Roma e l’antico nel ‘700, 3. Le Accademie e le decorazioni, alla Fondazione Roma

di Romano Maria Levante

Le accademie e la scuola dell’Antico

Da quanto si è ricordato sembrerebbe che nel “secolo dei lumi”, con il trionfo della ragione sull’oscurantismo, quindi del progresso sull’immobilismo, nell’arte ci fosse un ripiegamento sull’antico, una rinuncia a progredire. Invece era un potente stimolo, se nel 1774 il pittore Joshua Reynolds scriveva: “Dai resti delle opere degli antichi le arti moderne trassero nuova vita ed è per mezzo di loro che esse devono conoscere una seconda nascita”. Cinque anni prima aveva inaugurato la “Royal Academy of Arts” di Londra  come segno di un primato anche culturale.

Ma il modello di questa e delle altre accademie che fiorirono in Europa era quello italiano, precisamente fiorentino (Accademia del disegno del Vasari, 1563)  e romano (Accademia di San Luca di Zuccari,1593) che, secondo Carolina Brook, “rappresentarono i primi atti di una nuova definizione dell’artista come ‘figura intellettuale'”.. Infatti, prosegue, “l’esempio vasariano – patrocinato da Cosimo de’ Medici e posto sotto la direzione di Michelangelo – segnò il tentativo pionieristico da parte degli artisti di costituirsi in un’associazione unica e indipendente dalle corporazioni professionali di stampo medievale che regolavano i diversi settori della produzione artistica, dai pittori agli scultori, dai bronzisti  agli incisori.

Base di tutto era il disegno, non solo nella pratica ma anche nella teoria, rispetto a geometria, prospettiva e anatomia; e doveva costituire la matrice delle tre “arti sorelle”, pittura, scultura, architettura, “corpo di una sola scienza, divisa però in tre pratiche”  secondo l’Accademia romana di San Luca. I fondamenti teorici delle arti figurative erano diffusi negli ambienti intellettuali attraverso i Discorsi degli Accademici, anche nei rapporti con poesia e musica, immagine e parola.

Roma era il centro dell’interesse per l’antichità ed era meta dei visitatori del Grand Tour, come si è visto; pertanto la sua Accademia, osserva la Brook, “aveva il compito di tradurre i simboli dell’eternità in essa custoditi in un materiale vivo e diffuso, di attualizzare le immagini antiche ammirate per la loro bellezza  – intesa come sinonimo figurativo di valori morali e etici alti – in elementi distintivi del tempo moderno nei quali riconoscersi”.  E’ quella che Winckelmann chiamava senza giri di parole “l’imitazione degli antichi” come “unica via per divenire grandi”.

Sin dall’inizio del ‘700 per iniziativa del nuovo pontefice Clemente XI Albani furono riorganizzati i concorsi  dell’Accademia, chiamati appunto Clementini, nel primo decennio a cadenza annuale con soggetto prescelto le “Romanae Historie” da Tito Livio, il livello iniziale era dedicato alla copia della statuaria antica per acquisire la tecnica classica e farne la base di proprie creazioni; all’esercizio sull’antico si unì quello sul nudo come esercizio dimensione ideale, anche dal vivo.

L’Accademia di Francia a Roma aveva  una ricca raccolta di gessi per la didattica che suscitò l’ammirazione di Goethe nel suo viaggio in Italia. Queste raccolte, le gipsoteche, si diffusero in Europa per lo studio della statuaria classica e ad esse furono aggiunte opere originali o riproduzioni d’epoca fornite dai sovrani, mentre a Roma divenivano sempre meno frequenti le licenze di nuove riproduzioni per gli eccessi di inizio del secolo.

Divennero famose le Accademie di Germania e Russia, Inghilterra e Austria, su influsso di Roma e in stretto contatto con la città attrazione del Grand Tour. Prima di decadere, “l’Accademia ha rappresentato nel Settecento – conclude la Brook la sua analitica rievocazione –  l’avanguardia delle ricerche artistiche, in cui la passione per l’antico si tradusse in una materia di confronto fra gli artisti, sottoposta a una continua revisione.  L’adesione normativa ai modelli dell’antichità non fu quindi semplice omologazione, ma al contrario fornì un lessico universale di base sul quale gli artisti operarono le proprie scelte linguistiche, declinate secondo i diversi contesti europei”.

