibale Carracci e Caravaggio, di analogo soggetto ma diversissimo contenuto. L’artista bolognese sfodera il suo classicismo con un’immagine maestosa e ispirata, quasi assunta in cielo con gli angeli che portano la Santa casa in un volo divino: l’artista lombardo esprime invece la profonda umanità della Vergine, in un realismo che ignora ogni elemento miracolistico e sottolinea il carattere popolare della Madonna e dei due  pellegrini, poveri e devoti.

Nessun altro raffronto diretto, di Caravaggio era esposto solo il “Sant’Agostino” di cui abbiamo già parlato, in uno splendido isolamento, anche perché era fresco di attribuzione  non ancora pacifica. Di Annibale Carracci due grandi tele: in “San Diego di Alcalà intercede per Diego Enriquez de Herrera” alla figura del santo e del suo protetto si aggiunge il Cristo in alto sopra una nuvola sorretto dagli angeli com’era la Madonna di Loreto in volo sulla Santa casa; in “Santa Margherita”, una sola figura nel paesaggio con  vegetazione, il classicismo è nel soggetto, mentre l’ambiente è improntato al naturalismo di matrice lombarda e veneta. “Lo stile, scrive  nel Catalogo Barbara Guelfi citando Dempsey, è quello caratteristico della maniera romana di Annibale, e prova come egli stesso stesse rielaborando le idee bolognesi alla luce delle esperienze romane”.

Ed ora la carica dei “bolognesi” che seguirono Carracci a Roma, nella sezione dedicata alla committenza pubblica, la più spettacolare di questa categoria e delle altre corrispettive, per la grande dimensione dei dipinti e la loro collocazione monumentale.

Il primo è Antonio Carracci, con “San Giovanni Battista nel deserto”,  per il quale vi è qualche incertezza nell’attribuzione; al riguardo Alessandro Zuccari, dopo numerosi raffronti con le tante opere sullo stesso personaggio “precursore” che con il dito alzato indica la venuta di Cristo,  afferma che la ripulitura del restauro “permette ora di apprezzare la qualità del dipinto sia sul piano compositivo sia nell’impostazione luministica  e cromatica, così da rendere più probabile l’attribuzione ad Antonio Carracci”.

Ma il più grande è forse Guido Reni, il cui “Martirio di santa Caterina” richiama nella composizione i motivi di Carracci, con gli angeli che la assistono dall’alto, c’è anche qualcosa di Cavaraggio. La Guelfi lo individua così: “Se elementi caravaggeschi sono particolarmente evidenti nella figura del carnefice, nella robustezza dell’angelo e nei decisi contrasti di luce e ombra, questi sono tuttavia ricomposti all’interno del vocabolario reniano, che ingentilisce le forme in una preziosa tessitura cromatica”.

Altrettanto il dipinto di Giovanni Lanfranco, “La Vergine col Bambino sulle nuvole con i santi Carlo Borromeo, Caterina d’Alessandria e Agostino”  per la maestosità della Madonna sospesa al centro della scena richiama il “caposcuola”, per i tratti del volto e le due sfere il Correggio “in una felicità cromatica che è tipicamente lanfranchiana”, commenta  la  studiosa ora citata.

In “Santa Maria Maddalena e due angeli”  il Guercino (al secolo Giovan Francesco Barbieri),presenta le figure angeliche non più ascetiche e sospese in alto ma vicine alla santa appoggiata a un tavolo come persone amiche, in un’atmosfera umbratile che la stessa studiosa  chiama  “romanticismo pittorico”.  Del Guercino, nei vicini Musei Capitolini  c’è stabilmente una vasta esposizione culminante nel gigantesco “La sepoltura di Petronilla”, in un’apposita sala all’ingresso della straordinaria galleria d’arte. Tornano ad essere puttini in volo come in una nuvola gli angeli che recano ghirlande per “I santi Domitilla, Nereo e Achilleo”, del Pomarancio (al secolo Cristiano Roncalli),  al centro Domitilla nella luce con lo sguardo verso l’alto, come la “Santa Cecilia” di Raffaello,  ai lati i due santi nell’oscurità.

