Duchamp, 14 ready made e 93 incisioni, alla Gnam

di Romano Maria Levante

Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, dall’8 settembre 2013 al 9 febbraio 2014 la mostra “Duchamp. Re-made in Italia”, a cura di Stefano Cecchetto, Giovanna Coltelli e Marcella Cossu, con Carla Subrizi per la selezione degli artisti italiani, Catalogo Electa  a cura della Coltelli e della Cossu.  Espone i 14 ready made della mostra del 1964 richiamandone l’allestimento, oltre a 93 opere grafiche e ad una scelta di artisti italiani collegati a Duchamp. Un’immersione nella creatività di un artista rivoluzionario che ha dissacrato l’opera d’arte facendo assurgere al livello di capolavori dei semplici oggetti di uso quotidiano, avulsi dal loro contesto e intitolati in modo intrigante.

Non poteva che essere la Galleria Nazionale d’Arte Moderna ad organizzare la mostra su Marcel Duchamp, dato il gran nucleo di opere dell’artista, un centinaio,  che fa parte della copiosa donazione Schwarz allo Stato italiano, ben 500 opere depositate per sua scelta alla Gnam; dove  nel 1997 si svolse nella Galleria la grande mostra “Marcel Duchamp ed altri iconoclasti, anche”. D’altro canto, fu la direttrice della Gnam Palma Bucarelli ad acquistare l’esemplare della celebre “Boite- en- valise” – presentata alla Biennale di Venezia del 1948 –  esposto  nella mostra sul surrealismo di Schwarz a Milano nell’aprile-maggio 1959, ricorda la curatrice Giovanna Coltelli.

Il riferimento d’obbligo è alla mostra del 1964 a Milano nella galleria Schwarz, e a quella successiva organizzata da Dino Cavina e Schwarz a Roma in via Condotti nel 1965,  allestita da Carlo Scarpa. Ora Duchamp torna in Italia, paese dal quale si era tenuto lontano per tanti anni, non volendo essere influenzato dai  capolavori dell’arte tradizionale, proiettato com’era verso il futuro.

L’ originalità nell’arte e nella vita

Né viaggi in Italia per formazione, quindi, né per turismo, salvo  nel 1925-26; fino al 1962, allorché aveva 75 anni. Con la visita al nostro paese, i contatti con artisti d’avanguardia  e con la direttrice Bucarelli per la mostra Dada del 1966. Nel 1964, l’anno della mostra milanese, visitò Firenze e tre anni dopo ebbe a dichiarare: “Ho visto finalmente gli Uffizi”: non temeva più il contagio dei sommi  maestri. Morirà nel 1968.

Una vita artistica molto particolare quella di Duchamp, percorsa da periodi di straordinaria genialità con lunghe interruzioni, in una concezione di libertà dell’arte legata alla libertà della vita: nessun vincolo oggettivo, tanto meno estetico, la considerava  legata alla percezione soggettiva dello spettatore che partecipa così al processo creativo.

Criticava la pittura, che definiva “retinica”, come fenomeno visivo,  dicendo che doveva essere posta al servizio dell’ “esprit”, cioè l’intelletto. Questo avveniva dopo  i primi quadri in stile impressionistico e con l’influsso di Cézanne; passò poi allo stile cubista e fu fortemente influenzato dal futurismo nel senso del movimento fino al surrealismo nel periodo americano della sua vita.

Il suo celebre “Nudo che scende le scale” del 1912, esposto a New York l’anno successivo nella grande mostra definita “Armory Show”, fu messo in caricatura dal New York Times come “Il rude che scende le scale”: ma ciononostante, e forse anche per le polemiche che suscitò, divenne il quadro più famoso. Con altre opere consimili esprime l’influsso futurista nel movimento,  ma c’è anche la componente meccanica, che attirerà sempre più il suo interesse portandolo a realizzare congegni ottici, apparecchiature e meccanismi di vario tipo, cosa che divenne un impegno costante.