Le opere in mostra in questa 5^ sezione costituiscono una galleria degna del rilievo delle Accademie, in particolare quella romana. Esse coprono i vari settori dell’espressione artistica, nella particolare ottica di cui si è detto. I  disegni sono copie di statue antiche, come quelle in sanguigna di Palazzo Verospi, di Miguel Pont Cantallops,  ein penna e acquarello  Il convito d’Assalonne di Nicolas Lejeunel; in matita la copia dell’Apollo del Belvedere già visto in scultura, di Pasquale Camporese e della Musa Talia  di Anton Raphael Mengs, da noi già citato più volte; poi, in terracotta, Le Arti rendono omaggio a Clemente di Pierre Legros a inizio secolo e Metello salva il simulacro di Pallade di Luc Francois Breton  a metà secolo.

Dai disegni e dalle terracotte alle pitture a olio e alle statue di marmo. Sono esposti 5 oli su tela, due riproducono la vita dell’Accademia: sono lo spettacolare  La sala dei gessi della Royal Academy in New Somerset House, di Johann Jeseph Zoffany e l’intimo e raccolto Il Disegno di Angelica Kauffmann; tre i soggetti studiati, un nudo disteso detto Ettore, e due dipinti con guerriero nell’armatura con elmo in La morte di Pallante di Jacques Sablet e Alessandro cede Campaspe ad Apollo di Pierre Roget.

Gli esempi di sculture, sempre nell’ultima parte del secolo, sono 5 busti, Niobide di marmo di Carrara e gli altri in gesso: un’altra versione del primo in Busto di Niobe e Testa di Achille, dai lineamenti altrettanto femminei a parte l’elmo, la spettacolare Copia del Torso del Belvedere dell’Accademia di Francia a Roma e le due teste barbute del Fiume Tigri(Arno e di Aiace , quest’ultimo con l’elmo come Achille, tutti della Real Accademia di Madrid

Dalla teoria alla pratica, anche questa è una lezione istruttiva e formativa che ci dà la mostra.

La decorazione degli interni ispirata all’antico

Troviamo ancora delle sculture proseguendo nella visita, sono di piccole dimensioni, quasi soprammobili ornamentali. Infatti siamo nella 6^ sezione, dedicata all’antico che entra nelle abitazioni nel decorare gli interni.  Ne notiamo cinque in biscuit, vengono da famose fabbriche,  due dalla Manifattura di Meissen,  Amore e Psiche, con le forme morbide e lisce e dalla Real Fabbrica Ferdinandea,  Esculapio e Igea , quattro dalla Manifattura di Giovanni Volpato:  Baccante con cembali e Galata morente, Centauro Borghese (anziano) e Centauro Borghese (giovane), ambedue cavalcati da un puttino alato. Tutte alte meno di 30 cm, come le due bronzee di Zoffoli (Giacomo o Giovanni), che mostrano seduti sugli scranni Menandro e Agrippina.

Proseguendo ancora nella galleria della mostra, vediamo le sculture bronzee farsi ancora più piccole, per essere inserite in supporti ornamentali. Spicca l’Orologio da tavolo ornato da ‘Teti immerge Achille nelle acque dello Stige’, con le figure in bronzo dorato su marmo, smalto e metallo e il Vaso della Manifattura  delle Porcellane di Sévres con una scena mitologica sul fronte e nei manici due figure femminile alate in bronzo scuro.

Notiamo poi le basi in marmo bianco con giallo di Siena e bronzo dorato alla base della coppia di soprammobili intitolati “Dioscuri”, riproduzione in piccolo in bronzo scuro delle grandi teste di Castore e Polluce dei colossi di piazza del Quirinale  provenienti dalle terme di Costantino; e le basi in bronzo dorato con marmo statuario e verde antico su cui poggiano le due figure scure quasi a reggere i sei bracci  dorati per le candele nella Coppia di Candelabri, anche qui un riferimento al Quirinale, delle cui dotazioni fa  parte. Questi bronzi ornamentali sono opera di Francesco Righetti, che era stato alla scuola di Valadier e aveva un laboratorio di produzione e vendita di piccoli bronzi ornamentali su imitazione dell’antico collocati su piedistalli in marmi diversi con guarnizioni di metalli dorati  con la possibilità di scegliere anche le dimensioni.

Siamo entrati così nella decorazione  degli interni ispirata all’antico, che va ben oltre i soprammobili ornamentali e i candelabri, e nelle dimore patrizie riguardava anche le facciate con inserite statue che proiettavano all’esterno lo sfarzo dell’interno e si ritrovavano nelle esedre arboree dei i giardini. Vengono citate al riguardo le decorazioni di Villa Borghese , con la monumentale “Sala degli Imperatori” e di Villa Pinciana della stessa famiglia Borghese, del cardinale Scipione Borghese: committenti e artisti erano membri dell’Accademia dell’Arcadia.

