Modigliani, 1. Con Utrillo, Valadon e altri, alla Fondazione Roma

di Romano Maria Levante

La mostra “Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti. La collezione Netter” alla Fondazione Roma, Palazzo Cipolla, espone  dal 14 novembre 2013 al 6 aprile 2014 oltre 100 opere degli artisti che hanno rivoluzionato la pittura nei primi venti anni del ‘900, l’età d’oro parigina per vitalità e fervore artistico e di vita, dalla quale si dice che è nata l’arte moderna. Si tratta di Modigliani e Soutine, Utrillo e la madre Valadon, De Vlaminck e Derain, Antcher e Hayden, Kisling e Zawadowski, con altri 16, per un totale di  26 pittori.. Curata da Marc Restellini, organizzata da “Arthemisia” con la Pinacothèque de Paris e il contributo di 24 Ore Cultura, cui si deve lo splendido Catalogo, autore lo stesso Restellini, la mostra andrà successivamente a Milano al Palazzo Reale, nello stesso abbinamento della mostra su Edward Hopper, che ebbe 208.400 visitatori a Milano e 209.200 a Roma.

A parte la ricorrenza citata, l’esposizione alla Fondazione Roma si inserisce nel filone, voluto dal presidente Emmanuele F. M. Emanuele, che ha visto in passato la mostra “La Collezione Zeri e Santarelli” nella stessa sede, e altre mostre basate su collezioni museali al Palazzo Esposizioni, con il Guggenheim Museum e con i Capolavori dello Stadhael, e  vede al Vittoriano in parziale coincidenza temporale con questa, la mostra delle opere del Museo D’Orsay in ristrutturazione.

Un affresco di vita oltre che di arte

Ma solo quest’ultima ha qualche analogia con quella di cui parliamo, in quanto espone le opere che hanno rivoluzionato l’Accademia del Salon nel postimpressionismo fino al simbolismo. Solo qualche analogia perché questa ha la particolarità di essere un affresco di vita oltre che di arte eccelsa, dato che quasi tutti gli autori delle opere esposte sono accomunati dalla sorte di vivere una misera esistenza e perseguitati in quanto ebrei; una vita alla quale l’arte, generalmente incompresa, offriva poco più dei mezzi per sopravvivere legandoli ai mercanti che spesso ne sostenevano le necessità primarie in cambio di esclusive sulla loro produzione artistica a ritmi spesso forsennati.

Non è solo il mondo dell’arte in un periodo di straordinario fervore creativo quello illuminato dalla mostra; si esce dall’impressionismo  legato alla natura, per un’arte senza riferimenti né al soggetto rappresentato né alle origini dell’autore, ma legata piuttosto agli stimoli della vita. E’ anche il mondo dei mercanti e dei collezionisti, che erano i destinatari finali della loro attività, e avevano un ruolo fondamentale nell’alimentare i talenti che con il loro intuito riuscivano a cogliere e sostenere in un mecenatismo  mosso da interesse artistico. 

Sono chiamati “artisti maledetti” non per una loro inclinazione alla trasgressione, come è stato in una certa misura per Caravaggio, quanto per la loro emarginazione sociale e personale: una vita grama e di stenti, in qualche caso resa ancora più precaria da problemi di salute – come la tubercolosi di Modigliani o l’alcoolismo  di Utrillo – e c’è anche la fine tragica ad Auschwitz – è il caso di Epstein e Feder. Era la vita che si svolgeva a Montparnasse, tra artisti pieni di talento e poveri di mezzi, che si incontravano negli stessi locali, condividevano analoghe difficoltà, e manifestavano uno straordinario estro creativo, accorsi da tutt’Europa a Parigi divenuta una calamita per l’Esposizione Universale con la Torre Eiffel che dominava la città. Non erano solo pittori, c’erano anche scrittori, Hemingway e Miller, intellettuali come Cocteau e politici.  

La loro precarietà esistenziale si reggeva su un equilibrio delicato dato dagli accordi – fissati in  veri e propri contratti – con il mercante, a sua volta finanziato spesso dal collezionista, mosso da simpatia umana e intuito artistico. Due i protagonisti di una catena che si traduceva nel sostegno decisivo agli “artisti maledetti”: il mercante d’arte polacco Léopold Zborowski e il collezionista Jonas Netter, della cui collezione sono le opere esposte in mostra, anch’essi ebrei.

