Modigliani, 2. Con gli “artisti maledetti”, alla Fondazione Roma

di Romano Maria Levante

Alla Fondazione Roma, Palazzo Cipolla,  dal 14 novembre 2013 al 6 aprile 2014 oltre 100 operedi “Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti”, accorsi a Parigi nel primo ventennio del ‘900 in un fervore artistico e un’inquietudine di vita che dà alla rassegna delle loro opere uno straordinario significato sul piano dell’umanità, oltre che dell’arte. La mostra è curata da Marc Restellini, autore anche del bellissimo Catalogo edito da 24 Ore Cultura che ha contribuito all’organizzazione della mostra realizzata da  “Arthemisia” con la Pinacothèque de Paris.Dopo Roma la mostra si trasferirà al Palazzo Reale di Milano.

Ricordiamo brevemente che la maggior parte degli “artisti maledetti”  condividono l’origine ebraica e sono stati bersaglio delle persecuzioni antisemite prima in patria – per lo più Polonia e Russia – poi nella Francia occupata dai nazisti. A parte questo aspetto pur determinante, l’attributo di “maledetti” si deve alla condizione di esuli confinati  nel misero sobborgo di Montparnasse dove conducevano una vita grama ma illuminata dall’arte che consentiva loro di sbarcare il lunario con i propri quadri, lasciandoli direttamente ai locali in cambio di un pasto o una bevuta o legandosi stabilmente a dei mercanti  che normalmente facevano capo a collezionisti appassionati quanto interessati. Abbiamo conosciuto così gli altri due protagonisti della mostra, oltre agli artisti, il collezionista Netter, la cui Fondazione ha messo a disposizione le opere, e il mercante Zborowski che faceva da tramite tra gli artisti a lui legati da appositi contratti, e il collezionista finanziatore.

In precedenza abbiamo descritto questo mondo concentrandoci poi su Suzanne Valendon di cui sono esposti 12 dipinti,  e soprattutto su Maurice Utrillo, con 13 dipinti. Ora passiamo agli artisti con un numero minore di opere esposte, prima del gran finale con Chaim Soutine e il grande Amedeo Modigliani.

Antcher e Hayden, i fauvisti De Vlaminck e Derain

Il più rappresentato in mostra, tra gli altri “artisti maledetti”,  con 5 dipinti, è Isaac Antcher, della seconda ondata degli artisti promossi da Sborowski, ma per lui si interruppe la collaborazione tra il mercante e il collezionista Netter: dopo il loro primo contratto del 1928; quello successivo del 1931  fu con Netter e Madame Zac. La sua inquietudine lo porta a fare il pioniere in un kibbuz in Palestina, ma l’arte lo richiama a Parigi; dopo il successo e la ricchezza, la crisi del 1929 lo riporta indietro, ai lavori più umili, un’inquietudine la sua con sbocco nella religione, diviene un  mistico. Le opere esposte,del 1928-30,  “La valle dei lupi” e “Bosco con figure”, “Paesaggio con pastore” e “Paesaggio di St. Tropez”, sono visioni angosciose quasi da incubo, così “Zia  Miche”.

Nato a Varsavia lo stesso anno in cui Utrillo vedeva la luce a Parigi,  nel 1883, e vissuto quindici anni di più, Henry Hayden è in mostra con 4 dipinti della collezione Netter, dato che fece parte della squadra del mercante Zborowski dopo quella di Rosenberg. Dalla Polonia a Parigi, grande interesse per Gaugun e soprattutto per Cézanne, abbraccia il cubismo, poi lo lascia senza  approdare a uno stile ben definito. Samuel Becket, di cui fu amico, scrisse di lui: “Per tutta la sua vita ha saputo resistere alle  due grandi tentazioni, quella del reale e quella della menzogna”.  Delle opere esposte, “Bevitore bretone”, 1911, coincide con la sua prima mostra di successo avvenuta nello stesso anno; le altre 3 sono nature morte, “Con teiera”, 1914, “Su sgabello”, 1920, “Con chitarra”, 1923, si sente l’influsso di Cézanne arricchito dal suo apporto personale.

