De Chirico, 2. I ritratti classici, a Montepulciano

di Romano Maria Levante

Visitiamo la mostra “De Chirico. Il Ritratto, figura e forma”, aperta nella storica Fortezza di Montepulciano dall’8 giugno al 30 settembre 2013, con 68 opere esposte, di cui 44 dipinti, 7 sculture e 17 opere su carta. Si  propone come un momento fondamentale nella ricerca inesausta dei motivi insiti nell’opera di de Chirico, passando dalle piazze ai ritratti, dall’atmosfera inquieta e misteriosa dell’ambiente alla non meno inquieta e misteriosa essenza del soggetto e dell’esistenza. Ne abbiamo già  delineato l’impostazione e i contenuti e descritto la cornice ambientale, passiamo ora alle singole opere della sezione con i ritratti classici, seguiranno i ritratti fantastici.

“Autoritratto nel parco con costume del Seicento”, 1959

L’ingresso della  Fortezza e la sua architettura fanno entrare nell’atmosfera dell’antico, si passa sotto una loggia con un leggero rilievo di merli e cuspidi, tra due alberi dalle folte chiome, il cortile con due ordini di archi è impreziosito da una ringhiera in pietra come un ricamo; la fuga delle mura della Fortezza con  lo squarcio paesaggistico della vallata evoca sfondi lontani anche dechirichiani.

E’ il grande salone la “location”, ma la sua ampiezza  e quadratura geometrica ha reso necessario creare un percorso con uno speciale allestimento: si è ricavato un primo “rettilineo” con una lunga paratia in rosso intenso, è l’inizio della parte dedicata al “ritratto classico”; poi, dopo la svolta marcata dai due dipinti di maggiori dimensioni, un andamento sinuoso con delle “enclaves” corrispondenti alle varie sezioni. Ricorda l’itinerario per Montepulciano, prima i rettilinei autostradali o ferroviari, poi il percorso collinare  ondulato e raccolto. Non sappiamo se questo motivo sia stato alla base della scelta dell’architetto, oltre alla corretta scansione di stili e periodi. Ci piace pensare che sia così.

Il “rettilineo” iniziale, l’autoritratto

E allora eccoci sul “rettilineo” iniziale, un lungo corridoio che va percorso lentamente, dato che le opere esposte non sono spettacolari come quelle successive metafisiche, ma vanno analizzate con attenzione, e la curatrice Katherine Robinson è prodiga di indicazioni preziose  sugli elementi che possono sfuggire a un’osservazione superficiale.

Si comincia con gli autoritratti, un genere da lui molto frequentato, sembra che ne abbia dipinto un centinaio. Qui c’è l'”Autoritratto giovanile”, 1932-33, seguito da un “Autoritratto piccolissimo” degli anni ’40 e dai successivi “Autoritratto nudo” e “Autoritratto con corazza”.  Significativo che gli ultimi due siano rispettivamente del 1945 e del 1948, la nudità è nell’anno in cui terminava la seconda guerra, con il suo tremendo carico di lutti e di rovine,  diviene corazza tre anni dopo, a ricostruzione materiale e morale già avviata, modello il Filippo II di Velasquez. 

Ripensiamo alla mostra di Paolini nel 2010 al Palazzo Esposizioni di Roma, parallela a quella su “De Chirico e la natura”, nella stessa sede: un altro “Autoritratto nudo” del  ’45 era al termine  di un percorso virtuale  di visitatori anch’essi virtuali in un avvicinamento visivo fino alla rivelazione finale dell'”enigma dell’ora”.

