Mastrodascio, alla “Vetrina del Parco” di Montorio

di Romano Maria Levante

Mastrodascio alla “Vetrina del  parco” di Montorio al Vomano è un felice ritorno, ricordiamo la sua mostra del 2006 nella Banca di Teramo dove si trova la “piccola Loggia dei Lanzi” con le sculture di Venanzo Crocetti creata dal compianto Antonio Tancredi, che ne è stato mecenate, come lo è stato di Mastrodascio i cui busti sono esposti alla vicina passeggiata dei “Tigli” che termina con il grande  Monumento ai Caduti di Crocetti. Questo maestro lo ha ispirato sin dagli inizi della sua carriera, e lui ha avuto in sorte di completarne l’opera nel Duomo di Teramo con la scultura simbolica nel portale posteriore. Crocetti è l’autore di una delle grandi porte della basilica di San Pietro a Roma. Prima di parlare della sua mostra torniamo brevemente sulla “Vetrina del Parco”.

La “Vetrina del Parco” senza il protagonista

Ne abbiamo parlato di recente descrivendo i contenuti della manifestazione ed esprimendo la nostra delusione per l’assenza del vero protagonista, il Parco, ci torniamo prima di calarci nella  mostra  scultorea di Mastrodascio con 25 opere  nella sala conferenze del Chiostro degli Zoccolanti di Montorio al Vomano, che al livello inferiore in una sorta di sito catacombale presenta la mostra permanente su usi, costumi e mestieri  di una volta, che ha dato supporto a una “vetrina” nella quale altrimenti sarebbe stato pressoché assente il respiro della tradizione e della storia popolare.

E’ mancata del tutto la presenza dei borghi che storicamente hanno dato vita a un territorio montano ora alle prese con lo spopolamento, ma con suscettività e attrattive naturali che hanno collocato il paese nel cuore del Parco, Pietracamela, tra i 400 “borghi più belli del mondo” dal 2013, dopo essere entrato nel club dei “borghi più belli d’Italia” nel 2005 e proclamato “borgo dell’anno” nel 2007. Come è mancato del tutto il Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga la cui “vetrina” non poteva non presentare – ma non lo ha fatto – sia la propria attività sia l’insieme articolato e pittoresco dei borghi che lo compongono da uno dei quali, Cerqueto, viene Mastrodascio; poi c’è Pietracamela che pure quest’estate ha allestito una mostra storica sullo “Sposalizio di una volta”, Fano Adriano fino a Isola del Gran Sasso e Tossicia sul versante teramano, per non parlare del versante aquilano, da Stefano di Sessano a Castel del Monte,  che doveva essere rappresentato in una visione non miope. E poi dall’altro lato della “strada maestra” gli abitati di Crognaleto, da Aprati a Nerito, San Giorgio e Poggio Umbricchio, Alvi e Tottea, Frattoli e Cesacastina, Senarica e Cortino, dalle bellezze naturali e urbane di antico borgo montano.

Due sole le presenze al riguardo. La prima è stata la catena montuosa con le storiche gigantografie degli scenari e ascensioni d’epoca tratte dal volume “Sua Maestà il Gran Sasso”, a cura di Silvio Di Eleonora, Fausto Eugeni e Lina Ranalli, la curatrice del libro d’epoca di Ernesto Sivitilli sullo stesso Corno Piccolo, presentato dopo ferragosto a Pietracamela; ricordiamo che nella “Vetrina dl Parco” del 2009 c’erano anche gigantografie sul Gran Sasso, allora all’esterno nella piazza Orsini, quelle attuali all’interno del  “Chiostro”. La seconda presenza Montorio al Vomano nelle foto del suo percorso storico in 500 anni, tratte dal libro “Montorio al Vomano. Immagini per la memoria” di Egidio Marinaro. E’ ben poco, troppo poco per giustificare il titolo della manifestazione.