Netter era un agiato commerciante  appassionato d’arte e incline al collezionismo, si avvicina agli “artisti maledetti” all’inizio perché per lui erano inaccessibili le quotazioni raggiunte dagli impressionisti, ma poi sente il fascino della loro vita da “boemienne”, misera però creativa, e si impegna per sostenerli, finanziando anche il loro soggiorno in altre località quando si rendeva necessario: eccolo entrare in stretto contatto con  Modigliani, Soutine e Utrillo, e anche con Valadon e Kisling, Antcher e Hayden, Krémegne e Kikoine, Epiche e Fournier, tutti presenti in mostra. In cambio del sostegno che assicurava, per il tramite del mercante Zborowski, tanti quadri erano prodotti da spiriti tormentati spesso fino alla disperazione che trovavano nell’arte il rifugio oltre al sostentamento. Questo è il motivo che li accomuna, al di là delle varie provenienze nazionali e inclinazioni stilistiche, questo è l’eccezionale interesse umano oltre che culturale della mostra.  

Sono opere divenute visibili da pochi anni, precisamente da quando gli eredi del collezionista Netter hanno costituito una Fondazione per proseguire, in un certo senso, l’opera del loro progenitore: aiutare i giovani e chi ha bisogno di un sostegno per esprimersi nell’arte. Va riconosciuto che con questa azione Netter più che da collezionista interessato si comportò da mecenate illuminato.

Suzanne Valadon e la “trinità maledetta”

La nostra rassegna degli “artisti maledetti” cercherà di inquadrarne le opere nella vita molto tormentata,  perché ci sembra questa la cifra della mostra, il suo valore umano oltre che artistico.

Iniziamo con la madre di Utrillo, pittrice anch’essa, Suzanne Valadon, del 1865, quasi 20 anni prima di Modigliani nato l’anno dopo suo figlio, che vide la luce nel 1983. Sia per la sua precedenza anagrafica rispetto agli altri “artisti maledetti”,  tutti nati negli stessi anni di Modigliani, sia perché la sua vita movimenta è emblematica della loro inquietudine, sia infine per il suo legame materno con Utrillo, anch’esso inquieto e tormentato, ci sembra la degna “apripista” di questi artisti.  

Lo stesso suo nome ne evoca le tempestose vicende di vita, come modella ebbe intense relazioni amorose con molti degli artisti per i quali posava, tra loro Renoir e Toulouse Lautrec; quest’ultimo ne descrisse l’attrazione esercitata paragonandola alla Susanna biblica con i vecchioni, immagine che le piacque al punto di cambiare il proprio nome da Maria-Clementine in Suzanne. Fu proprio Toulouse Lautrec ad avviarla al disegno e ai primi pastelli, seguendo un’inclinazione istintiva che  la rendeva attenta osservatrice del lavoro dei pittori mentre posava per loro come modella.

Sua madre Madeleine si era trasferita a Parigi subito dopo la sua nascita, dopo la morte del marito, in prigione per aver fabbricato monete false, un inizio di vita tragico con un seguito movimentato. Lavora sin da piccola, date le condizioni di indigenza della madre, anche in un circo, e a 15 anni inizia a fare la modella, lavoro che le fa dire subito “Finalmente! Non sapevo perché, ma sapevo di essere approdata a qualcosa che non avrei più lasciato”.  Poserà per dieci anni, la lista dei pittori è lunga, e così quella dei suoi amanti, citiamo solo la relazione di sette anni con  Puvis de Chavannes, 40 anni più di lei, quelle con Renoir, di 27 anni più anziano, e con Toulouse Lautrec, coetaneo e vicino di casa, che se ne innamorò follemente. Nei dipinti dei pittori è riconoscibile lei come modella di indubbia bellezza, capelli biondi, occhi azzurri, corpo sensuale (in particolare per Renoir in “Ballo in città” e “Ballo a Bougival”, “La treccia” e varie “Bagnanti”; per Lautrec in due “Ritratti”,  “La bevitrice”, e “Il circo”).  Nel 1983 nasce il figlio Maurice con incertezze sulla paternità fugate dal riconoscimento, otto anni dopo, dal giornalista spagnolo Miguel Utrillo.  La prima opera di Suzanne è un “Autoritratto” nell’anno stesso della nascita del figlio Maurice Utrillo, fino al 1990 molti disegni soprattutto del figlio. Ne segnano la vita amori e matrimoni, ma anche l’amicizia con Degas che ne apprezza la pittura, la incoraggia e le insegna l’incisione. Nel 1896 sposa Paul Mousis, un  ricco agente di cambio e può avere una vita agiata, ma il figlio Maurice già a tredici anni cade nell’alcolismo e  fa corsi di disintossicazione. L’agiatezza termina quando nel 1909 lascia il marito per un giovane pittore amico del figlio, André Utter – lo sposerà all’inizio della guerra 1915-18 – che le dà la spinta decisiva verso la pittura, divenuta per lei attività esclusiva: dipinge nudi femminili seguiti da altre opere.