Per la curatrice, “de Chirico si mette a nudo come artista e come uomo, l’Autoritratto nudo è un manifesto dell’uomo in arte e in vita”.  Ma non si può fare a meno di citare i due “Portrait de l’artiste”  del 1911 e 1913, non presenti in mostra, entrambi “ritratti alla finestra”: il primo riprende la posa meditativa della nota fotografia di Nietzsche con la testa appoggiata alla mano e una serie di elementi, dalla direzione dello sguardo al colore di sfondo, oltre naturalmente al’iscrizione “Et quid amabo nisi quod aenigma est?”, che ne fanno la pietra miliare di un inizio folgorante; l’autoritratto di due anni dopo lo vede rivolto in direzione opposta,  la testa è eretta e non si appoggia più meditabonda, l’espressione è tesa e decisa, si staglia nel cielo. Nei  ritratti di personaggi come Paul Guillaume e Carlo Cirelli, tra il 1913 e il 1915,  torna la mano vicina al volto, le figure si stagliano nel vano-finestra con forte determinazione, lo spirito giovanile dell’artista si proietta sui soggetti. Al riguardo non possiamo non ricordare il celebre “Ritratto di  Guillaume Apollinaire”, che non è la figura in piena luce del primo piano, una statua con occhiali neri, ma il profilo scuro  sul fondo verde con un cerchio premonitore nel punto dove il poeta sarà ferito in guerra anni dopo; anche una conchiglia e un pesce fanno parte di una composizione molto ammirata dai surrealisti.

Con l'”Autoritratto giovanile” del 1932-33, prima citato, il volto diventa morbido pur se in una tensione che viene meno  in “Autoritratto con pullover nero”, 1957,  in uno sfondo paesaggistico che evoca evasione. Vicino a questo dipinto è esposta la “Natura morta con autoritratto”, 1972, dietro i pomi in bell’evidenza, il “quadro nel quadro” è l’Autoritratto ora descritto appeso alla parete dell’interno raffigurato.

“Autoritratto nudo”, 1945

I disegni dei volti e la mano dell’artista

La mostra risale ancora più indietro, agli anni ’20, con i disegni su carta, due ritraggono la prima moglie: “Raissa”, 1925,  e “Ritratto di Raissa”,  1927. Teste molto diverse come impostazione, esempi dei due modi di ritrattistica che, come  abbiamo detto, vengono illustrati dalla mostra: il ritratto classico e quello fantastico. La curatrice descrive nei dettagli le differenze nel tratto e nei lineamenti: nel primo il segno sottile delinea un viso delicato con espressione serena, i capelli appena accennati, la testa piegata e gli occhi dolcemente rivolti in basso in una pudica posa classica; nel secondo ritratto il segno è forte e il tratto energico, l’espressione intensa con qualche segno di disagio, “qui è la linea a costituire il vero soggetto dell’opera, mentre la figura diventa personaggio, intrappolata tra l’idea dell’artista e il suo universo del segno”.

Del 1927 anche una “Testa di donna” e una “Moglie del filosofo”, nonché “Gladiatore” e “Studio per Gladiateurs et philosophe”, fanno parte dello studio sul volto umano cui l’artista dedicò  molti schizzi. Il segno è ancora più sottile, nessuna ombreggiatura né ricerca di rilievo e profondità, l’attenzione sembra concentrata sulla ricerca della fisionomia, dal profilo del viso al rapporto tra i lineamenti – gli occhi, il naso, la bocca – e la struttura della testa – mento e fronte, guancia e collo.

Considerando anche una serie di altri disegni oltre quelli esposti, la Robinson commenta così: “Quello che colpisce nell’insieme dei disegni dei volti degli uomini, giovani e vecchi, è la capacità dell’artista di trasmettere uno stato d’animo, anzi di crearlo”. E cita il saggio di Jole De Sanna sul disegno: “Far corrispondere a uno stato mentale uno stato dell’immagine e un’impronta dello sguardo è il compimento dei Gladiatori nei dipinti e nei disegni”; lo si vede nei due disegni ad essi dedicati esposti in mostra.

Nella stessa logica della ricerca si pone l’analisi estremamente accurata dei ritratti dei grandi maestri che de Chirico iniziò a fare presto impegnandosi in copie d’autore attraverso i “d’aprés”.