Ci sono poi Andrè Derain e Maurice de Vlaminck, ciascuno con 3 dipinti, entrambi vissuti negli stessi anni di Utrillo, essendo nati intorno al 1880 e morti intorno al 1955. Grande amicizia tra loro due, iniziarono a dipingere insieme, sono tra i fondatori del fauvismo: De Vlaminck era disgustato dalla guerra mentre Derain trovava nei campi di battaglia della prima guerra mondiale una “deliziosa serenità” fuori dalla banalità e dalle abitudini, in un’ottica che diremmo futurista, ma i futuristi dinanzi agli orrori della trincea si ricredettero; questo mise a dura prova l’amicizia tra i due fauvisti. De Vlaminck negli ultimi anni  confidò a un amico la sua ansia di autenticità, il desiderio di mostrarsi per quello che era: “Ho voluto che mi si conoscesse tutto intero, con le mie qualità e i miei difetti. Non ho dissimulato nulla dietro formule, non ho camuffato nulla dietro prestiti, non ho mendicato nulla, non ho rubato nulla”. Derain in fin  di vita formulò l’ultimo desiderio di avere “un pezzetto di cielo azzurro e una bicicletta”. Tra i  pittori “maledetti”  c’era anche questa sensibilità esasperata che colpisce e commuove.

Sulla pittura sua e dell’amico De Vlaminck Derain affermava: “Il fauvismo è stato per noi la prova del fuoco. I colori diventavano cartucce di dinamite. Essi dovevano far esplodere la luce”. Attraverso l’uso di un colore “indomabile” e “selvaggio” – proseguiva – “l’obiettivo che  ci prefiggiamo è la felicità, una felicità che dobbiamo creare di conseguenza”. Colpisce la plasticità e il cromatismo intenso nel dipinto di oltre 2 metri per quasi 2, “Le grandi bagnanti”, 1908, una composizione complessa di stampo arcaico, scura e contrastata: si ricorda  come sia stata ispirata da una statuetta africana mostratagli da De Vlaminck, che avrebbe ispirato anche  “Les Demoiselles d’Avignon” di Picasso, al quale lui stesso la fece vedere. Dello stesso anno “Nudo stante”, che non ha l’arcaismo del nudo delle bagnanti; la terza opera, “Bosco presso Martigues”, 1914, è di un monocromatismo angoscioso.

De Vlaminck si dichiarava “nato nella musica” essendo i genitori musicisti, ma scelse la pittura anche come “uno sfogo, un ascesso di fissazione. Senza di essa, senza questo dono, avrei fatto una brutta fine”, disse lui stesso e aggiunse: “Quello che nella mia vita non avrei potuto fare se non lanciando una bomba – il che mi avrebbe condotto al patibolo – ho tentato di raggiungerlo con l’arte, con la pittura, impiegando al massimo il colore puro”.  E ancora: “Il fauvismo è il mio modo di ribellarmi e insieme di liberarmi. Ho così soddisfatto il mio desiderio di distruggere vecchie convenzioni, di ‘disubbidire’, allo scopo di creare un mondo sensibile, vivo e liberato”. Per concludere: “Dobbiamo tendere alla calma, al contrario delle generazioni che ci hanno preceduto. Questa calma è la certezza. La bellezza deve perciò essere una aspirazione alla calma”.  Le 3 opere esposte sono di forte intensità cromatica:  “Riva di fiume”, 1910-11, e “Veliero nella tempesta”, 1914, in un blu suggestivo interrotto da poche varianti coloristiche; “Mazzo di fiori”, 1915-16, con una sinfonia di colori intensi perfettamente armonizzati, contorni netti al centro, poi sfumati.

La bella vita di Kisling, la fine tragica di Feder ed Epstein

Una posizione molto particolare tra gli “artisti maledetti” è quella di Moise Kisling, di cui sono esposti 7 dipinti. Fu vicino a Modigliani aiutandolo fino all’ultimo,  e  lo presentò a Zborowski, suo vicino abitando nello stesso edificio. Era venuto a Parigi da Cracovia nel 1910  e, rispetto all’immagine tormentata e scontrosa degli “artisti maledetti”, era allegro e generoso; a differenza della loro esistenza di stenti e rinunzie, amava la bella vita, pur impegnandosi al massimo nella pittura ogni mattina alla stessa ora anche se era rientrato a tarda notte.

Famoso per aver ritratto le donne più eleganti e raffinate – tra cui la Falconetti e Arletty, la Tessier e la Sologne – frequentava ambienti aristocratici e incantava con la sua prestanza e con il suo sfrontato ottimismo; viene ricordato che Modigliani non volle far posare Beatrice Hastings per lui, temendone  il fascino aggressivo. Il suo spirito avventuroso lo portò nella prima guerra mondiale a entrare nella Legione straniera, dove venne ferito  gravemente, mentre nella seconda guerra mondiale lasciò la Francia per gli Stati Uniti mettendosi in salvo dalle persecuzioni naziste antisemite. Poi tornò a vivere in Francia dove il ricordo di lui “che ha la risata più allegra di tutta Parigi”  restò sempre vivo tra le modelle, le signore dell’alta società e il mondo degli artisti. Aiutò Modigliani fino all’ultimo.

