Pietracamela, una mostra sui bambini di una volta

di Romano Maria Levante”

Pietracamela,  nel cuore del Parco Nazionale del Gran Sasso e monti della Laga,  l’agosto 2014  è animato da ” incursioni coreografiche” e “percorsi sonori“, nonchè da spettacoli dei “Teatri de le Rùe”  nelle vie del borgo sulla figura di “Matteo Manodoro, generale dei briganti”, e da altre manifestazioni culturali, come la  presentazione del libro del “pretarolo”, storica guida alpina, Clorindo Narducci , “Pietracamela  tra storia e leggenda” il 19 agosto, e del libro di Adina Riga, “Architettura é/& arte urbana”, il 22 agosto. Questo insieme di iniziative ruota  intorno a due eventi centrali:  il “Premio internazionale di pittura rupestre Guido Montauti”, dal 17 al 24 agosto,  e la mostra “Come eravamo: l’ruoff i gl’ riuff d’la Prota (Le bambine e i bambini di Pietracamela”), dal 9 al 31 agosto. Il titolo è in dialetto pretarolo con la versione italiana, come in tutte le didascalie degli oggetti esposti e nelle citazioni: è un’iniziativa meritoria, trattandosi di  un dialetto molto particolare del quale il libro di Narducci sopra citato fornisce un prezioso glossario linguistico italiano-pretarolo.

Sebbene sia una stagione estiva fiacca nella meteorologia e nell’afflusso turistico,  il paese ferito dal terremoto del 2009 e dalla successiva frana del “Grottone” che ha travolto e distrutto le “pitture rupestri”  di Guido Montauti esprime la sua volontà di reagire mobilitando le energie per un rilancio in linea con le sue straordinarie risorse paesaggistiche e ambientali. 

La mostra, il primo dei due eventi,  è a cura di Lidia Montauti e Celestina De Luca, con la collaborazione di Aligi Bonaduce. I testi di Aureliana  Mazzarella, le ricerche archivistiche e bibliografiche della stessa con Alessandra Mazzarella che ha curato anche il progetto grafico.

In attesa del “Premio pittura rupestre”, nel nome dell’artista che con la firma “Il Pastore bianco”, l'”avanguardia della rinascenza”,  realizzò nel 1963 lo straordinario complesso di pitture sulle rocce della “Grotta dei segaturi” – un “Quarto stato montanaro”  assorto e in attesa – raccontiamo la mostra che segue lo “Sposalizio di una volta”, dell’agosto 2013, da noi  ricordato di recente.

La prima notazione è che la mostra va ben oltre la rievocazione delle immagini del passato attraverso gli album di famiglia dei pretaroli. Nelle 5 sezioni in cui vengono ripercorse con le fotografie d’epoca le fasi principali della vita dei ragazzi di allora, si ricostruisce anche il contesto storico e normativo, oltre che di costume,  con un’accurata analisi rievocativa, spesso accompagnata da documenti d’epoca, i cui risultati sono esposti negli esaurienti pannelli illustrativi.

E’ stato un lavoro a tutto campo – dai ricordi delle curatrici e dalle testimonianze dei pretaroli alle ricerche negli archivi comunali e parrocchiali nel paese e all’Archivio di Stato a Teramo – dal quale sono nati dei testi che vanno considerati  capitoli di un libro sulla storia locale che si aggiungono a quelli della mostra sullo “sposalizio di una volta”, libro che varrebbe la pena di completare dei capitoli successivi, corrispondenti ad altrettante mostre sui costumi di una volta.

I capitoli di quest’anno riguardano l’“attesa e la nascita dei bambini” e “i neonati e la vita dei bambini”, “i sacramenti e le feste” e “l’educazione scolastica”, fino ai “giochi e gli svaghi”:l’infanzia di allora ripresa fotograficamente e analizzata nel contesto storico e socio-economico.

Non che si tratti di costumi primitivi, ma sono pur sempre molto diversi dalla vita contemporanea, per cui recuperarne la memoria e fissarli come fa la mostra è un’opera benemerita di indubbio valore culturale. Si tratta di “cultura materiale e civiltà agricolo-pastorale”, come è scritto nei sottotitoli della mostra, viene ricostruito “l’orizzonte socio-antropologico” della comunità.

Ma la ricostruzione va ben oltre il suo valore iconografico e storico, in quanto fissa  momenti della nostra vita ancora vicini nel tempo, che sembrano tanto lontani per i balzi in avanti del progresso: una storia che è anche e soprattutto memoria in  cui  ci si può rispecchiare, e vediamo subito perché.