Tra gli anni ’20 e gli anni ’30 il suo periodo più produttivo, espone nelle principali gallerie, diviene nota all’estero, il collezionista Netter si interessa a lei e acquista le sue opere. Il figlio diviene pittore sempre più apprezzato, i dipinti di Utrillo hanno un florido mercato.  I tre sono chiamati “la trinità maledetta”, nel 1931 si separa da Utter, continua a dipingere attivamente ed  entra nel gruppo “Donne artiste moderne”. Nel 1934 l’amicizia con il giovane pittore ascetico Gazi, l’anno dopo Utrillo si sposa, lei continua a dipingere soprattutto fiori fino alla morte avvenuta nel 1938.  

Uno stile forte il suo, definito “virile”,  una varietà compositiva e una vivacità cromatica che non si riscontrano nella gran parte degli altri “artisti maledetti”, in particolare nel figlio Utrillo. Sono 13 le opere esposte, la carrellata  comincia con il disegno “Ketty nuda mentre si stiracchia”, 1904, seguito da “Tre nudi nella campagna”, 1909, figure snelle dai contorni definiti, mentre i successivi “Nudo che si pettina”, e “Due nudi dopo il bagno”, del 1916, hanno una corporeità morbida, sono sfumati con una forte resa cromatica. E’ il pendolo che vediamo anche negli altri dipinti, tra il cromatismo sfumato e i contorni netti e ben definiti: ci sono le scene paesaggistiche di “Veduta di Corte (Corsica)”, 1913, un villaggio sulla collina in un figurativo nitido e definito, posto cronologicamente tra due opere fatte di macchie cromatiche più che di contorni, “Chiesa di Neyron”, 1910, e “Nel bosco”, 1914; mentre con “Paesaggio a Vieux-Moulin” la composizione diventa schematica ed essenziale. Nella “Natura morta con tovagliolo”, 1915, e “Vaso di fiori”, 1917, prevalgono le macchie di colore. Anche nelle figure di donne oscilla tra il cromatismo sfumato di “Ritratto di Gaby”, 1917, e i contorni marcati di “Ritratto di Maria Loni”, 1918. Le sue figure sono realistiche e vigorose, “la nudità in Valadon non è né sensuale  né volgare, – ha scritto  Daniel Marchessau nel 1996 in un Catalogo – essa rivela una complicità sororale con le modelle, talora venata di compassione, e sempre piena di umanità”.  E lo vede dai gesti e  dalle pose, e dal nodo naturale con cui tratta i capelli. Sono immagini espressive della vita quotidiana, si sentono influssi dei tanti pittori frequentati ma lo stile è del tutto personale.

Utrillo, tra l’alcool e la grande pittura

Dalla madre al figlio, Maurice Utrillo, la cui storia tormentata inizia con l’incerta paternità: “Nato da Marie-Clémentine Valadon e da padre ignoto”, secondo la dichiarazione del 26 dicembre 1883, si ritenne figlio del cantante e pittore Adrien Boissy, “ubriacone” come diventerà lui, anche perché la madre diceva di non sapere chi fosse il padre in un periodo in cui era l’amante di Boissy oltre che di Puvis de Chavannes, Renoir e Miguel Utrillo. Il dubbio fu fugato non solo dal riconoscimento formale di quest’ultimo, che diede il nome al figlio quando aveva otto anni, ma anche dalla notevole somiglianza con lui e dall’esplicita ammissione della madre nel 1934 alla morte di Miguel.

L’alcolismo di Utrillo si manifestò a 13 anni, forse perché si fermava nei bistrò parigini, ma venne aggravato dal fatto che la nonna quando aveva 16 anni cercava di sedare con il vino le crisi epilettiche della sua adolescenza; il male divenne così acuto che dovettero ritirarlo dalla scuola. Era introverso con sbalzi d’umore che lo facevano passare dalla dolcezza alla violenza. La madre, invece, quando lo riprese con sé nella sua vita movimentata, su consiglio di un medico applicò la “terapia della pittura”, ottenendo il risultato di far esplodere il suo talento artistico senza peraltro vincere l’alcolismo, tanto che nelle crisi ricorrenti arrivava a bere la trementina e l’acqua di colonia usata per diluire i colori della tavolozza. A vent’anni doveva portare ogni sera un nuovo quadro alla madre, dipinto all’aperto tra le povere strade e le case fatiscenti del quartiere, Montparnasse allora misero e desolato, dov’erano locali malfamati in cui Maurice beveva la sera e al mattino dipingeva per pagare il conto. Fu proprio questa necessità a far sì che la sua produzione artistica non si interrompesse mai, neppure nei periodi più critici della sua vita per l’implacabile alcolismo. 