Dai bolognesi ai fiorentini e, più in generale ai toscani. Ritroviamo il motivo degli angeli putti sulla nuvola  in Agostino Ciampelli, “Pietà con angeli” , un motivo di gloria inconsueto nella tragica scena che sembra richiamarsi a Michelangelo, vi si trova  “il classicismo bolognese di matrice carraccesca – commenta  Giorgio Leone – e la luce di matrice caravaggesca”.  

Non sono scene di “Pietà”, ma pur sempre di martirio cristiano, quelle di Passignano (al secolo Domenico Cresti), “Lucina recupera il corpo di san Sebastiano nella Cloaca Maxima”  e di Giovanni Billivert, “Martirio di san Callisto”: Il Passignano, citiamo le parole di Federica Gasparrini, nella solidità delle figure “sembra risentire delle ultime istanze del naturalismo classico, e, in particolare, carraccesco”. Anche in Bilivert, che ha contrasti chiaroscurali, gli elementi di classicismo  sono nella ricerca di plasticità; Adriano Amendola, cita  “Hongewerff   che vi ravvisò una mancata comprensione del lessico caravaggesco”.

Del tutto diverso “San Gregorio Magno benedicente” di Anastasio Fontebuoni, che viene collegato a Ciampelli e Passignano: fu affascinato dalla rivoluzione di Caravaggio, e se ne vedono chiari segni nella figura sbalzata dal buio con forti effetti di luce, ma segue canoni classici tardo-manieristi  di cui, secondo Consuelo Lollobrigida, “recupera la stessa magniloquente solennità”

Arthemisia Gentileschi, “Susanna e i vecchioni”, 1610

A Roma, la “calata” degli emiliani e dei toscani andava ad invadere un campo dove operano due grandi dell’epoca, celebri per diversi motivi: Il Cavalier D’Arpino e Giovanni Baglione.

Del Cavalier d’Arpino (al secolo Giuseppe Cesari), era esposto il dipinto  “Santa Barbara riceve dall’angelo il vestito bianco”,  in un’immagine delicata, la santa martire con lo sguardo in alto verso l’angelo in un’atmosfera assorta e luminosa, il corpo dalle forme morbide e modellate in una posa quasi sensuale in quella che Valeria Merino chiama “quella ricorrente oscillazione di Cesari tra fascino terrestre ed estasi celeste”. Per la studiosa, “è  universalmente annoverato tra i capolavori del Cavalier d’Arpino, realizzato in un periodo particolarmente fecondo di committenze pubbliche e private che portano l’artista a raggiungere il culmine della  sua intensa a attività creativa”.

Giovanni Baglione  era presente con “Apparizione dell’anglo a san Giuseppe” , “un’opera di transizione in cui prolungamenti di pittura figurativa tardo-manierista convivono accanto a nuove sollecitazioni di mitigato naturalismo”; scrive Guendalina Serafinelli;  e cita le parole di Morandotti  che lo raffronta all’angelo del celebre “Riposo durante la fuga in Egitto” come “una delle prime attestazioni della fortuna di Caravaggio nella Roma degli artisti”.

Alcuni di questi artisti si incontravano ancora nella sezione dedicata alle “opere private”, di minori dimensioni, collocate semplicemente nelle pareti su fondo bianco i cui temi erano mitologici o eroici, oltre che religiosi. Primo tra loro il Cavalier d’Arpino, in “David con la testa di Golia”, figura delicata, fasciata da una luce dorata, il cui viso innocente contrasta con  l’espressione disperata della maschera che regge con la sinistra.  

Tra i bolognesi,  dopo un “Tabernacolo portatile” di Annibale Carracci e la sua scuola, le opere su temi profani proseguivano con l’ovale di Lanfranco, “Alessandro Magno rifiuta l’acqua da bere offertagli da un solfato”, una composizione classica di esaltazione del personaggio come tramite per esaltare il committente, cardinale Peretti Montalto. 

