Carlo Levi, specchio della realtà, alla Galleria Russo

di Romano Maria Levante

Alla Galleria Russo, dal 20 novembre al 12 dicembre 2014 circa 60 dipinti di “Carlo Levi. La realtà e lo specchio”, una antologica a cura della Fondazione a lui intitolata che copre l’amplissimo periodo dal 1926 al 1972, quasi l’intero suo itinerario artistico, mancano soltanto i primi quattro anni e i due ultimi. Sono esposte 20 opere degli anni ’20,  altrettante degli anni ’30,  8 degli anni ’40,  2 degli anni ’50, 5  degli anni ’60 e 2 degli anni ’70; 5 sono inedite. Scorrono i soggetti della sua pittura, nel  confronto tra “la realtà e lo specchio”. Catalogo della “Palombi Editori” a cura della Fondazione Carlo Levi.

Due anniversari si sono incrociati nel 2014:  i 120 anni di vita della Galleria Russo e il quarantennale della morte dell’artista, che alla galleria è stato legato da un rapporto che  Daniela  Fonti,  presidente della Fondazione Carlo Levi qualifica “assai più di stima reciproca che di impegno commerciale e che ha consentito la formazione di un collezionismo privato vivace, in grado di recepire un ‘attività produttiva amplissima, che si può calcolare nell’ordine di 5000 dipinti. Meno di un quinto di questa produzione è oggi di proprietà della Fondazione”. 

Il percorso di vita di una personalità poliedrica

Carlo Levi ebbe una personalità poliedrica. Pur con l’intensissima attività pittorica testimoniata dalla copiosa produzione, si è segnalato in campo professionale, come politico, uomo  di cultura e scrittore: sua la strenua opposizione al regime fascista, rara nel mondo artistico, che gli causò arresti, confino ed espatrio, sua una pietra miliare nella cultura italiana, a livello letterario e socio-politico, con la denuncia delle condizioni di arretratezza del Mezzogiorno; a ciò va aggiunta la professione medica che all’inizio praticò con impegno. Grande personalità, dunque, di elevato  livello artistico, e insieme etico,  morale, e civile.  

Forse proprio questa caratura altamente positiva ha oscurato in un certo senso la sua attività pittorica perché molto intense erano le luci accese sulle altre espressioni della sua personalità, in particolare di scrittore, a partire dal 1946 allorché fu pubblicato “Cristo si è fermato ad Eboli” e Fortunato Bellonzi scrisse:  “E’ perciò quasi fatale che di fronte alla eccezionale ricchezza di valori umani della prosa di Levi, la sua pittura impallidisca anche più di quanto dovrebbe e faccia, infine, figura di svago”.  Mentre nei  venti anni precedenti, ricorda Daniela Fonti, “prima nella pattuglia dei ‘Sei di Torino’ sostenuta da Lionello Venturi, poi autonomamente negli anni Trenta e Quaranta, si era affermato come originale protagonista della pittura italiana e tenace avversario di ogni novecentismo”.

In un certo senso, seppure per motivi radicalmente diversi, si può trovare una certa analogia con Mario Sironi, la cui mostra si svolge al Vittoriano in questo stesso periodo. Ma c’è il paradosso che Sironi fu oscurato nel dopoguerra per la sua convinta adesione all’ideologia del regime fascista del quale celebrò i fasti con la Grande decorazione, la pittura murale di cui fu il massimo esponente, e non abiurò mai al suo credo; mentre Levi dalla ferma opposizione con gravi sofferenze personali avrebbe potuto trarre il vantaggio di maggiore attenzione nel dopoguerra alla sua arte pittorica. Invece, osserva Fabio Benzi, “la storicizzazione dell’artista, avvenuta lui ancora vivente, ha inevitabilmente rimescolato la sua produzione ‘eroica’ ed innovativa degli anni Trenta e Quaranta con quella più recente (innegabilmente più stanca, anche se di qualità) nonché operante sotto una bandiera storicamente ‘conservatrice'”.