I problemi di salute e la vita difficile, nonché i locali frequentati e le bevute, lo avvicinano a Modigliani, altrettanto tormentato: per avere un’idea dell’atmosfera si pensi che Utrillo barattò i vestiti dell’artista italiano per due bottiglie di vino senza che questi reagisse, e che anche le prostitute del quartiere lo irridevano chiamandolo “le fou de la Boutte”, mentre i bambini lo avevano soprannominato “Litrico”, sempre per l’alcolismo. Nel 1916, quando aveva 33 anni,  il mercante Zborowski si interessò  a lui, seguito dal collezionista Netter, per il livello artistico raggiunto, mentre per l’alcolismo fu rinchiuso  quattro mesi nel manicomio di Villejuif, dove dipinse accanitamente con un maggiore uso del colore. 

Preso da ritorni infantili, a 40 anni si isolava in casa giocando con il trenino elettrico regalatogli dalla madre, l’alcolismo non gli dava tregua, tentò anche cure di disintossicazione con l’aiuto finanziario del collezionista Netter, ma ricadeva sempre nel vizio del bere, con continui passaggi al posto di polizia o all’ospedale, dipingeva anche lì, ovunque. Viveva con la madre che definì nell’Autobiografia “una santa donna che venero e benedico come una dea dal profondo della mia anima, una creatura sublime per bontà, rettitudine, carità, abnegazione, intelligenza, coraggio e dedizione”, e ancora “una donna d’eccezione, forse la più grande luce pittorica del secolo e del mondo”.

Le riconosceva il merito di averlo allevato “secondo i principi più rigorosi della morale, del diritto e del dovere” e si rammaricava di non aver seguito i suoi consigli e di essersi lasciato trascinare “sulla strada del vizio, senza accorgermene, per colpa della frequentazione di creature lubriche e immonde, viscide sirene dagli occhi ardenti di perfidia”  le quali hanno fatto di lui, che era “un rosaio un po’ appassito, un ripugnante ubriacone, oggetto di pietà e di pubblico discredito”, oltre che “responsabile dell’infelicità” materna.  Forse questa enfasi portò alla definizione di loro due  con il marito di lei Utter, conviventi, la “trinità maledetta”, anche per gli eccessi nel tenore di vita consentiti dalle disponibilità economiche derivate dalle elevate quotazioni raggiunte dai suoi dipinti, fino al record di 50.000 franchi di una sua tela nel 1926, quando era diventato ricco e famoso.

Nel 1928 fu nominato Cavaliere della Legion d’onore e decorato dal sindaco di Lione, divenne cattolico e si fece battezzare, ma continuò a bere. La madre, con cui visse fino a 52 anni, riuscì a farlo sposare  nel 1935 con una vedova, Lucie Valore; si stabilirono a Le Vésinet dove visse da sequestrato in casa e continuò a dipingere vedute di Montmartre come faceva nella miseria, indifferente all’ambiente dei tutto diverso che ora lo circondava. Suzanne Valandon morì nel 1938, lui non andò al funerale della madre, ma alla stessa ora dipinse il “Calvario di Saint Pierre de Montmartre” ispirandosi a una grande fotografia di lei. La sua religiosità diventò furore mistico, “è pazzesco quanto prega quell’uomo”, disse Petridès a Francis Carco. Morì nel 1955 a 72 anni. Nulla di scontato o di abitudinario nella sua vita, lo ricorda Claude Roger-Marc nell’introduzione alla  monografia “Utrillo” del 1953: “Utrillo non si è abituato a nulla, né alla vita, né alla gloria, e nemmeno alla pittura”. Lo spiega così: “Nella sua selvatichezza e semplicità, incapace com’è di progredire perché vincersi equivarrebbe a rinunciare a se stesso, è saggio nella totale ignoranza di ogni saggezza, è grande perché è rimasto un bambino”.  