Abbiamo ritrovato anche il Pomarancio,  in “Sacra Famiglia con angeli”, nel quale Marco Pupillo vede “un intento narrativo e non semplicemente devozionale” e cita Ileana Chiappino di Sorio  secondo cui “elementi in primo piano fanno pensare che la raffigurazione alluda al ‘Riposo nella fuga in Egitto'”, un richiamo caravaggesco, quindi.

Di nuovo i fiorentini,  Ciampelli con  “Cristo e la Maddalena”,  nella sua classicità  rituale, “completamente privo di qualsiasi enfasi drammatica, questo dipinto ha più il carattere devoto delle sacre rappresentazioni”, commenta  Federica Gasparrini.  La studiosa ci dà anche un preciso inquadramento del dipinto di Passignano, “Cristo nel sepolcro”,  nel  quale “la nobiltà d’ispirazione e l’associazione di un colorito cupo, intenso, e di una fattura controllata e ampia dimostrano un debito del pittore nei confronti del classicismo monumentale ed eclettico dei bolognesi a Roma”. Certo l’influenza della scuola di Annibale Carracci si fa sentire.

Tra i nomi che abbiamo incontrato per la prima volta nelle opere private, il bolognese  Domenichino (al secolo Domenico Zampieri), con “Sibilla cumana”,  che  secondo la critica richiama la Santa Cecilia di Raffaello, modello anche di Guido Reni. Barbara Guelfi cita Spear secondo cui “Domenichino vivacizza  la sua eroina col contrapporsi dei movimenti del corpo, l’aria vigile ed effetti chiaroscurali chiaramente accentuati”; effetti di luce chiaravaggeschi anche in “San Pietro liberato dal carcere da un angelo”, copia da un dipinto dello stesso autore.

E il fiorentino Ludovico Cardi, detto il Cigoli, con due opere esposte, “Sacrificio di Isacco” ed “Ecce Homo”,  temi dipinti anche dal Caravaggio, anzi il secondo fu commissionato dal cardinale Massimi al Cigoli, al Passignano e a Caravaggio, e sembra che il primo prevalesse nel giudizio. Di Cigoli Elisa Acanfora  sottolinea il classicismo ma anche “la distanza profonda con il patetismo del tardo Annibale Carracci”  e aggiunge che “si coglie altresì la diversità radicale rispetto all’andamento serrato e concatenato, nell’azione violenta, con cui Merisi aveva rappresentato l’analogo soggetto”.

Non si esauriva negli artisti citati la vasta galleria delle due sezioni della mostra dedicate ai pittori bolognesi e toscani al seguito o epigoni di Annibale Carracci.  C’erano anche  Savonanzi e Cagnacci, Vanni e  Fontebuoni,  Ciarpi e  Pietro da Cortona  – al quale, ricordiamo, nel Musei Capitolini è dedicata una vasta sala  –  Lilio e  Badalocchio. Quanto abbiamo riportato dà, comunque un’idea anche della complessità dei riferimenti per cui ritenerli un'”alternativa al Caravaggio”  è in qualche caso riduttivo perché l’influsso del Merisi si nota in diversi casi.

Domenichino, “Sibilla cumana”, 1617

I primi caravaggeschi romani

Si tratta degli influssi iniziali del primo decennio del ‘600, quando il grande artista era ancora in vita. Ne fu preso anche Paul Rubens, di cui la mostra esponeva  “Adorazione dei pastori“, dove gli effetti di luce sul gruppo della natività e sugli angeli in volo sono impressionanti. Scrive Barbara Guelfi , citando Probaska: “L’imponenza e la solidità delle figure tengono conto dei personaggi caravaggeschi  e anche l’impianto luministico, ricco di contrasti, è in linea con le opere del lombardo viste a Roma”.

Meno pronunciati gli effetti luminosi nel toscano Orazio Gentileschi, “San Michele Arcangelo e il diavolo”, . di cui Massimo Francucci scrive:: “Colpito dai  modi caravaggeschi, riesce a prender parte al successo crescente della pittura naturalista, pur declinandola secondo la propria propensione al raffinato e all’elegante che nel ‘San Michele’ si evidenzia nella resa materica dei tessuti e degli oggetti metallici, condotta ai limiti dell’inganno ottico”.