Poi c’è stata “la via del gusto”  per le specialità enogastronomiche,  e la  musica dei complessi in Piazza Orsini e nel Chiostro, neppure loro giustificano  il titolo  “La vetrina del Parco”. Come non lo giustificano le pur apprezzabili esposizioni d’arte, la mostra “on the road” del pittore Paolo Foglia insieme al poeta Francesco Barnabei, già visti in “Pietracamela in arte” subito dopo ferragosto, inquietudini maschili e abbandoni femminili incrociati nelle tele e nei versi esposti “en plein air”  in un largo raccolto e intrigante; e la grande mostra pittorica “I Kostaby, Sound & Dreams”, 50 tele di composizioni oniriche in ambiente metafisico reso da manichini dalle teste ad uovo e le forme ben delineate, cui si associano maschere inquietanti allucinate e spettrali; il tutto in un cromatismo vivace con colori caldi e freddi, un segno preciso, un’ispirazione costante.

La mostra di Silvio Mastrodascio, con la sua storia personale di figlio della montagna che ha cercato fortuna nel nuovo mondo, si avvicina allo spirito della gente del Parco, anche questo poteva essere evocato attraverso il coinvolgimento delle comunità di emigrati, ma non lo si è fatto.

L’esperienza di vita

Lo scultore partito da Cerqueto per il Canada alla fine degli anni ’60 ha da raccontare un’esperienza di vita di sapore antico ma anticipatrice del percorso attuale di molti giovani;  in un incontro con noi lo ha fatto con il cuore in mano, rievocandone i passaggi cruciali.  E’ stata la sua un’emigrazione non più di necessità estrema  ma alla ricerca di migliori opportunità sulla base di un’istruzione approdata al livello universitario e con una prima esperienza di lavoro a Roma dove è stato impegnato nella realizzazione pionieristica dell’ “onda verde” in tre arterie, la via Olimpica, la Salaria, viale Regina Margherita. La scelta che gli si prospettava tra la Persia e il Canada aveva una risposta obbligata; non solo perché la carne di montone non lo allettava, ma perché il nord America, e in particolare Toronto, era la meta tradizionale dei suoi conterranei della montagna abruzzese.

Si organizza il nuovo scalo aereo, la compagnia di bandiera lo prende, vi resterà quasi per quattro decenni, diventerà caposcalo. Un lavoro impegnativo, che non gli impedisce di seguire la via dell’arte, anche se alle otto ore quotidiane in Alitalia deve aggiungerne quattro dedicate all’arte.

A Cerqueto si esprimeva nella pittura, ricordiamo le sue tele dai colori forti, soprattutto paesaggistiche; a Toronto rafforza le sue basi culturali all’Accademia delle Belle Arti, seguirà ben trentadue corsi, e con profitto, si diploma “cum laude”  e scopre i tanti segreti dei grandi maestri approfondendone la conoscenza in una palestra di cultura e di arte. Affiancata alla palestra di vita  del suo lavoro, nel crocevia di genti e tradizioni, culture e sensibilità  che è uno scalo aereo, dal quale si sposta nell’intera America – da Miami a Boston, da Los Angeles a Chicago – e in altri paesi.

Che cosa ha potuto dare quest’esperienza a un osservatore acuto impegnato giornalmente a confrontarsi con l’arte oltre che con la vita che gli scorreva davanti? Viaggi e incontri, contatti e relazioni, nel contatto diretto e continuo con i volti delle persone e il linguaggio dei corpi, gli hanno fornito la chiave per penetrare nei sentimenti e nei valori, nelle ansie e attese dell’animo umano, al di là delle nazionalità, dell’aspetto esteriore, del censo; per coglierne le linee essenziali, in una sintesi da fissare nelle figure e nei ritratti in cui si manifestano i complessi meccanismi della vita.

