Rinascimento, 3. A Roma da Michelangelo ai manieristi, a Palazzo Sciarra

di Romano Maria Levante

La rievocazione, a un anno dalla visita, della mostra “Il Rinascimento a Roma, nel segno di Michelangelo e Raffaello”, aperta dal 25 ottobre 2011 al 12 febbraio 2012, organizzata  dalla Fondazione Roma Arte-Musei con Arthemisia al Palazzo Sciarra al Corso, si conclude con le ultime 3 sezioni delle 7 per le 200 opere esposte: dopo le sezioni sui papi Giulio II e Leone X nel 1° articolo e quelle sul Rinascimento e il rapporto con l’antico, la Riforma di Lutero e il Sacco di Roma fino ai fasti farnesiani nel 2°, terminiamo con San Pietro,i manieristi e gli arredi. Nell’avvicinarci alla quinta sezione della mostra dedicata alla Basilica di san Pietro, completiamo il racconto dei “fasti farnesiani” con la parte della galleria espositiva dove l’intreccio tra vicende della vita ed espressione artistica si incentra in Vittoria Colonna, e nelle opere pittoriche  create per lei da Michelangelo su temi sacri come la “Pietà” e il “Crocifisso”, collocate in modo suggestivo.

Marcello Venusti, “Copia del Giudizio Universale di Michelangelo”, 1549

Le pitture di Michelangelo

Prima di parlarne vogliamo ricordare la presenza virtuale in mostra della volta della “Cappella Sistina” attraverso l’avanzato sistema multimediale che ne consentiva la visione ravvicinata ad altissima risoluzione e in tre dimensioni. Ma c’era anche una presenza reale, pur se traslata, con la tempera su tavola di due metri per uno e mezzo circa, “Copia del Giudizio Universale di Michelangelo”, 1649, di Marcello Venusi, che ne documenta l’aspetto originale prima degli interventi sulle nudità. Ne fa un’accurata ricostruzione Marco Bussagli,  curatore della mostra con Maria Grazia Bernardini, riportando il passo di Vasari nel quale si afferma come coprire con i “panni sottili” disegnati da Daniele da Volterra fu la soluzione provvidenziale che evitò la distruzione “per gli ignudi che li pareva mostrassero le parti vergognose troppo disonestamente”; e così “rifar la santa Caterina et il san Biagio, pensando che non istessero con onestà”, quindi anche atteggiamenti, non solo nudità.  Daniele da Volterra fu chiamato dai romani in modo irridente il “braghettone, per questo suo intervento censorio;  era un valido pittore che sentì molto l’influenza di Michelangelo, come si vede dalle due opere esposte con figure plastiche e monumentali di un rosso intenso: “Madonna col Bambino e i santi Giovannino e Barbara”, 1548, ed “Elia profeta”.

Bussagli va ancora oltre sostenendo che l’ostilità verso quest’opera  fu dovuta  soprattutto ad elementi simbolici, di cui quelli ricordati erano soltanto una parte. Aretino scriveva che “quel Michelagnolo stupendo in fama, quel Michelagnolo notabile in la prudentia, quel Michelagnolo ammirando, ha voluto mostrare a le genti non meno empietà di irreligione che perfezzion di pittura”, e lo studioso  vi vede “il riflesso di un’insofferenza strettamente legata alla sfera religiosa e teologica che, esaminando l’affresco, non accusa disagio solo nella figura del Cristo glabro. Altri punti ugualmente fastidiosi, in senso iconografico e teologico, riguardano i diffusi atteggiamenti d’amorosi abbracci  e, soprattutto, l’immagine degli angeli senza ali”. 