Tornavano prepotenti gli effetti luminosi in Orazio Borgianni, “Sacra Famiglia  con angelo musico, santa Elisabetta e Giovannino”,  e richiamavano quelli visti nel dipinto di Rubens; si tratta di un’opera dalle vicende misteriose, di cui Marco Gallo dopo molti raffronti e una descrizione minuziosa scrive: “Nella pala, Borgianni attese a rendere in linguaggio corrente ‘caravaggesco’ , avvalendosi di stilemi meridiani apparenti ma non sostanziali, ciò che in realtà è una sapiente costruzione di  richiami iconografici (e tematici) al mondo di Raffaello”. Di Borgianni c’era anche  “Visione di san Francesco”, con intensi effetti di luce caravaggeschi e dolci figure raffaellesche.

Per il veneziano Carlo Saraceni in “Madonna  con Bambino e Sant’Anna”, Laura Bartoni parla di “avvicinamento alla poetica caravaggesca, ma l’interpretazioen di Saraceni è originale: i particolari anatomici della Vergine e del bambino, colpiti dalla luce diretta, diventano ‘pure forme geometriche’ assumendo un particolare rilievo”. Suo anche  “Predica di  san Raimondo Nonnato”,dove più che la luce, abbastanza uniforme, colpisce il realismo: secondo Marco Gallo “produce una perfetta  metafora del vecchio ‘locus communis’ della ‘pittura parlante’, che è invece muta per natura, e il silenzio che si fa eloquente”, il santo predica con la bocca sigillata dagli infedeli. Di Gerrith van Honthors, detto Gerardo delle notti, “Derisione di Cristo” è un’esplosione di luce caravaggesca  che rompe le  tenebre, recata da una torcia dentro il  dipinto.

Siamo alle opere di committenza privata, abbiamo ritrovato Gentileschi, Borgianni e Saraceni. Di Gentileschi  una “Madonna con Bambino” e “David che contempla la testa di Golia,: attribuiti all’inizio allo stesso Caravaggio, tale è l’effetto della luce che piove sulle carni e il realismo delle figure; ma poi, scrive Massimo Francucci citando Mancini, gli è stata riconosciuta, con la paternità delle opere, “una piena libertà d’azione e l’indipendenza dal retaggio caravaggesco”.  C’erano anche due opere della figlia Artemisia Gentileschi, “Madonna con Bambino” e “Susanna e i vechioni” quest’ultimo  definito da Rossella Vodret “sensazionale, dipinto nel 1610 a soli 17 anni”.

Il dipinto di  Borgianni, “David in preda all’ira decapita Golia” è stato visto come allegoria dell’ira, tale è la violenza nelle espressioni e nell’intera composizione, accentuata dalla luce altrettanto caravaggesca. Marco Gallo .fa rilevare come “il pittore proponesse un’interpretazione divergente da quella praticata dai Cavaraggeschi cosiddetti ortodossi”. Ben diverso  “Santa Cecilia e l’angelo” di Saraceni, ,del quale Laura Bartoni  parla di “interpretazione lirica del realismo caravaggesco, cui partecipano il luminismo e la raffinata croma della tela”.

Centrali in questa sezione erano i tre dipinti di Giovanni Baglione, il grande rivale che diviene caravaggesco: Sia in “San Giovanni Battista” che in “Estasi di san Francesco d’Assisi” l’influsso della luce e del realismo di Caravaggio sono evidenti.  Il primo, secondo Vittoria Markowa, “è forse una delle opere più caravaggesche risalente all’intermezzo caravaggesco che Baglione visse all’inizio del secolo”, prima dello scontro polemico e giudiziario tra i due; il secondo, un tema dipinto anche da Caravaggio, mostra forti differenze e una ripresa dal basso che rappresenta, scrive Michele Nicolaci, un “retaggio manieristico”. “Amor sacro e Amor profano”  è ritenuto “il capolavoro del cosiddetto ‘intermezzo caravaggesco’ di Baglione, e fu tale – ricorda lo studioso – da “suscitare la preoccupazione e lo sdegno di Caravaggio, non solo per l’esplicita imitazione del suo stile, ma anche per il rischio insito nell’insediarsi del rivale nell’elitario circuito di mercato”.