Ci torna in mente il pensiero di Giacomo Leopardi: “I fanciulli trovano il tutto anche nel niente, gli uomini il niente nel tutto”. Il “niente” possono essere le vie misere e le case fatiscenti di Montmartre in cui trovava il suo “tutto” anche quando era ricco e famoso. Dal primo periodo impressionistico al “periodo bianco”  con un cromatismo particolare,  Roger-Marc ammira “il cielo che non solo palpita al di sopra di ogni suo paesaggio, ma illumina i muri, l’asfalto, la terra stessa dei suoi riflessi, dei suoi fremiti”, fino a quando, secondo il curatore Marc Rebellin, “le linee sono più dure, i contorni più netti, i colori più crudi. I suoi paesaggi sono popolati  di figure femminili dai fianchi larghi”.  Nei suoi dipinti c’è la Montparnasse di allora, “quell’umile scenario di case fatiscenti, livide e tristi, quegli alberi rinsecchiti in fila come stecchi”; il quartiere della Boutte aveva  “le sue catapecchie nella sterpaglia, i padiglioni, gli studi fatti di assi di legno, i giardini e, qua e là, dietro le staccionate, i terreni abbandonati, che di notte si popolavano di sgualdrinelle sentimentali e di temibili malviventi”.  

Vediamo esposta  “Rue Muller a Montmartre”, 1908, un agglomerato di edifici e una lunga scalinata di fronte, con alcuni passanti, si sente isolamento e squallore; stessa sensazione nelle altre, presenza umana scarsissima o inesistente, solitudine: così “Montmagny”, 1906, e “Porte Saint-Martin”, 1908,  “Rue Norvins”, 1909, e “Rue Mercadet a Parigi”, 1911, “Avenue Rozée a Sannois”, 1912, e “Strada a Fontenaibleau”, 1916, e le piazze, “Square de Messine”, 1909, e “Place Cornot ad Argenteil”, 1915, quasi metafisica; mentre “Piazza della chiesa a  Montmagny”, 1907, introduce i pittoreschi scorci di chiese, dove non mancano poche, piccolissime e quasi invisibili figure di fedeli:  sono “Chiesa di periferia”, 1909, dalle linee nette, “Chiesa di Sermaize” e “Chiesa di Barcy”, entrambe 1914-16, in un’atmosfera più sfumata: era ancora lontana l’infatuazione mistica dell’ultima fase della vita, ma lo interessavano le linee architettoniche, e le chiese erano un soggetto ideale sotto questo aspetto.

Dinanzi alle opere esposte, che danno un’immagine opposta rispetto all’umanità e al  forte cromatismo  della Valadon, si sente una profonda solitudine e desolazione, accentuate dai contorni sfumati come in una nebbia sottile e dalle piccolissime figure isolate che sembrano smarrirsi; è ben diverso dalle piazze metafisiche, cui va l’associazione di idee, dove la nettezza delle linee e delle ombre e le figurette dialoganti, con il treno lontano, danno sospensione e  senso dell’attesa.

La mostra presenta tanti altri “artisti maledetti”,  la nostra visita continua con loro, li racconteremo prossimamente, fino a Soutine e al “clou” con Amedeo Modigliani, il “principe di Montparnasse”.  

Info

Palazzo Cipolla della Fondazione Roma Museo, Via del Corso 320 Roma,. Aperto tutti i giorni, lunedì ore 14,00-20,00, da martedì a domenica ore 10,00-20,00, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso euro 13,00 (autoguida inclusa) , ridotto euro 11,00 per 11-18 anni, oltre 65, studenti fino a 26 anni, militari e portatori di handicap; ridotto euro 10 per gruppi, euro 5,00 per scuole e 4-11 anni. Catalogo: Marc Restelllini, “Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti. La collezione Netter”, 24 Ore Cultura, pp. 306, novembre 2013, formato 23,0 x 32,5; dal Catalogo sono tratte le citazioni e le notizie del testo. Cfr. i prossimi due nostri articoli sulla mostra in questo sito, “Modigliani, con gli “artisti maledetti” alla Fondazione Roma”, e  “Modigliani, il grande Amedeo e Soutine  alla Fondazione Roma”, che saranno pubblicati il 5 e 7 marzo 2014. Per le mostre citate nel testo cfr. i nostri articoli: in “cultura.inabruzzo.it” su Hopper l’11-13 giugno 2010 e sui Capolavori dello Stadhael Museum, il 13 luglio 2011 tre articoli ; in questo sito sulle Collezioni Zeri e Santarelli il 15 ottobre 2012 e sul Guggenhiem Musem il 22, 29  novembre e 11 dicembre 2012. 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Cipolla alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione, in particolare la Fondazione Roma, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura: Modigliani, “Elvire con colletto bianco”, 1917-18; seguono  Valadon, “Veduta di Corte (Corsica)”, 1910, e “Ritratto di Maria Lani”, 1928; poi,  Utrillo, “Porte Saint-Martin”,  e “Rue Muller a Montmartre”, 1908, quindi Modigliani, “Ritratto di Zborowski”, e “Ritratto di Lepoutre”,1916; in chiusura “Amedeo Modigliani”, fotografia del 1917.