Fotografie e oggetti,  documenti e testimonianze

Una caratteristica saliente della mostra è l’identificazione dei soggetti, indicati con precisione per nome e cognome nelle ampie didascalie esplicative. Il “come eravamo”  non è soltanto un richiamo di costume, ma delinea un interessante abbozzo di  genealogia del paese con presenze ripetute e assenze secondo la disponibilità di materiale fotografico. Queste assenze non sono lacune, ma spazi aperti per integrazioni progressive che rappresentano l’auspicabile futuro dell’iniziativa. 

I visitatori paesani anziani possono riconoscersi nei bambini di allora, del resto sono loro ad aver fornito le fotografie dei propri album di famiglia, i giovani possono confrontarsi con i loro predecessori; i visitatori forestieri possono conoscere l’evoluzione della vita montanara. Per tutti, comunque, sono istruttive le notizie dettagliate fornite sulle singole fasi della vita di allora.

Le immagini  consentono esse stesse di calarsi nel clima dell’epoca anche prima di recepirne gli aspetti peculiari attraverso le testimonianze e i documenti reperiti negli archivi.  Aureliana Mazzarella  sottolinea gli elementi comuni alla galleria fotografica: il modo con cui i soggetti fotografati guardano l’obiettivo con una “fissità ieratica”, i diversi atteggiamenti delle scolaresche,  i maschi con un senso di fierezza, le femmine in modo composto  con qualche vezzo.

Sono per lo più foto di studio eseguite in città, o da fotografi ambulanti che andavano di tanto in tanto  nel paese;  comunque in circostanze speciali che danno loro il crisma dell’ufficialità e della testimonianza,  a parte quelle meno antiche riprese in istantanee che sono la minoranza.

I bambini venivano fotografati soprattutto nelle cerimonie che li riguardavano, come comunioni e cresime, oppure nei gruppi familiari per comporre gli album di famiglia considerati un prezioso archivio di memorie, o per trasmettere agli emigrati le immagini aggiornate sulla famiglia rimasta in paese. C’è un fotomontaggio in cui al gruppo familiare di madre e figli è stata aggiunta l’immagine  del padre lontano per la guerra ma che non poteva mancare nella foto di famiglia. 

E’ un giacimento culturale che potrà rivelare ulteriori sorprese, ma che sin da ora ha portato a scoperte sorrette da una solida base probatoria: come è stato il trovare  documentata sia a Pietracamela che nella frazione di Intermesoli  la “ruota dei proietti”  per i quali era previsto un preciso iter assistenziale con la balia appositamente remunerata, che quando si affezionava in modo speciale poteva arrivare fino ad adottare il bimbo. La regola fu imposta dai francesi dal 1806, all’insegna della “fraternité”  della rivoluzione, e sorprende che già allora vi fosse un presidio assistenziale  così avanzato anche nelle più isolate località di montagna dove, naturalmente, venivano portati “proietti” anche da zone lontane per essere più sicuri dell’anonimato.

Gli stessi francesi in quegli anni giustiziarono Matteo Manodoro nella lotta contro i briganti, in realtà questo personaggio di Pietracamela viene visto quale patriota della resistenza contro gli invasori stranieri e non liberatori dal giogo borbonico come li considera la storiografia ufficiale. Il libro di Berardino Giardetti, illustre paesano, a lui dedicato, ne rievoca le gesta e la tragica fine proponendo un riconoscimento come patriota; qualcosa si è fatto, ne viene  rappresentata la vicenda anche quest’anno con i “Teatri de le Rùe”, una “piece” itinerante nelle stradine del borgo suggestiva nella qualità dei testi e nelle musiche di un gruppo dall’enfasi libertaria che ci ha ricordato gli Inti Illimani.  Ma questa è un’altra storia che non c’entra con i bambini, è solo l’associazione di idee con i francesi qui in veste di  “benefattori”, sempre nel nome di Pietracamela. 

Oltre ai documenti degli archivi,  fonte preziosa per la ricostruzione degli antichi costumi sono stati i ricordi delle curatrici dei racconti delle madri e nonne, e dei pretaroli più anziani, la cui memoria storica consente di mantenere vivo il retaggio del tempo che fu. Insieme ai ricordi hanno fornito anche gli oggetti che entravano nel ciclo di vita del bambino,  esposti insieme alle immagini a corredo delle singole sezioni, per lo più negli originali  e in qualche caso in fedeli ricostruzioni  eseguite appositamente con cura e amore.