Come nasce la “pelle della scultura” e la “pittura tridimensionale”

Mastrodascio plasma le figure e i ritratti nella creta, materia ideale per identificarsi con l’ispirazione mediante una ricerca resa dalla manualità di un artigianato sopraffino che diviene arte e lo riporta al lavoro degli avi, i “maestri d’ascia” che trasformavano l’immobilità dei  tronchi d’albero in veloci barche , da cui l’origine del cognome.  La creta si fa modellare docilmente dalla mano dell’artista, che vi trasmette il soffio vitale, a differenza del marmo nel quale invece si tratta di liberare ciò che è imprigionato dalla dura materia. La fusione in bronzo nel forno è la successiva fase tecnica cui segue il lavoro di rifinitura e limatura, quando l’arte deve far corrispondere la realizzazione con l’ispirazione, la materia corporea con l’idea ispiratrice eterea e incorporea. In questa fase – ci confida lui stesso – c’è il momento magico, quando “sente” che l’idea è diventata immagine, figura, e la materia inerte è animata dal soffio della vita:è il momento in cui si manifesta la creazione, è nata una creatura da assimilare all’essere umano, se l’ispirazione e quindi l’opera  sono autentiche.

Nelle sue sculture c’è del colore, spesso sono dorate e ambrate, o di un verde discreto, retaggio del colore della pittura, anche se da almeno un ventennio si esprime nella scultura. Del resto le sculture antiche erano colorate anche se il tempo ha cancellato il colore, perché così è la vita. E la sua fonte di ispirazione, la vita cosmopolita degli scali aerei, è stata di certo una sinfonia di colori; e un caleidoscopio di volti e di figure, da cui ricava l’essenza della persona fissata in una positura e in un gesto, in un atteggiamento e in un’espressione.

Viene considerato esponente di un filone scultoreo che risale a Donatello proiettato nella modernità, d’altra parte nella sua lunga frequentazione dell’Accademia è stato abituato a filtrare l’insegnamento dei grandi maestri con la realtà sotto i suoi occhi. Sono le sollecitazioni alla base della raffinatezza ed eleganza di vesti e figure, con una dignità che incute rispetto fino alla soggezione, in un’aura di luminosità e armonia. E’ tutto un mondo che si manifesta, l’essenza della persona scandagliata nei suoi tanti momenti, i suoi sentimenti interiori. Resta impressa la delicatezza dei volti e dell’incarnato, il calore dei corpi e la luce degli occhi inconsueta nella scultura, mentre il colore dà vita alla materia con i suoi riflessi misteriosi. La bellezza del corpo trasmette la dignità dell’anima, attraverso la raffinatezza di una superficie ambrata o dorata, così nasce “la pelle della scultura”, che la critica d’arte Silvia Pegoraro ha definito “una levitas sottotraccia guidata da un cuore caldo e da una mente serena”.

Le sue donne in mostra, forma e contenuto

Dinanzi alla galleria di figure femminili si ha  la sensazione di penetrare in un’intimità riservata da non violare, anche se le forme sono protette da veli sottili e leggeri, da vesti elaborate e preziose e, se sono nudi, dalla pelle ambrata e dorata che le circonda di una sensualità discreta. Superata questa prima sensazione si è catturati dalla maestria con cui sono curati i dettagli da un’arte che è anche alto artigianato nel fissare sul bronzo satinato con riflessi dorati gesti e atteggiamenti, fisionomie ed espressioni quanto mai vive e pulsanti. E’ un realismo che viene sublimato nell’idealizzazione.

Maurizio Calvesi li definisce “ritratti parlanti di donne e giovinezze sorprese nel loro smarrimento o nella loro malinconia. Volti resi naturali dalla morbidezza con cui l’argilla è plasmata in terrecotte  che sanno comunicare la tenerezza delle carnagioni,, la dolcezza o la mitezza o la fierezza degli sguardi, l’increspatura delle chiome dove i chiaroscuri cercano un effetto squisitamente pittorico”.