Una “lente deformante”, un “equivoco” durato troppo a lungo. La sua completa rivalutazione dopo la mostra nel 2008 si manifesta anche nell’attuale mostra sempre a Roma, che gli rende onore nella città in cui si trasferì dopo la fine della guerra  da Torino dove aveva studiato e iniziato l’attività di medico.

Nato il 29 novembre 1902, nipote del socialista Claudio Treves che alla sua nascita inviò una cartolina di auguri con il volto di Mazzini, era un predestinato per la politica; ma fu precoce nell’arte, il primo quadro è del 1915, il primo ritratto del 1917.  A 16 anni conosce Piero Gobetti che pubblica “Energie nuove”, a 19 anni partecipa con i gobettiani all’occupazione della Società di cultura, la chiama “colpo di Stato”; a 20 anni, nel 1922,  collabora con la “Rivoluzione liberale” dello stesso Gobetti che gli fa conoscere Felice Casorati.

Si laurea in medicina a 22 anni nel 1924, anno in cui espone alla XIV Biennale di Venezia; si impegna seriamente nella professione, e nonostante la spinta artistica è assistente all’Università, svolge ricerche sperimentali sulle malattie del fegato, frequenta corsi di perfezionamento con vari luminari a Parigi dove soggiorna  entrando in contatto con gli impressionisti e gli “artisti maledetti” e aprendo un proprio studio.

Nel 1927 è di nuovo a Parigi, dove tornerà nel 1928; sempre attivo negli ambienti artistici decide di dedicarsi solo alla pittura, ma non lascia l’impegno politico. Dopo la morte di Gobetti nel 1926 si lega ai fratelli Rosselli con i quali dà vita al giornale  “Lotta politica”, nel contempo  fa parte del gruppo “Sei pittori per Torino” che espone nel capoluogo piemontese, a Genova e Milano. Diventa responsabile organizzativo del movimento “Giustizia e libertà” nel 1929, l’anno successivo è di nuovo alla Biennale  di Venezia, la XVII, e partecipa a un’altra mostra dei “Sei pittori per Torino”. Sue mostre anche a Londra e Buenos Aires. 

L’attività politica e quella artistica procedono intrecciate a ritmi accelerati. Eccolo tra il 1931 e il 1933  impegnato nella stesura del programma rivoluzionario di “Giustizia e libertà” e nella celebrazione di Piero Gobetti e Claudio Treves; ma anche nella prima mostra personale a Parigi, dove risiede stabilmente tenendo i contatti tra Torino e i fuorusciti,  e nella XVIII Biennale di Venezia.  “Giustizia e libertà” è nel mirino della polizia politica, viene incarcerato a Torino il 13 marzo 1934, rilasciato il 9 maggio con  diffida;  sarà arrestato di nuovo un anno dopo, il 15 maggio 1935, e assegnato al confino in un paese in provincia di Matera, Grassano, poi viene spostato ad Aliano dove sarà trattenuto un anno, fino al 20 maggio 1936. Gli viene inibito anche l’esercizio della professione medica per motivi politici, protesta contro il questore.

Tornato a Torino riprende lavoro politico e attività artistica: subito una mostra alla galleria “Il Milione” con dipinti fatti al confino, poi a Genova e l’anno dopo a Roma. Nel 1937 a giugno vengono assassinati i fratelli Rosselli, esprime il suo dolore in un autoritratto  con la camicia insanguinata. L’impegno artistico continua con una mostra a New York, quello politico anche, tanto che deve fuggire di nuovo in Francia dove scrive “Paura della libertà”:  è il 1939, nel 1941 scriverà  “Paura della pittura”, l’intreccio ideale continua.