Sono raggruppati  nella parete di fronte ai ritratti, quasi per una  corrispondenza speculare, dinanzi al “ritratto” di “Baby”, 1934, l’amato cane, e a “La mano del Maestro”, anni ’40, in due versioni: a matita e acquerello su carta mentre stringe un drappo, a olio su tela mentre impugna due pennelli.   Opere definite “un ritratto del proprio mestiere d’artista”, di un periodo nel quale allo studio dei maestri antichi univa un’intensa attività di saggistica pittorica, cui appartiene il suo saggio “Il cervello e la mano (sul disegno)”, nel quale descrive  “l’alleanza del cervello con la mano”,  precisamente “tra il cervello che può ideare e la mano che può creare cioè che materializza l’idea”.

E’ una visione che rovescia la concezione secondo cui la creatività è della mente, alla quale segue una mera esecuzione materiale; invece ritiene questo “il fattore che ha reso possibile il sorgere delle nostre civiltà e il sorgere di tante opere tra cui autentici capolavori, quindi la nascita ed esistenza dell’Arte”. L’atto creativo è della mano, collegato all’esecuzione artistica, il momento ideativo è della mente ed è collegato al sapere. Per questo la sua attenzione alla “materialità” è massima, e cerca di scoprire dai grandi maestri i segreti della loro abilità nel disegno, che per lui ha un ruolo centrale; ed esorta gli uomini pur nella civiltà meccanizzata, a “conservare  l’abilità delle loro mani e l’agilità delle loro dita”.

“La bella italiana”, 1948

I d’aprés dei grandi Maestri

Tre dei “d’aprés” esposti sono da Rubens, “Testa di donna piangente”, “Doppio ritratto, bimba e gentiluomo”, 1955, e “Bambino con colomba”, 1960. Altri tre sono “Testa di giovane donna”, 1944, da Fragonard,  “Testa di uomo”, 1945, da Tiziano, e  “Ritratto di gentiluomo”, 1968, da Franz Hals.

E’ la sintesi di un’attività che lo ha accompagnato dal 1919, allorché fu “folgorato” da un quadro di Tiziano, poi dal “Tondo Doni” di Michelangelo nel 1920, ne ammirava l’aspetto cromatico e materico, la luce e la forma, al punto da essere impegnato in un nuovo “d’aprés” alla sua morte.  Oltre a questi artisti, ricordiamo i “d’aprés”  su Durer e Raffaello, Tintoretto e Veronese, Poissin e Velasquez, Ingres e Delacroix: dai sommi maestri più antichi, ad artisti del ‘700 ed ‘800. Diceva di farlo per “scoprire il loro segreto”, dalla “solidità pittorica” alla “bellezza nitida dell’impianto” compositivo, fino a studiare trattati e pubblicare saggi su “Valori Plastici”, “Il Convegno” e altre riviste.

E lo faceva anche nelle gallerie romane e fiorentine, dinanzi ai capolavori perché, nota la Noel-Johnson, “scegliendo di copiare direttamente dall’originale, de Chirico poteva non soltanto vivere in prima persona il senso di rivelazione trasmesso dall’opera, ma anche capire più a fondo l’utilizzo del colore e della tecnica”. 

Lui stesso scrive che “un quadro debba essere sempre il riflesso di una sensazione profonda, e che profondo vuol dire strano, e che strano vuol dire poco comune o del tutto sconosciuto”; e sulla rivelazione, che ha “un ruolo fondamentale”, aggiunge che “un quadro ci si rivela senza che vediamo niente, e nemmeno pensiamo ad alcunché, ed è anche possibile che la vista di qualcosa ci riveli un quadro”.