E’ esposto l’unico dipinto che raffigura  Netter, quindi di grande valore storico oltre che artistico, è il “Ritratto di uomo (Jonas Netter)”, 1920, identificato con certezza anche dai familiari del collezionista, ritratto seduto in una poltrona con la testa appoggiata alla mano destra, l’aria assorta, i baffetti e l’ampia stempiatura  di un’avanzata calvizie. Vediamo poi 4 figure femminili, molto diverse, “La giovane cuoca”, 1910, e “Donna con maglione rosso”, 1917, in due interni scuri fortemente caratterizzati, “La spagnola” e “Nudo sdraiato sul divano”, con una maggiore luminosità. In comune nei differenti soggetti il forte cromatismo e il tratto netto e definito, caratteristiche  anche di “Natura morta in due tavoli”  e “St. Tropez”, entrambi del 1918.

Dall’immagine ridente e gaudente di Kisling il passaggio ad Aizik Feder ed Henri Epsteinè quanto mai brusco, perché la loro vita si conclude nella tragedia del campo di sterminio di Auschwitz.

Feder, arrivato nel 1908 a Parigi da Odessa, dove era nato nel 1886, al café de la Rotonde conobbe Modigliani, andò anche in Palestina. Illustratore di libri e disegnatore per “Le Monde”, espose a Parigi al Salon des Tuileries e in altri Saloni, nel 1912 fu membro della Societè du Salon d’Automne. Con la seconda guerra mondiale la fine tragica ad Auschwitz:  particolare pietoso è che si rifiutò di fuggire dalla prigione di Drancy, come fece invece la moglie che mise in salvo un album di disegni fatti in carcere dal marito. Vediamo due opere del 1915, “Donna con vaso di fiori” e “Ritratto di donna”, la quotidianità nel primo, un senso di inquietudine  sul viso nel secondo.

L’altro “artista maledetto” con la stessa tragica fine, Epstein, giunse a Parigi da Lodz nel 1913, e rimase a La Roche fino al 1938;  la madre lo aveva incoraggiato alla pittura, il suo percorso stilistico approdò all’espressionismo. Si trasferì in una fattoria a Epernon, da lui acquistata, che divenne il suo rifugio durante l’occupazione nazista, ma lì fu arrestato dalla Gestapo, lo portarono al carcere di Drancy come Feder e risultarono vani i tentativi di farlo rimettere in  libertà degli amici e della figlia. Il 7 marzo 1944 il suo viaggio senza ritorno per il campo di sterminio ad Auschwitz.  Il suo “Nudo stante”, 1920, è molto diverso da quello di Derain dallo stesso titolo, è frontale come il già citato “Nudo che si pettina” della Davalon.

Tra i più vicini a Modigliani, Krémégne, Kikoine e “Zavado”

Nella marcia di avvicinamento a Modigliani, con cui terminerà in bellezza il racconto della mostra, incontriamo ora gli “artisti maledetti” che, oltre il già citato Kisling, lo hanno frequentato più da vicino, cominciando da colui che gli presentò Soutine, le cui opere esposte rappresentano “una mostra nella mostra”.

Si tratta di Pinctus Krémégne, giunto a Parigi dalla Russia dove era scampato con l’amico alle persecuzioni antisemite; prima si dedica alla scultura, poi alla pittura, frequenta il Louvre e anche le bettole ritrovo degli “artisti maledetti”. Scontato l’incontro con Zborowski e l’interesse di Netter, raggiunge la fama ma con l’occupazione nazista deve lasciare Parigi,  né l’inquietudine cessa alla fine della guerra sebbene il suo studio non sia stato toccato; andrà in Inghilterra e in Svezia, poi anche lui in Israele dove farà il contadino. Muore nel 1981 a 91 anni. Di lui sono esposte 4 opere del 1930, due paesaggi, “Céret” e “Paesaggio d’inverno”, “Natura morta con tovaglia gialla” e  “Vaso di fiori”, uno stile  particolare in cui si sentono influssi dall’impressionismo al cubismo.