Dai meccanismi basati su leggi fisiche il suo interesse si estese all’azione delle leggi del caso: ed ecco l’artista sfidare la roulette al casinò di Montecarlo secondo un sistema studiato nei minimi particolari in base ai bollettini con le serie di numeri usciti, finanziandosi con prestiti degli amici garantiti da Buoni con cedole, da lui disegnati, che divennero pezzi da collezione.

Non fu l’unica originalità nella vita da artista di Duchamp. Rinuncia alla pittura e si dedica sempre più al prediletto gioco degli scacchi, frequenta i circoli e partecipa ai tornei fino a gareggiare a livello mondiale  nella nazionale francese. Per ben sei anni, dal 1928 al 1934, gli scacchi furono la sua occupazione quasi esclusiva, al punto che la moglie giunse ad incollarli nella scacchiera per liberarlo dall’impegno divenuto totale. Scrisse un libro sugli scacchi e si impegnò nella creazione di nuove forme dei pezzi progettandole  con Man Ray senza poterli produrre com’era il suo intento.

Negli scacchi vedeva una forma di espressione che con la pittura aveva in comune di coinvolgere il protagonista con il pubblico: l’osservatore nelle mostre, lo spettatore nelle partite. Accostava gli scacchi alla roulette attraverso l’azione del caso in entrambi i giochi, accentuandola nel primo e attenuandola nel secondo in modo da avvicinarli.

Valorizzava le differenze  attribuendole al caso da cui dipende l'”ultrasottile” che distingue anche gemelli all’apparenza identici, e nell’arte attaccava “i concetti di originalità e di autografia in favore di quella che potremmo definire una ‘co-produzione con il caso'”, scrive la  soprintendente della Galleria Nazionale d’Arte Moderna Maria Vittoria Marini Clarelli nella presentazione della mostra.

I ready made

Tutto questo è confluito nel colpo di genio dei “ready made”, la negazione del valore estetico e oggettivo dell’opera d’arte si è tradotta nell’utilizzazione di oggetti di uso comune cui veniva dato un titolo diverso dalla funzione originaria, spesso dissacrante; quella che era una parodia dell’opera d’arte è divenuta così vera opera d’arte legata al nascere del dadaismo cui Duchamp diede un notevole contributo fin dal primo viaggio a New York dove portò “50 cc di aria di Parigi”, in un’ampolla farmaceutica per soluzioni fisiologiche vuotata e poi sigillata con l’aria dal farmacista.

I “ready made” non vanno visti in modo semplicistico, per non dire liquidatorio, Schwarz dagli scritti di Duchamp ricava le due condizioni e le quattro regole cui sono sottoposti,che vengono così riassunte dalla Clarelli: “Le due condizioni sono che l’oggetto deve essere scelto e firmato dall’artista. La prima regola è la de-contestualizzazione: l’oggetto deve essere estratto dal suo ambito abituale, non più usato secondo la sua funzione. La seconda regola è l’apposizione di un titolo. La terza regola è la limitazione della frequenza dell’atto, la riduzione quantitativa del ‘ready made’. L’ultima regola, che Schwarz definisce ‘la più esoterica’, riguarda quello che Duchamp chiamava le rendez-vous, l’appuntamento con l’oggetto”.

Guardiamo, nella sala in cui sono esposti,  i 14 ready made realizzati per la mostra del 1964 prima citata, replicati in base agli originali se ancora esistenti o a loro fotografie con il controllo diretto dell’artista che diede – lo scrive lo stesso  Duchamp – il “visto si stampi”  lodando pubblicamente la cura “quasi fanatica”  messa da Schwarz nella ricostruzione degli oggetti e impegnandosi a non autorizzare ulteriori riproduzioni per dare maggior valore a quelle realizzate per la mostra.

Il primo ready made è la celebre “Ruota di bicicletta”, 1913, lasciata nel suo studio quando andò in America, poi montata sullo sgabello che vediamo come base, in un accostamento in cui Maurizio Calvesi ha visto gli ossimori di tipo alchemico, cerchio-quadrato, mobile-fisso fino a una forza ascendente verso l’alto nei piedi e nella forcella. Crediamo sia espressione del suo interesse per i meccanismi oltre che per il movimento che l’anno prima gli fece dipingere il nudo futurista citato, e il loro accoppiamento è collegato alla sua attrazione per gli eventi casuali privi di senso preciso. Era impegnato in quell’anno nella progettazione del “Grande vetro”, iniziata l’anno precedente, con figure meccanomorfe atte ad esprimere movimento e durata, nonché casualità: come la ruota.