Un’iconografia rivelatrice

La fionda, il cerchio e l’aquilone, presenti tra gli oggetti d’epoca esposti,  sono raffigurati all’ingresso in un’elegante sagoma con  il profilo di tre bambini,  ciascuno impegnato nel  suo gioco, in un’ideale escalation di  fanciullesca libertà.  Sulle pareti  della stessa sala una sequenza di  fotografie singole di bambini insieme ad immagini spettacolari di gruppi di famiglia con i genitori al centro e i piccoli stretti intorno in ordine di età, come nelle foto dinastiche.

Per la precisa identificazione dei soggetti  il confronto con il presente e il recente passato è immediato, si mescolano memoria e nostalgia;  ma l’interesse c’è comunque,  l’iconografia dell’infanzia  di ieri  rivela le sfumature di costume al di fuori di ogni identificazione personale.

Colpisce la cura nell’abbigliamento dei bambini, anche per l'”ufficialità” delle immagini  riprese nelle cerimonie rituali e comunque in circostanze particolari, come la posa dal fotografo  in città e nel paese con la sua attrezzatura come veli e fondali. Ma a parte questo, testimonia una certa “nobiltà”, o più semplicemente una cura non intaccata dalle condizioni ambientali inospitali.

Lo vediamo negli abiti e nelle calzature, anche nella straordinaria immagine del “piccolo pretarolo” senza nome, che non è stato identificato, e può quindi essere assunto come “il bambino ignoto”, cioè “il piccolo pretarolo ignoto”,  in rappresentanza della moltitudine che non può figurare nella mostra ma ha fatto la storia di Pietracamela; paese che raggiunse 1600 abitanti, non va dimenticato dinanzi allo spopolamento della montagna e alla crisi che ha ridotto le presenze turistiche. 

Pur con gli elementi iconografici in primo piano, non va lasciato cadere quanto di prezioso la mostra mette a disposizione con le notizie sugli usi e costumi di una volta nella nascita e cura dei bambini. In chiari cartelli esplicativi a illustrazione delle 5 sezioni, i testi raffinati di Aureliana  Mazzarella presentano ai visitatori i risultati dell’approfondita ricerca da lei svolta insieme ad  Alessandra  Mazzarella, con l’apporto diretto delle curatrici Lidia Montauti e Celestina De Luca.

Da questi testi sono tratte le notizie che forniremo ripercorrendo l’iter  documentario oltre che iconografico della mostra, premettendo che ben più approfondito e analitico è il quadro che viene offerto ai visitatori.

Dalle fasce agli sci, il cammino dei  piccoli pretaroli

Con le nozze i figli seguivano in continuità,  dopo un’attesa ansiosa e impaziente che non prevedeva programmazioni ritardate. Era quasi un motivo di prestigio avere presto l’erede, la cui nascitaveniva festeggiata con esplosioni di gioia, “più intense se era un maschio” sottolinea maliziosamente Aureliana Mazzarella nell’accurata ricostruzione che fa rivivere questo momento.

Nell’assistenza al parto era rara la presenza del medico, provvedeva l’ostetrica aiutata dalla madre della partoriente e dalle parenti più strette, tutte mobilitate mentre i bambini venivano portati altrove affidati a parenti o amici. Veniva fatta bollire l’acqua per sterilizzare gli strumenti e i panni da utilizzare, poi il neonato veniva lavato e stretto nelle fasce, nei tempi più antichi si immobilizzavano anche le braccia, per impedire i movimenti che avrebbero potuto  danneggiarlo, era pronta la culla.

Sono esposte le vaschette di varie misure per i lavaggi nonché la toilette con catino e brocca nell’apposita  armatura di ferro battuto, rimasta nelle case anche nell’ultimo dopoguerra; i tessuti utilizzati e le fasce, le cuffiette sempre messe sulla testa del neonato, i “paponcini”. Anche due culle di allora e un seggiolone, erano fondamentali perché la mamma impegnata nei lavori domestici e non solo, non aveva tempo per tenere in braccio a lungo il bambino;  la culla era fatta per “nazzicare” il neonato, la mamma la muoveva con il piede mentre faceva la maglia. Era molto breve il periodo in cui era esentata dai lavori, domestici e non solo, per il puerperio, le pressanti esigenze familiari non davano tregua.