Anche  nel ritratto classico, dunque, aleggia l’enigma, d’altra parte la “sensazione rivelatoria” viene trasmessa dalle piazze come dai volti raffigurati nei quali ricercava la somiglianza come facevano gli antichi maestri. Ma senza dimenticare, e lo scrive nei “Ritratti”, che “nella grande pittura esiste sempre la spiritualità come fenomeno naturalmente inseparabile dall’arte. Un fenomeno che piglia forme multiple, data la varietà e la complessità del fenomeno stesso dello spirito”.  I ritratti antichi “sono la più alta espressione della spiritualità”  e in quanto tali “capolavori”, pur se “assomigliavano perfettamente alle persone ritratte”; definizione valida per il ritratto classico su soggetti definiti, estensibile al ritratto fantastico su soggetti indefiniti perché universali.

“Isa con cappello di piume”, 1954

La prima “enclave” del “ritratto classico”

Il “rettilineo” iniziale  è chiuso in modo spettacolare da “Autoritratto nel parco con costume del Seicento”,  1959, un olio che lo vede in piedi con la mano sinistra sulla spada nella sontuosa veste seicentesca presa in prestito al teatro dell’Opera e da lui indossata per riprendersi “dal vero”.

A lato, altro grande dipinto, “Bagnanti (con drappo rosso nel paesaggio)”, 1945, nudo della moglie Isabella in posa classica e ambiente arcadico, ispirato a “La grande Odalisca” di Ingres: non è un “d’aprés” per il diverso ambiente, qui siamo in campagna, ma la posa è la stessa.  Il rosso si trova nei drappi di opere molto diverse, con le donne e i cavalli, i manichini e i gladiatori; e accende l’abito di “La Spagnola”, 1934, con il colore squillante della maglietta sotto il manto nero, l’espressione quieta e dimessa.

Si svolta  nella prima “enclave” del percorso “collinare”, dominata dai “Ritratti di Isa”. Si fronteggiano due dipinti dai toni caldi, anzi accesi, “Testa di Isa”, 1933, e “Ritratto di Isa con spalliera rossa”, 1936, entrambi molto intensi,  il primo per la  Robinson “‘arde’ come braci su un fondo indefinito”, in un’esecuzione sperimentale non più praticata pur se molto espressiva, nel secondo l’atteggiamento è di riposo, ma lo sguardo è fisso e penetrante.

A questi ritratti si possono accostare i visi altrettanto in primo piano di “Testa di fanciulla”, 1948, e “Annunciazione”, 1954: si va da un’apparizione da sogno tra cielo e terra ad una visione molto umana incentrata sui volti con un’espressione celestiale.

Di Isa, oltre ai volti intensi,  la figura a mezzo busto o intera in due dipinti dai toni freddi pur se con un cromatismo vivace, dove l’abbigliamento prevale sul ritratto: “Ritratto di Isa, vestito rosa e nero”, 1934, e  “Isa con cappello di piume”,  1954.  Il primo negli anni ’30  dopo averla conosciuta, l’altro negli anni ’50, quando era divenuta sua moglie e compagna inseparabile: il viso con i grandi occhi sembra più giovanile di quello del dipinto di quindici anni prima, come dei due del 1935, non in mostra, “Ritratto di Isa in abito nero”  e “L’autunno”, quest’ultimo dall’espressione così malinconica da essere un’allegoria della stagione.

Ancora più dominante l’abbigliamento nelle opere sulla bellezza muliebre tra il mito e la realtà, con cui culmina il ritratto classico. Può sembrare paradossale in “Le tre Grazie”, 1954, dato che sono riprese nella loro ben nota nudità, ma spiccano i panneggi a forti tinte contrastanti, che ruotano intorno alle loro forme trasmettendo il movimento all’ambiente circostante; mentre in “La bella italiana”, 1948, il ricco drappeggio della veste sontuosa ne accompagna la prorompente bellezza che rifulge in uno sfondo ambientale dove ritroviamo elementi tipici del paesaggio italiano. 