Il caso sembra alla base anche di un ready made molto diverso, “Tre rammendi tipo”, 1913-14, una immagine dell’unità di misura, il metro, insieme precisa e casuale, ottenuta facendo cadere tre fili di tale lunghezza su una tela dove li fissò nella posizione risultante ritagliandovi regoli in legno, il tutto inserito in una lunga scatola di legno che vediamo esposta. Il titolo ironizza sul realismo e nasce dal nome di un negozio in cui la parola “rammendi” sta insieme ad una che evoca la misura standard; la misura casuale e soggettiva, ma nel contempo scientifica, è anche nel “Grande vetro”.

Più vicino alla Ruota di bicicletta il terzo ready made, “Scolabottiglie o Riccio”, 1914. Anche questo oggetto dalla capacità di 50 bottiglie, da lui acquistato, fu lasciato nel suo studio  alla partenza per l’America; da New York diede disposizione alla sorella di scrivere una frase nel cerchio inferiore e apporre la sua firma, era nato l’originale, poi perduto con la sua scritta. Appeso al soffitto perde la sua funzione, anche qui molti i significati attribuiti, Calvesi vi vede l’albero buddista della vita, i cerchi e le punte sono una nuova conciliazione degli opposti.

Che dire del quarto ready made, “Anticipo per il braccio rotto”?  Si tratta di una pala da neve acquistata dall’artista, e anche qui la creatività è nella sottrazione al suo uso naturale e nella collocazione, appesa al soffitto; in più nel titolo, che è un non-sense come dichiarato espressamente dall’artista, perché non si può anticipare un braccio rotto magari dell’utilizzatore della pala. Anche per quest’opera vengono trovati riferimenti al “Grande vetro”, in particolare al velo della “Sposa”.

Vediamo poi, del 1916, “Pieghevole da viaggio”, “Con rumore segreto”, “Dipingi!”.,  ready made  strettamente collegati  all’amico americano e suo mecenate Walter Arensberg. Fu lui a regalargli la macchina da scrivere con cui realizza un’opera a caratteri dattilografici e segni a penna, il “pieghevole da viaggio” ne è la copertura su cui è scritto “Underwood”,  a sottolineare il mistero che si cela sotto la fodera.  Il “rumore segreto” si produce scuotendo all’interno di un rotolo di spago entro una struttura di ottone con quattro viti a dado, la particolarità, e il mistero, è che neppure l’artista sa da cosa è prodotto il rumore, l’oggetto vi è stato messo a sua insaputa da Arensberg: Duchamp  intervistato disse “non so e non saprà mai se è un diamante o una monetina o che altro”. “Dipingi!” è un  pettine dove la particolarità e il mistero sono  nella  frase appostavi  in cui parla di “3 o 4 gocce di alterigia”, riferite da Schwarz alla “Sposa” del “Grande vetro”.

Tra il 1916 e il 1917 un ready made  molto particolare,  non è un oggetto come gli altri, ma una vera locandina pubblicitaria ridipinta a smalto nel titolo, “Apollinère smaltato” dove  era scritto “Smalto Sapolin”: “Precisamente “Sapolin Enamel” diventa “Apolinère enameled”. Raffigura una bambina che dipinge un letto in legno in una stanza con un comò e uno specchio dove l’artista ha aggiunto il riflesso improbabile della sua nuca, è un omaggio al poeta Guillaime che apprezzava perché  sapeva “riconciliare l’arte e il popolo” facendo prevalere le “cose della mente” alla visione estetica.