Ma non si tratta di una manifestazione irriverente del suo spirito libero, aveva una base teologica  condivisa da Paolo III, il “Iudicium Dei Supremunm de vivs et mortuis” di  Giovanni Supplizio, detto il Verolano, un poema composto da due libri di 700 versi ognuno che, secondo lo studioso, “per le coincidenze teologiche e descrittive, nonché per  ragioni storiche di amicizia e discepolato fra il Sulpizio e Paolo III Farnese, va considerato la principale fonte letteraria del Giudizio Universale di Michelangelo, a parte le Sacre Scritture e la Divina Commedia”. Il primo libro parla di Cristo mandato da Dio che raduna gli angeli nella via Lattea, il secondo del giorno del Giudizio  con la Vergine e Cristo attorniati dagli angeli e santi  che dividono i beati dai reprobi. Con una certa emozione, conoscendone il valore, guardammo le due paginette esposte in mostra di un’opera di così alto valore che è stata restaurata per ripristinarne le funzioni legate alla “lettura di sicurezza”.

Dopo aver ricordato il grande affresco presente in modo virtuale ma in una forma ugualmente incisiva, passiamo ai due dipinti di grande livello esposti, per entrambi c’è anche una pregevole copia di Marcello Venusti, che ritroveremo presto.  Ebbene, dietro questi dipinti c’è una storia tutta particolare, che attiene all’abitudine di Michelangelo di fare disegni e dipinti per farne omaggio, ed entra in scena un nuovo personaggio, Vittoria Colonna: 3 delle 7 lettere rimaste scritte a lei da Michelangelo  parlano di un “Crocifisso” e questo, insieme agli aspetti stilistici, ha incoraggiato l’attribuzione a lui della “Crocifissione”, anteriore al 1547,  superando le incertezze dovute alla presenza anche di disegni. Lo stesso  per la “Pietà di Ragusa”, 1545, nella cui composizione – scrive  Antonio Forcellino – si può riconoscere la Pietà di proprietà di Reginald Pole menzionata in una lettera ” del maggio 1546, dipinto “evocato anche da un carteggio Colonna-Michelangelo databile agli stessi anni oltre che nel sonetto CCV delle Rime spirituali di Vittoria”; e a parte i ripensamenti tipici del Maestro, ritiene indiscutibile la “scrittura pittorica come una grafia che non può essere contraffatta”.  In effetti “la grafia pittorica di Michelangelo consiste in una tessitura perfettamente regolare di pennellate che rendono le sue superfici cromatiche quasi una versione colorata delle sue superfici scultoree gradinate”, come si riscontra in questo dipinto.

Vittoria Colonna e Reginald Pole avevano costituito un circolo nel quale Michelangelo si era inserito: abbiamo visto le fisionomie dei due personaggi nei due dipinti di metà del XVI secolo esposti,  “Ritratto di Vittoria Colonna”, di Anonimo, con copricapo giallo e “Ritratto del cardinale Reginald Pole”,  di Sebastiano del Piombo, seduto con una lunga barba scura; a quest’ultimo viene attribuito anche il “Ritratto di Michelangelo che indica i suoi disegni”.  La fisionomia del grande papa che ha segnato il “nuovo inizio” dopo il Sacco di Roma era data, oltre che dalla scultura in marmo di Guglielmo Della Porta”, “Ritratto di Paolo III“, 1546,  dal dipinto “Ritratto di Paolo III Farnese con il cardinale Ercole Gonzaga”, 1545, una figura  bonaria  ripresa seduta, pensiamo alla gratitudine a lui dovuta per aver rilanciato Roma dopo la distruzione.

Francesco Salviati, “Annunciazione della Vergine Maria”, 1533-34 

La Basilica di San Pietro

Dalla pittura all’architettura di Michelangelo la mostra passava presentando una sua scultura, alta quasi un metro e mezzo, “Apollo-Davide”, 1930, che spiccava nel biancore del marmo: Christoph Frommel  ha scritto al riguardo che “nessun’altra immagine è così enigmatica come l’Apollo che sembra riflettere lo stato disperato e chiuso dello stesso Michelangelo” con la testa reclinata.