Il battesimo seguiva di pochissimi giorni il parto, con la presenza dei padrini e la simbolica assunzione di responsabilità sul piccolo, la fretta era dovuta all’alta mortalità infantile unita alla credenza del “limbo” per i non battezzati. Era un timore così forte che l’ostetrica poteva impartire lei stessa il battesimo in casi estremi, segno comunque dell’affidamento di funzioni parareligiose a persone laiche anche in quei tempi, un secolo prima della comunione impartita dai credenti appositamente legittimati. A volte anche nella religione c’è qualcosa di nuovo, anzi d’antico…

Se la madre non aveva latte sufficiente provvedeva la balia, l’allattamento  si protraeva per molti mesi, non c’erano surrogati artificiali; lo svezzamento era fondamentale, si usava il pancotto o il pane masticato dalla mamma del bambino.

Un salto di alcuni anni ed ecco le foto delle cerimonie, dopo il battesimo comunione e cresima in primo luogo, sezione particolarmente ricca della mostra. Vediamo i vestitini quasi da sposa delle bambine e qualche esempio del “vestivamo alla marinara” dei bambini, insieme ad abitini diversi ma sempre molto curati, a parte quelli che inteneriscono nel fare dei bambini dei veri ometti.  

Nelle foto più antiche gli abiti non sono diversificati per sesso, e delle volte neppure le capigliature, come mostra una fotografia con due “caschetti”, un bambino e una bambina affiancati con lo stesso taglio di capelli. I bambini erano mobilitati nelle processioni,  soprattutto quelli che avevano ricevuto la comunione da poco tempo, con ruoli diversi per i maschi  e le femmine.

Alcune fotografie sono preziose perché documentano le particolari calzature, i “paponi” di pezza, e anche alcuni giocattoli  rudimentali come bambole e cavallucci, esposti nella saletta con i cimeli.

Nella sezione sulla scuola troviamo uno straordinario documento del 1855 dell’Iintendenza borbonica, scovato dalle ricercatrici,  che certifica a quale livello gli impegni scolastici fossero disattesi nell’epoca più antica per non far mancare il contributo del lavoro dei bambini nella lotta per la sopravvivenza in un ambiente ostile. Il documento mostra come l’Intendenza borbonica licenziasse l’insegnante riconoscendo l’impossibilità degli scolari di frequentare perché indispensabili per il lavoro dei campi in primavera e per quello della lana in seguito.

Poi la frequenza a scuola diverrà più regolare, ci sarà maggiore disponibilità di insegnanti e scuole, con i trasferimenti da un paese all’altro e la permanenza “in loco” dei maestri elementari nelle sedi assegnate in montagna, che erano disagiate e impossibili da raggiungere se non all’inizio della scuola e in pochi altri momenti, dato che allora non poteva esserci pendolarismo di alcun tipo. 

Vediamo  esposte le povere cartelle di cartone, la più antica addirittura di legno, e la cancelleria d’epoca, penne e calamai, pagelle e altri articoli scolastici, come i cartelli illustrati con le lettere per la prima alfabetizzazione, poi superati dal “metodo globale”, c’è anche un banco a due posti in legno pesante. Tra le immagini di scolaresche, con i diversi atteggiamenti di bambini e bambine,  anche una rara foto dei saggi ginnici del regime, le “piccole italiane” schierate nelle loro divise bianche e nere nella piazza del paese.

Le malattienon risparmiavano bambini e adulti, le differenze rispetto all’oggi si ingigantiscono. Rimedi empirici  e l’uso di erbe officinali  erano il portato di tradizioni secolari, si faceva molto affidamento sulla loro efficacia. Nelle note esplicative è citata una serie di rimedi dell’epoca per i malanni più frequenti, dal mal di gola, per il quale c’erano le pennellature di tintura di iodio impartite con penne di gallina, ai dolori che venivano curati applicando un coppo riscaldato alla parte del corpo interessata, e altri ancora, alcuni rimasti a lungo come l’uso della malva.

Quando il malanno persisteva si poteva anche far appello a forze misteriose evocate da riti magici, mentre contro i nemici si ricorreva alle fatture e al malocchio; viene da sorridere ma la cronaca ci ha fatto conoscere anche casi recenti  portati con il veicolo, non di certo primitivo, della televisione.