“Pappagallo”, “Trabocchetto” e “Fontana” sono tre ready made del 1917, presentati tal quale. I primi due erano utilizzati nel suo studio fino a diventare opere d’arte: il “pappagallo” è un portacappelli in legno, termine usato anche come titolo dell’opera, una base circolare con sei aste a uncini, viene appeso al soffitto per estraniarlo dalla sua funzione, richiama le geometrie del Portabottiglie e quindi anche le interpretazioni e il riferimento alle forme del “Grande vetro”; il “trabocchetto”  un normale attaccapanni in legno e metallo che viene estraniato fissandolo al pavimento, in questa posizione gli uncini sporgenti spiegano il titolo che viene riferito anche alla “trappola” per catturare gli uccelli e a quella per ingannare l’avversario negli scacchi

“Fontana” è il più dissacrante, un vero orinatoio di porcellana bianca che fu presentato a firma Richard Mutt alla mostra neworkese del 1917 al Grand Central Palace, venne rifiutata provocando le dimissioni di Duchamp e di Arensberg che erano nel comitato organizzativo. Anche la collocazione è diversa, precisamente rovesciata, per cui diventa “fontana”,  cioè “non più l’oggetto che raccoglie il liquido, l’urina, bensì quello che lo espelle, la fontana”, come lo descrive Achille Bonitoliva. L’intento dissacrante è evidente anche dalla parole di Duchamp, “Volli  fare un’esperienza riguardo al gusto: scegliere un oggetto con la minore probabilità di poter piacere”; il mistero è nel nome Richard Mutt, le interpretazioni vanno dal produttore dell’oggetto ai significati in tedesco come madre o misero, e in americano come sciocco, Duchamp disse: “”Volevo un nome indifferente.  E ho aggiunto Richard… Non è male per un orinatoio, il contrario di miseria “.

Restano da descrivere gli ultimi ready made esposti, realizzati tra il 1919 e il 1921, “Aria di Parigi”, “Neo vedova” e “Perché non starnutire Rrose Sélavy?”. Molto diversi  nei materiali e nella concezione, oltre che nei titoli enigmatici. L’“aria di Parigi” è  l’ampolla di vetro per miscele fisiologiche, cui abbiamo accennato, svuotata e richiusa con l’aria parigina portata a New York. Anche qui mutamento di funzione di un oggetto comune, anche qui  riferimenti al “Grande vetro”, in particolare alla “Sposa”, e secondo Schwarz al corpo femminile ma appeso.  La “neo vedova” è un modello ridotto di una  finestra francese (“french window”) che fece realizzare da un falegname americano e intitolò con il gioco di parole sulla vedova recente “fresh widow”. Infine il terzo titolo sta per una gabbietta da uccelli con 152 cubetti di marmo come zollette di zucchero, un termometro e un osso di seppia. Componenti irrazionali e misteriose, il marmo come peso è l’opposto dello zucchero, non è dolce ed è pesante, sollevare la gabbietta susciterebbe sorpresa e sconcerto, non c’è il canarino ma l’osso, mentre il termometro può solo misurare la freddezza.

Gli artisti italiani collegati a Duchamp

A  questo punto l’esposizione degli artisti italiani  a lui direttamente collegati arricchisce i riferimenti. Di Luca Maria Patella è esposto “Duchamp dis Enameled”, due lettini, “il letto giusto e quello sbagliato”, che riproducono in legno e in misure naturali il lettino dell'”Apollinaire emameled” dell’artista, raddoppiandolo nella forma corretta e in quella inutilizzabile;  ricordiamo che sono esposti in via permanente nel grande salone all’inizio della Galleria. Dello stesso autore ci sono anche “Mutt-Tum”, una grande scritta su un pannello blu con il nome  nella “Fontana”, e “Ritratto di Duchamp (vaso fisiognomico”, l’antropomorfismo di una colonna con in cima un vaso.

Di Sergio D’Angelo5 “hand made”, termine che sembra gli sia stato suggerito dallo stesso Duchamp in un incontro a cena del 1964. Sono costituiti da “scarti di recupero in scatola”, vediamo “Stele per Meret”, uno spazzolone verticale con una sfera di lampione in cima e altri elementi, “Salvatori”, dentro la scatola forme verdi e marrone, forse tegole,“Tu tre”  corolla e foglie su una vistosa struttura, “Agguato”, una indescrivibile massa scura con una forma bianca distesa, fino a “Stagione”, cilindri di diversa altezza con forme sovrapposte al culmine.