“Le Sibille”, 1960

Un’ultima opera riconducibile a questa sezione è “Le Sibille”, 1960, due figure femminili imponenti, coperte fino alle spalle nude da panneggi dal cromatismo vistoso segnati dalle nette ombre scure delle pieghe, che fanno quasi da pendant a capigliature altrettanto vistose. Una striscia blu di acqua in basso, l’angolo di un tempio sulla destra, siamo entrati in pieno ambiente metafisico. Anche per questo l’opera travalica la parte dedicata al “ritratto classico”, e la troviamo al termine del percorso metafisico con la scultura che ne ripete la composizione. La svolta  si preannuncia spettacolare, la prossima “enclave” è dedicata alla ripresa metafisica degli anni ’70, per essere seguita da un’altra “enclave”, la Neometafisica dell’ultimo periodo. Come non emozionarsi?

Per prepararci a questo spettacolo  riepiloghiamo la sequenza stilistica e di contenuti dell’artista, sviluppata anche attraverso il ritratto. I ritratti metafisici sono negli anni ’10 dei precursori che torneranno in seguito, negli anni ’20 prevalgono i  ritratti classici, c’è poi il realismo degli anni ’30 e l’inesausta ricerca pittorica anche nel segno dei  grandi Maestri con cui si arriva agli anni ’40, fino alle opere più tarde dove torna con prepotenza la Metafisica con le mutazioni della Neometafisica.

Sono cicli non solo stilistici: dal soggetto chiuso in se stesso e delineato con tratti netti che  non lascia trasparire emozioni, al manichino metafisico senza fisionomia né identità, che tuttavia – sono parole della Robinson – “brilla di espressione luminosa e del pathos dell’essere: una commozione universale ed eterna, espressa dall’inclinazione della testa e dalla positura corporea”;  fino a riportare il manichino, dall’astrazione massima delle superfici lisce e delle squadre lignee, all’umanità espressa dalla carne di cui tornano ad essere fatti gli arti e altre parti del corpo.  E che l’ultima svolta coincida con la fase più avanzata della vita è un aspetto che riesce  a commuovere.

Lo vedremo prossimamente descrivendo il “ritratto fantastico” intimamente connesso ai soggetti metafisici nelle loro molteplici espressioni, di cui la mostra espone opere molto significative.

Info

Fortezza di Montepulciano. Lunedì ore 16,00-20,00; da martedì a domenica 10.00-22,00 (ultimo ingresso ore 21,15). Ingresso intero 7 euro, under 25 ridotto 5 euro, under 12 gratuito. On line su circuito prevendita http://www.vivaticket.it/, tel. 0578. 757007. Catalogo bilingue, italiano e inglese, dal quale sono tratte le citazioni del testo: “Giorgio de Chirico. Il Ritratto, figura e forma”, a cura di Katherine Robinson, Maretti Editore, giugno 2013, pp. 192, formato 23×28, euro 30. Il precedente articolo sulla mostra di Montepulciano, con 6 immagini, è in questo sito il 20 giugno 2013. Per alcune mostre precedenti su de Chirico cfr. i nostri servizi in “cultura.abruzzoworld.com”: nel 2009 “I disegni di de Chirico e la magia della linea” il 27 agosto, “A Teramo de Chirico” ed altri grandi artisti italiani del ‘900 il 23 settembre, “De Chirico e il Museo, il lato nascosto dell’artista incompreso” il 22 dicembre; nel 2010 “De Chirico e la natura. O l’esistenza?”, tre articoli l’8, il 10 e l’11 luglio; per la mostra di Paolini citata nel testo, “L’enigma dell’ora”, cfr. il nostro articolo nel sito citato, il 10 luglio 2010.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Fortezza di Montepulciano alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti, in particolare la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, per l’opportunità offerta. In apertura, “Autoritratto nel parco con costume del Seicento”, 1959; seguono “Autoritratto nudo”, 1945, e “La bella italiana”, 1948, poi “Isa con cappello di piume”, 1954, e “Le Sibille”, 1960; in chiusura, il “rettilineo” espositivo dei ritratti, in primo piano “Autoritratto con pullover nero”, 1957, segue “Natura morta con autoritratto”, 1972.

“Autoritratto con pullover nero”, 1957, sn primo piano, segue “Natura morta con autoritratto”, 1972