Immagini festose segnano un aspetto della vita di allora non secondario: una vita scandita dal lavoro con momenti di festeggiamenti allorché si concludeva un ciclo stagionale; così c’era la festa della falciatura e quella della trebbiatura, inoltre la festa della “comare a ramaglitt” per i compari fra i giovani e fra le varie famiglie, con reciproci omaggi di rami di ciliegio aventi fiori e frutti in cima, vediamo una graziosa ricostruzione e alcune fotografie corali. E poi le feste religiose, con le processioni  in una unanime partecipazione popolare per l’omaggio devoto, è presentato un elenco delle principali ricorrenze che mobilitavano periodicamente il paese, con le relative notizie, san Rocco il santo più  venerato anche oggi.

Nella sezione dei giochi si spiega che i giocattoli erano costruiti dai grandi ma spesso veniva fatto partecipare anche il bambino perché acquisisse la manualità che gli sarebbe stata indispensabile nella vita, aiutava con uno zelo pari al suo interesse diretto. In uno scaffale e nel pavimento della rispettiva saletta sono allineati i cerchi  con la guida in ferro per spingerli, i carretti di vario tipo, carriole giocattolo, fionde per i bambini, bamboline di pezza e altri oggetti per le bambine, in alto un aquilone colorato. Nei cimeli iconografici si specchia l’immagine dell’apertura della mostra.

Dalla fine degli anni ’20 del ‘900 irrompono gli sci nella vita dei pretaroli,  i ragazzi ne sono subito presi. Li porta in paese nel 1929 la mobilitazione degli alpini nella ricerca di due scalatori  scomparsi nella tormenta di neve mentre cercavano di rientrare in paese dalla montagna, Cambi e Cichetti, i cui corpi furono ritrovati uno vicino al Rio d’Arno, l’altro in una radura del bosco, dove sono ricordati da due cippi.  Nel 1925 era stato fondato dal medico alpinista pretarolo Ernesto Sivitilli il gruppo “Aquilotti del Gran Sasso”, il primo in Italia, come ricordato nel libro del suo fondatore su Corno Piccolo la cui ristampa è stata presentata lo scorso anno a Pietracamela. I  “pretaroli” si segnalarono poi nelle gare regionali e non solo, con sci di legno “fabbricati” da loro anche nell’immediato dopoguerra: due nomi, Mario De Laurentis e Pierino Sivitilli . Agli sci è dedicata una sezione della mostra, dove spicca l’immagine di un  “piccolo sciatore”: il suo nome è noto, Aligi Bonaduce, collaboratore della mostra, lo assumiamo a simbolo dell’evoluzione chiudendo  il cerchio aperto dal “piccolo pretarolo ignoto”.

Per un’esposizione permanente nel Museo delle Genti e antichi Mestieri

Torniamo con il pensiero alla mostra dello scorso anno sullo “sposalizio di una volta”, che iniziava con i primi approcci, poi proseguiva con il fidanzamento e le nozze; le fotografie d’epoca  erano accompagnate ugualmente dalla ricostruzione degli usi e costumi mediante testimonianze e documenti, nonché con i cimeli più caratteristici,  tra cui gli abiti e i corredi.  Con la carrellata sui bambini pretaroli prosegue un racconto che prende sempre di più, diventa appassionante.  A questo punto ci si chiede quale potrà essere la prossima puntata, quale ciclo di vita montanara potrà essere  rivelato con la profondità e la passione messe in campo dalle realizzatrici della mostra.

Non è un lavoro semplice, ma i risultati sono notevoli e ne va dato merito alle organizzatrici e anche, non dimentichiamolo, a chi ha contribuito alla raccolta del materiale pescando negli album di famiglia oltre che, in qualche caso, nelle vecchie soffitte.  Uno spaccato di vita montanara viene riproposto  nell’evidenza visiva  delle  fotografie  e nella testimonianza concreta dei cimeli d’epoca, quanto basta per dar vita a un museo permanente in cui collocare stabilmente questi reperti per mantenerne in permanenza la memoria storica. Non si tratterebbe di un museo statico, fossilizzato nei reperti in esso collocati una volta per tutte, perché le due mostre finora realizzate vanno viste “in progress”, come un nucleo su cui innestare integrazioni e arricchimenti di una galleria umana ben più vasta di quella finora rappresentata. Ed è l’esperienza delle stesse esposizioni a renderle dinamiche, già sono state fatte delle aggiunte, con le mostre  ancora in corso,  per colmare le assenze dalla galleria umana dietro sollecitazione di chi non vi si è ritrovato pur avendo testimonianze fotografiche da esibire. E’ questo un processo che continuerà incessante tenendo conto della vasta rete di “pretaroli” in Italia e all’estero che vorranno dire anche loro “io c’ero”.