Abbiamo anche Enrico Baj con un originalissimo “Omaggio a Marcel Duchamp”, una Gioconda “rifatta” con il volto dell’artista francese, e intorno le decorazioni tipiche dei “generali” di Baj, non c’è intento canzonatorio, tutt’altro, anche se viene intitolata alternativamente “La vendetta della Gioconda”, dopo la correzione del dipinto leonardesco che ne fece  Duchamp aggiungendovi i baffi e l’iscrizione dissacrante L.H.O.O.Q., iniziali di parole francesi che indicano “donna disponibile”.

Mentre di Giosetta Fioroni  c’è “La spia ottica”, una stanza da letto visibile dall’esterno attraverso uno spioncino, si materializza così, virtualmente, l’antica tentazione di guardare dal buco della serratura. L’effetto è quanto mai intrigante.

Per ultimo Gianfranco Barucchello, il più vicino a Duchamp, da lui conosciuto a Milano nel 1962 dopo essere rimasto impressionato dalle concezioni dell’artista sul caso,  l’infrasottile e il resto.  Vediamo esposti “Necessaire per l’oltretomba”, una valigetta con oggetti alla rinfusa, chissà se si ispira alla “Boite-En-valise” di Duchamp con le miniature delle opere quasi da commesso viaggiatore, poi “Esalazione di fumo”, due mezze bottiglie, una su fondo nero, l’altra su quadrettatura bianca, e “Campo base della spedizione aerea Duchamp alle sorgenti del Nilo”, campitura bianca con in basso delle forme e a lato degli agglomerati. Ma le sue opere più espressive dello stretto rapporto con l’artista, una sorta di celebrazione, sono i tre grandi collage, quasi dei tazebao, “Marcel contro campestre bianco”, “Intorno ad alcuni aspetti del rapporto di Marcel Duchamp con lo spazio detto comunemente stanza”, e “Come spiegare M. D. al proletariato giovanile”. Sono composizioni enigmatiche di piccolissimi disegni,  miniature nel vasto manifesto bianco, nel terzo ci sono vistosi disegni in chiaroscuro di edifici e strutture tutte da decifrare.

La valigia e le incisioni di Duchamp, fino al gioco degli scacchi

Ci siamo soffermati sui ready made perché rappresentano una radicale innovazione artistica, ma la mostra presenta anche molti altri lavori di Duchamp, 93 opere grafiche,  incisioni e litografie.

Prima di tutti  la “Boite-en-valise”,  una sorta di “summa” della sua attività creativa, originale creazione essa stessa in quanto la valigia in pelle di camoscio contiene una scatola di legno con le riproduzioni miniaturizzate in fotografie e stampe di  69 sue opere in scomparti come commesso viaggiatore di se stesso, le sue innovazioni più eclatanti riprodotte e raccolte in modo innovativo con il valore aggiunto di un significato concettuale: si crea una nuova opera anche con piccolissime differenze rispetto a quella riprodotta. Ne ha fatto l'”anatomia” la curatrice Marcella Cossu.

Facciamo la conoscenza diretta del “Grande vetro”, 1965, più volte citato: ben 17 incisioni  con le componenti del disegno complessivo da “La sposa” a “I testimoni oculari”, con una serie di congegni meccanici da “Un mulino ad acqua” alla “Macinatrice di cioccolato”, fino al “Grande vetro completo”  con l’intero meccanismo composito e  intrigante. Meccanismi anche in “Pistone per corrente” e “Progetto per l’emisfero rotante”, i dischi di “Rotorilievi” e “Tirato  a lucido”,

Quindi manifesti per mostre e copertine, tra i primi una grande mano rossa con il sigaro“Cuori volanti”, rossi e blu iscritti l’uno nell’altro. Due opere autobiografiche, “Tonsura”, da un fotografia dell’amico Man Ray, e “Autoritratto di profilo”, nel quadrato azzurro al centro di uno sfondo nero.