Il grande tempio della cristianità era presentato innanzitutto da una “Pianta in pergamena della Basilica di san Pietro”, e  dal “Progetto per il presbiterio”, 1505, del Bramante, seguiti dalla “Medaglia per la posa della prima pietra di San Pietro in Vaticano”, .1506, del Caradosso, al secolo Cristoforo Foppa, che reca il busto di Giulio II e nell’altra facciata il prospetto del tempio secondo il progetto del Bramante non realizzato. C’era anche un’incisione con l’“Alzato della facciata del modello ligneo di Antonio di Sangallo il giovane per San Pietro”, 1549, di Antonio da Salamanca,  un esterno su quattro ordini con una cupola a due tamburi, e la “Medaglia di Paolo III con il modello della nuova Basilica di San Pietro di Antonio da Sangallo“, 1547, di Alessandro Cesati eGian Giacomo Bonzagni con il busto di Paolo III e il prospetto di Sangallo.

E Michelangelo? Nel 1547 riceve l’incarico di primo architetto di San Pietro e modifica radicalmente il progetto di Sangallo intervenendo anche sulla parte già realizzata. L’incisione di Etienne Dupérac con la “Sezione del progetto di Michelangelo per San Pietro”, 1569, dà una visione frontale dalla quale si vede come oltre alla grande cupola centrale di Michelangelo ne sono disegnate due laterali molto più piccole del Vignola.  Per l’interno era esposto anche il disegno a inchiostro di un Anonimo, “Veduta della crociera di San Pietro  dalla parte occidentale della navata”, 1570, una bella inquadratura laterale e della volta con la sagoma  di una persona che ne fa risaltare le dimensioni vastissime. Era in mostra anche una “Medaglia di Gregorio XIII con prospetto orientale di San Pietro, 1584, la  facciata e la cupola secondo il progetto di Michelangelo

Oltre ai documenti sul piano progettuale, anche quelli sull’impegno realizzativo,  precisamente due  lettere, una di Michelangelo e Giovanni Battista Casnedo, 1561, l’altra del solo Casnedo: la prima riguardava gli scalpellini “per il modello a tamburo della cupola”, l’altra l'”intaglio di cinque gruppi di capitelli degli speroni del tamburo di San Pietro”. E finalmente, su disegno di Michelangelo, il “Modello ligneo della calotta dell’abside meridionale della basilica di San Pietro”, 1556-57, versione peraltro non realizzata, modello citato in un lettera al Vasari.

La storia della basilica in un grande volume di 32 tavole in stampa a inchiostro, “Architettura della basilica di San Pietro in Vaticano. Opera di Bramante, Lazzari Michel Angelo Bonaroti ed altri celebri architetti”.  di Martino Ferrabosco, anche con incisioni che mostrano l’antica costruzione.

Michelangelo Buonarroti, “Pietà di Ragusa”, 1545

La “maniera romana” alla metà del ‘500 e gli arredi

Torniamo alla pittura per ricollegarci all’influenza esercitata dai due “numi tutelari” sul mondo artistico della città eterna, di cui abbiamo parlato all’inizio. Ritenendoli irraggiungibili, i giovani artisti si ispirano all’uno o all’altro, o ad entrambi, nello stile e nei temi raffigurati, aggiungendo i modelli dell’arte classica: nasce così la “maniera romana”, di cui la sesta sezione della mostra  presentava  opere di particolare interesse per la ricerca dei rispettivi influssi.

La Bernardini descrive “la ‘bella maniera’ nella sua declinazione romana ricca di ricordi del lessici michelangioleschi e raffaelleschi, sostanziata di riferimenti classici, ma inseriti in un contesto di elementi decorativi di grande ed eccentrica fantasia, in uno stile elegante e ricercato”.  Nascono i “manieristi”, di quali  indica come esponente particolarmente significativo e prestigioso Francesco Salviati, che abbiamo già incontrato come primo artista rientrato a Roma dopo il “Sacco” nel 1531, ma anche pronto a lasciarla nel 1539, due anni dopo l’arrivo di Perin del Vaga, sentendosi spiazzato dal rilievo preminente che questo aveva assunto come pittore ufficiale del Papa. Ebbene, alla morte di Perin, nel 1548, torna a Roma e sostituisce il rivale presso i Farnese che gli diedero importanti commissioni, in particolare il cardinale Alessandro.