Ma “il luogo nel quale il rinnovato rapporto con l’antico trova la sua prima compiuta espressione” – secondo Liliana Barroero – è “Villa Albani sulla via Salaria”, dove  si trovavano opere in mostra, già citate, come Parnaso di Mengs  e il bassorilievo di Antinoo  da Villa Adriana di Tivoli, con Alessandro Albani  al centro dei collegamenti con gli “eruditi-antiquari” e collezionisti, della prima metà del secolo e con quelli della seconda metà tra cui Winckelmann suo bibliotecario.

Nel fervore delle decorazioni di interni prestigiosi ritroviamo personaggi di cui abbiamo parlato come Piranesi,  con il collaboratore Righi, nel “salone d’oro” di Palazzo Chigi,  Mentre Palazzo Altieri viene decorato con le allegorie  del matrimonio legate alla storia antica di Roma e dei Sabini, abbandonando il modello di Palazzo Doria Panphili con le allegorie bibliche, ricorda la Barroero che precisa: “I mosaici antichi sono inseriti direttamente nei pavimenti; come in Villa Albani, le paraste a motivi vegetali si alternano a cammei all’antica, e cornici a classici girali delimitano le partizioni spaziali”. E prosegue: “Questo linguaggio’ romano’ ha in realtà una dimensione marcatamente internazionale”, citando Inghilterra, Russia e Polonia, con il bassorilievo dell’Antinoo Albani nella residenza reale polacca di Lazienski. Per concludere: “La bellezza classica, in originale o in copia, non poteva in definitiva essere ambientata se non in un contesto che richiamasse il più possibile i più nobili tra i contemporanei modelli romani”.

Come dà conto la mostra di questo fervore per l’antico? Abbiamo già visto i soprammobili in sculture bronzee su piedistalli marmorei, anche in orologi, candelabri e vasi, ispirate a modelli antichi, Si va ancora oltre, con il Vaso a urna con vedute di Roma antica della Manifattura di Doccia e soprattutto con il Vaso coperto da vedute di monumenti antichi di Roma e  della campagna romana  nel corpo e nel coperchio con quattro vedute come cartoline incorniciate in oro,  opera di Giacomo Raffaelli; al quale si deve anche la Tabacchiera con la veduta del Colosseo.Forse certo kitsch odierno dei souvenir  nasce da qui, è come la storia che si ripete in farsa.

Non mancano nella mostra raffinati disegni a inchiostro come il Progetto per il Museum di Caterina II di San Pietroburgo, proveniente dall’Ermitage; di Clérisseau; e Studi per la decorazionedi camere da letto e sale sempre per San Pietroburgo, nonché Due studi di decorazione parietale per il conte Nicolaj Seremetev, tutti di  Giacomo Quarenghi.  

Ma l’attenzione viene calamitata dalla saletta tutta dedicata allo spettacolare  Deser di Carlo V, di Luigi Valadierdel 1778: è un vero cinemascope in pietre dure, marmi colorati in verde, rosso e giallo antico, bronzo dorato, i colonnati terminali rotondi, quelli centrali con timpano, con queste componenti: plateau ed esedre colonnate, Tempio di Flora e gradinate, Templi di Minerva e Mercurio, Arco di Settimio Severo e due obelischi, fino alle due colonne rostrate ad uso di dessert..

Rientrava nel gusto di ricreare l’antico all’interno delle dimore nobiliari e aristocratiche anche con miniature di ambienti come questo deser, in un corredo di 240 pezzi compresa argenteria con manici in pietre e oro, figurine, saliere e quant’altro. Nel descrivere l’ambiente ricreato non andiamo oltre queste sommarie citazioni, aggiungendo che l’acquirente del deser, l’ambasciatore dell’Ordine di Malta barone de Breteuil, aveva già un deser di Valadier, poi donato a Caterina II. Ripensiamo all’architettura della  Casina Valadier, il  deser spettacolare che abbiamo descritto ne sarebbe un complemento ideale; invece si trova nel Museo Arqueologico di Madrid,  ci consoliamo pensando che fu ricomposto da bronzisti italiani.