L’impegno politico lo vede tra i massimi esponenti del partito d’Azione, nel 1943 viene di nuovo arrestato e rinchiuso in carcere da aprile a luglio, poi sarà ospite di Eugenio Montale come altri antifascisti e partigiani.  Tra il 1943 e il 1944 da clandestino a Firenze scrive “Cristo si è fermato ad Eboli”, il suo grande capolavoro che sarà pubblicato nel 1946 e subito tradotto in molte lingue, diventa un “best seller” negli Stati Uniti.  Alla fine della guerra entra nel Comitato di Liberazione Nazionale toscano  per il  Partito d’Azione.

Quindi il trasferimento a Roma. Non solo azione politica in questo periodo, è tra  i promotori della “Nuova Secessione artistica italiana” , con Guttuso, Marini, Mafai e altri, critici verso il Novecentismo e diffidenti verso le avanguardie; un’altra  bella coincidenza  è l’attuale mostra sulla “Secessione” che si svolge quasi in contemporanea alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna.  E’ il 1946, si candida alla Costituente, negli anni successivi  tiene una mostra personale a New York, espone alla XXIV Biennale di Venezia con un’intera sala per lui e partecipa alle “Assise per il Mezzogiorno”, quindi al Congresso della Resistenza e alla Mostra dell’Arte contro la barbarie.  Alla Biennale del 1954 presenta 50 dipinti, ancora una volta un’intera sala è tutta per lui, poi lo troviamo impegnato con discorsi e iniziative, si candida alle elezioni politiche del 1958. 

Iniziano gli anni ’60, arte e politica continuano a  intrecciarsi tra mostre e manifestazioni, anche contro l’atomica. Nel 1963 viene eletto senatore, e si impegna nella valorizzazione dei beni culturali mentre partecipa a mostre  celebrative della Resistenza e ad esposizioni con intento meridionalistico. Rieletto senatore nel 1968, l’inizio degli anni ‘70  lo vede esporre opere sul Mezzogiorno in una mostra antologica seguita da un’altra nel 1971. Poi accusa problemi alla vista con una temporanea cecità nel gennaio 1973, in questo periodo realizza 140 disegni e scrive il “Quaderno a cancelli” aiutandosi con uno speciale telaio; la mente torna al “Notturno” di D’Annunzio, , per scriverlo al buio aveva usato anche lui uno stratagemma.

Nel marzo 1974  gli viene affidata una delle tre opere celebrative dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, la fase culminante, “la liberazione”,  dopo “l’oppressione” assegnata a  Cagli e “il massacro” a Guttuso.; a settembre grande mostra antologica a Mantova con 200 opere realizzate in mezzo secolo, dal 1922 al 1974.

 La sua attività instancabile su tanti fronti, dalla politica all’arte, non ha sosta:  partecipa a dibattiti, realizza disegni ispirati a Baudelaire, “I fiori del male”, pubblicati postumi nella cartella “Mille acqueforti, omaggio a Carlo Levi”. A dicembre del 1974,  7 litografie ispirate a Cristo, “murales”, presentazioni a libri di impegno sociale, fino all’ultima opera, “Apollo e Dafne” realizzata su un tamburello coperto di pelle di capra il 22 dicembre, il giorno prima del ricovero al Policlinico Gemelli di Roma dove muore il 4 gennaio 1975. Uscirà postuma un’antologia di suoi scritti anche inediti, “Coraggio dei miti (scritti contemporanei 1922-74)”.

Questa  antologica di un cinquantennio di impegno sul versante letterario-politico si affianca all’antologica sul versante artistico del settembre 1974 nel delineare la sua personalità poliedrica, la sua attività costante sulla scena culturale con una presenza cui la sua imponente fisicità dava un risalto anche visivo.

 l percorso pittorico di un artista straordinario

Il percorso di vita di Carlo Levi, di cui abbiamo rievocato i tratti essenziali, dà alla sua figura uno spessore straordinario e alla sua opera pittorica una luce che va oltre l’eccellenza artistica pur elevatissima. E’ un’opera svolta in un arco di tempo di mezzo secolo,  particolarmente tormentato, con un’attività intensissima nonostante il cumulo di impegni, che deve essere considerata nel suo valore intrinseco  anche se, vogliamo sottolinearlo, risulta ancora più sorprendente tenendo conto dell’intero contesto. L’opposto di quanto ha fatto certa critica, per cui gli altri aspetti della sua personalità hanno oscurato quello artistico.