“Così diventa presto – scrive la Bernardini ricostruendone con cura l'”escalation” –  l’artista più ricercato e realizza, nel giro di pochissimi anni, dal 1548 al 1563 (anno della sua morte) una serie veramente considerevole di cicli ad affresco per i personaggi più influenti di Roma”. La curatrice riporta questo  giudizio del Vasari  sugli affreschi  di palazzo Ricci-Sacchetti: “E per dirlo brevemente, l’opera di questa sala è tutta piena di grazia, di bellissime fantasie, e di molte e capricciose ed ingegnose invenzioni. Lo spartimento è fatto con molte considerazioni, e il contenuto è vaghissimo”. L’esperienza fatta nelle città in cui si era fermato a dipingere – Venezia, Bologna  e soprattutto Firenze, dove aveva lavorato nel Salone di Palazzo Vecchio – concorre a formare la sua “maniera romana”: “Aveva arricchito il proprio bagaglio culturale  con nuovi contatti con l’arte emiliana e in particolare con il Parmigianino e l’arte toscana. A Roma  rimeditò sull’arte dei grandi maestri e anche su Perin del Vaga”.

L’artista va visto come esempio eloquente di quanto stiamo indicando sulla “maniera romana” che recepiva gli influssi per rielaborarli con altri elementi frutto della propria inventiva e fantasia: “Al di là delle evidenti citazioni – è sempre la Bernardini –  Salviati aveva assimilato dai due grandi artisti la monumentalità e la maestosità della composizione, la libertà di ‘invenzione'”. Era esposto in questa sezione “Il Peccato originale (Adamo ed Eva)”, 1564, anno in cui muore Michelangelo;  si vede chiaramente come la composizione sia arricchita da  elementi decorativi  di fantasia.

Per tutto il decennio e nel successivo, la “maniera” continua a riferirsi ai due sommi artisti. Di Girolamo da Sermoneta, al secolo Girolamo Siciolante, era esposto il trittico “Madonna col Bambino e San Giovannino Sant’Andrea Santa Caterina d’Alessandria”, 1565;  Patrizia Piergiovanni scrive che “l’artista è partito da una matrice raffaellesca e michelangiolesca, mutuandola attraverso le influenze manieriste, fino a giungere  a uno stile del tutto personale, dal gusto conservatore, ‘senza tempo’”.

Sono di chiara derivazione michelangiolesca le due “Pietà” di Jacopino del Conte e Taddeo Zuccari, stesso periodo del precedente, il secondo con la monumentalità di un gruppo scultoreo. Questo artista è stato raffigurato da Federico Zuccari  in due dipinti su cuoio, “Taddeo disegna alla luce della luna” e “Taddeo copia il Giudizio Universale di Michelangelo”, tonalità pastello sfumate, che fanno parte di 7 su episodi della vita giovanile ai quali era collegata  una terzina dello stesso autore come didascalia poetica. Anche Girolamo Muziano, di cui era esposto un austero ed essenziale “San Francesco in adorazione davanti al Crocifisso”, 1575, sente molto l’influenza di Michelangelo, e mostra inventiva nella propria “maniera” romana: nel dipinto spicca l’originale inquadratura che inserisce la vita del paesaggio di sfondo da uno squarcio della parete rocciosa.

Altrettanto originale, pur in una composizione spettacolare di tipo fortemente celebrativo, il dipinto di Marco Pino, “Cristo in gloria e il torchio mistico”, si badi bene “torchio”, non corpo mistico. Si trova nella parte inferiore del dipinto soverchiata dal Cristo trionfante sulla nuvola scortato da due file di angeli: effettivamente è un torchio con la grande vite e la pressa lignea perché –  ricorda Andrea Donati – secondo Sant’Agostino “il primo grappolo d’uva schiacciato nel torchio è Cristo”.