C’è anche una galleria figurativa con “d’apres” da Ingres e Courbet, Rodin e Cranach, per lo più disegni di nudi, come la serie sugli amanti per illustrare il libro di Schwarz sul “Grande vetro”. E’ la dimostrazione della capacità nel disegno figurativo abbandonata per una creatività sconvolgente, che troviamo anche nell’unico dipinto a olio, dell’età giovanile, risale infatti al 1902, prima di tutte le altre opere esposte: si tratta di “Paesaggio a Blainville”, scena idilliaca impressionistica. Ma torna l’irriverenza con l’“Obbligazione per la roulette di Montecarlo”, 500 franchi al portatore al 20%, con la sua testa coronata da corna inquadrata in una roulette, un ready made anche questo.

Vogliamo concludere la rassegna delle sue opere con quelle che, in realtà, aprono l’esposizione, e riguardano il gioco degli scacchi. Si tratta di tre incisioni intitolate “Studio per i giocatori” e di una “Scacchiera tascabile”, con la sua firma, un ready made rettificato del 11943 dono di Schwarz. Nella sua passione per gli scacchi, fino a diventarne maestro con allievi e campione impegnato a livello agonistico, si trova, infatti, una chiave interpretativa della sua vita e della sua arte.

Ci sembra la migliore conclusione del nostro racconto della mostra l’interpretazione del curatore Stefano Cecchetto: “La proverbiale insofferenza dell’artista verso il mondo accademico dell’arte lo porta sempre più a trincerarsi dietro il perimetro protetto dalla scacchiera: il gioco degli scacchi permette di trascorrere il tempo evitando la spiacevole convivenza con la realtà, formulare una mossa, prevedendo e anticipando quella dell’avversario diventa la strategia primaria della sua esistenza”. E infine: “Questo continuo sfuggire se stesso moltiplicandosi in altre inverosimili proiezioni; inseguirsi e nascondersi dentro ai labirinti immaginari di un processo di regole formulato dall’intelligenza, permette a Duchamp di elaborare tutta una serie di opere che sono il frutto di una perfetta geometria concettuale”. Così sono nati i suoi rivoluzionari “ready made”.

Info

Galleria nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma, Viale delle Belle Arti, 131, da martedì a domenica ore 10,30-19,30, la biglietteria chiude  alle 18,45, lunedì chiuso. Ingresso: intero 10 euro, ridotto 8 euro, per le scuole 4 euro. Tel. 06.32298221; http://www.gnam.beniculturali.it/  Catalogo: “Duchamp. Re-made in  Italy”, a cura di Giovanna Coltelli e Marcella Cossu, Electa, 2013, pp. 304, formato  24,5×29, dal quale sono tratte le citazioni del testo. Su mostre precedenti con opere di Duchamp cfr. i nostri articoli  in “cultura.inabruzzo.it”: i 2 articoli del 6 e 7 febbraio 2010  sulla mostra al Vittoriano “Roma riscopre Dada e i surrealisti” e “Dada e surrealismo riscoperti a Roma”, nonché  i 3 articoli del 30 settembre, 7 novembre e 1° dicembre 2010 sulla mostra di Perugia “Il teatro del sogno”,  in particolare il terzo “I surrealismi in mostra”; per Giosetta Fioroni  il nostro articolo in questo sito il 1° gennaio 2014 sulla mostra alla Gnam.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna alla presentazione della mostra, si ringrazia la Galleria con gli organizzatori e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura “Ruota di bicicletta”, 1913 (replica autorizzata 1964), seguono “Scolabottiglie”, 1914 (1964), e “Fontana”, 1917 (1964), poi “Il Grande Vetro” , 1965, e “Dopo l’amore”, 1967,  quindi “Studio per giocatori di scacchi”,  1911 (1965) e “Apolinére Enameled”, 1916-17 (post 1937), tutte opere di Duchamp; in chiusura,  di Luca Maria Patella, “Duchamp Dis-Enameled. Il letto giusto e quello sbagliato”, (1964) 1983-84.