Astraendosi dal resto, Fabio Benzi osserva che non fu pittore istintivo ma molto  meditato ed attento alle tendenze artistiche del momento. Il suo primo ispiratore era Felice Casorati, il grande artista della sua Torino, da cui recepisce il senso di astrazione e insieme di compostezza nella composizione con i colori freddi; viene visto in lui il “ritorno all’ordine novecentista”,  con la solidità della forma e “un richiamo alla tradizione pittorica letta modernamente”, vengono citati Piero della Francesca e Derain, Giotto e Cézanne.

Dopo l’influenza degli impressionisti francesi, da lui conosciuti da vicino,  nella tendenza alla dissoluzione  della nitidezza e solidità delle forme per un post-impressionismo fino all’espressionismo è stata vista anche una risposta “politica” alla retorica fascista; ma Benzi respinge questa interpretazione considerando il nuovo corso  “un tentativo di uscita da quel clima figurativo classicheggiante ormai vicino alla crisi e all’esaurimento linguistico” e osservando che persino Sironi dal 1927 al 1931 sviluppa un linguaggio espressionista, prova che l’intento politico in senso antifascista è improponibile.

A questo punto, la centralità dell'”espressione” riporta a Matisse e a Modigliani, e ricordiamo che Levi fa parte del gruppo dei “Sei per Torino”,  tra il 1929 e il 1931, di marcata ispirazione francese. Dal 1972,  dopo l’ennesimo soggiorno parigino, “la pittura di Levi trova definitiva maturazione e si stabilizza in uno stile espressionista libero e lirico che sostanzialmente proseguirà per tutta la vita”. La conoscenza diretta degli “artisti maledetti”, gli ebrei di Montparnasse, è per lui rivelatrice, la sua è un’adesione artistica e anche umana e politica; tra i tanti “fuorusciti” ci sono Modigliani e Soutine, che diventerà suo preciso riferimento con la sua pittura materica  ma non cupa bensì di un cromatismo brillante che esprime solarità e apertura.

Il suo impegno politico e sociale lo immerge sempre più nella realtà  che rappresenta “senza i veli dell’intellettualismo”, è sempre Benzi che aggiunge: il suo è “un realismo che però non sarà mai dichiaratamente politico, ma profondamente umanistico, volto a scavare, con le sue pennellate concentriche e sinuose, nella verità delle cose e degli uomini. Un realismo che lo accompagnerà per il resto della sua vita, venato di malinconia e di verità”. Un “espressionismo misurato, che non abbandona la realtà pur nella sua trasfigurazione lirica, in una fusione panica con la natura”, a parte i dipinti ispirati alla guerra con il dramma dei corpi straziati, l’angoscia nei visi delle persone. La “realtà e lo specchio”, dunque.

Si schiera con Guttuso sul fronte del realismo nell’aspra polemica contro l’astrattismo, che dall’arte si trasferì alla politica con l’intervento dirompente di Togliatti, ne sono il riflesso le lettere che Guttuso gli scrisse nel 1956, riportate in ampi stralci da Benzi che commenta: “Nel panorama italiano Guttuso e Levi rappresentano… i due dioscuri di una posizione artistica intrecciata ad aneliti e scelte politiche e sociali. Due personaggi di fatto molto autonomi nei rispettivi esiti ma serrati in un’idea condivisa…  all’esplicita menzione dei temi politici e sociali di Guttuso, Levi risponde con un realismo umanistico e allusivo, privo di retorica discorsiva e denso invece di pathos  partecipato”.