Citati i due dipinti “Annunciazione”, 1550,  e “Il Silenzio”, 1560, attribuiti a Marcello Venusti, di cui ricordiamo il “Ritratto di Michelangelo”,  ci piace chiudere la parte sulla “maniera romana” con i due pannelli di Federico Zuccari, “Ritratto di Raffaello come Isaia”, e “Ritratto di Michelangelo come Mosè”, 1593, che oltre ad essere gli ultimi in senso cronologico, rappresentavano con fantasia manieristica i due numi tutelari: è bello che chiudano il XVI secolo.

La rievocazione della visita alla mostra sta per terminare;  l’allestimento, lo ricordiamo ancora, era suggestivo, aveva valorizzato le possibilità offerte da spazi molto particolari che, ben utilizzati, disegnavano un percorso con corridoi, angoli raccolti e vaste sale, idoneo ai variegati contenuti espositivi. E le 7 sezioni  trovavano collocazioni adatte per le quasi 200 opere esposte, che disegnavano un secolo cruciale come il ‘500 romano, per le incalzanti vicende storiche e artistiche.

Ma non è finita, la settima sezione regalava sprazzi di una vita quotidiana all’altezza della temperie artistica vissuta, a parte il cataclisma del “Sacco” della città, al quale dopo qualche anno è seguita la travolgente ripresa con il recupero del decoro perduto. Erano esposte delle “Mattonelle con mosaico a treccia”, 1518, tipico disegno mediceo, rese preziose dagli autori,  Raffaello Sanzioche le aveva disegnate e Luca della Robbia che le aveva realizzate; negli anni del “Sacco”  un “Centro di piatto con Enea e Anchise che fuggono da Troia”, 1525-30, maiolica dipinta con le due figure intrecciate chiare sul verde dell’ambiente; poi, nel 1565-70, dei “Piatti” di maiolica,  con “Scena di “Trionfi”  al centro e  grottesche su fondo bianco intorno, “Scena allegorica” per l’intera superficie e “Passaggio del Mar Rosso” al centro con scene intorno. La serie di preziosi oggetti domestici si concludeva con il “Calamaio con Pietà”, della Bottega dei Patanazzi, il sacro unito al profano.

Tra le opere d’argento cesellato e inciso, c’erano la “Grande coppa da parata su alto piede”,con figure a sbalzo di imperatori, e quattro “Reliquari” dedicati due a “Santa Cecilia”,  uno al “Sudario del Salvatore”  e l’ultimo alla “Sacra spina”contenuta al centro di una cuspide.

All’uscita dalla mostra il “Tavolo ottogonale” di Porfirio da Leccio, 1550, in ebano intarsiato di avorio e pietre dure, ne rappresentava quasi un sigillo. Ed è bene che fosse così, perché è su disegno di Giorgio Vasari, le cui cronache dell’epoca ci hanno accompagnato lungo il nostro viaggio affascinante nel Rinascimento romano. Nella rievocazione speriamo di essere riusciti a trasmettere in parte il godimento per gli occhi e la mente; e soprattutto l’emozione regalataci dalla visita.

Info

Catalogo:“Il Rinascimento a Roma nel segno di Michelangelo e Raffaello”, a cura di Maria Grazia Bernardini e Marco Bussagli, Electa, 2011, pp.360, formato 24 x 28, euro 45; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  I due articoli precedenti sono usciti, in questo sito,  il 12 e il 14 febbraio 2013, con 4 immagini ciascuno.  

Foto

Le immagini sono state fornite cortesemente da “Arthemisia” che si ringrazia, con la Fondazione Roma Arte-Musei e i titolari dei diritti. In apertura  Marcello Venusti, “Copia del Giudizio Universale di Michelangelo”, 1549: seguono Francesco Salviati, “Annunciazione della Vergine Maria”, 1533-34,  e Michelangelo Buonarroti, “Pietà di Ragusa”, 1545; in chiusura Girolamo Muziano, “San Francesco in orazione davanti al Crocifisso”, 1575.

Girolamo Muziano, “San Francesco in orazione davanti al Crocifisso”; 1575