Nelle figure sedute il tono alla scultura è dato dalle posizione di braccia e gambe, l’atteggiamento e l’espressione. “Agata” e “Solitudine” sono sulla panca, mentre “Modella sulla sedia”, e “Modella nuda seduta sullo sgabello”, come “Dea della sapienza”; invece “Alexandra, in posa per l’artista” e “Posa finale”  sono sedute a terra.

Le figure in piedi spiccano per la maestosità del portamento, sia quando hanno vesti ricche e raffinate, come “Cuore solitario” e “Dolce serata”, “Serata di gala” e “Il fuoco arde nel mio cuore”; sia quando sono mostrate nude nella loro purezza primigenia, come “Barbara” ed “Eleonora”, “Libertà e pudore”, “Nudo”; sia quando esprimono tenerezza come “Madre con bambino” e “Ritorno al mercato”, “Settembre” e “Modella in posa”.

Elemento comune a tutte le raffigurazioni, pur nelle differenze espressive e compositive, è la sensualità discreta che sprigionano i volti e gli sguardi, i corpi con i seni appena rivelati o in piena evidenza o la pelle ambrata nella sua carnalità  calda e tangibile, protetta da una nobiltà e una dignità che ispira rispetto. E’ una sensualità, in definitiva, che sconfina nel romanticismo.

Una scultura rappresenta in un certo senso una sintesi di motivi apparentemente opposti, è “Buongiorno”, con la sensualità dei  seni nudi e la preziosità della veste raffinata allacciata dalla cintola in giù, l’atteggiamento oscilla tra l’abbandono e l’istintiva difesa in un gesto istintivo.

Nella sua produzione artistica ci sono anche teste e busti bronzei e in terracotta, di ispirazione classica, ricordiamo che è stata una testa la sua prima scultura dopo aver avuto quella egizia nel deserto del Sinai. Così abbiamo “Testa di donna” e “Testa di ballerina”, “Ritratto di Irene” e “Ritratto di Suzanne. Il pensiero torna all’Accademia d’arte di Toronto da lui frequentata  con l’osservazione delle modelle e lo scalo aereo con la varia umanità  che passava sotto ai suoi occhi.

L’insieme dimostra come sia riuscito a rendere docile la materia  facendole recepire la sua ricerca dei dettagli figurativi, perché tale è l’ispirazione avuta dalla realtà, e può farlo attraverso la creta e il successivo affinamento della fusione in bronzo. Ottiene in questo modo il risultato tipico della pittura, dove sono ammessi ripensamenti e dettagli minuziosi, trasferito alla scultura che diviene così la “pittura tridimensionale” di cui si è detto.

Le sfere di bronzo, la “Reincarnazione dell’Universo”

Anche la figura maschile entra nella sua produzione, segnaliamo il dolce “Ritratto di Alex”, il più severo “Uomo con barba” e il “Mio antenato”, poi va oltre questi soggetti umani per assumere soggetti dal  valore universale.

Come passa Mastrodascio dall’individuo all’umanità? Mediante le sue sfere nelle quali si affacciano dei volti, ne vediamo esposta una di piccole dimensioni della serie “Genesi”, un vero gioiello in cui l’arte si associa alla meccanica, ruota sul suo asse come la sfera terrestre. Si tratta di un filone da lui sviluppato in una serie di opere dai titoli eloquenti, per ognuno una serie plurima: “Canadian dream”e “Sogno Indu”, “Il seme della vita” e “La luce e la vita”, “Evolution of the World” e “Reincarnazione“. E anche opere più elaborate sulla stessa base sferica come “L’albero della saggezza” e “Armonia dei sogni”.

A queste sfere di quasi mezzo metro di diametro si richiamano le più grandi sfere da arredo urbano, che fanno parte della sua produzione, anch’esse sui temi dell’Universo. Una di queste si trova proprio nella seconda piazza di Montorio,. È la “Sfera alata”,  come se la terra abbia messo le ali, un nugolo di piccioni volteggia intorno, le loro ali viventi sulle ali simboliche della scultura.