Amico suo e di Soutine fu Michel Kikoine, si conoscevano in Russia prima di andare tutti e tre a Parigi. E’ preso dallo stile di Pissarro e Cézanne, ai quali si ispira, e Modigliani lo introduce dai mercanti d’arte con successo perché la borghesia di Parigi apprezza la delicatezza del suo tocco ben  più dei toni accesi di Soutine. Volontario nella prima guerra mondiale, acquista l’agiatezza economica ma non la tranquillità, perché subentrano le persecuzioni antisemite con la seconda guerra mondiale. Anche lui va in Israele nel 1954, poi torna in Francia dove muore nel 1968.  Nelle sue opere predomina la natura con toni bucolici, lo vediamo nelle 4 esposte, tutte del 1930, “Paesaggio” e “Via alberata”,  con le diverse tonalità di verde, e i solari “Anemoni” e “Tulipani”.

Vicino a Modigliani anche Jan Waclaw Zawadowski, che giunge a Parigi, sempre dalla Russia, a trent’anni, e frequenta gli ambienti degli artisti a Montparnasse. Alla morte di Modigliani si trasferisce nel suo studio e si affida a Zborowski che gli chiede di firmarsi “Zavado”. Una vita intensa la sua, attiva piuttosto che tormentata, frequenta non solo pittori ma anche musicisti e scrittori, espone oltre che a Parigi anche a Londra, a Cracovia e New York, e dopo due retrospettive acquista la notorietà. Anche lui, come Krémégne, muore a 91 anni. Di “Zavado” 4 opere, molto diverse dalle precedenti, questa volta tutte del 1915: “Paesaggio del Sud” e “Collioure” sono frutto dei suoi viaggi nel sud della Francia, colpisce la loro solarità, mentre “Ritratto”  e “Conciatetti baschi” riflettono due atmosfere opposte, il primo ritrae un lettore pensieroso in un interno,  il secondo due uomini che lavorano su un tetto  sospesi su un mare blu con vele bianche.

Altri 13 “artisti maledetti”, da Solà a Paresce

E’ presente in mostra, con 4 opere del 1925, Léon Solà: tre figure sedute, “Ragazza con camicia azzurra”, e “Donna con ventaglio”, più “Il bevitore di vino” e una “Natura morta con tenda verde”, dalle forme ben definite, un cromatismo con prevalenza del rosso.

Molto diverse le tre opere del 1930 di  Eugène Ebiche, polacco, della seconda ondata della scuderia Zborowski, apparentemente vicino all’impressionismo ma in realtà più legato alla composizione da rendere con il cromatismo che alla luce e al colore fine a se stesso; nella maturità arriva a  prediligere il mondo plastico perché crea “emozioni e non sensazioni”. Sono esposti “Paesaggio”, “Conigli appesi”  e “Vecchia con pallone”, dalle forme confuse e quasi evanescenti.

Abbiamo poi artisti con 2 opere ciascuno. Di René Durey “Fabbrica” e “Natura morta”, entrambe del 1925,  precise e lineari, sul verde pastello la prima, tra blu e rosso, arancio e bianco l’altra.

Dello stesso anno, di  Celso Lagar-Arroyo, “Natura morta su una sedia” e “Giocatori di carte”, per il secondo è interessante il confronto con le opere sullo stesso tema di grandi artisti dell’epoca. 

Mentre i dipinti del 1930 di Aron Dejez sono molto diversi tra loro: “Paesaggio con carretto” è un esterno quasi naive, a differenza  di “Scena di taverna”, un interno intimo e cupo.  

Vi accostiamo  Marcel Gaillard, che dipinge “Paesaggio” e “Natura morta con coperchio”, 1930, il primo all’aperto con varie tonalità di verde, il secondo al chiuso, con bottiglia e pentola nel buio.

Di Gabriel Fournier, frequentatore della Rotonde con  Modigliani e altri artisti di Montparnasse, le due opere esposte sono a cavallo del contratto del 1920 con Zborowski, “Alberi” è del 1919, i rami contorti ricordano Artcher, “Nudo stante”, del 1920-21, ci ricorda l’opera omonima di Epstein.

Un “Nudo”  seduto in posa  frontale è di Zygmut Landau, più simile nelle forme floride a quelli della Valadon, è esposta anche “Natura morta con lepre”, del 1922 come il nudo, è un’originale composizione che si sviluppa in verticale, dal cromatismo smorto ravvivato dai pomi rossi.