Quindi un museo, permanente e dinamico, continuamente arricchito  di immagini e cimeli. Ma come istituirlo? E’ l’uovo di colombo, questo museo c’è già a Pietracamela,  è il “Museo delle Genti e antichi Mestieri”:  in una saletta del Palazzo Comunale sono tuttora esposti dei cimeli  di antichi attrezzi ed oggetti domestici, ma ancora nulla sulle Genti che li hanno utilizzati.

Ebbene, le Genti sono quelle la cui storia viene dipanata nelle mostre già realizzate, che iniziano dallo sposalizio, dopo gli incontri e il fidanzamento, poi vanno ai bambini fino all’età della cresima; la storia potrebbe continuare con l’età adulta e le relative attività, dando rilievo a figure rappresentative e caratteristiche del paese, culminando nell’emigrazione che aprirebbe l’orizzonte alle lontane Americhe. In questo contesto anche gli strumenti degli antichi Mestieri troverebbero la naturale collocazione, inseriti a documentare  i vari momenti, testimonianze di una storia raccontata per immagini, documenti e ricostruzioni d’epoca; inoltre la loro consistenza potrebbe arricchirsi notevolmente, per un processo analogo a quello messo in moto per le fotografie dalle due mostre, la volontà di dire “io c’ero”, quindi vorrei esporre le mie testimonianze.  Dalla saletta attuale si dovrebbe passare a diverse sale con lo spazio per gli arricchimenti che potranno essere progressivi  e continui:  una volta effettuati i lavori di ripristino della parte del Palazzo Comunale  tuttora inagibile per il terremoto potranno liberarsi degli spazi anche nella  vecchia sede comunale.

Sarebbe un’attrattiva in più per il paese e un evento di elevato valore culturale e storico. E questo senza dover creare una nuova struttura, ma dandopienezza di contenuti a quella che esiste, lo ripetiamo, il “Museo delle Genti e antichi Mestieri”,  attualmente monco della parte fondamentale relativa alle Genti e carente per quella degli antichi Mestieri,  i cui reperti sembrano poveri e inadeguati presi in se stessi, ma che acquisterebbero un diverso impatto se inseriti nel contesto fotografico e documentale; oltre agli apporti che potrebbero venire per una volontà di presenza in una memoria storica sentita come patrimonio di tutti..

In questa prospettiva, che ci sentiamo di delineare con ferma convinzione, lasciamo la mostra nell’attesa,  non priva di ansia, della nuova “puntata” di una storia intrigante. Pietracamela, dal 2005 nel club dell’Anci dei “Borghi più belli d’Italia”, poi “Borgo dell’Anno 2007” con le prestigiose “cinque stelle”, e dal 2013 tra i “400 Borghi più belli del mondo”, può valorizzare il suo presente anche facendo leva su un passato entrato nella storia del costume nazionale. Il suo futuro potrà vedere così un rilancio anche su  basi culturali oltre a quelle paesaggistiche che ne fanno il borgo di punta del Parco Nazionale Gran Sasso e monti della Laga.

Info

Pietracamela, Palazzo Comunale, via XXV luglio, all’entrata in  paese, tutti i giorni compresi i festivi, ore 10-13, 15-18, ingresso gratuito.  Cfr. in questo sito i nostri articoli sulla mostra precedente citata, “Pietracamela, lo sposalizio di una volta”,  20 luglio 2014, e sul libro anch’esso citato di Ernesto Sivitilli su Corno Piccolo, “Pietracamela, una mostra d’arte e un libro d’epoca”,  27 agosto 2013; nonché l’articolo “Pietracamela, il premio pittura rupestre Guido Montauti e l’estate 2014″, 17 luglio 1914 al termine del quale, in “Info”, sono indicati gli altri nostri articoli su Pietracamela e le sue mostre,  pubblicati sia in questo sito, sia in “cultura.inabruzzo.it” e in http://www.fotografarefacile.it/.

Foto

Le immagini sono state riprese nella mostra al Palazzo Comunale di Pietracamela da Romano Maria Levante, si ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura,  “il piccolo pretarolo ignoto”, in chiusura “il piccolo sciatore” ,  Aligi Bonaduce,  Tra le due immagini  che chiudono idealmente il cerchio dell’evoluzione del bambino pretarolo,  al centro la foto del 1914 dei due bambini con i capelli a caschetto unisex, Bruno Marsilii e la sorella Nicolina, tra le riprese panoramiche delle sezioni della mostra.