Non ci fermiamo qui, andiamo a rivedere la più grande sfera di bronzo sulla “Reincarnazione dell’Universo”. Ricordiamo quando era stata collocata al centro della principale piazza di Teramo, Piazza Garibaldi, investita da polemiche perché accusata di interrompere la visuale che dal Viale Bovio con la preesistente fontana arrivava fino al Duomo. Nulla di più fuori luogo, peraltro l’ipogeo che è stato “eretto”  al suo posto – contraddizione in termini, ma tant’è –  è ben più invasivo. La sfera, però, ha avuto una collocazione adeguata, nello svincolo tra l’accesso alla  superstrada, la salita dei Cappuccini-Porta Romana e la via verso la Specola, tutti luoghi-simbolo di Teramo.

E’ un crocevia che accoglie i visitatori del capoluogo, ganglio pulsante della vita concitata, sempre più ansiosa e insofferente, dei tanti automobilisti che girano nella la rotonda.  Mentre la sfera di Mastrodascio sembra richiamare a una superiore serenità, espressa dai volti  che si affacciano sulla superficie del globo a testa alta, nella consapevolezza della  persistenza dei valori e dell’umanità che sfida il proprio tempo, misurato dai piani orizzontali proiettati verso l’alto. E’ la varia umanità che l’autore ha incontrato nella sua lunga vita professionale tra gli scali aerei e le più diverse provenienze e destinazioni in tante parti del mondo e rende protagonista della reincarnazione.

L’abbiamo raffrontata idealmente alla “Grande sfera” di Arnaldo Pomodoro nello sterminato piazzale della Farnesina a Roma, e le abbiamo trovate complementari. Quella di Mastrodascio fa sentire vicina un’umanità fiduciosa su cui poter fare affidamento nel dipanarsi vorticoso e spesso disumano della vita moderna; la sfera di Pomodoro con le sue fenditure e le rugosità che richiamano i grattacieli alienanti, l’inclinazione dell’asse che proietta nell’universo, ne fa sentire la lontananza. Sono le due lenti attraverso le quali si può vedere l’umanità, adatte alle rispettive collocazioni.

Siamo partiti dalla dimensione locale del “ritorno a casa” dell’emigrante di lusso assurto a fama internazionale per la sua arte; anche le sue opere dalla dimensione individuale di teste e figure assurgono a un valore universale con le sfere della “Genesi” e della “Reincarnazione”.  Non c’è dubbio che solo per questo la “Vetrina del parco” di quest’anno potrà essere ricordata, per il resto i gravi  limiti cui abbiamo accennato consigliano di voltare pagina al più presto: fare una vera “vetrina del Parco” oppure cambiare nome alla festa, così sembra un’indebita usurpazione.

Info

“Mastrodascio”, Monografia con un testo critico di Maurizio Calvesi  2010, Aipem e Ginga S.p.A, pp. 210, formato 25×30. Cfr. i nostri precedenti articoli: sulla “Vetrina del Parco”, in questo sito il 3 ottobre 2013 dal titolo “”Vetrina del Parco, a Montorio manca il Parco”, in “cultura.inabruzzo.it” l’11  settembre 2009 “Vetrina del Parco a Montorio al Vomano” e “Il ‘Chaos’ di Alice, opere cosmiche ispirate al terremoto”; su Mastrodascio,  nel sito ora citatoil 20 ottobre 2013 “Montorio al Vomano. Il ritorno di Mastrodascio”, nella rivista a stampa “L’oleandro” del dicembre 2006 con il titolo “Ritratto di artista. Mastrodascio”.

Foto

Le  immagini delle sculture sono state riprese da Romano Maria Levante a Montorio al Vomano durante la manifestazione, si ringraziano gli organizzatori e i titolari dei diritti, in particolare l’artista scultore Silvio Mastrodascio, per l’opportunità offerta. Ne sono state scelte, alternandole, due per le tre posizioni tipiche, con la figura in piedi, seduta su una sedia o rannicchiata a terra, e diverso abbigliamento.