Nettamente diverso da tutti Jean Hélion, che nel 1929 creò il gruppo “Cercle et Carré”, e si ispirò al neoplasticismo di Mondrian: lo si vede dalle sue due opere esposte del 1930, entrambe intitolate “Composizione”, con una linearità geometrica, fatta di orizzontali e verticali, che formano riquadri colorati. Per lui non è, come per Mondrian, un punto di arrivo, introdurrà poi curve e volumi e soprattutto nel 1939 si esprimerà nel figurativo di “Figura seduta”,  il percorso inverso di Mondrian che dal figurativo attraverso le varie correnti approdò alla “perfetta armonia” dell’astrazione.

Restano gli artisti di cui è esposta una sola opera, sono 5, che chiudono la nostra carrellata.

Un tema consueto quello di Thèrése Dubains con  “Vaso di fiori”, 1920, dalla brocca bianca escono steli delicati e corolle a raggiera, quasi sospese nell’aria;  come  è consueto “Casa dietro gli alberi”, 1916,  di Renato Paresce, con l’ispirazione cubista  nella scomposizione di quanto circonda la casa, dal terreno alle foglie. Inconsueto è  “Uomo con maschere”, 1930, di Raphael Chanterou, una figura intera con 30 maschere che riempiono lo sfondo in un’atmosfera surreale.

Concludiamo con  l’opera di Jeanne Hébutérne, che ritroveremo in due ritratti di Modigliani, di cui fu la compagna dalla tragica fine, come  vedremo: sono esposti “Adamo ed Eva”, 1919,  e “Interno con pianoforte”, sul recto, nel primo le figure sono allungate e quasi stilizzate con leggerezza come l’albero e il serpente, il secondo è la visione molto originale di un interno.

Alla  cavalcata tra gli “artisti maledetti” vogliamo porre come sigillo le parole di Raymond Nocenta, nel suo scritto sulla storia e l’epoca della Scuola di Parigi: “La loro arte aveva qualcosa di viscerale. Mettendola a punto essi hanno liberato forze oscure, millenarie, che costituiscono il fondo dell’anima ebraica e non erano mai state espresse in pittura prima d’allora”.  E quelle che il curatore Restellini pone a completamento della citazione: “Questi spiriti tormentati si esprimono in una pittura che si nutre di disperazione. In definitiva, l’arte loro non è né più polacca che bulgara, russa, italiana o francese, ma assolutamente originale; semplicemente, è a Parigi che hanno trovato i mezzi espressivi che meglio traducevano la visione, la sensualità e i sogni propri a ciascuno di loro”. E’  il filo rosso che accomuna personalità e forme espressive così diverse, il loro denominatore comune.

Prossimamente l’atteso finale con Soutine e, soprattutto, con il “principe di Montparnasse”, il grande Amedeo Modigliani, la cui breve vita con un finale da tragedia greca, ha lasciato opere di incommensurabile valore artistico e umano. Info

Palazzo Cipolla della Fondazione Roma Museo, Via del Corso 320 Roma,. Aperto tutti i giorni, lunedì ore 14,00-20,00, da martedì a domenica ore 10,00-20,00, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso euro 13,00 (autoguida inclusa) , ridotto euro 11,00 per 11-18 anni, oltre 65, studenti fino a 26 anni, militari e portatori di handicap; ridotto euro 10 per gruppi, euro 5,00 per scuole e 4-11 anni. Catalogo: Marc Restelllini, “Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti. La collezione Netter”, 24 Ore Cultura, pp. 306, novembre 2013, formato 23,0 x 32,5; dal Catalogo sono tratte le citazioni e le notizie del testo. Cfr. gli altri nostri articoli sulla mostra in questo sito,  il primo “Modigliani, con gli “artisti maledetti alla Fondazione Roma” uscito il 22  febbraio, il terzo “Modigliani, il grande Amedeo e Soutine alla Fondazione Roma”, che sarà pubblicato il 7 marzo 2013.Per gli artisti richiamati espressamente, cfr. i nostri articoli in questo sito, su Cézanne il  24 e 31 dicembre 2013 , su  Mondrian il  13 e 18 novembre 2012..

Foto 

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Cipolla alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione, in particolare la Fondazione Roma, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura: Modigliani, “Fanciulla in abito giallo (Ritratto di giovane donna con collettino)”,  1917; seguono, Derain, “Le grandi bagnanti” con a dx “Nudo stante”, 1908, e Kisling, “Ritratto d’uomo (Jonas Netter)”,  1920, poi  Feder, “Donna con vasi di fiori” con a dx “Ritratto di donna”, 1915, e Solà, “Il bevitore di vino”, con a dx “Donna con ventaglio”  e Natura morta con tenda verde”,  1925, quindi Arroyo, “Giocatori di carte”, 1925; in chiusura Helion, due dal titolo “Composizione”, 1930.