Con riferimento all’ultima opera prima citata, del 1974, il pannello della “liberazione” affiancato a quelli di Guttuso e Cagli, Benzi commenta: “Levi è esattamente il punto simmetrico tra i tre amici pittori, certamente il più intimista: non irrequieto come Cagli, non aggressivo come Guttuso, la sua poetica continua a svolgersi coerentemente fino agli ultimi anni della vita”.  .

Più in generale sulla sua pittura, Guttuso scrisse che Levi è “un pittore molto famoso ma sostanzialmente sconosciuto, non perché la sua pittura sia oscura, intellettualistica, ermetica. Al contrario perché non lo è, perché è piana e leggibile, perché è diretta e racconta volti, natura, cose, con la semplicità che è connessa al dono della pittura”.

Giudizio questo nel quale Daniela Fonti vede “oltre alla sollecitudine dell’amico il pericolo di un fraintendimento perché se è vero che la pittura leviana è il racconto di volti, natura, cose, è certo che essa non è piana ma attraversata , come scrive con commossa ma lucida partecipazione Italo Calvino nel 1962, ‘da una continua messa in gioco  dal momento della tensione, dell’esperimento, del rischio,  ciò che fa punto d’incrocio, continuamente mobile e precario, fra irrazionalismo e coscienza nazionale'”.

Lo scrittore collega l’opera pittorica di Levi alla sua intensa attività intellettuale in “un’identificazione totale di Storia e autobiografia”; e lo colloca nell’acceso dibattito tra realisti e astrattisti sui riflessi dell’attività politica nell’arte, con riguardo allo spirito antifascista, nel quale Levi non era secondo a nessuno per la sua storia personale punteggiata da arresti e confino, mentre gli altri artisti non si erano esposti contro il regime; ciononostante se ne tenne al di fuori ponendosi come riferimento morale piuttosto che come capofila  di un movimento che legava il realismo pittorico all’impegno politico di rinascita antifascista.

E’ forse in questo aspetto la chiave della sua personalità poliedrica, come appare dal suo   “Paura della pittura”,  scritto nel 1942 –  cioè in una fase di intensa attività contro il regime – e  imperniato sulla crisi di identità dell’uomo contemporaneo alla quale si rispondeva con i falsi idoli delle ideologie;. Mentre per lui l’unica soluzione della crisi era il recupero della dimensione dell’uomo come destinatario e misura di ogni azione:  alto richiamo all’umanità e alla morale  che riecheggia la  “Paura della libertà” del 1939.

Carlo Ludovico Ragghianti  afferma che “l’intima struttura della  sua personalità anche poetica è questa forza morale, questo convincimento nelle infinite possibilità dell’uomo libero dai falsi miti, l’origine di quella visione dominante  nella sua pittura che, al di là delle cadenze stilistiche ne costituisce il nocciolo profondo e incorruttibile”.

Daniela Fonti commenta così tale giudizio: “Nelle pagine del critico lucchese la figura di Levi si erge, quasi unica in un panorama internazionale dominato dai ‘falsi miti’ dell’avanguardia (il cubismo, il dadaismo, il surrealismo, perfino l’astrattismo, accomunati in un’unica condanna), come quella di un artista dalla consapevolezza profonda che è in grado, attraverso la sua pittura e solo attraverso di essa, di comporre l’io diviso dell’uomo contemporaneo che come un Narciso di fronte a uno specchio d’acqua perturbato, si riflette in diverse, incomplete e fallaci immagini di un sé frantumato”. Lo si vede nei “volti” e nella “natura”, sempre legati a soggetti a lui cari, persone o paesaggi per cui “non è mai un rapporto neutrale, né tanto meno oggettivo, quello con la realtà, perché mette a nudo e scopre delicati aspetti della sua psiche” che nella realtà si rispecchiano.  “La pittura, come la letteratura – prosegue la Fonti – è per Levi uno dei mezzi di questo continuo rispecchiamento, che è costante interrogazione e ricerca di sé; la pittura, cioè la tela, è veramente uno specchio nel quale l’uomo si ritrae, e veramente non c’è soggetto che abbia dipinto, dagli autoritratti – appunto – ai ritratti, moltissimi, delle tante persona che hanno dato senso alla sua vita, fino ai paesaggi e alle nature morte, che sfugga a questo impulso all’autoanalisi”. 