Gli artisti nella sfida dell’Antico

Così si intitola la 7^ e ultima sezione della mostra, vogliamo percorrerla descrivendo soltanto le opere, avendo già illustrato finora il contorno nei suoi diversi aspetti. Di certo, dopo e oltre le copie, fu forte la spinta, soprattutto nella seconda parte del ‘700,  a cimentarsi direttamente in opere ispirate dichiaratamente all’antico ma di impostazione e fattura del tutto personali.

Lo vediamo nelle sculture e nelle pitture, guardiamole separatamente. I due bassorilievi nei medaglioni ovali di quasi mezzo metro, Alessandro e Olimpia, di Filippo Collino, verso la metà del secolo, sono di un classicismo purissimo, nel profilo e nel movimento dei capelli e delle vesti, come il Busto femminile di Filippo Della Valle e il Ritratto femminile (contadina di Frascati) di Jean-Antoine Houdon;  esprimono maggiormente sentimenti interiori il busto  Anton Raphael Mengs, di ChristopherHewetson, ordinato alla sua morte nel 1779 per celebrarlo, e soprattutto  Dolore di Lambert-Sigisbert Adam  con una drammaticità nella smorfia sofferente per il morso del serpente avvinghiato al collo, ritenuta più teatrale che realistica, con il “naturalismo”della capigliatura e della barba di influsso seicentesco.

Sono tutti in marmo di Carrara, bianco e levigato, come la  statua di Antonio Canova, Amore malato, mentre quella ancora più grande, alta 185 cm , Venere e Adone,  è in gesso. Qualcosa  va detto su queste opere, che ci riportano la levigatezza e raffinatezza dello scultore, qui la classicità è ancora più evidente dato che l’ispirazione è diretta: della prima esistono altri tre esemplari, ma quello esposto  presenta varianti  che ne accentuano l’armonia e l’eleganza, tra l’altro sono state aggiunte le due grandi ali per derivazione da una statua antica; nella seconda è rimarchevole il contrasto tra il nudo maschile e quello femminile, e la diversa gestualità.

La cavalcata nel ‘700 romano si conclude con la carrellata pittorica di artisti che si cimentarono con l’Antico in uno sforzo di emulazione fino alla sfida. Sono 12 dipinti, di cui solo quello di Pier Leone Ghezzi, Alessandro e Diogene, è del primo quarto del secolo, gli altri dell’ultimo quarto.

Vediamo  tre ritratti, due di  Pompeo Batoni, Giacinta Orsini Buoncompagni Ludovisi e Henry Peirce a Roma; il terzo di Anton von Maron, Sir Thomas Simpleton.  Gli altri dipinti esposti sono  ispirati a scene mitologiche o di storia romana: tra le prime vediamo  Arianna e Bacco  dello stesso Batoni, poi Psiche destata da Amore  di Bénigne Gagnereaux e Matrimonio di Sara di Gaspare Landi, con la grazia che il Canova esprimeva in scultura, nonché  l’arcadico Ritratto di giovinetta in veste di baccante di Angelica Kauffmann. .Di quest’ultima,  Virgilio legge l’Eneide a Ottavia e Augusto, un interno con arcate e uno scorcio di architettura esterno; grandi pilastri nel dipinto di Jean-Charles Nicaise Perrin, Sofonisba riceve la coppa avvelenata  di Massinissa.

Domenico Corvi ci fa tuffare nella storia romana con il Giuramento di Bruto davanti al corpo di Lucrezia, un interno con statue e figure statuarie, e con Morte di Seneca, nell’oscurità sotto una pallida luna ma con le figure rischiarate da una luce rossastra. Celebrano alcuni valori forti della romanità:  il senso dell’ospitalità e della fede coniugale il primo,  lo stoicismo dinanzi all’ingiustizia e all’arroganza del potere il secondo. “La coppia di quadri – commenta Valter Curzi – finisce dunque per caricarsi si un duplice messaggio etico-morale nell’associazione di esempi di fermezza”.

E’ bello concludere con questo messaggio la visita a una mostra che potremmo definire fondativa di un modo più maturo e consapevole di leggere il ‘700 rispetto all’Antico: dopo aver visto  come si è dipanata la storia dell’arte ispirata al passato nel “secolo dei lumi” proiettato verso il futuro.

Proprio per questo ci sembra un sigillo quanto mai appropriato alla mostra e al nostro racconto l’espressione di Goethe del 1797 che chiude il monumentale catalogo: “Solo se lo sguardo si è posato sicuro sulle cose, si può leggerne e udirne parlare con piacere, perché ci si rifà a un’impressione viva: allora si è in grado di pensare e di giudicare”.

Abbiamo cercato di farlo per noi stessi e per i nostri lettori.