Le due opere esposte di Cecco del Caravaggio (al secolo Francesco Boneri), mostrano il forte influsso del maestro. Per la “Caduta di Cristo sulla via del Calvario”  nei “corpi bagnati dalla luce, muscolarmente scolpiti”; per “Martirio di san Sebastiano”, con “il sorprendente anticonformismo di Boneri, che si mostra anche più audace di Merisi nel rinnovare le iconografie”,  nelle frecce che trafiggono il santo impugnate in modo ambiguo da un “riflessivo soldato. Malinconico e dandy”,  come osserva Gianni Papi, che trova in Cecco “forti rapporti stilistici  con le più precoci espressioni del naturalismo partenopeo e con le opere lasciate da Caravaggio a  Napoli”.

Se Boneri  ha preso il nome di Caravaggio, Hendrick ter Brugghen  si è cimentato con “La Buona Ventura”, fatto inconsueto nei caravaggeschi, l’unica opera che l’artista dipinse in Italia. “Il contrasto tra il volto della giovane e quello della vecchia accostata è un ‘topos’  della pittura caravaggesca”, commenta Mina Gregori, sottolineando anche “la diversità di espressione e di significati”.  La studiosa ricorda che un simile soggetto fu trattato anche dal francese  Vouet in un dipinto della Galleria Barberini nel cui retro la Vodret in sede di restauro ha visto nome e data 1617.

Dopo l’olandese, due spagnoli.In “San Pietro penitente” di Luis Tristàn, una pianta dalle foglie grandi è stata definita da Roberto Longhi “una commovente cifra caravaggista”; mentre, per Leticia Ruiz Gòmez, “più legata ancora a Caravaggio è la collocazione dell’apostolo, seduto in primo piano e fortemente illuminata su uno sfondo scuro, le gambe accavallate e scoperte, come i piedi, e dipinte con un realismo puntiglioso che ricrea i muscoli, le vene e altri dettagli dell’epidermide”.

“Adorazione dei pastori”  di Juan Bautista Maìno rientra in quella che Mina Gregori chiama  “la pittura italianizzante di Maino” il quale trasse “diretta ispirazione dai modelli conosciuti nel giovanile soggiorno italiano: Caravaggio, Borgianni, Gentileschi, Annibale Carracci e Guido Reni”.

Infine un francese, che peraltro appartiene al secondo decennio, è Nicolas Régnier, il tema  “David con la testa di Golia”, i contrasti di luce sono caravaggeschi, ma non c’è la violenza dell’omonima opera del Merisi prima citata, il volto è “compiaciuto e amareggiato insieme”; e nel cogliere “l’intimità dell’animo con disinvoltura” – osserva Maria Lucrezia Vicini – l’artista appare “interprete maturo del caravaggismo del suo tempo che trova in Bartolomeo Manfredi il suo massimo seguace”.  Entriamo così nel secondo decennio, quando esplode il caravaggismo. Ne parleremo prossimamente concludendo con il terzo decennio quando il caravaggismo si estingue.

Info

Catalogo:” Roma al tempo di Caravaggio,1600-1630,  Opere”, a cura di Rossella Vodret, Skirà, Milano novembre 2011, pp. 406, formato 24 x 30;  dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito, in questo sito, il 5 febbraio, il terzo e ultimo uscirà il 9 febbraio 2013, con 4 immagini ciascuno.

Foto

Le immagini sono state fornite alla presentazione della mostra dall’associazione “Civita” che si ringrazia insieme alla Soprintendenza per il polo storico-artistico e museale di Roma e ai titolari dei diritti. In apertura Carlo Saraceni, “Santa Cecilia e l’angelo”, 1610; seguono Arthemisia Gentileschi, “Susanna e i vecchioni”, 1610,  e Domenichino, “Sibilla cumana”, 1617;  in chiusura Orazio Gentileschi, “David contempla la testa di Golia”, 1610-12.

Orazio Gentileschi, “David contempla la testa di Golia”, 1610-12.