Perché c’è sempre autoanalisi dietro la sua rappresentazione del reale. La presidente della Fondazione lo spiega:  “La realtà nelle opere di Levi non è mai qualcosa dotato di vita e di senso autonomo, e neppure del tutto, alla maniera del Surrealismo, una delle tante proiezioni del suo io, ma il prodotto di una relazione di natura puramente affettiva, del rapporto d’amore o d’amicizia che lo lega al modello ritratto, a quello o all’altro brano di paesaggio, a quell’angolo dello studio abitato da conturbanti e povere nature morte. Ogni cosa, ogni frammento, sono una parte di sé che viene alla luce e prende forma attraverso la relazione”.  

Altrettanto penetrante l’analisi di questa relazione: ” Non è mai un rapporto neutrale, e tanto meno oggettivo, quello con la realtà, perché mette a nudo e scopre aspetti delicati della sua psiche, paure, timori ancestrali, presenze e voci mai ipotizzabili dietro i rassicuranti e quieti aspetti del vivere quotidiano”.

Vedremo prossimamente, commentando le opere esposte in mostra,  come si esprime tutto questo. Sono 35 “volti” e figure, compresi 5 nudi, 17 dipinti sulla “natura” e 6 nature morte, la maggior parte degli anni ’20  e ‘30, quelli della maturità, nei quali raggiunse il massimo livello. Li passeremo in rassegna avendo nella mente tali interpretazioni critiche ed altre che citeremo, in modo da comporre un ritratto a tutto tondo di questo artista straordinario.

Info

Galleria Russo, via Alibert 20, Roma. Lunedì ore 16,30-19,30, da venerdì a sabato ore 10,00-19,30, domenica chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.6789949; 06.69920692. info@galleriarusso.com; www.galleriarusso.com . Catalogo “Carlo Levi. la realtà e lo specchio”, a cura della Fondazione Carlo Levi, contributi di  Daniela Fonti, Fabio Benzi , Antonella Lavorgna, Palombi Editori, novembre 2014, pp. 192, formato 22 x 22;  dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo e conclusivo articolo  “Carlo Levi, pittura dionisaca ed elegiaca alla Galleria Russo”, uscirà in questo sito il 3 dicembre p.v. con altre 10 immagini. Per gli artisti citati cfr., in questo sito, i nostri articoli sulle mostre di  Renato Guttuso, il  25 e   30 gennaio 2013, di Modigliani, Soutine e i pittori maledetti il  22 febbraio, 5 e 7 marzo 2013,, degli astrattisti italiani il  5 e 6 novembre 2012,  per le mostre citate ora in corso, prennunciamo in questo sito i nostri 4 articoli sulla mostra di Mario Sironi al Vittoriano previsti per i prossimi  1, 9, 14 e 29 dicembre 2014,  e i nostri 2 articoli sulla mostra degli artisti della “Secessione” alla Gnam previsti per il  24 e 31 dicembre 2014.  

Foto

Le immagini sono state riprese alla Galleria Russo, la sera dell’inaugurazione della mostra, da Romano Maria Levante che ringrazia la galleria e la Fondazione Carlo Levi per l’opportunità offerta. In apertura, “Autoritratto”, 1945, seguono “Nudo con palme”, 1928, e “Mamma che cuce”, 1929, poi “Lelle legge distesa”, 1933, e“Tonino o Ragazzo lucano“, 1935; quindi “Dietro Grassano”, 1935, e “La Strega e il bambino”, 1936, inoltre “Due nudi”, 1938,  e “Carrubo con scaletta ad Alassio”, 1969; in chiusura due ritratti,  a sinistra “Autoritratto seduto”, 1934, e  a destra “Leone Ginzburg con le mani rosse”, 1933.